Unione/Docum/Doc17/Doc17.txt Gli Istituti secolari Estratto da "Il diritto della vita consacrata" P. Jean Beyer s. j. 1. Origine ed evoluzione degli Istituti Secolari Gli istituti secolari hanno ottenuto con il Codice il loro posto nella vita della Chiesa, così come nel 1917 le congregazioni di voti semplici, approvate nel 1900 da Leone XIII, lo ottenevano con il Codice precedente. Questi istituti hanno ricevuto lentamente il loro riconoscimento ufficiale. Questo ritardo nell'approvazione fu per essi benefico: ha permesso di comprendere sempre meglio questa forma nuova di vita consacrata, cosi diversa dalla vita religiosa, dalla quale doveva distanziarsi per essere se stessa, per definirsi con chiarezza. Pio XII li approvò infine nel 1947 con la costituzione Provida Mater Ecclesia; ma fu solo nel 1948, con il motu proprio Primo feliciter, che fu pienamente riconosciuta la loro identità, cioè la loro secolarità consacrata. Queste difficoltà sono dovute in gran pane a una teologia rigida che esigette dapprima i voti solenni come essenziali alla consacrazione a Dio, e, partendo da Pio V, impose la clausura alle donne consacrate nella vita religiosa, sola forma di vita consacrata ufficialmente riconosciuta per esse fino al 1900. Fu necessario dimostrare che la vita consacrata non è legata ai voti - chi fa voto non è necessariamente religioso; che è possibile impegnarsi con altri vincoli sacri, e che l'essenziale è la consacrazione di vita, atto di amore. Pio XII dirà nel 1948 che si tratta di una consacrazione a Dio e agli uomini, associata alla consacrazione di Cristo e tale da esprimere i due precetti della carità in un unico dono di sé. È vero che la vita consacrata in pieno mondo non era una novità. Esperimenti di essa hanno luogo partendo dalle vergini consacrate, ma i veri istituti secolari datano dall'inizio del secolo. Tra gli iniziatori più noti, ricordiamo E. Busnelli S.I., A. Gemelli O.F.M. e J.M. Perrin O.P. L'amicizia che legava Pio XI a padre Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica di Milano, fu provvidenziale; il suo 'Promemoria' ( 1936 ), inizialmente condannato dal Santo Uffizio, fu riesaminato dal Pontefice nel 1942 e le sue formule furono riprese nel 1948 nel motu proprio Primo feliciter, per definire la presenza di questi istituti nel mondo e determinare il loro apostolato proprio nell'ambiente di vita dei loro membri. Importante è stata all'inizio la posizione degli istituti secolari in rapporto alla vita religiosa, per lungo tempo riconosciuta come la sola forma di vita consacrata. Da questo derivò, per lunghi anni, la necessità di definirli in riferimento alla vita religiosa. Nel Concilio Vaticano II si voleva ancora includerli nel capitolo VI " De Religiosis "; un intervento di Paolo VI all'ultima ora salvò la situazione, facendo in modo che nel decreto PC, che trattava del rinnovamento della vita religiosa, si affermasse che questi istituti non sono istituti religiosi, in formale contraddizione con il titolo del documento, e con la mentalità che l'aveva ispirato. La riflessione degli istituti secolari obbligò anche gli istituti religiosi a definire meglio la loro identità; ciò fu per essi di grande utilità. La vita religiosa, come dimostra la sua storia, ha le sue origini nel deserto, dove gli eremiti si ritirano allo scopo di vivere per Dio solo, nel silenzio della solitudine. Parecchi, tuttavia, alla ricerca di un maestro spirituale che potesse insegnare loro le vie dello Spirito, dell'orazione e della rinuncia, e il silenzio interiore nella separazione dal mondo, si radunano attorno a lui, vivono nei dintorni, fino a fondare dei monasteri in cui tutti seguono la stessa regola sotto la guida di un abbas. Parecchi di questi valori restano fondamentali per la vita religiosa; essi sono d'altra parte un dono dello Spirito. Questi elementi comuni sono: la ricerca di Dio, il desiderio di vivere per lui solo, l'attrattiva della contemplazione in una separazione dal mondo che favorisca il riposo dell'orazione nel silenzio di solitudine, nella preghiera comune e nella lode divina con il canto degli inni, dei salmi e delle preghiere litaniche. Questi elementi propri del monachesimo saranno conservati dagli ordini conventuali, dai mendicanti, dai canonici regolari, e anche dagli istituti religiosi di fondazione più recente. Il Codice li ha ripresi nei cc. 607-608, 663 e 667. La "professione religiosa" in queste forme di vita abbastanza varie, è un atto pubblico, e si fa in un primo tempo con l'assunzione dell'abito. Dapprima tacita, questa professione in seguito si esplicita, è pronunciata pubblicamente secondo una formula propria di ciascun istituto, e finalmente è scritta, firmata e conservata negli archivi del monastero o degli ordini più centralizzati. A poco a poco vengono esplicitati i tre consigli evangelici: povertà, castità, obbedienza, e a questi impegni si aggiungono altri obblighi, come quello della stabilità monastica, dell'obbedienza al Sommo Pontefice, o quello che esprime la finalità dell'istituto e le sue opere proprie: predicazione, servizio dei poveri, catechesi, opere di carità e di misericordia corporale o spirituale, insegnamento, cura dei malati; finalità che bisognerà rispettare come appartenenti al carisma dell'istituto e corrispondenti alle intenzioni del fondatore. Tuttavia, senza rinnegare questi elementi primari, una evoluzione verso una vita più apostolica si delinea, e favorisce il sorgere di forme di vita consacrata nuova: i "chierici regolari" ebbero un grande influsso. Altri istituti raggrupparono i loro membri in vista dell'apostolato, senza voler essere religiosi: è il caso di san Filippo Neri, di san Vincenzo de Paul, di san Vincenzo Pallotti e di alcuni altri grandi fondatori di istituti apostolici. L'apparizione di queste nuove forme di vita consacrata ha preparato a poco a poco lo sboccio degli istituti di presenza al mondo. Tale fu la Compagnia di Sant'Orsola, fondata a Brescia da Angela Merici e approvata da Paolo III nel 1546. Era nata come alternativa alla vita monastica per quelle donne che, pur sentendosi attratte alla sequela Christi, non potevano o non volevano abbracciare la vita claustrale. Restavano nel mondo, sull'esempio delle vergini consacrate dei primi tempi della Chiesa, ma formando gruppo, secondo le norme di vita definite dalla Regola dettata dalla Fondatrice. In tal modo la verginità consacrata veniva istituzionalizzata, senza tuttavia impegnare i membri in una attività comune né toglierli dal loro ambiente di vita e di lavoro. Ma in quei secoli turbati, l'autorità ecclesiastica in Francia impose, alle compagnie impiantatesi in quel regno, la clausura, dando origine all'ordine di S. Orsola. In Italia, invece, le compagnie perdurarono come diocesane e secolari. Federate ora in istituto secolare sotto la Regola primitiva attualizzata dalle costituzioni, si sono diffuse anche all'estero. Tre Compagnie ottennero da Paolo VI di vivere secondo la forma canonica in vigore prima del 1958. Ora sono associazione laicale di diritto diocesano, sotto la Regola della Merici riformata già da Carlo Borromeo e adattata nel 1866 dal vescovo di Brescia mons. Verzeri e dalle sorelle Girelli. La vita consacrata nel mondo conobbe un secondo periodo di fondazioni: fu l'epoca della rivoluzione francese. Tra i fondatori si distingue la figura imponente del padre P. de Clorivière, fondatore delle Figlie di Maria e dei Sacerdoti del Cuore di Gesù. Se la sua prima intenzione fu quella di continuare la vita religiosa nel segreto che gli imponevano la rivoluzione e la situazione penosa di lotta contro la Chiesa, Clorivière prese coscienza che una nuova forma di vita consacrata era possibile e auspicabile: così intravide ciò che presto saranno gli istituti secolari. Un terzo periodo si apre con l'organizzazione dell'Azione cattolica. Tra questi laici votati all'apostolato si fa luce il desiderio di rimanere in quei movimenti, e di dedicarsi ad essi totalmente, formando in essi come dei focolai di vita cristiana più intensa, e consacrando in essi la loro vita a Dio mediante i consigli evangelici. Queste fondazioni saranno alla ricerca di un migliore inserimento nel mondo, pur adattando ad esso la vita consacrata mediante i consigli evangelici. Certamente la tradizione degli istituti religiosi non era loro sconosciuta; tuttavia, le esigenze stesse della vita in pieno mondo favoriscono una evoluzione dottrinale e un adattamento sempre più flessibile alle circostanze della vita del mondo. Essa permetterà un giorno di riconoscere tra gli istituti secolari un giusto pluralismo, che conobbe però deviazioni, fino ad assumere forme di vita religiosa non adatte a una vera secolarità consacrata. Una quarta tappa permetterà agli istituti secolari di comprendere meglio e di affermare più nettamente la loro secolarità: la secolarizzazione della vita civile imporrà una presenza più discreta e più adattata ai bisogni degli, uomini in preda a una crisi di fede e presi nelle difficoltà e nelle tensioni sociali del nostro tempo. Ne derivò, tra i veri istituti secolari, una attenzione sempre più intensa alle esigenze di una presenza di vita consacrata in un mondo invaso dal secolarismo e sempre meno sensibile ai valori spirituali e alle verità rivelate. Rimane infine un fatto nuovo da segnalare, che certamente avrà il suo influsso sull'evoluzione degli istituti secolari e sulla loro fedeltà al loro carisma proprio. Questo fatto nuovo è l'avvento dei "movimenti ecclesiali", che raggruppano in una sola istituzione tutte le categorie di persone: chierici e laici, uomini e donne, famiglie, giovani uomini e donne. Questi movimenti vivono secondo un carisma proprio di tutte le vocazioni cristiane: includono anche forme di vita consacrata che sono assai simili a quelle degli istituti secolari, o tendono anche a vivere una vita solitària e monastica in questo insieme di vita cristiana fervente, attiva e irradiante. Alcuni istituti secolari saranno tentati di avvicinarsi a questi movimenti; essi allora vi perdono la loro secolarità ben marcata, o si allargano a ciò che fu previsto fin dal 1948, all'associazione di "membri in senso largo": persone sposate o celibi, che non hanno l'intenzione o la possibilità di vivere tutte le esigenze della consacrazione a Dio mediante i consigli evangelici. Considerando queste tendenze nuove, vi sono da notare due punti: un istituto secolare che accetta membri in senso largo perde facilmente la sua secolarità, e si dirige verso la forma di un "movimento ecclesiale" senza tuttavia possederne l'ardore e l'irradiazione. Ma, ed è l'ultimo punto da segnalare, tutto questo fa riflettere su situazioni concrete che purtroppo non sono state rispettate. Certi istituti secolari sono sorti tra associazioni pie, nelle quali alcune persone si sono consacrate a Dio per formarvi un gruppo spirituale più impegnato e votato all'insieme. Questa posizione era veramente un inserimento secolare, e permetteva una vera consacrazione per mezzo dei consigli; ma l'esigenza che fu loro imposta di dichiararsi istituto secolare e di affermarsi in esso come vita consacrata, significò la rovina sia del gruppo di vita consacrata, sia del gruppo maggiore che formava l'associazione di fedeli, fervente e numerosa. Si comprende dunque, oggi, che un gruppo di membri in senso largo può essere nocivo alla secolarità, e che si dovrà forse tornare a un gruppo ristretto ma veramente secolare, se si vorrà mantenere il carisma dell'istituto e restare fedeli alle intenzioni del fondatore. I veri istituti secolari sono poco numerosi, e raggruppano relativamente pochi membri; un allargamento del gruppo e una maggiore pubblicità non possono che nuocere alla loro autenticità. D'altra pane, l'importanza di questo genere di vita non è per nulla diminuita; essa risponde a un bisogno della Chiesa e costituisce una forza apostolica vigorosa. Poco conosciuti, essi hanno un reclutamento difficile, anche dopo l'approvazione ufficiale da parte di Pio XII; restano sconosciuti al clero, e trovano difficilmente l'aiuto spirituale di cui hanno bisogno. Forse la loro posizione nel nuovo Codice li farà conoscere meglio e susciterà un'attenzione vocazionale meglio informata e più aperta ai doni che il Signore fa alla sua Chiesa. 2. Posto degli Istituti Secolari nel Codice Questo titolo ( cc. 710-730 ) e importante, non solo per questi istituti, ma per tutta la vita della Chiesa, e più particolarmente per la vira consacrata. A questi istituti è dovuto l'approfondimento dottrinale che ha permesso a tutta la vita consacrata di superare strutture irrigidite per riprendere e per comprendere meglio i suoi valori essenziali. Essi hanno inoltre aperto la via a nuove forme di vita consacrala, che il Codice prevede nel c. 605. I canoni di questo titolo hanno una redazione piuttosto formale e giuridica; manca loro l'afflato dottrinale che caratterizzava i titoli precedenti. Il lesto e stato redatto da un gruppo che ha lavoralo fuori della commissione, e sotto gli auspici della sezione per gli istituti secolari della Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari. Fu presentalo troppo tardivamente per essere approfondito e rielaborato; contiene ripetizioni che segnaleremo a suo luogo. Manca anzitutto un canone dottrinale che sintetizzi la dottrina accolta, come fa il c. 607 per gli istituti religiosi. Di più, la natura degli istituti secolari di chierici avrebbe potuto essere approfondita; alcuni hanno voluto escluderla da questa parte del Codice, ritenendo, ma a torto, che la secolarità consacrata sia di appartenenza esclusiva degli istituti laicali. Questo punto di vista non è mai stato accettalo dal Concilio ( PC 11 ) né dalla commissione; esso metteva del resto in questione la natura e l'esistenza degli istituti misti, che riuniscono in due o tre rami chierici e laici, uomini e donne. Ciò significa che non c'era alcuna ragione valida per parlare anzitutto degli istituii laicali e dare loro la priorità, come fa il c. 713 § 2. 3. Definizione degli Istituti Secolari Il c. 710 dichiara che gli istituti secolari sono istituti di vita consacrata; i loro membri vivono nel mondo e tendono a vivere in esso la carità perfetta, pur impegnandosi a contribuire alla santificazione del mondo soprattutto operando all'interno di esso - ab intus -, cioè partendo dalla vita nel mondo. Come istituii di vita consacrata, essi permettono ai loro membri di consacrarsi pienamente a Dio e agli uomini, assumendo i consigli evangelici per seguire Cristo più da vicino nella sua condizione secolare, quella che fu propria della sua vita nascosta, specialmente a Nazaret. La vita consacrata secolare è così definita: una vita consacrata a Dio e agli uomini, vissuta nella carità perfetta, seguendo Cristo nella discrezione della sua vita nascosta, e operando sul mondo che egli consacrava al Padre suo come una presenza santificante. Quanto all'istituto, questo raggruppa chierici e laici, che secondo il suo diritto proprio si impegnano, con voto o altri sacri vincoli temporanei ma da rinnovare, o definitivi o perpetui, alla pratica dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza, formando una vera fraternità fondata su un carisma comune e sulle sane tradizioni dell'istituto. La secolarità consacrata / elemento distintivo della loro vita e azione, consiste nel vivere nel loro ambiente proprio, ecclesiale e sociale, per esercitarvi " nel mondo e come partendo dal mondo " un apostolato caratteristico del loro carisma, apostolato discreto ed efficace, che contribuisce "a modo di lievito" alla consacrazione del mondo e alla santificazione dell'ambiente. La secolarità consacrata è un inserimento più profondo nel proprio ambiente di vita e di azione, o in un ambiente su cui si vuoi influire mediante una presenza di vita consacrata secolare. La secolarità consacrata deve essere ulteriormente studiata, se si vuol chiarire la posizione degli istituti secolari di chierici o di laici. Cercheremo di farlo partendo dai cc. 713-715. 4. Condizione canonica del membri Il c. 711 è di una importanza capitale sia per il diritto generale delle persone nella Chiesa, sia per la verità e il significato della vita consacrata secolare. Per il fatto della sua consacrazione, un membro di istituto secolare non cambia la sua condizione canonica nel popolo di Dio, ossia, se laico resta laico, se chierico secolare resta chierico secolare; il canone aggiunge - era necessario? - " salve le disposizioni del diritto a proposito degli istituti di vita consacrata ". È cosi posta, per la prima volta ed esplicitamente, la questione degli stati di vita nella Chiesa: un chierico si distingue dal laico; quest'ultimo era definito come non-chierico; chierici o laici possono essere religiosi. La vita consacrata religiosa comporta una separazione dal mondo; la vita consacrata secolare, al contrario, è presenza al mondo e inserimento in un dato ambiente. Fin dalla loro approvazione, gli istituti secolari hanno posto il problema degli stati di vita. Chiericato e laicato sono stati di vita, come pure la vita religiosa. Un chierico o laico religioso non è "secolare", ma oggi occorre distinguere. Un chierico è religioso o secolare come un laico è secolare o religioso; tuttavia essere "secolare" non è una condizione particolare: il religioso esce da un gruppo di persone per distinguersi da esso; il "secolare" significa che non fa ciò che fa il religioso … Ci sono tre gruppi di persone: chierici, religiosi, laici. Era l'ordine del Codice del 1917 che fissava una lunga tradizione. Con il c. 711 è cambiato lo stato della questione: il chierico è un ministro ordinato, il laico non lo è; il religioso si separa dal mondo, il secolare nella vita consacrata rimane secolare, nel suo stato di vita precedente. Bisogna dunque distinguere chierici e laici in rapporto all'ordine sacro; religiosi o secolari in rapporto al mondo; consacrati e non consacrati in rapporto alla consacrazione mediante Ì consigli evangelici. Tuttavia il non consacrato non fa gruppo associativo, mentre il chierico fa gruppo in rapporto al laicato: il laicato, sempre più cosciente del suo stato di vita, prende coscienza della sua missione propria. Ma vi è il laicato o vi sono i laicati? Il chierico ha un ministero determinato: il laico può essere celibe o sposato, vedovo o vedova, così come sarà fanciullo, adolescente, fidanzato, candidato al sacerdozio o chiamato alla vita religiosa. Il laicato include un numero tale di situazioni che, quando si parla oggi di un laico impegnato, bisogna per questo fatto distinguerlo dagli altri laici. Queste sfumature, che non si possono né ignorare né trascurare, pongono un problema più attuale. Si può avere più di uno stato di vita? Senza vedervi difficoltà maggiori, correntemente il chierico era membro del clero diocesano, il laico semplice fedele, il religioso era prima di tutto religioso … Bisognava già sfumare, per parlare di un religioso laico, fratello converso o coadiutore, di un religioso sacerdote, canonico regolare, monaco, religioso di vita apostolica … Tutto considerato, il c. 711 pone la questione di un duplice stato di vita: secolare e consacrato, chierico secolare e laico secolare, entrambi consacrati. La cosa stupisce; non si era abituati a simili difficoltà! Oggi, negli istituti secolari, un laico consacrato resta laico secolare, un chierico secolare resta secolare, diocesano. Invece un chierico membro di una prelatura personale, è secolare senza essere diocesano; sarebbe stato equivalentemente diocesano, se la prelatura fosse stata riconosciuta come chiesa particolare, diocesi personale, come dice PO 10b. Sia nel Concilio che nel Codice, la questione non è stata né sollevata, né chiarita; sono gli istituti secolari ad aver posto il problema, vitale del resto per essi. La loro consacrazione di vita non li fa uscire dal loro ordine di persone, dal loro ambiente di vita, dal loro stato primario! Ma il loro non è un caso unico. Il Concilio ha ammesso il diaconato di uomini sposati; questi ultimi hanno un doppio stato di vita, quello del matrimonio e quello del diaconato: il primo è laicale, il secondo clericale … Alla luce di questi fatti concreti, bisognerà un giorno rivedere il c. 207 del Codice attuale; bisognerà chiarire le posizioni del Vaticano II, di cui si capiscono le incertezze quando parla di "stato" o di "ordine" di persone e di "condizione di vita" in una stessa frase! Non vi sono forse in Concilio due posizioni in rapporto al laicato? È laico chi non è chierico, ed è laico chi non è né chierico né religioso. La prima distinzione è di diritto divino? La seconda non è una definizione, è una descrizione! Ciò fa capire l'imprecisione di queste nozioni che includono realtà vitali per la Chiesa. La vita consacrata è uno "stato di vita"; ciò è affermato nel c. 207 come nel c. 574. La commissione ha deliberatamente evitato di riprendere un testo di LG 43b: testo polemico, esso rifiutava una posizione di Pio XII che diceva che i religiosi formano uno stato intermedio tra chierici e laici. Così come è polemica la presa di posizione di LG 44d che esclude i religiosi dalla struttura gerarchica della Chiesa. I religiosi vivono forse ai margini della gerarchia? Questione compromessa da dibattici penosi. E di quale gerarchia si parla? Abbiamo già segnalato queste posizioni partigiane; esse non onorano il Concilio Vaticano II e meno ancora i redattori di questi testi. Resta una questione da chiarire: come interpretare in questo c. 711 il termine "laico"? Nel senso di LG 31b, o nel senso di LG 43b? Sembra bene che laico voglia dire "non-chierico"; ma il termine potrebbe intendersi come in LG 31b: è laico colui che non è né chierico né religioso. Bisogna però precisare: qui chierico e laico conservano il loro senso primario: chi non è chierico è laico; entrambi possono essere nella vita consacrata. Questa sarà religiosa o secolare; la prima separa dal precedente stato di vita, la seconda lo rafforza! Questo rafforzamento è importante: un chierico, a titolo della sua consacrazione secolare, è a un titolo nuovo inserito nel suo presbiterium; un laico, in forza della sua secolarità consacrata, è inserito a titolo di una vocazione nuova e specifica nel laicato che egli non abbandona, e che non può abbandonare, se vuoi vivere la grazia della sua vocazione e della sua consacrazione di vita. Si può concludere che il c. 711 esprime fortemente e indiscutibilmente la vocazione alla secolarità consacrata, come consacrazione e presenza, come fermento nell'ambiente e rafforzamento dello stato di vita nel quale fu ascoltata questa chiamata, e nel quale deve viversi la consacrazione. Come noteremo anche in seguito, un istituto secolare non può cambiare la condizione originale dei suoi membri; il laico rimane nel laicato, il chierico secolare resta diocesano; una incardinazione di chierico in un istituto secolare è di fatto un controsenso. Il c. 715 § 2 considera questo chierico ad instar religiosorum; come un religioso nei confronti del vescovo della diocesi in cui vive e lavora … Due istituti secolari di chierici avevano l'incardinazione dei loro membri nell'istituto; uno è oggi società di vita apostolica, l'altro è prelatura personale. Sarebbe stato più preciso e più chiaro proibire ogni incardinazione di chierici in un istituto secolare. Ci si può chiedere se il c. 715 § 2 non contraddica il c. 711 per il fatto che l'incardinazione nell'istituto si oppone all'incardinazione normale nel clero secolare; d'altra parte, non si può dire che è "cambiata" la condizione canonica del chierico incardinato nell'istituto, se non è mai stato incardinato in una diocesi … 5. Portata degli impegni È comprensibile che si tratti anzitutto della portata degli impegni, considerata l'espressione "secolare" che bisognava trovare loro, e che fu uno degli sforzi più innovatori degli istituti secolari. Ma prima ancora di parlare dei consigli evangelici, è opportuno chiarire l'importanza e le dimensioni della consacrazione di vita secolare. Pio XII ha assai felicemente fissato questo progresso dottrinale dicendo che l'elemento essenziale e fondamentale è la consacrazione a Dio e agli uomini, che assume le dimensioni della redenzione mediante il sacrificio di Cristo morto per amore del Padre e per amore degli uomini suoi fratelli. Inoltre, questa consacrazione è una consecratio mundi, una consacrazione del mondo a Dio e una santificazione della creazione attraverso la preghiera e l'azione di uomini uniti con Gesù Cristo e mossi dal suo Spirito. Questa visione globale costituisce la ricchezza, e diciamo pure l'originalità della vita interiore degli istituti secolari e dei loro membri; essa permette di vivere con ardore una presenza al mondo spesso nascosta e, a prima vista, inefficace, senza opere proprie e senza testimonianza pubblica, testimonianza comune a tutti i compagni di strada. Cercando di vivere in piena secolarità i tre consigli evangelici, il loro senso profondo è stato meglio espresso come atteggiamento di filiazione divina in unione con il Verbo incarnato; è nello stesso tempo apparsa così la loro ricchezza di adattamento, salvo sempre restando l'essenziale di ogni consiglio in particolare. Questo lavoro di ricerca, non ancora terminato, non poteva né doveva essere codificato. Il c. 598 delle norme comuni era sufficiente; esso chiede a ogni istituto, alla luce del carisma proprio, di determinare come esso vive i consigli di castità, di povertà e di obbedienza, secondo il suo genere di vita particolare. Lavoro che anche gli istituti religiosi sono ora invitati a fare, e che per essi fu in passato ostacolato da norme giuridiche troppo uniformi e troppo concrete del precedente Codice. a. Povertà secolare La povertà evangelica è stata vissuta da Gesù Cristo. Essa esprime e rivela la sua filiazione, e raggiunge la sua pienezza in questa semplicissima parola: " Tutto ciò che è mio, è tuo ", risposta data alla generosità del Padre verso il Figlio suo: " Tutto ciò che è tuo, è mio ". ( Lc 15,31 ) La povertà evangelica si situa dunque nella profondità della vita trinitaria. E cosi assicurata la libertà d'anima necessaria a una vita consacrata secolare, che le permette di essere poveri nella ricchezza, slaccati dai beni di questo mondo mentre ci si serve di essi, mortificati nel loro uso personale senza nuocere alle esigenze della presenza consacrata in pieno mondo, e all'adattamento ai diversi ambienti di vita che una tale vocazione suppone. La povertà vissuta in un istituto secolare non è necessariamente identica per rutti i membri; essa si vive in ambienti sociali diversi, anche se attua un punto comune di austerità e di generosità personali che tutti i membri vogliono salvaguardare. È così posta la questione della povertà dell'istituto, che in una secolarità vera e radicale può rinunciare a proprietà proprie, a capitali ingenti e a risorse comuni assicurate. Dato che questi istituti vivono dei contributi garantiti dai loro membri, l'istituto Stesso può vivere in piena povertà, senza avere beni stabili e redditizi, in dipendenza da ciò che offrono i membri - un minimo di partecipazione sarà fissato dalla direzione dell'istituto - anche per quanto riguarda la vita dei responsabili, se questi non possono conservare un loro lavoro professionale e far fronte alle proprie esigenze. È tuttavia auspicabile che i membri dell'istituto conservino un contano con le realtà terrene, abbiano un lavoro professionale retribuito, e possano cosi vivere concretamente la loro secolarità consacrata. Questa esigenza è vitale per la serietà di una vita consacrata secolare; essa ha necessariamente un influsso sull'organizzazione, sulla direzione e su una certa ripartizione delle responsabilità nel governo dell'istituto. Tutti questi aspetti non fanno che rivelare la ricchezza e la varietà di forme che assume la povertà evangelica in una vita consacrata secolare. b. Castità consacrata La castità consacrata traduce l'atteggiamento di filiazione proprio della vita consacrata attraverso i consigli evangelici. Essa non può essere vissuta che come dono di amore e come fedeltà della risposta che questo suscita: risposta di un cuore totalmente donato - come fu quello del Verbo incarnato - che conosce un solo amore, quello del Padre da cui ha ricevuto tutto, e quello degli uomini, fratelli nella sua incarnazione, salvati mediante la sua croce e ricondotti a Dio nella sua risurrezione, per essergli uniti nella sua ascensione che l'ha innalzato, come Agnello sacrificato, al trono di Dio. Questo amore filiale, nella sua forma piena esige il celibato; si esprime nella continenza perfetta, è vissuto nelle esigenze della castità di questo stato, e cerca di esprimere sempre più fedelmente l'amore unico e totale del Padre, vissuto nella filiazione divina, in unione con Cristo, nella forza dello Spirito. In questa visione trinitaria, si può comprendere che cos'è il consiglio di castità consacrata e come esso superi i precetti e le esigenze della castità nel matrimonio cristiano e nel celibato ordinario. Vissuta in pieno mondo, la castità consacrata conosce atteggiamenti propri di contatto franco con gli altri, di prossimità nel servizio degli uomini, di nobiltà di cuore e di libertà di spirito che una simile vita consacrata suppone; ciò significa che il consiglio deve essere vissuto come una lunga esperienza di vita donata agli altri, senza attaccarsi a un amore umano che ostacolerebbe il dono totale di sé a Dio in Gesù Cristo. La castità consacrata diventa allora una purità di intenzione che invade ogni lavoro umano, ogni contatto di società, ogni attività professionale. Essa è scuola di amore divino e non può non irradiare su un ambiente aperto ai veri valori dell'amicizia, del dono di sé, dell'aiuto vicendevole e della generosità. Vissuta così, la castità consacrata raggiunge la trasparenza dell'amore filiale di Cristo per il Padre suo. Amore divino al quale si partecipa tanto più, quanto più si segue Cristo da vicino in tutta la sua vita. c. Obbedienza filiale Cristo vive in pienezza la sua filiazione divina nell'obbedienza filiale. Il suo amore trova riposo facendo la volontà del Padre, che è il suo nutrimento; la sua povertà si traduce così nell'abbandono totale per appartenere tutto a lui. L'obbedienza filiale è prima di tutto amore, dono e abbandono nel dono. Essa sarà nel Verbo incarnato l'espressione di ciò che egli è: l'immagine del Padre, il riflesso della sua bontà, l'irradiazione del suo splendore, la luce della sua gloria. Questa obbedienza alla volontà del Padre gli permette di rimanere nell'amore, come dichiarò Cristo stesso: se uno conserva la sua Parola, Dio verrà a lui, farà la sua dimora in lui; Dio dimorerà in lui e lui in Dio. Gli istituti secolari hanno ritrovato queste profondità dell'obbedienza. Non vivendo in comunità, dove la dipendenza continua da una fraternità guidata da un superiore e il ritmo quotidiano sono una scuola di obbedienza, è stato loro necessario, per situare il consiglio nella loro vita, fare della volontà di Dio la loro prima osservanza, cercare di riconoscerla nelle circostanze della vita, accettarla quando Dio nella sua chiamata li consacra a sé e permette loro di consacrarsi così a lui nel suo Figlio, nella forza di un medesimo amore, lo Spirito che santifica. Così la loro consacrazione è atto di Dio e risposta alla sua chiamata, consacrazione di tutta la vita in dipendenza dall'appello ascoltato, dalla missione ricevuta, dalla presenza da garantire in pieno mondo, secondo il carisma dell'istituto; ogni membro ha una responsabilità personale, una azione individuale, una presenza agli altri differente, nell'ambiente in cui Dio l'ha posto per nascita, per vita familiare, per scelta professionale, per influsso sociale, per lavoro gratuito e aiuto reciproco generoso. L'obbedienza secolare è prima di tutto questa obbedienza filiale vissuta nelle circostanze della vita, negli appelli degli uomini, nelle attrattive divine. Là dove manca un responsabile umano, si esprime Dio nel concreto della vita; là dove non è imposta una decisione concreta, gli statuti prevedono discernimento e ricerca di un bene migliore; là dove manca il contatto diretto, gli scritti dell'istituto permettono uno studio regolare, una intelligenza migliore del mistero vissuto. Si comprendono così le esigenze dell'obbedienza nella secolarità consacrata; si vede che, ritrovando le profondità di una vita di filiazione, gli istituti secolari fanno ritrovare i fondamenti dell'obbedienza religiosa, che, se non è filiale, non è obbedienza consacrata. d. Consacrazione e consigli Considerando il senso profondo dei consigli, la loro unità come espressione di una stessa filiazione divina, per noi adottiva, si comprende facilmente che gli istituti secolari hanno posto l'accento sulla consacrazione della vita attraverso i consigli stessi. L'importanza data alla consacrazione si comprende tanto meglio in quanto questi istituti non fanno "professione" di vita consacrata; il riserbo di una vera secolarità vi si oppone. Ciò non impedisce, come vedremo, che gli impegni siano "pubblici" nel senso del diritto, senza essere pubblici nella vita sociale della Chiesa e per l'ambiente in cui i loro membri vivono. Assumendo come regola di vita i consigli evangelici nel loro senso pieno e come scelta definitiva, colui che Dio chiama - e questa chiamata è primaria: è consacrazione da parte di Dio - risponde in Cristo all'amore del Padre e vuoi vivere la sua filiazione come figlio adottivo, ma in piena fedeltà al dono ricevuto, al carisma dell'istituto, alle esigenze personali della sua vocazione di vita consacrata in pieno mondo. Queste esigenze saranno, in tutte le circostanze della vita, una chiamata nuova e una occasione di un dono sempre più completo. Si potrebbe dunque parlare di una consacrazione attraverso i consigli; fu del resto questa la posizione del Concilio in un titolo del progetto di LG. L'espressione fu ripresa in PC. La commissione ha scelto questa espressione nell'ultimo titolo scelto per lo schema dì questa parte del Codice: Gli istituti di vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici. Essendo troppo lungo, fu abbreviato, e divenne: Gli istituti di vita consacrata. La denominazione è oggi corrente. Più dottrinale e più profonda di ogni altra, essa esprime l'essenziale: la consacrazione attraverso la chiamata divina alla quale risponde la consacrazione a Dio mediante i consigli evangelici. e. Consacrazione e impegni Ponendo l'accento sull'importanza della consacrazione ed evitando di parlare di "professione", gli istituti secolari hanno ricollocato le altre forme di impegni nella loro vera luce. La consacrazione è il fatto primario: è la risposta globale alla chiamata di Dio; voto, promessa, giuramento o ogni altra forma di impegno vengono solo a evidenziare un obbligo preciso senza riferirsi all'insieme del dono che si vuoi fare ed esprimere. Inoltre, la materia di tali impegni e sempre definita, per essere meglio determinata e chiaramente delimitata. Questi impegni si riferiscono all'attualizzazione dei consigli; essi non esprimono l'insieme del dono. Solo la consacrazione a Dio è consacrazione agli uomini; solo la consacrazione unisce in un unico atto tutti gli altri impegni; solo la consacrazione include l'incorporazione nell'istituto, la quale può avvenire solo donando se stessi a Dio in risposta alla sua chiamata. L'incorporazione non è la conseguenza della consacrazione: è inerente ad essa per il fatto che suppone il carisma proprio dell'istituto e intende attuarlo secondo una vocazione personale e una chiamata divina identificata e accettata come volontà di Dio e consacrazione da parte di Dio. Per questo fatto, tutti gli altri impegni diventano secondari; se gli uni sono fatti a Dio, altri si fanno a causa di Dio, ma alla fine tutti ricevono il loro peso e il loro valore in quanto sono inclusi nell'atto essenziale, la consacrazione. Ne deriva un'altra conseguenza: la consacrazione è da parte di Dio un atto di amore che si esprime in una scelta e in una chiamata divine; la risposta di colui che accoglie questa chiamata, la segue e vuole attuarla, è anch'essa atto di amore e, nel dinamismo dei consigli, atto di amore filiale verso il Padre, accettando il dono dello Spirito, il carisma che è norma di vita riconosciuta e approvata dalla Chiesa. Atto di amore che supera tutte le altre virtù coinvolte nell'attuazione di questo dono di sé a Dio, e per Dio agli uomini salvati da Gesù Cristo. Atto di amore che pienamente vissuto è atto trinitario, essendo un atto di amore verso il Padre, come figli e nel Figlio, e portato nello slancio di amore, dono dello Spirito. Gli istituti secolari non vogliono parlare di "professione"; hanno fatto tutto il possibile per non essere considerati "religiosi"; sono giunti fino a evitare di impegnarsi con voto. La loro ricerca di secolarità li ha condotti ad approfondire ciò che era la loro risposta a Dio come consacrazione attraverso i consigli. Essi hanno cosi ricondotto tutta la vita consacrata ai valori fondamentali della consacrazione della vita, sia nella vita religiosa, sia nella vita secolare, vita di presenza e di inserimento nel mondo. Essi hanno fatto di più: hanno messo in evidenza l'importanza della consacrazione come atto apostolico, come primo apostolato, e hanno richiamato i religiosi a questa dimensione apostolica della loro professione, soprattutto se nel silenzio e nella solitudine essi rinunciano alle opere di carità e di apostolato per appartenere totalmente a Dio solo. 6. Secolarità consacrata Il Codice ha permesso agli istituti secolari di definirsi meglio. Esso ha voluto descrivere positivamente la secolarità consacrata e lo fa nei cc. 713-715, che formano un insieme ed esplicitano meglio ciò che era già suggerito nel c. 710: gli istituti secolari sono istituti di vita consacrata, i cui membri vivono in pieno mondo, dove tendono alla perfezione della carità e alla santificazione del mondo, più specificamente, agendo dal di dentro del mondo. Già questa presa di posizione esprimeva la volontà del Concilio e conteneva l'affermazione essenziale per questi istituti. In effetti gli istituti secolari non sono istituti religiosi; restando nel secolo, vivono una vera e completa pratica dei consigli evangelici, riconosciuta dalla Chiesa. Così è stabilito chiaramente come principio fondamentale che la vita consacrata secolare non è né una vita religiosa, né una vita consacrata al ribasso, ma una vita consacrata vera e autentica, di totale consacrazione anche se vissuta in pieno mondo, senza vita comune, senza abito distintivo e anche senza obbligarsi necessariamente con voto. Questi tre punti erano stati nella costituzione Provida mater Ecclesia i tre riferimenti importanti per stabilire una gradazione tra gli stati di perfezione, di cui il più completo è la vita religiosa, che le società di vita comune anche senza voti imitano - si è detto che esse si avvicinano alla vita religiosa - per situare gli istituti secolari, ultimi venuti, al terzo livello: senza voti, senza vita comune, senza abito distintivo. Gli istituti secolari, per farsi approvare, hanno fatto essi stessi gli accostamenti e i raffronti necessari, per definire meglio la propria identità. Ciò ebbe come conseguenza che essi si contrapponevano alla vita religiosa. Il Codice ha il vantaggio di riprendere lo sforzo da essi compiuto per definirsi più positivamente, non più per contrasto, ma attraverso l'affermazione precisa di ciò che costituisce gli elementi comuni dei loro carismi. Su questi punti, essi sono riusciti a fare chiarezza. La codificazione si è giovata di questo lavoro di riflessione e di ricerca. Se il Codice non paragona questi istituti recenti agli istituti religiosi, si è visto costretto, oltre alla definizione generale degli istituti di vita consacrata mediante i consigli evangelici, a situare la stessa vita religiosa definendola meglio: il che fu fatto nel c. 607. Si sarebbe potuto auspicare una analoga sintesi per gli istituti secolari; questa è possibile se si uniscono gli elementi esposti nei cc. 710, 713, 714 e 715. La posizione degli istituti secolari, già pregiudicata all'inizio dal riferimento alla vita religiosa, fu di nuovo compromessa in Concilio, dove si mise in luce il carattere secolare del laicato, la sua azione nel mondo a partire dal mondo, a modo di un fermento, la sua partecipazione alla consacrazione del mondo, la sua responsabilità di santificare i valori terreni e di ordinarli a Dio. Basta leggere i nn. 31 e 34 di LG per rendersi conto che il vocabolario di questi testi, il loro contenuto e le espressioni tipiche sono dipendenti dagli scritti e dalla riflessione degli istituti secolari, al punto che si è creduto di poter dire che solo gli istituti secolari laicali sono secolari, o, a rigore, "pienamente secolari". Il Codice non ha fatto però piena luce; ha definito meglio la secolarità dei laici di quella dei presbiteri e dei diaconi, membri di istituti secolari. Nel leggere i cc. 713-715 si sarebbe tentati di vedere in essi solo una definizione di ciò che si potrebbe chiamare l'apostolato degli istituti secolari, il che non è esatto. Consacrazione e missione formano un tutt'uno. Proprio vivendo la loro consacrazione essi esercitano la loro secolarità; in quanto si consacrano, essi sono apostoli; il loro apostolato primario è la loro vita consacrata, la sua irradiazione nella e con la loro attività umana in pieno mondo, ciò che si definisce apostolato " nel mondo e a partire dal mondo ", in saeculo et veluti ex saeculo. La formula è del padre A. Gemelli OFM, ed e ripresa da Pio XII nel n. 2 del motu proprio del 1948 Primo feliciter, vera messa a punto della secolarità consacrata. Il c. 713 riprende questi elementi e li applica a tutti gli istituti secolari e a ciascun loro membro; la loro consacrazione si esprime nell'azione apostolica e si esercita in questa azione. Non si può esprimere meglio l'unità di questi due elementi, quando si sa che questa azione è presenza silenziosa, soprattutto nascosta, in pieno mondo. Si comprende come questa vita consacrata sia prima di tutto consacrazione a Dio, in unione con l'eucaristia, se possibile quotidiana, " fonte e forza di tutta la loro vita consacrata " ( c. 719 § 2 ). Di più, riprendendo i termini stessi di PC 11, il c. 713 dice che questa presenza di vita consacrata agisce " a modo di fermento ", impregnando tutto di spirito evangelico, fortificando e sviluppando il Corpo di Cristo. Si è potuto dire che l'esperienza di questa secolarità consacrata fa comprendere meglio la posizione che deve assumere il cristiano in rapporto al mondo in cui vive. Come dicevamo, il Concilio ha ripreso alcuni aspetti della vita degli istituti secolari, applicandoli al laicato cristiano; essi aiutano anche a comprendere meglio la posizione del prete in medio mundo, " nel cuore del mondo ", come la descrive il n. 17a del decreto PO. Vediamo ora come il Codice ha definito la secolarità dei laici consacrati in un istituto secolare. Esso ricolloca la vita consacrala secolare nella funzione di evangelizzazione della Chiesa. I membri di istituto secolare vi partecipano, nel secolo e partendo dal secolo; la formula e ampliata questa volta a tutta la vita, e non e solo applicata a una forma particolare di apostolato. Questa partecipazione alla funzione evangelizzatrice della Chiesa si attua in due modi, o meglio ha due aspetti: il primo è una testimonianza di vita cristiana nella fedeltà alla consacrazione di vita. La formula merita di essere analizzata. La testimonianza prevista è una "testimonianza di vita cristiana", a livello di coloro ai quali è destinata, credenti e increduli. È una testimonianza di inserimento, non di provocazione. La sua forza le viene dalla vita consacrata, per cui si vede l'importanza della fedeltà a tale consacrazione, fedeltà a Dio, alla consacrazione di vita in unione con il sacrificio di Cristo; fedeltà alla Parola di cui si vive alla luce del carisma dell'istituto. Bisogna mettere in luce l'interiorità della vita consacrata come anima della testimonianza di vita cristiana che danno i membri degli istituti secolari. Il Codice e così in netto progresso, anche sul decreto PC; esso approfitta degli approfondimenti dottrinali che Paolo VI ha espresso nelle sue allocuzioni agli istituti secolari. Sono le allocuzioni del 26 settembre 1970 ( AAS 62, 1970, 619-624 ); del 2 febbraio 1972 ( AAS 64, 1972, 206-212 ); del 20 settembre 1972 ( AAS 64, 1972, 619-620 ). Esse si trovano nel volume edito dal CMIS. 198 P, pp. 57-90. Questa partecipazione alla funzione evangelizzatrice della Chiesa avrà come seconda finalità, conseguenza del resto della prima, quella di ordinare secondo Dio le realtà temporali e di penetrare il mondo con la forza del Vangelo: formule che devono essere concretamente tradotte nel diritto proprio di ciascun istituto. In pieno mondo, bisogna non soltanto elevare il mondo verso Dio con la preghiera, offrirlo al Creatore, unirlo all'offerta di Cristo: bisogna anche giudicare da cristiani quali sono gli atteggiamenti da assumere in rapporto alle persone e alle cose, cioè a ogni realtà terrena. Una tale attenzione richiede un approfondimento della dottrina della Chiesa, della quale si vuol impregnare il mondo in tutte le relazioni familiari, sociali, economiche e politiche. Per essere testimone di Cristo in pieno mondo e favorire questa testimonianza - che non può restare sempre muta, e deve potere, in certe circostanze, esprimersi in riferimento alla tede cristiana -, il Concilio chiede con insistenza di garantire ai membri degli istituti secolari una solida formazione nelle cose divine e umane ( PC 11b ). Ciò suppone una sintesi dottrinale forte e ben fondata, per poter essere, dice il Concilio, veramente lievito nel mondo per il vigore e l'incremento del Corpo di Cristo che e la Chiesa. Su questo punto dovrà rivolgersi l'attenzione dei membri di istituti secolari. Non basta loro sapere che cos'è la loro secolarità consacrata, come chierico o come laico; bisogna che ciò che essi sono o devono essere possa affermarsi in tutta la loro vita. Rimane infine un ultimo punto, per se stesso delicato e di applicazione talvolta difficile, soprattutto per un laico consacrato. Un laico è membro della Chiesa, partecipa alla triplice funzione di Cristo, e deve alla sua maniera esercitare le proprie responsabilità nella vita ecclesiale, e rendere servizio alla chiesa particolare, alla sua parrocchia. Tuttavia il c. 713 § 2 dice assai giustamente che questo si compie, per i membri di un istituto secolare, " secondo lo stile di vita secolare loro proprio ". Una dedizione che impedisse una presenza più efficace, perché più discreta, può diminuire o anche sopprimere l'effetto proprio della vita consacrata in pieno mondo. Una azione nell'ambiente ecclesiale, a livello nazionale, diocesano o parrocchiale, può impedire un inserimento valido in un ambiente di vita. Molte volte il clero non comprende il senso e la portata di questa discrezione propria della secolarità consacrata; per alcuni, "essere consacrato" significa "essere pronto a ogni servizio richiesto". Anche certi cristiani ferventi non sono sufficientemente informati della portata e della finalità di questa vita consacrata; essi non comprendono certe riserve e reticenze obbligatorie per rispettare in un dato ambiente la secolarità consacrata propria non più di un istituto, ma di una persona determinata che ne è membro. La definizione della secolarità consacrata del chierico è stata ancora più difficile da stabilire e da esprimere. A nostro avviso, essa è fondamentalmente la stessa di quella del laico consacrato, membro di un istituto secolare. Una presenza di vita consacrata è del resto più facile per il sacerdote secolare già votato al celibato sacro, che per uomini che hanno responsabilità soprattutto sociali e professionali, ma privati di un tipo di vita personale che non faccia contrasto. La consacrazione secolare si vive in un ambiente sociale determinato, per irradiarvi la propria forza e vigore. Questo ambiente per il chierico secolare è anzitutto il suo presbiterio. La sua testimonianza è quella di una vita sacerdotale fervente, cosi come del laico consacrato si dice che la sua testimonianza è quella di una vita cristiana. Il c. 713 § 2 non dice: di una vita consacrata; invece il c. 711 § 3 parla di una " testimonianza di vita consacrata ". È valida la formula? È certo che un sacerdote diocesano non deve far conoscere la sua appartenenza a un istituto secolare; si può anzi dire che questo riserbo è da osservare giudiziosamente, sia verso il vescovo diocesano che verso i confratelli. Esso assicura la qualità stessa della sua testimonianza e del suo impatto sulla vita del gruppo di cui fa parte. Quando si sapesse che un sacerdote è nella vita consacrata, gli si imporrebbero e si esigerebbero da lui, anche senza motivo, atteggiamenti che non corrispondono a una consacrazione secolare. Dopo il Vaticano II, la vita secondo i consigli evangelici non è più riservata ai soli religiosi! Anche se i redattori del decreto PO hanno voluto evitare di farne menzione, sono stati costretti, per forza di cose, a situare il prete - e questo vale anche per il vescovo - in rapporto all'atto centrale del suo ministero: l'imitamini quod tractatis. Questo consiglio, dato durante l'ordinazione presbiterale, è una chiamata vocazionale propria del sacerdozio. Come dice san Gregorio di Nazianzo, " nessuno può partecipare al sacrificio, se non si è offerto prima lui stesso come vittima ". Ma questo atteggiamento di unione con Cristo, sacerdote e vittima del suo sacrificio, esige non soltanto come risposta a questo ministero il dono del celibato in vista del regno, ma invita a vivere per Dio con un cuore indiviso. Il Concilio parla del resto di " verginità " o di " celibato per il regno dei cieli ". Se vi è verginità nel suo senso pieno, questa sarà l'esigenza di un amore pienamente donato, che non può essere tale senza la povertà volontaria e l'obbedienza vissuta come unione all'obbedienza filiale di Cristo. Nella misura che l'ideale sacerdotale, espresso dal Concilio Vaticano II, sarà meglio compreso e fedelmente vissuto, il presbitero membro di un istituto secolare, potrà favorire con la sua vita, il suo esempio e la sua mentalità una vita veramente consacrata mediante i consigli nel suo presbiterio, e renderne testimonianza vissuta. Resta tuttavia vero che la consacrazione attraverso i consigli, vissuta in un istituto secolare sacerdotale, ha una portata e una dimensione carismatica nuova in rapporto alle esigenze del celibato sacerdotale; essa privilegia la ricerca di povertà volontaria e l'obbedienza del sacerdote diocesano, obbedienza spesso ristretta alla sola obbedienza canonica di cui parla il c. 274 § 2. Bisogna notare attentamente che, se il c. 277 § 1 riprende la dottrina del decreto PO in rapporto al celibato, i cc. 281 § 1 e 282 che riguardano la povertà non fanno altrettanto. La stessa lacuna esiste in rapporto al senso evangelico dell'obbedienza, di cui parla il c. 274 § 2. Tale senso evangelico di vita consacrata a Dio è tuttavia affermato in maniera generale nel c. 276 § 1, e specificato nel § 2, 1°. Una certa forma di vita comune è anzi consigliata nel c. 280 come ideale di vita fraterna alla quale incoraggia il c. 275 § 1. Il sacerdote secolare non ha soltanto una presenza nel presbiterio: ha in più una presenza al mondo che permette di definire meglio la sua funzione e di spiegare meglio la sua secolarità consacrata come membro di istituto sacerdotale. Il Concilio nota espressamente che il suo ministero, come quello della Chiesa, si esercita in medio mundo, nel cuore del mondo. Nel leggere questa espressione, si vede ciò che diventa tale presenza nel cuore del mondo, se il sacerdote non condivide soltanto lo sforzo dei laici, ma lo sostiene e lo illumina, per portare infine, con il suo ministero, nel sacrificio di Cristo, quello sforzo che suppone la consacrazione del mondo: ciò che gli conferisce il suo senso e la sua pienezza. LG è molto esplicito in proposito: " tutte infatti le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo ( 1 Pt 2,5 ); e queste cose nella celebrazione dell'eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme con l'oblazione del corpo del Signore. Cosi anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso" ( LG 34b ). Questo testo non situa solo la vita dei laici nella consacrazione del mondo, ma esige implicitamente il ministero del sacerdote; questi non potrebbe essere pienamente ministro di tale offerta, se lui stesso non compisse la stessa offerta della sua vita nel mondo. Stabilito tutto questo, bisogna riconoscere che il § 3 del c. 713 non dà della secolarità consacrata dei sacerdoti, membri di istituto secolare, una visione completa e pienamente fondata. Un lavoro di riflessione deve gradualmente illuminare ciò che essi vivono, permettendo agli statuti di essere più precisi e più completi. Questa riflessione suppone un approfondimento della dottrina conciliare sul sacerdozio, riflessione appena iniziata. Se il Concilio nel decreto PO ha posto delle prospettive importanti per una teologia del sacerdozio, bisogna rammaricarsi che, avendo parlato così ampiamente dell'episcopato, non sia giunto a fare una sintesi spirituale di ciò che suppone, come esigenze personali e comuni all'ordine sacerdotale intero, il sacerdozio ministeriale vissuto come partecipazione al sacerdozio di Cristo. Per fare ancora più chiarezza nella ricerca attuale a proposito della secolarità consacrata, dobbiamo distinguerla il più chiaramente possibile dalla "condizione secolare" del laico, quale il Concilio l'ha espressa nella costituzione sulla Chiesa. La "'condizione secolare" significa per il laico una vita nel mondo, nella quale la sua attività primaria consiste nell'ordinare le realtà temporali a Dio; la sua preghiera le porta e le unisce all'offerta del mondo intero nel sacrificio eucaristico; egli partecipa così alla consecratio mandi che è la missione di tutta la Chiesa. La condizione secolare del laico è identica o analoga alla secolarità consacrata? La condizione secolare nella costituzione LG è, è vero, l'elemento dominante della sua descrizione del laico. Essa fu poco più tardi corretta; si mise in rilievo che il laico è anzitutto un battezzato, un confermato, membro del Corpo di Cristo, ed egli esercita le tre funzioni di Cristo. Ma è anche nel mondo, non come sono nel mondo tutti gli uomini, ma in modo da condurre a Dio, con la sua vita e il suo lavoro, le realtà del mondo che egli usa. Tuttavia, i preti secolari, e anche i religiosi, separati dal mondo, sono e vivono nel mondo; questi ultimi non sono stranieri o senza utilità nella città terrena, come dice LG 46b: anch'essi esercitano professioni e fanno un lavoro terreno. Quanto ai sacerdoti, PO mette in luce il lavoro manuale dei preti al lavoro, e quello di coloro che si dedicano alla ricerca scientifica o all'insegnamento ( PO 8a ). Come la Chiesa, i preti secolari esercitano la loro missione nel cuore del mondo. La loro vita è la loro azione nell'uso delle cose create serve al progresso dell'umanità e permette loro di condurre gli uomini, attraverso la loro parola e il loro esempio, a usare dei beni terreni secondo la volontà di Dio ( PO 17a ). La condizione secolare dei laici, se non è loro riservata, resta particolare per loro; essa non determina completamente la loro situazione nella Chiesa e nel mondo in un modo unico e specifico. La secolarità consacrata, se è ben compresa, è la situazione di colui che, consacrato a Dio in pieno mondo, conserva il suo stato clericale o laicale, ed esercita in quanto tale la sua missione propria senza essere separato dagli altri, come i religiosi. Soltanto il sacerdote è "messo a parte" per il vangelo di Dio, segregatus in evangeliurn Dei. Il Concilio noia tuttavia che se in un certo modo egli è "'messo da parte" in seno al popolo di Dio, non è per essere separato da questo popolo né da alcun uomo, chiunque esso sia … I sacerdoti non potrebbero essere ministri di Cristo, se non fossero testimoni e dispensatori di una vita diversa da quella terrena, ma non sarebbero neppure capaci di servire gli uomini, se restassero estranei alla loro esistenza e alla loro condizione di vita. Il Concilio rimanda in nota all'enciclica Ecclesiam suam di papa Paolo VI. Restando in pieno mondo, a motivo del suo stesso sacerdozio, il prete, con la sua consacrazione in un istituto secolare, si radica in esso più fortemente; egli farà ciò che fanno gli altri, con più intensità interiore, e se possibile in modo più perfetto. Si può dunque concludere che la secolarità consacrata come esigenza di vira è la stessa sia per il laico che per il chierico, per il fatto che entrambi sono in pieno mondo, vivono in mezzo agli uomini dello stesso ambiente, non si separano da essi, ma sono a loro più strettamente uniti. A causa della loro consacrazione, la loro situazione come laico o come chierico non è mutata, ma piuttosto rafforzata; in virtù di una vocazione divina particolare, essi sono chiamati a segnare di spirito evangelico il loro ambiente proprio, a compiere in esso al meglio i loro compiti umani e cristiani, per essere un esempio e un sostegno a tutti. Proprio in virtù di un dono divino, il carisma proprio dell'istituto di cui sono membri, essi sono definitivamente radicati e stabilizzati nel laicato o nel loro presbiterio diocesano di cui restano parte attiva, a un nuovo titolo, per agire con gli altri con più ardore e continuità. La condizione secolare del laico o del chierico non ha la stabilità che conferisce la secolarità consacrata degli istituti secolari i quali sono per parte loro definitivamente legati al loro proprio ambiente di vita. La secolarità consacrata cosi concepita è una vocazione comune ai laici e ai chierici, membri di istituto secolare. Tutto questo è stabilito, e oggi meglio espresso nel Codice. È la prima volta che la Chiesa afferma che a causa della loro consacrazione di vita i membri degli istituti secolari non cambiano di condizione canonica nella Chiesa; questa rimane laicale o clericale. Si deve anzi dire meglio: non solo essi non cambiano questa condizione primaria, ma la rafforzano e la stabilizzano definitivamente. La secolarità consacrata dei sacerdoti diocesani, come si può vedere, non è stata altrettanto profondamente studiata. Il Codice non la esprime pienamente. Tuttavia, gli elementi che esso definisce in rapporto ai laici conducono necessariamente a una migliore intelligenza della secolarità consacrata degli istituti clericali. Il decreto PO ha dato a questa ricerca, come abbiamo visto, un apporto importante. Purtroppo, essendo uno degli ultimi documenti del Concilio, esso non ha potuto avere un influsso sui decreti già promulgati o elaborati prima della sua redazione definitiva. Notiamo infine che i cc. 714 e 715 esprimono concretamente la secolarità consacrata tanto dei laici quanto dei chierici, membri di istituto secolare. Il c. 714 pone tre norme concrete: i membri di istituto secolare vivono o nelle condizioni ordinarie del mondo; o vivono soli, o nella loro famiglia; o in un gruppo di vita fraterna. Le condizioni ordinarie del mondo situano la loro vita nel loro ambiente proprio. Nulla può, per questo fatto, distinguerli dalle altre persone del loro ambiente sociale o professionale. Se questo principio è rispettato, la secolarità consacrata è preservata da possibili deviazioni, dovute soprattutto a una imitazione della vita religiosa. Gli statuti di ciascun istituto dovranno sempre meglio determinare l'applicazione di questo principio. Nel progetto del 1980, il c. 714 aveva ripreso un principio già espresso nello schema del 1977. IL principio era radicale: " i membri non portano alcun segno distintivo della loro consacrazione ". Tale testo è stato soppresso: si è fatto valere che un istituto portava almeno un abito uniforme; al vederlo, si sarebbe detto un abito religioso! Non si comprende come l'autorità competente abbia potuto approvare un istituto che contraddice così apertamente la secolarità di questi istituti; tutti si dolgono di tale decisione. In ogni caso, se si vuole comprendere rettamente il testo del c. 714, ogni uniforme, ogni distintivo che faccia conoscere l'appartenenza all'istituto, è da escludere. Non si tratta soltanto di una questione di vestiario, ma di ogni altro segno di pietà che fosse prescritto come distintivo dell'istituto: croce, anello, medaglia … La seconda norma è anch'essa una espressione di vera secolarità; i membri vivono soli, o nella loro famiglia. La successione nella quale sono espresse queste possibilità è significativa; essa segna un ordine di preferenza. I membri vivono soli, cosa certamente più facile per donne che per uomini. Questi ultimi vivono spesso con un membro della loro famiglia, cosa che del resto è comune a molti sacerdoti che vivono nel loro presbiterio o anche in città, come insegnanti, o membri di curia diocesana, ecc. La terza norma è evidentemente meno secolare: vivere in gruppo. Questo gruppo può essere formato da membri del medesimo istituto. Il pericolo d'una vita comune in questo caso è più che reale. Questa forma di vita impedisce sempre la piena secolarità. Il gruppo può anche riunire diverse altre persone; questo raggruppamento in una abitazione comune può essere una preservazione necessaria e un elemento di sicurezza in certe regioni, specialmente nelle grandi città. Queste persone non devono necessariamente tutte essere membri di un medesimo istituto; non sarebbe affatto contrario alla secolarità vivere in un gruppo che riunisca due o tre persone al lavoro in una stessa ditta o in una stessa istituzione. La norma sarà più importante per gli istituti di laici; i sacerdoti che vivono secondo lo statuto diocesano, potrebbero vivere insieme con altri confratelli che non siano membri di uno Stesso istituto. Il Codice invita del resto i sacerdoti a vivere insieme. Il c. 280 è formale: una cena pratica della vita comune è vivamente raccomandata; là dove esiste, deve essere al più possibile conservata. Questa forma di vita, è vero, non ha solo vantaggi, soprattutto dal punto di vista pastorale; spesso la discrezione vi è minore e il contatto con i fedeli meno facile. Il c. 715 riguarda i chierici, diaconi o sacerdoti. Questi, come membri di istituto secolare, sono normalmente incardinati in una diocesi. Gli istituti secolari sacerdotali del resto accettano soltanto candidati che sono già incardinati e ordinati per il servizio della diocesi; perciò, essi dipendono in tutto dal loro vescovo, " salvo - precisa il c. 715 - quanto riguarda la vita consacrata nel proprio istituto ". La distinzione è facile e appare chiara. Nella pratica, si devono notare alcune difficoltà: anzitutto la partecipazione alla vita dell'istituto secolare non deve essere sotto controllo diocesano; spesso ritiri e giornate di raccoglimento nell'istituto sono resi più difficili, se altri fossero obbligatori, per i sacerdoti della diocesi. Nella redazione degli statuti diocesani si dovrà tener conto sempre più della libertà di associazione riconosciuta ai chierici dal Concilio ( PO 8c ) e riaffermata nel Codice, nei cc. 215 e 278 §§ 1-2. Notiamo che i preti membri di istituto secolare possono benissimo vivere una più grande unione con il loro vescovo, senza tuttavia dovergli far conoscere la loro ammissione o consacrazione nell'istituto, né informarlo della loro partecipazione alla sua vita. Più difficile e delicata può essere la designazione di un sacerdote alla direzione del suo istituto, responsabilità che esige necessariamente più tempo libero e permette una minore attività pastorale nella sua diocesi di incardinazione. Il § 2 del c. 715 pone un principio che dimostra la necessità di una incardinazione nella diocesi come segno di vera secolarità. L'incardinazione in un istituto secolare avvicina questo istituto a un istituto religioso o a una società di vita apostolica; è il senso che bisogna dare all'espressione ad instar religiosorum del canone. Nel leggere quest'ultimo, appare che la dipendenza dei membri di un tale istituto può essere diversa: se essi lavorano nella diocesi, come gli altri preti diocesani, dipendono in tutto dal vescovo, salvo quanto riguarda la loro vita consacrata; se al contrario lavorano nelle opere proprie dell'istituto, questo lavoro dipenderà dall'istituto, che avrà ricevuto i permessi necessari per organizzarlo nella diocesi. Tale lavoro non comporta necessariamente edifìci propri o case comuni. Gli istituti per sé non devono avere case di formazione proprie; sembra però che ne abbiano, e ciò li distingue ancora di più dal clero secolare. Per quanto riguarda case o opere proprie, si applicano i cc. 609 §1, 611 e 612, come per quanto attiene a un'opera apostolica organizzata in edificio appartenente all'istituto, i cc. 612, 678 e 680. Li abbiamo commentati nella parte che riguarda il diritto dei religiosi. Se è vero che una incardinazione nell'istituto è contraria a una sana secolarità consacrata, non si può tuttavia concluderne che essa sia esclusa dal diritto. Il c. 715 § 2 si riferisce al c. 266 § 3. Poiché esistevano istituti che incardinavano membri chierici, la codificazione doveva prenderne atto senza tuttavia favorire una situazione contraria ai canoni più fondamentali: cc. 711-713 § 3. L'espressione ad instar religiosorum significa certamente una reticenza a proposito di tali incardinazioni. Queste, previste in rapporto con le opere proprie o con il governo dell'istituto, pongono diversi problemi: già il fatto di avere opere proprie diminuisce o sopprime una vera secolarità. Un istituto che abbia opere proprie, farebbe meglio a farsi riconoscere come società di vita apostolica. Quanto al governo dell'istituto, è possibile riservarlo a chierici che siano incardinati in esso? Non è suscitare un gruppo dirigente? Questo gruppo non diverrà forse dominante? E certo che esso riunirà sempre i membri più validi? Altrettante domande che suscitano perplessità e dubbi. Certo, in un istituto assai esteso, in cui i membri pienamente incorporali sono numerosi, e in cui una elezione seria, fondata su una informazione valida, è per ciò stesso più difficile, non è possibile ipotizzare un raggruppamento di persone qualificate. Questo raggruppamento interno, fondato su qualità precisate dagli statuti, non può, sembra, esigere come condizione di possibilità l'incardinazione dei chierici nell'istituto, anche se solo questi sono chiamati a dirigerlo. Un membro chierico di istituto secolare chiamato a dirigerlo, potrebbe, con la mediazione del dicastero competente, ottenere dal proprio vescovo diocesano una liberazione da incarichi pastorali, temporanea o definitiva, parziale o completa. L'incardinazione nell'istituto comporta in effetti tre conseguenze importanti: la formazione dei chierici da parte dell'istituto ( c. 1028 ), la promozione agli ordini ( c. 1029 ) e la concessione delle lettere dimissoriali ad opera del superiore maggiore dell'istituto considerato dagli statuti come competente in materia. Il c. 1052 § 2 non considera la possibilità di lettere dimissoriali date da un responsabile maggiore di istituto secolare. Tale possibilità sembra negata dal c. 1019 § 1, che la riconosce solo agli istituti religiosi e alle società di vita apostolica di diritto pontificio. Il § 2 sembra escludere ogni privilegio, e anche gli istituti secolari. Considerando il testo più da vicino, questo § 2, come già il primo, non tratta che degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica. Se si fosse voluto includervi gli istituti secolari, sarebbe stato necessario esplicitare la portata del termine " istituto "; cosa che non è stata fatta. Del resto, visto il piccolo numero degli istituti interessati, si può ammettere che essi non sono stati considerati qui, come non lo sono stati nel c. 596 § 1. A un cardinale che faceva rilevare che non si faceva menzione degli istituti secolari in questo c. 596, la commissione rispose che, visto il piccolo numero di istituti secolari, questi non erano stati menzionati; ciò che non significava dunque una esclusione. La risposta della commissione è rivelatrice a tale proposito; essa può essere applicata al c. 1019 § 2; ma l'applicazione non è necessaria, visto il contesto del canone che tratta al § 1 dei soli istituti religiosi e delle società di vita apostolica. E inoltre da segnalare che il fatto di incardinare dei chierici non suppone necessariamente il diritto di dare le lettere dimissoriali. Anche se la formazione è garantita dall'istituto, questo rilascerà l'attestazione necessaria ( c. 1052 § 1 ), che non è l'equivalente di lettere dimissoriali ( c. 1052 § 2 ). Tuttavia è normale che un istituto che può incardinare membri chierici possa dare le lettere dimissoriali; ciò che è ammesso, se è di diritto pontificio, ma che resta escluso per un istituto di diritto diocesano ( c. 1019 § 1 ), anche se esso ha ricevuto, in forza del c. 266 § 3, il diritto di incardinazione per concessione della Santa Sede. Concludiamo; se per principio una vera e sana secolarità consacrata esclude l'incardinazione in un istituto secolare, una simile incardinazione è prevista dal diritto; essa deve essere concessa dalla Santa Sede; ma non comporta necessariamente la possibilità di dare le lettere dimissoriali per le ordinazioni diaconali e presbiterali, a meno di una concessione fatta a questo riguardo in occasione dell'approvazione dell'istituto, dei suoi statuti o, più tardi, in virtù di un indulto speciale ottenuto su richiesta dell'istituto. 7. Comunione fraterna Tre motivi hanno richiamato nel c. 716 l'importanza della vita fraterna come comunione. Il più plausibile è la mancanza di " vita comune " in questi istituti; i membri si incontrano di rado, per giornate di raccoglimento, convegni o ritiri, che normalmente non sono mai protratti, viste le esigenze del lavoro professionale, della vita familiare, e le distanze che separano i membri da un medesimo centro di riunione. Di più, il riserbo da osservare, anche nelle case in cui ci si riunisce, non permette talvolta di far conoscere i nomi delle persone presenti. Questo riserbo è del resto richiesto molte volte dalla situazione che occupano alcuni membri nella vita pubblica. Un secondo motivo consiste nel mettere in rilievo il senso stesso della vita fraterna come comunione dei partecipanti ad uno stesso carisma. Se sono riuniti in un medesimo istituto, lo devono prima di tutto al dono del Signore che ha fatto sorgere il carisma dell'istituto e vi ha fatto partecipare per grazia tutti quelli che egli sceglie nella chiamata di una vocazione divina il cui valore e la cui forza sono i fondamenti dell'istituto, della sua vita come della sua presenza al mondo. Senza sostegno fraterno non vi sarebbe né unità, né vita fraterna; questa è del resto vissuta come bisogno reale in una vita secolare, che conosce una vera solitudine e impone nella vita personale un silenzio talvolta arduo da osservare. Non ci si può sorprendere che molti membri di istituto secolare abbiano trovato sostegno e forza negli scritti spirituali di monaci certosini. Un terzo motivo consiste nel far risaltare il carattere di " consiglio " che assume la vita fraterna. Di fatto, se vi è un precetto del Signore sull'amore di Dio e del prossimo, è certo che il vangelo insiste sul dono di sé agli altri, sull'amore reciproco che conoscerà intensità diverse tra i cristiani, ma che il carisma proprio suscita come una vita fraterna che supera il semplice precetto, invitando a un dono agli altri più totale e più generoso. Se questa vita fraterna è vissuta nell'istituto, non può essere un ripiegamento sui suoi membri, una riduzione della carità; sarà piuttosto una scuola di carità che estende la sua irradiazione e la sua azione all'ambiente di vita familiare, sociale, professionale ed ecclesiale. Questi motivi sono importanti. Ma v'è di più: la comunione fraterna è un segno di ecclesialità; la Chiesa è comunione di fede, di speranza e di carità, ma anche società organizzata, gerarchicamente ordinata. Un istituto prende dunque la forma di chiesa in piccolo; come la famiglia cristiana è " chiesa domestica ", l'istituto sarà " chiesa fraterna " che conoscerà una forma di comunione tra i suoi membri, comunione che prende esempio ed ha fondamento nella comunione trinitaria, dalla quale tutta la Chiesa trae la sua unità come popolo radunato per volontà divina, secondo le intenzioni del Padre, attuate nel suo Figlio con la forza del loro Spirito. Gli elementi maggiori di questa comunione fraterna saranno la preghiera comune, anche se praticata in solitudine, la carità, il servizio vicendevole e il reciproco aiuto spontaneo - anche se resta spesso occasionale -, l'unità in uno stesso spirito manifestata in ogni riunione, la fedeltà all'istituto, alla sua finalità propria, alla sua tradizione. È certo che una simile comunione, che prima di tutto è grazia divina, può essere più forte in un istituto secolare di quanto lo sia nella vita comunitaria, dove gli scontri sono più facili e frequenti, e dove l'abitudinarietà della vita può far dimenticare il senso profondo della comunione. Sarà necessario, d'altra parte, che l'unità dell'istituto sia favorita da preghiere per l'istituto; preghiere comuni, necessariamente brevi, ma che uniscono in Dio quelli che una vocazione specifica disperde necessariamente. Sono questi i diversi punti che il c. 716 ha voluto mettere in evidenza. Ci si può chiedere se la norma generale del c. 602 non sarebbe bastata; si può rispondere affermativamente per l'essenziale, negativamente per certi aspetti che bisogna rilevare qui. Il c. 602 riunisce parecchi elementi fondamentali della comunione fraterna in un istituto. Questa assume in ciascun istituto una fisionomia propria; essa raccoglie i suoi membri come in una famiglia riunita in Gesù Cristo e suppone un aiuto vicendevole che sorreggerà ogni membro nel vivere la propria vocazione. Norma generale, essa mette in forte rilievo il carattere particolare che deve prendere la vita fraterna in ogni istituto, e chiarisce come essa deve aprirsi alle virtualità proprie di ciascuno di essi. L'ultima frase dello stesso c. 602 non si applica agli istituti secolari: " i membri poi, con la comunione fraterna radicata e fondata nella carità, siano esempio della riconciliazione universale in Cristo ". Una simile testimonianza è propria degli istituti religiosi, la cui vita comunitaria costituisce un esempio di riconciliazione universale in Cristo. Così quest'ultima frase specifica il c. 607 § 2 dove, tra gli elementi essenziali della vita degli istituti religiosi, è messa in rilievo la vita fraterna vissuta in comune. Tuttavia la presenza dei membri può avere, a un altro livello, una forza di testimonianza, se favorisce una maggiore carità nel mondo e incita così non solo i cristiani, ma tutti gli uomini a vivere la riconciliazione universale, possibile solo in Cristo e per mezzo di lui. La riconciliazione così vissuta fa parte della consacrazione del mondo, di cui il Concilio ha chiarito l'importanza. Riprendiamo ora i termini del c. 716. Tutti i membri devono partecipare attivamente alla vita dell'istituto. Nel c. 717 § 3 si chiarisce del resto l'importanza di questa partecipazione attiva di cui i responsabili devono avere grande cura. Tale partecipazione sarà determinata dal diritto proprio: per i consigli evangelici, il c. 712 esige che ciò si faccia nelle costituzionÌ; sarebbe forse meno importante definire la partecipazione alla vita dell'istituto? Noi non lo crediamo. Il diritto proprio non può essere inteso qui come diritto accessorio, distinguendolo dalle costituzioni o statuti; esso comprende tutte le norme di vita dell'istituto, quelle degli statuti come quelle dei codici o testi accessori o complementari ( c. 587 ). Del resto, se l'essenziale è da esprimere nel codice fondamentale, è impossibile che questo non sia specificato da applicazioni negli altri testi, che si possono sottomettere più facilmente a revisioni o adattamenti regolari. La partecipazione attiva dei membri sarà soprattutto favorita, come si vedrà, dall'impulso che devono darle i responsabili dell'istituto, come stabilisce il c. 717 § 3. I membri, per parte loro, conserveranno la comunione fraterna tra di loro vigilando sull'unità di spirito e su una autentica fraternità. Il testo del c. 716 § 2 è stato purtroppo modificato, come il suo corrispondente, il c. 717 § 3. Nel c. 716 § 2 era detto che i membri conserveranno la comunione fraterna curando con sollecitudine l'unità di spirito, la partecipazione al medesimo carisma e la vera fraternità. Questa " partecipazione al medesimo carisma " è stata soppressa. 8. Governo dell'Istituto Il c. 717 è di grande importanza. Il carisma di un istituto determina le sue strutture essenziali. Strutture e spirito sono in effetti i due aspetti di un carisma collettivo di vita consacrata; ma il canone lascia agli statuti dell'istituto la cura di definirli. Attentamente letto il § 1 significa che ciascun istituto può avere un suo modo proprio di governo: norma opportuna che lascia la massima libertà nel seguire le esigenze dello Spirito. Inoltre - secondo punto importante - gli stessi statuti determinano la durata del mandato dei responsabili dell'istituto. Infine, questi stessi statuti stabiliranno come designare i responsabili dell'istituto: per elezione, o per nomina, dopo consultazioni previe, o in ogni altra maniera giudicata più conveniente. Una volta determinati i punti essenziali, nel codice principale dell'istituto ( statuti ), spetta al diritto proprio, nel codice accessorio, fissare più in particolare ciò che resta da rivedere e da adottare secondo la crescita dell'istituto, la sua estensione e l'esperienza dei membri. Per salvaguardare l'unità d'un istituto i cui membri vivono dispersi, senza vita comunitaria, sembra normale che il governo di un istituto secolare sia centralizzato, affidato a un responsabile generale coadiuvato da un consiglio che egli possa convocare regolarmente e anche consultare, almeno in parte, in caso di urgenza. Il responsabile generale sarà più spesso eletto con un mandato di preferenza abbastanza lungo, che gli permetterà di conoscere meglio le persone e di raggiungere una buona esperienza della vita consacrata secolare. Essendo il suo mandato più lungo, l'assemblea elettiva non si riunirà troppo spesso; e ciò è un bene per l'istituto. Dato il carattere proprio di un apostolato di presenza, e dunque di una presenza personale di cui ciascun membro resta il primo responsabile, si può dire che è normale che tali assemblee siano anch'esse distanziate, e che il mandato del responsabile generale sia di durata prolungata: dieci o dodici anni, per esempio. Il consiglio del responsabile generale avrà un mandato della stessa durata. L'esperienza dimostra che un consiglio ha bisogno anch'esso di una durata abbastanza protratta, per poter dare una collaborazione efficace. Un rinnovamento del consiglio nel corso di uno stesso mandato del responsabile generale è necessariamente una rottura; esso può impedire l'unità di azione, soprattutto spirituale, valida e auspicata. L'unità dell'istituto dipende prima di tutto dalla sua coesione spirituale. L'elezione del responsabile generale dipenderà dall'assemblea incaricata della sua designazione. Tali assemblee sono talvolta difficili da riunire, dati gli obblighi professionali dei membri dell'istituto. Si può così prevedere una consultazione di tutti i membri, per affidare a un'assemblea più ristretta l'elezione del responsabile generale. La consultazione dipenderà dall'estensione dell'istituto, dal numero dei suoi membri e dai contatti che essi hanno tra loro. Un istituto poco numeroso ma molto esteso farà più difficilmente tale consultazione, il cui valore sarebbe diminuito per mancanza di conoscenza delle persone. Una assemblea che riunisca i responsabili locali - e provinciali, se l'istituto ha simili suddivisioni - potrebbe essere più indicata per ottenere una elezione di migliore qualità. Si è pure conosciuto un istituto nel quale la designazione del responsabile generale era affidata a un gruppo di " elettori ", designato dal responsabile generale con parere del suo consiglio; titolo e funzione, per sé erano a vita. Questa soluzione può garantire una migliore elezione, ma può anche formare nell'istituto un gruppo dominante, poco aperto ai problemi nuovi che si pongono. Un altro modo di procedere consisterebbe nel nominare per consultazione un gruppo di elettori per ogni elezione: gruppo poco numeroso, che in una sola riunione, anche abbastanza breve, possa preparare la sua scelta ed eleggere il responsabile generale e il suo consiglio, tenendo meglio conto della situazione dell'istituto. È prudente che gli statuti permettano rielezioni successive del responsabile generale; ciò che per esperienza ha dato a certi istituti una maggiore forza spirituale e una più grande coesione. Fu questo il caso di alcuni fondatori, sempre rieletti come responsabili generali del loro istituto. Il § 2 determina una norma generale, che non può essere contraddetta: è inammissibile assumere la direzione di un istituto di cui non si fosse definitivamente membro. Tuttavia, data la lunghezza della probazione e la durata prolungata degli impegni temporanei, si potrebbe concepire che la scelta degli elettori favorisca un candidato non ancora incorporato definitivamente. Si potrebbe considerarlo eletto, se lo designasse una maggioranza qualificata, e fosse raggiunta un'età minima determinata dagli statuti. Questo eviterebbe ogni " postulazione ", in cui, per mancanza di conoscenza delle persone, una autorizzazione da parte dell'autorità competente resterebbe puramente giuridica e aleatoria. Il § 3 è stato modificato nella sua redazione. La scomparsa del termine " carisma " ha diminuito fortemente la portata del paragrafo in questione. Ai responsabili dell'istituto si chiedeva di vigilare perché tosse conservata l'unità del carisma, e fosse promossa una partecipazione attiva di tutti i membri. L'unità del carisma come valore da proteggere e da promuovere, aveva una portata assai più grande dell'unirà di spirito di cui parla il testo promulgato. Si può conservare uno stesso spirito anche cambiando certe ottiche in rapporto alla presenza al mondo. Gli istituti stessi rettificheranno il senso del testo conservando la portata che aveva voluto assicurare l'uso del termine " carisma ". In ogni caso, questo paragrafo mette in luce il valore che i responsabili devono conservare: l'unità del carisma. Come in ogni vita consacrata, il pericolo consiste nel deviare dalla finalità primaria, assumendo opzioni diverse, spesso per supplenza. Si fa appello alla generosità dell'istituto, alla carità dei suoi membri, ai bisogni nuovi della Chiesa. Questo punto toccherà quasi esclusivamente gli istituti secolari laicali. Era utile, anzi necessario esigere nella legge una fedeltà a tutta prova al carisma e allo spirito che lo esprime. Certi istituti hanno già messo cosi la loro secolarità alla prova, ammettendo invii in missione, dove la semplice presenza è difficile, ma si esige una collaborazione organizzata come necessaria a un lavoro educativo, culturale o di semplice assistenza al terzo mondo. Quanto alla partecipazione attiva dei membri, essa non concerne soltanto il governo dell'istituto, come potrebbe far credere una prima lettura. Ci si può chiedere tuttavia che cosa aggiunge questo paragrafo a ciò che prevedeva già il c. 716 § 2: " I membri di uno stesso istituto conservino la comunione tra loro curando con sollecitudine l'unità dello spirito e la vera fraternità ". Anche qui il testo del progetto è stato modificato; esso si esprimeva così: " I membri dell'istituto custodiranno la comunione tra loro, vigilando con cura all'unità dello spirito, alla partecipazione al medesimo carisma e a una vera fraternità ". L'unità dello spirito è l'unità delle menti e dei cuori, la partecipazione al medesimo carisma è il rispetto del carattere proprio dell'istituto, la salvaguardia della sua secolarità, l'approfondimento del dono proprio che l'istituto ha ricevuto dal Signore per il bene della Chiesa, la fedeltà al carisma per il fatto che una stessa vocazione divina fa partecipare ciascun membro al medesimo dono; tutto questo è possibile soltanto in una vera fraternità, fraternità autentica se vissuta nella fedeltà al carisma, se sostenuta dai contatti regolari tra i membri, contatti che non sono quelli della coabitazione, ma che possono essere frequenti, in ogni forma di comunicazione: lettera, telefono, prestito di libri, bollettini di informazione, testi di formazione, ecc … Occorre che i membri trovino tra loro i mezzi più adatti e più discreti per aiutarsi a vicenda nella fedeltà al carisma dell'istituto. Per promuovere questa fraternità secolare, è utile che i membri siano informati dell'onomastico di ciascuno, della sua situazione personale e che un bollettino dia regolarmente le notizie utili sulla vita dell'istituto: riunioni del consiglio del responsabile generale, giornate di raccoglimento, ritiri annuali, scelta di libri e di articoli, testi spirituali che illuminano la vita consacrata secolare, partendo da alcune esperienze personali. Più importante ancora è l'azione da promuovere in vista di una migliore formazione dottrinale. Già durante il periodo della prova " iniziale " è quello che necessariamente lo precede, bollettini di formazione, secondo un piano didattico ben concepito, sono di una importanza capitale; sarà utile che bollettini di formazione o testi dottrinali siano previsti e anche redatti dai responsabili e inviati regolarmente a tutti i membri. Una partecipazione attiva consisterà nel porre domande suscitate da queste esposizioni, nel proporle al lettore, nel rispondervi allo scopo di modificare e migliorare i testi di certe esposizioni secondo le risposte ricevute. Una partecipazione è tanto più attiva quanto più prende atto dell'attuazione concreta che comporta la vita consacrata secolare, e chiarisce ciò che vi è di più delicato, l'unità di spirito dell'istituto e l'impregnazione possibile che esso suppone in una professione civile, in un ambiente sociale, in una azione politica. Alcuni istituti del resto si sono " specializzati " e reclutano di preferenza, o anche esclusivamente, in un ambiente determinato: malati e infermieri, medici, insegnanti, uomini d'affari. Un istituto laicale è tuttavia tanto più secolare quanto più si apre a tutte le situazioni di vita nel mondo. Gli istituti secolari di chierici, sacerdoti o diaconi diocesani, non hanno da fare una simile scelta; essi sono aperti al clero, e approfondiscono, come abbiamo visto, sia la secolarità del chierico, sia la sua risposta personale alla vocazione, la fedeltà alla sua funzione ministeriale nella Chiesa e nel mondo. 9. Amministrazione dei beni temporali Il c. 718 determina tre punti importanti a proposito dell'amministrazione dei beni; essa deve esprimere e promuovere la povertà evangelica, deve assumere come norma il diritto concernente i beni temporali della Chiesa, definito nel libro V del Codice, e nel diritto proprio; infine, secondo questo stesso diritto proprio dell'istituto, definire gli obblighi soprattutto economici dell'istituto in favore dei membri che ad esso dedicano la loro attività. Dobbiamo anzitutto dire una parola a proposito della situazione degli istituti secolari in rapporto ai beni temporali; cosa che non sembra considerata dal c. 718. Se un istituto è pienamente secolare, può, sembra, rinunciare a ogni forma di proprietà, a ogni bene immobile, non avendo bisogno di alcuna abitazione propria, di alcuna casa di formazione o di ritiro spirituale. Esso può benissimo, mantenendo il riserbo necessario, organizzare riunioni regolari in case che non gli appartengono. Anche per i responsabili dell'istituto, nessuna abitazione è necessaria. Alcuni istituti hanno avuto case; poi se ne sono liberati. Da questo punto di vista, l'istituto può, nella sua vita propria, dare un esempio di povertà, non possedendo alcun bene immobile. La situazione di un istituto che avesse opere, o si situasse attorno a un centro spirituale, sarebbe praticamente uguale a quella di un istituto religioso. Di più, potrebbe avvenire che questi beni, posseduti sotto forma di associazione civile, non siano considerati come beni della Chiesa. Essi lo sarebbero in forza del c. 1238, se fossero proprietà dell'istituto, essendo questo in effetti persona giuridica pubblica. Stupisce del resto che il c. 718 non faccia riferimento al diritto dei religiosi, come fa più volte in questo titolo III, cioè nei cc. 712, 727, 729 e 730. In effetti, ispirandosi al c. 634, è utile definire chi può possedere: l'istituto, una parte dell'istituto - provincia, regione o zona -, un centro, se esiste come punto di riferimento e di riunione. Non sembra che sia necessario rinunciare a ogni diritto di possedere beni temporali, anche se lo facesse l'istituto religioso la cui spiritualità influenza l'istituto secolare. In effetti, un istituto secolare può essere aggregato a un istituto religioso, come prevede il c. 580, canone da mettere in rapporto con il 303, anch'esso dipendente dal 677 § 2. Una volta definito chi possiede - l'istituto, una provincia, un centro - bisogna tener conto dell'amministrazione delle proprietà: acquisti, vendite, cambi, affitti. Certi istituti hanno sentito il bisogno di possedere un immobile per riunirvi, conservare e consultare i loro archivi; ciò può essere più facile, ma non è strettamente necessario. La stessa posizione vale in rapporto ad immobili in cui siano riuniti i membri anziani. È difficile conservare la secolarità consacrata in queste case, che si qualificano facilmente come " religiose ". Le persone anziane possono benissimo trovare in case di ritiro un aiuto medico o sanitario, conservando una presenza di vita consacrata secolare, questa volta in ambiente non più professionale, ma ospedaliere. Si vede allora come rispondere al desiderio espresso dal c. 718: la testimonianza di povertà evangelica è in rapporto con i beni propri dell'istituto, che possono essere necessari o utili, ma anche contrari alla vera secolarità, e obbligare l'istituto ad affidarne la custodia o la direzione a membri che normalmente avrebbero una situazione professionale di piena secolarità. Quanto alle norme del libro V, esse devono essere applicate secondo la secolarità dell'istituto e il suo genere di vita. Le norme riguardanti gli acquisti, le vendite, le alienazioni, i contratti, date in questo libro, devono almeno in un codice accessorio essere riprese e adattate alla vita dell'istituto. Anche se l'istituto non possiede beni immobili, una certa partecipazione dei membri alla vita dell'istituto si impone. Tutte le spese di segreteria devono essere previste e coperte. Un contributo personale dei membri sarà dunque previsto, annuale o semestrale, secondo le spese da coprire e le possibilità di ciascun membro, il suo avere personale, le sue rendite, la sua retribuzione e le sue spese di sostentamento. Sarebbe difficile trattare qui tutti questi aspetti dell'amministrazione concreta dei beni mobili di un istituto secolare riconosciuto di piena secolarità. Una stessa previsione è necessaria per venire in aiuto ai responsabili dell'istituto che non avessero beni personali e debbano rinunciare al loro lavoro professionale per svolgere i loro obblighi e responsabilità nell'istituto. Per alcuni, la rinuncia al lavoro professionale fa loro perdere altre risorse come sussidi, pensioni e assicurazioni. La questione del sostentamento dei responsabili può e deve avere anche una ripercussione sulla elezione o sulla nomina delle persone a qualunque carica nell'istituto. Si farà in genere appello a persone che possano senza grandi difficoltà rinunciare al loro lavoro professionale; ma anche qui si preferirà organizzare il governo dell'istituto in modo da poter assicurare ai responsabili una presenza in pieno mondo reale e vissuta, ciò che permette loro di restare in contatto con la vita concreta dei membri e con le difficoltà alle quali essi devono far fronte. La norma del c. 718 a proposito dei responsabili riguarda gli obblighi soprattutto economici dell'istituto. Sembra infatti che gli altri obblighi siano di un altro valore, e non si riferiscano più all'amministrazione dei beni. Un istituto è moralmente obbligato a considerare se i pesi che incombono ai suoi responsabili siano a misura delle persone designate, nominate o elette. Ogni rischio di sovraccarico, di fatica o di esaurimento deve essere evitato. Osservando le cose più da vicino, se vi sono beni da amministrare - e ve ne saranno sempre - bisognerà ispirarsi al c. 636. Un economo è necessario, e non sarà un responsabile; sarà nominato normalmente dal responsabile, da cui dipenderà direttamente, e dovrà regolarmente, secondo il diritto proprio, fare rapporto sullo stato dei beni che gestisce e sul modo in cui li amministra. Se l'istituto è di diritto diocesano, nessuna relazione al vescovo del luogo è prescritta; il diritto proprio deve evitare in tutta la materia ciò che porrebbe diminuire la secolarità dell'istituto, e ogni adempimento proprio agli istituti religiosi. Sarà forse prudente che un rapporto generale della situazione finanziaria sia presentato alla Santa Sede; se ne farà cenno nel rapporto da inviare regolarmente alla Santa Sede. Quanto alle alienazioni importanti, e a ogni transazione che mettesse l'istituto in situazione economica meno favorevole, bisogna prevedere nel diritto proprio i permessi da chiedere, determinando a quale autorità competente ci si dovrà rivolgere. Normalmente in un istituto secolare tale autorità competente sarà interna all'istituto: è la maniera più sicura di mantenere la propria secolarità. Raramente si dovrà applicare in un istituto secolare il ricorso alla Santa Sede per quanto si riferisce a oggetti preziosi per valore artistico o storico. Lo stesso rilievo va fatto per i beni donati alla Chiesa per voto. Un istituto secolare non dovrebbe mai sobbarcarsi a simili fondazioni o volontà pie; esso fa bene ad escludere simili responsabilità e oneri in forza del suo diritto proprio. Rimane tuttavia in ogni vita consacrata la determinazione delle responsabilità e dei debiti contratti. L'istituto resta responsabile di ciò che si fa in suo nome e col suo permesso, e quando agisce come persona giuridica ( c. 639 § 1 ), o quando permette a un suo membro di agire in suo nome ( c. 639 § 2 ). Se un membro dell'istituto conserva la disponibilità dei propri beni personali, il che è normale, egli resta pienamente responsabile della loro amministrazione e delle sue conseguenze ( c. 639 § 2 ). Il § 3 del c. 639 è anch'esso applicabile in un istituto secolare, un membro del quale, senza permesso e all'insaputa dei responsabili, impegnasse la responsabilità economica dell'istituto: responsabile è il membro dell'istituto che agisse in tale modo. È norma di prudenza non contrarre mai debiti, a meno che l'istituto sia certo che le rendite abituali possano coprire gli interessi e, in un periodo di tempo non troppo lungo, rimborsare il capitale mediante ammortamento regolare ( c. 639 § 5 ). Come stiamo rilevando, parecchie norme date nei cc. 634-639 sono applicabili alla gestione dei beni temporali di un istituto secolare e dei suoi membri, soprattutto se questi ultimi, come i religiosi, dipendono dall'istituto nel quale prestano la loro opera, per quanto riguarda il loro sostentamento. Il c. 640 non pare applicabile per un istituto secolare. Una testimonianza collettiva e visibile dell'istituto sarebbe contraria alla sua secolarità. I membri, invece, saranno invitati, per carità e spirito di povertà, ad aiutare, secondo i propri mezzi, persone nel bisogno, cominciando dai membri dell'istituto meno favoriti. Va da sé che essi avranno a cuore l'aiuto della Chiesa locale e universale, sovvenendo alle loro necessità in maniera discreta, sempre preoccupati di conservare il carattere proprio del loro istituto e della loro vita consacrata secolare. Gli istituti secolari, malgrado la diversità della loro situazione particolare, troveranno utile comunicarsi le loro esperienze in questa delicata materia. Essendo agli inizi della loro vita istituzionale nella Chiesa, essi devono trarre profitto dalle situazioni diverse che vivono concretamente in regioni differenti, e in circostanze personali spesso complesse. Se è vero che l'ammissione in un istituto secolare non comporta alcuna esigenza economica concreta, sarebbe auspicabile che ogni candidato abbia una professione civile che gli assicuri il sostentamento e i mezzi per vivere; altrimenti il suo ingresso nell'istituto potrebbe porre problemi all'istituto e ai suoi membri. Una vigilanza sulla rettitudine di intenzione dei candidati e sulla loro condizione sociale al momento dell'ammissione è un dovere stretto dei responsabili dell'istituto. Ciò suppone una sincerità totale nelle informazioni da dare, e una prudenza corrispondente in quelli che ammettono i candidati alla prova, prima della prova cosiddetta iniziale di cui parla il c. 722 § 1. 10. La vita spirituale dei membri Un solo canone tratta la questione degli obblighi e dei diritti dei membri. Un raffronto di questo c. 719 con i cc. 662 e seguenti che gli sono paralleli, permetterà di ovviare ad alcune lacune facendo appello all'analogia del diritto ( c. 19 ). Il c. 719 tratta praticamente della vita spirituale dei membri - doveri e diritti - enunciando la portata di alcuni obblighi definiti in questo testo. Si può lamentare che certi punti tanto importanti, come i cc. 662 sulla sequela di Cristo, 666 sull'uso dei mezzi della comunicazione, 668 sui beni personali, e 670 sul dovere dell'istituto verso i suoi membri, non siano considerati. Questi punti sarebbero stati meglio studiati e stabiliti come norme comuni a tutti gli istituti. A dire il vero, anche il c. 671 potrebbe avere un adattamento valido alla vita consacrata secolare. Per ragioni pratiche esponiamo tale materia prendendo atto dei valori, obblighi e diritti espressi nei canoni riguardanti i religiosi, allo scopo di completare ciò che manca al c. 719; va da sé che questi canoni mettono in luce alcuni elementi importanti in una vita consacrata secolare. Seguire Cristo più da vicino. La consacrazione secolare suppone una fedeltà a Cristo che si vuoi imitare più da vicino. Questa imitazione e unione con Cristo è definita dal carisma proprio di ciascun istituto, e lo situa nella tipologia tracciata in LG 44a e in PC 7, 8 e 11, ripresa e completata nel c. 577, dove si dice che gli istituti secolari imitano Cristo nella sua vita secolare, in quei rapporti con gli uomini che egli ebbe prima della sua vita pubblica. Il carattere di " vita nascosta " vissuta a Nazaret ha un'importanza primaria per comprendere la portata della loro presenza consacrata in pieno mondo. Se il Vangelo è in questa imitazione del Signore la norma prima e la regola suprema di tale vita consacrata, era però necessario completare il testo conciliare ( PC 2 ) aggiungendo che la fedeltà a Cristo e espressa nelle costituzioni dell'istituto e deve essere vissuta secondo il loro spirito e le loro norme concrete. Vita interiore e qualità della vita consacrata. Il c. 719 § 1 pone nettamente la vita interiore come necessaria alla fedeltà alla chiamata di Dio; la vocazione all'istituto, se è vera, è una vocazione divina, ma tale vita interiore è ugualmente necessaria al valore dell'azione apostolica che suppone l'unione intima col Signore. Questo insegnamento conciliare ( PC 5 ) è stato più volte enunciato nel Codice, specialmente nei cc. 673 e 675, quest'ultimo, come il c. 673 avrebbe potuto essere proposto come nonna comune a tutti gli istituti di vita consacrata approvati o in formazione ( c. 605 ). L'azione apostolica deve avere la sua fonte in una unione con Cristo che si deve considerare come un dono di vocazione e conservare come un bisogno di fedeltà e di forza interiore. Il c. 675 § 2 riprende questo principio e lo completa in una maniera che ha tutto il suo peso nella secolarità consacrata: l'azione apostolica deve sempre scaturire dall'intima unione con Dio e al tempo stesso consolidarla e favorirla. Con altrettanta chiarezza bisogna dire con il c. 675 § 3 che l'azione apostolica degli istituti secolari, pur essendo una presenza estremamente discreta, si esercita in nome della Chiesa e si svolge in comunione con essa: la Chiesa l'approva e la dirige approvando l'istituto e i suoi statuti. Si può concludere citando il c. 663: la contemplazione delle verità divine, e la costante unione con Dio nella preghiera, è il primo e principale dovere dei membri di un istituto di vita consacrata secolare. Esercizi spirituali Come mezzi di unione con Cristo, il c. 719 cita nel § 1 la preghiera, la lettura della sacra Scrittura - la lectio divina - e aggiunge saggiamente apto modo " in maniera adattata ". Questo adattamento non è particolarmente richiesto per gli istituti secolari. In ogni vita consacrata gli adattamenti sono necessari; questo elemento non è dunque distintivo per i soli istituti secolari. Tra i mezzi per favorire la vita spirituale, il c. 719 § 1 enumera i tempi di ritiro annuale, e stabilisce che il diritto proprio preveda altre pratiche regolari: giornate di ritiro mensili o più distanziate, studi dei testi propri dell'istituto, che permettano una migliore intelligenza del suo carisma. Più l'istituto è secolare, meno legherà i suoi membri a pratiche regolari e obbligatorie, soprattutto comuni. Alcuni istituti secolari prevedono preghiere del mattino e della sera, preghiere quotidiane. Ci si può chiedere se la cosa è utile. È necessario consigliarle ai candidati in formazione? Forse è utile e per alcuni necessario, ma non si dovrebbe fame un obbligo generale per tutti i membri dell'istituto; in alcuni casi, esse possono ostacolare il progresso della preghiera. Il c. 719 § 2 pone l'eucaristia al centro della vita consacrata, e auspica che sia vissuta, se possibile, quotidianamente. La scarsità o mancanza di sacerdoti in paesi di cristianità rende spesso l'assistenza all'eucaristia difficile, se non impossibile, vista la difficoltà di un orario valido per tutti. Una unione spirituale all'eucaristia celebrata e adorata è sempre possibile, anzi, diciamo, è necessaria; dovrebbe essere attuata rinnovando interiormente la consacrazione di vita mediante i consigli evangelici; può consistere in una ripresa meditativa della formula di consacrazione in uso nell'istituto, che si deve auspicare breve e, se possibile, centrata sulla consacrazione di Cristo al Padre suo per la salvezza del mondo ( Gv 17,19 ). In effetti, l'intelligenza stessa di questa consacrazione di vita come consacrazione a Dio e agli uomini, quale la definisce Pio XII, è fonte e forza di ogni vita consacrata, e specialmente di una consacrazione secolare vissuta in un quadro necessariamente più profano. Il § 3 del c. 719 riprende il principio della libertà di coscienza quanto al sacramento della riconciliazione, principio enunciato nel c. 630 § 1. Questo principio è tanto più importante in quanto una coabitazione potrebbe in un modo o nell'altro limitare o ostacolare tale libertà. Limitazione di libertà che non dipende solo dalla disciplina comune di cui parla il c. 630 § 1, ma può essere occasionata da ogni forma di vita fraterna, prevista del resto dal c. 714. Il diritto proprio, in un codice accessorio previsto dal c. 587 § 4, determinerà o suggerirà tutto ciò che attiene alla scelta del confessore. Sarà, se possibile, un sacerdote sperimentato, che conosca le esigenze della vita consacrata secolare, e meglio ancora l'istituto e il suo spirito, la sua presenza al mondo e il valore del lavoro professionale dei suoi membri, lavoro talvolta specializzato, tipico di questo o quell'istituto secolare, ad es. insegnamento, cura dei malati, professorato universitario e altri studi, presenza nella vita politica e nell'amministrazione civile. Alcuni istituti secolari hanno gradualmente segnato, con la scelta e la vocazione della maggioranza dei loro membri, un tratto particolare che è bene conoscere e valutare secondo i criteri della secolarità consacrata. Certi istituti sono in un certo senso ancora più specializzati, riunendo, anche esclusivamente, persone di un certo tipo di vita professionale. Questa scelta può favorire in qualche modo l'unità di spirito nell'istituto e la forza della testimonianza dei suoi membri; dipende dal carisma proprio di ciascun istituto. Il c. 719 § 3 dice con prudenza che la recezione del sacramento della penitenza deve essere regolare. Il c. 664 auspica che sia " frequente ". Sarebbe pericoloso fissare un tempo ben definito, per es. settimanale o mensile. La confessione, essendo l'occasione di una direzione o di un consiglio spirituale, se fatta presso un confessore poco informato, può turbare; in questo senso è meglio evitarla. L'esperienza dimostra d'altra parte che su questo punto vi è facilmente negligenza: le confessioni sono troppo intervallate e possono diventare per questo fatto più difficili. La direzione di coscienza la cui libertà deve essere a tutti i costi assicurata - il c. 719 § 4 riprende un principio fondamentale già espresso nel c. 630 § 1 - è detta " necessaria ", indispensabile. L'osservazione è non solo giusta, ma tanto più opportuna per gli istituti secolari, i cui membri sono più lasciati a se stessi e devono esercitare in pieno mondo un discernimento degli spiriti, per se stessi e per gli altri, che può essere delicato e difficile. Questo solo elemento fa vedere l'attualità di questa norma che, a quanto pare, è sempre valida per ogni vita apostolica, laicale o sacerdotale. Gli istituti secolari non hanno ancora conosciuto gli abusi contro i quali Leone XIII ha dovuto prendere misure severe. Tuttavia, se i loro membri sono invitati a rivolgersi liberamente ai loro responsabili - il termine moderatores deve essere inteso in questo senso, nel contesto - e possono farlo si velint, se vogliono, bisogna però notare che abusi simili a quelli che abbiamo segnalato presso i religiosi, sono possibili per il fatto delle distanze, dei pochi responsabili, del tipo di accompagnamento che esiste in certi istituti, dove candidati e persone in formazione sono affidati individualmente a una persona determinata. Questa pratica presenta dei vantaggi: aumenta la partecipazione dei membri alla vita dell'istituto, ma può anch'essa prescindere dalla competenza di quelli che dirigono o " accompagnano " la persona in questione. I responsabili maggiori sono su questo punto obbligati a una vigilanza reale ed efficace. Raffrontando le norme date per gli istituti secolari con quelle che il Codice enuncia per i religiosi, si rileveranno molti punti di cui almeno il diritto particolare di ogni istituto secolare deve fare menzione. La liturgia delle ore, è esplicitamente menzionata nel c. 663 § 3. Nessuna norma generale e rigida vi è data. Una certa partecipazione alla lode divina della Chiesa può essere auspicabile negli istituii secolari. Il c. 1174 § 1 rimanda agli statuti. Essa è del resto consigliata ai laici ( c. 1174 § 2 ). Tuttavia, un ufficio semplificato e adattato alla vita secolare potrebbe essere non soltanto utile, ma desiderabile. Conosciamo esperimenti del genere. Sono importanti una scelta appropriata a una lettura intelligibile in piena vita secolare, una recita regolare favorita durante tutto un tempo liturgico determinato, letture brevi, facili, ben inserite nel contesto di vita. Il culto della Vergine Maria, inculcato nel c. 663 § 4, non è in alcun modo menzionato nel c. 719. Una norma comune a tutti gli istituti di vita consacrata sarebbe stata utile e auspicabile. Si comprende difficilmente il silenzio del Codice su questo punto nel c. 719. Notiamo del resto che la recita del rosario ricordata ai religiosi, non è menzionata nel c. 276 § 2,3° riguardante i chierici; essa è raccomandata ai seminaristi nel c. 246 § 3. Poiché i chierici, membri di istituti secolari, non cambiano, per il fatto della loro consacrazione, il loro stato canonico ( c. 710 ), sarà opportuno ricordare ai chierici membri di istituti secolari i loro obblighi fondamentali, definiti in questa materia dai cc. 276, 277, 279 e 281. Poiché il diritto di associazione è loro riconosciuto dal c. 278, sarebbe stato auspicabile segnalare in questo canone l'importanza di un istituto secolare per loro stessi e per la fecondità del loro ministero. I consigli evangelici, di cui si è voluta per un momento omettere la menzione nel decreto PO, vi hanno ricevuto un rilievo così notevole, che una affiliazione a un istituto sacerdotale o diaconale sarebbe stata proposta come utile, anzi auspicabile. Può essere utile, a nostro avviso, mettere i canoni riguardanti la vita interiore dei chierici diocesani formati in relazione con quelli che programmeranno la loro formazione in seminario, cioè con i cc. 244-247, dove parecchi punti, inculcati in questa formazione, avrebbero potuto essere conservati nei cc. 276 e 277. Resta infine da notare che il c. 719, se tratta della preghiera, non ha la profondità necessaria in questo àmbito per un istituto di vita consacrata. Il c. 246 prevede per Ì seminaristi una formazione alla pratica dell'orazione mentale che permetterà loro di acquistare lo spirito di orazione e di rafforzare la propria vocazione. Non è cosa che riguardi solo i seminaristi. Il c. 663, da questo punto di vista, è ancora più ricco. Parlando della contemplazione delle verità divine e di unione costante con Dio, esso situa l'orazione mentale, nutrita dalla lectio divina, in una prospettiva più progressiva e più adattata alla vita consacrata. Secondo l'antica tradizione della Chiesa, il passaggio dalla lectio - lettura delle Scritture - alla meditatio, preghiera riflessiva, per arrivare alla preghiera più semplice, profonda, affettiva della oratio, è auspicabile per ogni vita donata a Dio, sia nel sacerdozio che nella vita consacrata. Questa preghiera trova il suo riposo nella contemplatio, alla quale fa allusione il § 1 del c. 663. Un primo punto deve essere notato qui: il c. 673, con il quale ha inizio il capitolo che tratta del lavoro apostolico dei religiosi, mette in rilievo che il loro primo apostolato è la testimonianza di vita, nutrita dalla preghiera e dalla penitenza. Come abbiamo fatto rilevare, l'atto apostolico per eccellenza è in ogni vira consacrata la consacrazione di vita, fatta e vissuta in unione con la consacrazione di Cristo al Padre per la salvezza del mondo. La testimonianza è frutto di questa consacrazione; essa è vivificata dalla preghiera e dalla penitenza. Questa testimonianza degli istituti secolari è la loro ragion d'essere; senza testimonianza minimale, essi non sarebbero " lievito nella pasta ". È vero che la loro preghiera ha un'irradiazione apostolica che può essere universale quanto intensa, grazie a una carità ardente e profondamente vissuta. Quanto alla penitenza, essa è necessaria in ogni vita consacrata; nella secolarità consacrata, essa consiste spesso nell'accettazione di una situazione di riserbo e a prima vista senza influsso, la rinuncia a una attività apostolica più diretta, ma troppo pubblica per mantenere una vera consacrazione secolare. La penitenza qui suggerita avrà le caratteristiche proprie di ogni istituto; può rispondere a una esigenza interiore personale che è bene far conoscere a un direttore di coscienza sperimentato nelle vie di Dio. 11. Ammissione all'Istituto L'ammissione dei membri nell'istituto, a qualunque livello, è riservata ai responsabili maggiori e al loro consiglio, secondo le costituzioni. L'importanza di queste decisioni per la vita degli istituti non ha bisogno di essere dimostrata; essa è messa in rilievo dal c. 642. Una norma generale in proposito sarebbe stata auspicabile. Si sarà anche rilevato che il responsabile, sia generale sia inferiore a lui, come responsabile autonomo o come delegato, agisce con il suo consiglio. La formula esige di essere precisata meglio. Essa sembra indicare un atto collegiale, o almeno supporre un consenso del consiglio, e non un semplice parere. Nel diritto dei religiosi, un maggior rigore sembra richiesto dai cc. 656,3 e 658. Osservando le cose più da vicino, un margine di libertà maggiore lasciata ai responsabili dell'ammissione, favorisce la sua serietà e permette di tener conto di elementi confidenziali, di cui solo i responsabili dispongono, e con i quali devono poter decidere. Dato l'andamento generale di questo c. 720, tutto dipenderà dalle precisazioni date dagli statuti dell'istituto e dagli altri testi del suo diritto proprio, in particolare dal " libro della formazione " che alcuni di essi devono già avere. Certe ammissioni sono più importanti delle altre. Quella che riguarda l'ingresso nel periodo di prova iniziale, quella che ammette ai primi impegni, e quella che ha un carattere definitivo: ammissione agli impegni temporanei consideraci come definitivi, o agli impegni perpetui. Una norma - comune deve essere qui richiamata: può essere ammessa, in forza del c. 597, ogni persona che professi la fede cattolica. È vero che una prescrizione negativa sarebbe stata più radicale: " non possono essere ammesse se non persone che professino la fede cattolica ". Il rilievo è importante, poiché un istituto, di nostra conoscenza, ammette come " mèmbri in senso largo " persone che non sono cattoliche, neppure battezzate, come collaboratori nella loro azione filantropica o culturale; il che dà all'istituto una occasione di far loro conoscere, grazie a questo lavoro comune e a questa amicizia, la fede della Chiesa cattolica. Lo stesso problema esiste per i cristiani di altre professioni di fede, ortodossi o riformati, che potrebbero anch'essi, a un titolo ben definito, essere ammessi a vivere, magari in un gruppo distinto, ma dipendente dal responsabile generale, lo stesso ideale evangelico. Bisogna anche riprendere, per quanto riguarda l'ammissione di nuovi membri, quanto prescrive il medesimo c. 597 a proposito di rettitudine di intenzione, delle qualità richieste dal diritto universale e dell'assenza di impedimenti. Rimandiamo al commento che abbiamo fatto a suo tempo di questo c. 597. Quanto agli impedimenti determinati dal Codice nel c. 721, tre sono stabiliti per la validità dell'ammissione al periodo di prova iniziale. Questi impedimenti sono innanzitutto un'età non inferiore alla maggiore età canonica, che comporta, secondo il c. 97 § 1, diciotto anni compiuti. Il diritto dei religiosi ha stabilito nel c. 643 § 1,1° un'età inferiore, 17 anni compiuti. Una norma generale sarebbe stata più saggia: diciotto anni compiuti oggi permettono in molte nazioni un atto libero, vista la maggiore età civile che spesso non è più di 21 anni, ma di 18 anni compiuti. Il Codice del 1917, nel c. 88, aveva questa stessa norma. Notiamo tuttavia che la norma dell'età minima sarà solo raramente applicata in un istituto di piena secolarità, dove è auspicabile che non siano ammesse se non persone che abbiano già una professione civile assicurata. Nulla impedisce all'istituto di seguire spiritualmente i candidati più giovani, anche ancora studenti, che desiderano un giorno fare la loro domanda di ammissione. Quanto ai chierici, la norma migliore consiste nel non accettare alcun sacerdote o diacono che non sia incardinato nella propria diocesi; ciò che porta il momento dell'ammissione a un'età più avanzata. Il problema si pone diversamente se i chierici membri sono incardinati nell'istituto, cosa che non è auspicabile. Il secondo impedimento è il fatto di essere legato da un vincolo sacro in un istituto di vita consacrata, o di essere incorporato in una società di vita apostolica. Occorre, a quanto pare, rilevare che il c. 643 § 1,3° è più preciso. Esso aggiunge in effetti: " salvo praescripto c. 684 ", che vuoi dire: " a meno che si tratti di un passaggio previsto dal c. 684 per i religiosi ". Perché il Codice non dice qui: " a meno che si tratti di un passaggio previsto nel c. 730 "? Questa sembra essere una negligenza di redazione. Ma vi è di più: l'impedimento non sarebbe vero se non quando il candidato tacesse la sua appartenenza a un istituto o a una società; ma questo è possibile? Un tale impedimento avrebbe dovuto essere meglio ripensato; il Codice del 1917 considerava, nel c. 542,1°, come impedimento il fatto di esser stato legato dalla professione religiosa. L'appartenenza a una società di vita comune non costituiva problema, almeno teoricamente; ma i chierici di queste società erano tuttavia considerati dall'ultimo impedimento di questa prima serie di impedimenti che si oppone a una ammissione valida. Il terzo impedimento previsto dal c. 721 § 1,3°, è un vincolo di matrimonio. Un matrimonio può esser stato dichiarato nullo, il vincolo può esser staio disciolto in forza dei cc. 1142, 1143 e 1149. In caso di divorzio civile, e non essendo più possibile alcuna riconciliazione, un ricorso a Roma è necessario per permettere a uno dei congiunti, di cui si tratta, di entrare in un istituto. La portata degli impedimenti a una ammissione valida al periodo di prova iniziale dovrebbe essere meglio esposta, con cura, negli statuti degli istituti secolari, a meno che un commento serio non illumini questi punti di diritto comune in un testo accessorio del diritto proprio. Quanto a questo diritto proprio, sembra che ogni istituto, approfittando della sua esperienza, possa prevedere impedimenti particolari, anche per la validità dell'ammissione. Il c. 721 § 2 è la trascrizione del c. 643 § 2; esso considera d'altra parte due possibilità: il diritto proprio può determinare impedimenti dai quali può tuttavia dispensare il responsabile generale solo o con il parere o il consenso del suo consiglio; sono queste altrettante misure di prudenza. Il diritto proprio può anche porre condizioni concrete da soddisfare prima dell'ammissione. Queste condizioni sarebbero sempre da osservare prima di ammettere il candidato, soprattutto se esse dipendono da una situazione temporanea, per es., non ammettere qualcuno che non abbia ancora soddisfatto agli obblighi militari, che non abbia terminato gli studi, che abbia obblighi familiari troppo onerosi che impediscano ogni partecipazione alla vita dell'istituto. Resta da vedere se la vita consacrata secolare in sé non ponga le sue esigenze nell'ammissione dei candidati. Con gli anni, le cose si precisano: certe persone, che non sopportano la solitudine di una tale vita, non possono prendere facilmente le decisioni personali che comporta questo ideale, non sono fatte per questo contatto particolare con il mondo che agisce come un lievito, non hanno la facilità di accoglienza e di comprensione dell'altro della quale necessita una presenza di vita consacrata secolare. Il c. 721 § 3 pone un'esigenza particolare che occorre qui considerare. Il principio è valido per ogni vita consacrata; per essere accolto, occorre che il candidato abbia la maturità necessaria per condurre bene la vita propria dell'istituto. Già, parlando delle condizioni che si possono porre all'ammissione anche valida al periodo di prova iniziale, parecchie condizioni rientrano in questa maturità. Il Codice tuttavia, sottolineando questo aspetto, considera certo una maturità psichica ma anche intellettuale, affettiva e spirituale. Pochi istituti hanno messo per iscritto la loro esperienza in questo campo; anche se hanno un libro della formazione, questi punti sono scarsamente messi in rilievo. Essi sono importanti, soprattutto per una vita in pieno mondo, in una società turbata come la nostra e sottoposta a tante pressioni di ogni genere. Il c. 720 è troppo generale per commentarlo tutto intero qui. Preferiamo trattare il ruolo dei responsabili maggiori in rapporto alle diverse tappe del periodo di prova che conducono all'ammissione definitiva nell'istituto, commentando il c. 723. 12. Prova iniziale I periodi di prova preparano alla consacrazione a Dio e agli uomini propria della vita secolare consacrata; essi preparano all'incorporazione nell'istituto. Questa incorporazione conosce tappe successive, tutte orientale verso il dono totale di sé a Dio nell'istituto. La prova iniziale, di cui si parla qui, è quella che prepara ai primi impegni. Forse sarebbe stato più esatto distinguere alcune prove: la prima prova, che consiste in un primo contatto con l'istituto, il quale comporta una informazione seria e una formazione alla preghiera, talvolta anche a una migliore intelligenza della fede, in certi casi una vera catechesi. Questa prima tappa, vissuta in risposta alla chiamala divina, è già, in una persona decisa a rispondere alla vocazione divina, una consacrazione personale, se fa dei consigli evangelici la regola della sua vita. La prima prova permette da una parte una migliore conoscenza delle esigenze della vita consacrata nell'istituto, e dall'altra una migliore informazione dei responsabili. Questa prova deve essere seguita da una persona sperimentata; non può essere iniziata senza l'approvazione di un responsabile maggiore. La seconda prova, cioè il periodo successivo a questa preparazione prima, è chiamata dal Codice " iniziale ". Essa suppone l'ingresso nell'istituto e la partecipazione alla sua vita; per la persona che è in prova, questo periodo deve essere considerato come vita consacrata vissuta secondo gli statuti dell'istituto. Se questo non fosse possibile, gli impegni formali dell'interessato, anche temporanei, non avrebbero il loro pieno significato, né la loro vera portata: non è possibile impegnarsi se non in una vita già conosciuta. L'oggetto di questo secondo periodo consiste nel mettere alla prova la serietà della decisione presa, il valore reale del discernimento della vocazione, la fedeltà alla vocazione divina e la possibilità di rispondervi. Per provare una vocazione, occorre viverla; il periodo di prova non è, un semplice esperimento, che risponderebbe più a una ricerca che a un dono voluto, già fatto; per essere seria, questa prova è un 'sì' a Dio che intende essere reale e vero. I periodi di prova comportano dunque anzitutto l'approfondimento della vita consacrata secolare nell'istituto al quale ci si sente chiamati. Bisogna studiare il suo carisma alla luce del Vangelo, conoscere la dottrina spirituale che ne fa vedere la forza e l'irradiazione, la sua posizione nella Chiesa, il suo carattere apostolico come lievito nella pasta, il suo apporto reale alla vita ecclesiale attraverso la sua partecipazione alla vita familiare, professionale e civile. La prova comporterà così una migliore conoscenza delle esigenze morali che pongono questi diversi aspetti della vita consacrata secolare e della vita degli altri nella quale essa si inserisce. L'ampiezza di tale programma, l'inserimento personale nel mondo, anche durante i periodi di prova, fa comprendere che questa non può essere di breve durata. Il c. 722 § 3 dice che essa non può durare meno di due anni; a dire il vero, questo è un minimo che molti ritengono insufficiente. Gli statuti degli istituti si mostrano più esigenti, e insieme più pazienti. Alcuni istituti non hanno distinto questi due periodi di prova. La prova iniziale comporta l'insieme delle due tappe, spesso per ragioni pratiche, come sono la mancanza di formatori, il piccolo numero dei candidati, un migliore adattamento alle persone. La prova iniziale può essere di tre, quattro, o anche cinque anni. Per essere vera, deve concludersi con l'accordo delle due parti impegnate, responsabili e candidati. Nel timore di ingiustizia o di negligenza, ci si vede costretti a definire un tempo preciso, un numero di anni ben determinato. Una norma saggia sarebbe stata l'accordo di cui parlavamo. Il c. 722 parlava due volte del carisma dell'istituto, sia nel primo che nel secondo paragrafo. Nel § 1 si diceva che la prova iniziale è ordinata a che i candidati conoscano meglio la loro vocazione divina secondo il carisma dell'istituto, e a che siano formati allo spirito e al modo di vita dell'istituto. Il termine exerceantur suppone una formazione forte, stimolata da prove ben determinate. Ciò è tanto più necessario in quanto questa formazione non si da in gruppo e non conosce una vita comunitaria adatta a tale formazione. Per un istituto secolare, imporre un tempo di vita comunitaria non sembra auspicabile: la formazione avviene nella vita corrente e attraverso le sue esigenze e difficoltà. Ecco perché è preferibile che le persone in formazione abbiano già la loro vira professionale ben definita. Nel § 2 si ripeteva la menzione del carisma; il termine è stato sostituito alla fine con " il fine, lo spirito e il carattere proprio dell'istituto ". Abbiamo già chiarito che questa breve enumerazione non include la ricchezza del termine " carisma ", dono dello Spirito, fondamento dell'istituto, norma di vita consacrata e missione ecclesiale. Il § 2 è importante: esso unisce la vita consacrata attraverso i consigli e la sua attuazione completa nell'ambiente nel quale essa è tutta intera apostolato, adottando le forme particolari di evangelizzazione che comporta il carisma dell'istituto. Qui si impone un breve commento. La vita consacrata secolare è un tutto; essa è tanto più unitaria in quanto unifica consacrazione mediante i consigli, vita secondo i consigli e presenza al mondo come mezzo di evangelizzazione. Bisogna tuttavia rilevare che al centro di questa vita vi è un dono a Dio che è apostolato, una fedeltà a Dio che irradia come testimonianza, e che questa testimonianza, silenziosa ma continua, è sempre la prima forma di evangelizzazione dell'ambiente e spesso la forma principale di azione. Tutto dipende dal carisma dell'istituto; quest'ultimo si manifesta spesso attraverso la generosità dei membri che appartengono al gruppo fondatore. Questa trasformazione integrale della vita in apostolato è essenziale a una vita consacrata pienamente secolare; apostolato spesso silenzioso, frutto di un dono che è apostolato per eccellenza, il dono a Dio e agii uomini come consacrazione di vita. Il Codice non parla dei formatori, delle loro qualità e responsabilità, del loro contatto con i responsabili maggiori. Non si impegna nel determinare i mezzi di formazione, né formula ciò che deve essere il frutto di questa formazione per permettere a una persona di consacrarsi in maniera responsabile nell'istituto. Alcuni rilievi, frutto dell'esperienza degli istituti, possono tornare utili. È spesso difficile affidare a una sola persona la formazione dei membri e la loro direzione. Di più, tale formazione si fa per iscritto, con bollettini o fascicoli generalmente ben redatti, dottrinalmente solidi; dopo lo studio dei testi, si chiede una risposta a domande poste; ogni altra domanda permette di illuminare la persona che la pone, ma anche di correggere o di migliorare il cesto stesso, se ha presentato difficoltà. Tutto considerato, questa formazione dottrinale per iscritto è spesso migliore di quella che si da nella vita religiosa, dove le esposizioni e le conferenze spesso non permettono un simile approfondimento personale. La redazione di tali testi si fa sotto la guida di un responsabile generale della formazione, aiutato da altri membri, e anche da esperti che non sono membri dell'istituto ma lo conoscono bene. Oltre a questo primo responsabile della formazione e ai suoi collaboratori, sono possibili degli scambi: una o più persone in formazione sono affidate a un membro dell'istituto, più vicino, più facile da raggiungere, spesso quasi della stessa età della persona che gli è affidata. Certi istituti hanno anche, per ciascuna persona in formazione, un membro dell'istituto designato per aiutarlo e accompagnarlo nel suo cammino spirituale fino alla consacrazione definitiva. Una grande flessibilità nella formazione è richiesta dalle situazioni delle persone, dalle distanze, dalle età diverse, dalle occupazioni professionali e dalle situazioni familiari che devono necessariamente avere un influsso sulla formazione, influsso che questa deve poter assimilare secondo lo spirito dell'istituto. Spesso viene stabilito un programma di formazione che, di mese in mese, permette lo studio e la riflessione di un punto o di un aspetto della vita consacrata nell'istituto. La diversità di questi elementi per se stessa esige una durata maggiore, riunioni se non frequenti almeno regolari e abbastanza distanziate le une dalle altre, per essere fruttuose e vissute in pieno mondo. Nel considerare l'esperienza degli istituti secolari, si può solo restare sorpresi della serietà della loro formazione, ordinariamente assai prolungata, della qualità dei testi di formazione dal punto di vista biblico, teologico e spirituale, del rinnovamento che tale formazione conosce e dell'esperienza che essa raccoglie e assimila, grazie alle domande che pone e alle risposte che suscita. Tutto questo chiarisce già i brevi testi del Codice. In futuro, una legislazione più sfumata potrà, se necessario, far condividere meglio il tutti gli istituti l'esperienza di quelli più antichi o più attenti a questo aspetto della vita consacrata in pieno mondo. 13. Incorporazione e consacrazione Si sarebbe preferito vedere il testo del c. 723 parlare, come fanno la maggior parte degli istituti, della consacrazione di vita che assumono i loro membri alla fine del periodo di prova, e che essi rinnovano regolarmente fino alla consacrazione perpetua, o che continuano a rinnovare, anche quando tali impegni regolarmente ripetuti diventano " definitivi " e assimilano il consacrato al consacrato perpetuo. Al termine della prova iniziale, il candidato è ritenuto in grado di fare la sua consacrazione, o deve abbandonare l'istituto in cui era entrato. Il rilievo del c. 653 § 1 deve essere tenuto presente: " lascerà l'istituto "; esso è del resto supposto nella formula: " con questa pro-va si inizia la vita nell'istituto " ( c. 646 ). Si sarebbe potuto dire la vita consacrata nell'istituto, poiché senza vocazione divina non vi sarebbe consacrazione da parte di Dio alla quale risponde la consacrazione del membro che assume come regola di vita i consigli evangelici. È forse a causa di questa realtà profonda della consacrazione che si è preferito parlare di " incorporazione ". Come vedremo, la vita religiosa soggiace alla stessa difficoltà di terminologia. I tre consigli sono quelli di povertà, di castità e di obbedienza; essi sono assunti e confermati mediante un vincolo sacro. Assunti è divenuto il termine più adatto per spiegare il senso dell'obbligo che comporta la consacrazione. Il termine " professione ", proprio dei religiosi, non si adatta alla vita consacrata secolare, anche se esso fu usato dal Concilio, e anche dall'ultimo titolo previsto per questa parte del Codice, intitolata, come il gruppo di esperti di allora: " La vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici ". Titolo e denominazione oggi felicemente abbreviati, poiché si parla degli " istituti di vita consacrata ", non solo nel linguaggio canonico, ma nella vita corrente della Chiesa. Ciò induce a distinguere diversi aspetti dell'atto posto dal candidato ammesso all'incorporazione. È certo che l'insieme dell'atto posto dal candidato è la sua consacrazione di vita, consacrazione fatta a Dio in risposta alla chiamata divina con la quale Dio consacra a sé colui che si è scelto ed ha unito a sé. Tutti gli altri elementi sono contenuti in questo aspetto globale dell'atto posto in tal modo. Questi elementi sono anzitutto i consigli evangelici assunti come regola di vita nell'istituto, secondo il suo carisma che ne determina la pratica concreta. La consacrazione si fa proprio assumendo i consigli; così essa diviene, per parte di colui che si consacra, un atto filiale che riprende l'atteggiamento di Cristo verso il Padre e verso gli uomini. Atto filiale che è prima di tutto un atto di amore e che trova il suo centro e il suo ambiente vitale nella vita trinitaria nella quale è vissuto e nella quale deve collocarsi. Bisogna rilevare la prevalenza dei consigli sui vincoli sacri mediante i quali viene confermato l'obbligo di viverli. Di più, la materia di tali vincoli è ordinariamente ben determinata, allo scopo di evitare nell'attuazione di questi impegni ogni dubbio e ogni scrupolo. Bisogna dunque notare che l'oggetto dei vincoli sacri non adegua l'ampiezza di ciascun consiglio di fronte a Dio; questa apertura del consiglio a una chiamata sempre più esigente nell'amore, permette di situare nella stessa vita consacrata le vocazioni personali, i doni particolari e i carismi individuali. I vincoli rafforzano in una certa maniera la volontà di seguire i tre consigli ad imitazione di Cristo. Questi vincoli sono " sacri ", poiché fanno parte integrante della consacrazione a Dio che è la sua chiamata, come della consacrazione a Dio che è risposta d'amore alla vocazione divina. I vincoli possono essere diversi secondo gli istituti: sono il voto, la promessa, il giuramento. Si è aggiunta a queste tre specie di vincoli sacri, e senza ben definirne la natura, la " consacrazione ", che sarebbe l'equivalente di una promessa fatta a Dio. Sarebbe meglio non parlare più di questa quarta possibilità, che può suscitare confusione, poiché lo stesso termine designa la consacrazione di vita come impegno globale. Il voto è una promessa fatta a Dio. La promessa non è un voto, ma non è mai una semplice promessa, poiché è fatta " a causa di Dio " che chiama: propter Deum, per Dio che si onora accogliendo la vocazione e al quale si testimonia il proprio amore. Dire che voto e promessa sono una stessa cosa è falso! È vero che l'essenziale è la promessa fatta a conferma del consiglio evangelico, preso come mezzo di consacrazione e regola di vita secondo il carisma dell'istituto, quale è dichiarato negli statuti dell'istituto stesso. Il giuramento è una conferma della promessa, e chiama Dio come testimone della sua verità e della fedeltà promessa. Vedendo così le cose, si può dire che tale voto non comporta la qualifica di " religioso ", come è vissuto nella vita religiosa. Assai giustamente il c. 731, per liberare le società di vita apostolica, parla di " voto non-religioso ", e questo anche per le società i cui membri pronunciano voti. Per gli istituti secolari si dovrebbe dire che, se hanno voti, questi sono " secolari ", vissuti in una vita secolare, vita consacrata in pieno mondo. Si può e si deve dunque dire che non è più perfetto promettere la pratica dei consigli con voto. Si comprende come certi istituti, per evitare dubbi e scrupoli, abbiano preferito la promessa al voto. Il voto occasiona un doppio peccato, uno contro la materia del voto, l'altro contro la virtù di religione. Ciò rende spesso la pratica del voto difficile per alcuni religiosi che non arrivano a vivere fedelmente i consigli, e farebbero meglio a non restare nel loro istituto, in cui l'osservanza dei voti diventa per essi troppo pesante e così penosa, a meno che si possa, in materia di castità, scoprirvi una responsabilità attenuata, una difficoltà più fisica che morale. Il Codice non ha ripreso l'esigenza posta dalla Lex peculiari! promulgata dalla costituzione apostolica Provida Mater Ecclesia del 1947, dove si richiedeva il voto per obbligarsi alla castità consacrata. Questa esigenza non aveva alcun fondamento dottrinale serio; appariva come una garanzia di fedeltà e di serietà. La castità perfetta è un consiglio come gli altri due: tutti e tre formano un unico atteggiamento di amore filiale verso il Padre di Gesù, atteggiamento vissuto in unione con lui, nella e attraverso la sua consacrazione a Dio per la salvezza del mondo. Un errore si dovrà evitare: quello che consisterebbe nel ritenere che la promessa, mentre è un obbligo di fedeltà, non imponga mai un obbligo grave. Se è vero che una colpa grave contro uno dei consigli non è per sé un peccato grave contro la fedeltà promessa, come vi è peccato grave in forza del voto contro la virtù di religione, è certo che può essere colpa grave una infedeltà nel vivere la promessa, che avrebbe messo o metterebbe in pericolo la vocazione divina che si è ricevuta e voluto vivere. Tutto questo ci permette di enumerare i diversi elementi della consacrazione di vita mediante i consigli evangelici assunti come regola o norma di vita, secondo il carisma dell'istituto, quale lo comprendono gli statuti approvati dall'autorità della Chiesa. L'atto centrale e globale è la consacrazione della vita per mezzo dei consigli evangelici. Questi consigli sono vissuti secondo il carisma dell'istituto. Vi è dunque in questa consacrazione di vita una consacrazione divina operata da Dio, una consacrazione a Dio come risposta alla sua chiamata, una fedeltà ai carisma come dono fatto da Dio alla Chiesa nell'istituto. Ciò giustifica e fonda l'incorporazione nell'istituto, che avviene gradualmente attraverso vincoli sacri di durata temporanea, ma sempre da rinnovare, fino a diventare definitiva dopo un certo numero di anni, o per incorporazione perpetua fino alla morte, che permetterà un dono di amore totale ed eterno a Dio. L'incorporazione è inserimento nella vita dell'istituto: essa rende ciascun membro responsabile della vita, della missione, della fedeltà dell'istituto; è partecipazione alla sua vita, atto di unione che stabilizza i mèmbri nella loro vocazione e nella vita dell'istituto, nella sua consacrazione e nella sua missione particolari. Resta da chiarire come si concepiscono le tre forme di incorporazione di cui parla il c. 723, che distingue una prima incorporazione, una incorporazione perpetua, una incorporazione definitiva con impegni temporanei ma da rinnovarsi. La prima incorporazione si fa con la consacrazione di vita che segue la prova iniziale, o la seconda prova. Essa ha come durata richiesta dal Codice cinque anni almeno. Ciò non significa che la consacrazione si faccia direttamente per cinque anni: può essere annuale, per cinque anni, il che permette un approfondimento dell'atto posto; può anche essere annuale per due o tre anni, e poi triennale o biennale, fino al momento in cui si fa l'impegno perpetuo. Certi istituti hanno previsto più di cinque anni di impegno temporaneo, e prolungano questi impegni fino a una certa età, 40 o 45 anni, sperando così una maggiore stabilità di vita e di azione in pieno mondo. L'incorporazione perpetua è fatta una volta per sempre, per tutta la vita; essa vincola fino alla morte, che permetterà di entrare nell'eternità di Dio. Abbiamo già considerato il carattere escatologico di questo atto di consacrazione. L'incorporazione è definitiva dopo un certo numero di anni o di rinnovamento degli impegni temporanei. Può essere definitiva dopo 10 o 15 anni di incorporazione; può essere determinata dal rinnovamento portato a 15 o anche a 20 rinnovamenti annuali. Questa incorporazione definitiva comporta il riconoscimento di certi diritti e doveri, di certi effetti o capacità canoniche, come la possibilità di esser designato responsabile dell'istituto o responsabile della formazione: tali effetti giuridici devono essere previsti e definiti nelle costituzioni o statuti dell'istituto. L'incorporazione definitiva è richiesta dal c. 717 § 2 per l'elezione del responsabile generale; esigenza simile a quelle dei cc. 623 e 735. Questi canoni esigono tuttavia un'età più avanzata, o almeno più anni di professione perpetua o di impegno definitivo, cosa che non si esige dagli istituti secolari. La ragione di questo silenzio si trova nell'età più tardiva richiesta per l'ammissione nell'istituto, come nella durata più protratta degli impegni temporanei che precedono la consacrazione perpetua, o quella che è considerata come definitiva. Notiamo ancora che parlando di consacrazione temporanea, definitiva e perpetua, si rischia di perdere il senso profondo del dono di Dio nella chiamata, dono al quale si risponde accettando tale chiamata ed entrando nell'istituto, e che si riprende e si conferma negli impegni successivi. Tuttavia, rispondendo a Dio, anche prima dell'ingresso nell'istituto, ci si può considerare in coscienza consacrati a Dio per sempre, forti della sua grazia e del suo amore. 14. Formazione continua Il c. 724 prevede la formazione necessaria dopo gli impegni. Essa può essere di un genere particolare fino alla consacrazione perpetua o definitiva; gli statuti ne determinano l'oggetto, il metodo e i responsabili. Può comprendere studi dottrinali più avanzati, corsi di esegesi, di teologia o di spiritualità. Questi corsi possono essere seguiti per corrispondenza; se sono organizzati dall'istituto, questo potrà ricorrere a persone di sua scelta. In tal modo si può prevedere una formazione continua e rispondere al desiderio del Concilio, espresso in PC e ripreso al § 2 di questo c. 724: " I membri devono essere preparati di pari passo tanto nelle scienze umane quanto in quelle divine; i responsabili dell'istituto sentano seriamente la responsabilità della loro continua formazione spirituale ". Bisogna tuttavia far rilevare certe sfumature del testo conciliare che non sono riprese da questo canone, redatto in maniera troppo giuridica. Il Concilio chiedeva una formazione seria, tanto nelle cose divine che in quelle umane. Il motivo indicato è rivelatore; altrimenti gli istituti non saranno in grado di svolgere la propria missione. Questa duplice formazione - teologica e umana - deve essere molto unificata, e il Concilio ne dà la ragione profonda che resta, a dire il vero, una norma sia per la scelta delle materie che per il metodo da seguire: l'unione tra natura e grazia permetterà ai membri di essere lievito nella pasta, fermento nel mondo, forza per la Chiesa e mezzo per essa di crescere e di diffondersi. Una teologia delle realtà terrene e una conoscenza seria della morale cristiana sono di grande importanza in una vita consacrata secolare. Il § 2 del c. 724 sposta certi accenti che sarebbe stato utile conservare: " I responsabili - dice il Concilio - avranno grande cura della formazione soprattutto spirituale dei membri dell'istituto ", e dunque anche della loro formazione umana, tecnica e professionale, e della loro formazione ulteriore, quella che continua dopo i periodi di formazione. La formazione spirituale terrà conto dell'evoluzione della vita di preghiera, permetterà una migliore conoscenza dei misteri divini, allargherà il campo di visione, spesso ristretto da una formazione scolastica, soprattutto nei giovani, metterà l'accento sui valori di esperienza e sulla pratica di un vero discernimento spirituale per riconoscere più facilmente il lavoro della grazia nella vita personale come in quella degli altri, e particolarmente nel contatto apostolico. Questo discernimento nella presenza al mondo meriterebbe una riflessione nuova, seria e approfondita, adattata alla missione propria degli istituti secolari. Come avevamo suggerito, il testo del c. 724 deve essere interpretato e completato con le norme conciliari dell' art. 11 di PC. Nel frattempo, il lavoro e l'esperienza degli istituti saranno per tutti fonte di ispirazione e riveleranno l'importanza della missione particolare della vita consacrata in pieno mondo e gli effetti di questa presenza sul mondo nel quale si collocano i membri di questi istituti. 15. Membri in senso lato Il c. 725 non figurava tra i canoni del progettò presentato alla discussione del gruppo di esperti della commissione di codificazione. Questa assenza suscitò sorpresa; la legislazione doveva tener conto dei fatti e della realtà vissuta dagli istituii. Tuttavia, nei documenti ufficiali di approvazione, sia nella costituzione Provida Mater Ecclesia del 1947, che nel motu proprio Primo feliciter che la seguì nel 1948, non si fa menzione dei membri in senso largo. Ci si può chiedere perché; la domanda è importante, e oggi si vede che essa tocca assai da vicino il valore e la serietà della secolarità consacrata, propria degli istituti secolari Perché questo silenzio nei documenti fondatori? L'attenzione dei legislatori si è certo rivolta dapprima all'essenziale: il senso della secolarità consacrata; inoltre, sull'esempio degli istituti religiosi, i membri in senso largo - se si considerano tali i fedeli che hanno contatti con essi, approfittano dei loro ministeri o si ispirano alla loro spiritualità - non fanno propriamente parte dell'istituto. Si può ricordare qui l'oblatura benedettina, i terz'ordini, uno dei quali è oggi chiamato " ordine secolare francescano ", le congregazioni mariane o i cooperatori salesiani della famiglia di don Bosco. Bisognerebbe d'altra parte sfumare questa constatazione, e vedere quali furono le intenzioni del fondatore. Quest'ultimo non ha sempre potuto attuare ciò che resta, malgrado tutto, il suo progetto primario e la piena espressione del suo carisma. Il Codice considera nel c. 677 § 2 questi associati come l'oggetto di un apostolato svoltò dall'istituto, e si esprime in questo stesso senso nel c. 303. Ma nell'istruzione Cum sanctissimus, che seguì da vicino la pubblicazione del motu proprio Primo feliciter, per la prima volta sono nominati i membri in senso largo. D'altra parte, il primo istituto approvato come secolare - e considerato modello degli altri - aveva parecchie categorie di mèmbri in senso largo; non tutti, però, soprattutto i non battezzati, corrisponderebbero alla norma del c. 725 che parla di ricerca della perfezione cristiana e di partecipazione alla missione dell'istituto. Oggi il problema si pone diversamente. Gli istituti di stretta secolarità non hanno membri in senso largo. Quelli che hanno un azione comune, specializzata, hanno più facilmente questa forma di associazione: essa raggruppa dei fedeli che desiderano ispirarsi alla loro spiritualità e partecipare alla loro azione apostolica, fosse pure una presenza cristiana fervente vissuta in pieno mondo. Al tempo in cui apparve l'istruzione Cum sanctissimus si potevano distinguere molti gradi di partecipazione. Alcuni membri in senso largo assumevano un impegno di castità perfetta alla maniera delle vergini consacrate; altri si obbligavano a vivere in più i consigli di obbedienza e di povertà secondo il loro stato; infine certi cristiani desideravano vivere la loro vita coniugale nello spirito dei consigli e alcuni coniugi promettevano a un certo momento di vivere la verginità nel matrimonio, e si obbligavano a vivere i tre consigli nella loro famiglia. Restava infine il caso di una partecipazione alla vita attiva dell'istituto sul piano filantropico, sociale, culturale, da parte di non - cattolici o di non - cristiani, considerati, anch'essi, come facenti parte della stessa istituzione. Di fronte a tali allargamenti della vita consacrata in un medesimo istituto secolare, si può solo costatare che queste forme di vita cristiana istituzionalizzata in vista della perfezione cristiana e di una partecipazione organizzata alle opere di apostolato dell'istituto, si raggruppano oggi sotto la forma di " movimenti ecclesiali ", o potrebbero per convenzione o contratto unirsi a una prelatura personale, come prevede il c. 295. Una simile evoluzione può verificarsi partendo da un istituto secolare laicale o misto, e anche partendo da un istituto di fondazione unicamente sacerdotale. Questa somiglianza con i movimenti ecclesiali pone un problema: di fatto l'azione di tali istituti secolari si afferma necessariamente in modo più visibile, diventa pubblica; essa fa conoscere l'istituto, ma lo priva della sua stretta secolarità e cambia la sua struttura. In certi casi, ci si può chiedere se questo corrisponde veramente alle intenzioni del fondatore. Riflettendo su tutto ciò, gli istituti preoccupati della vera secolarità escludono questa espansione della loro vita a gruppi di persone di cui devono essere responsabili, e che devono organizzare, seguire, aiutare. È certo che l'esistenza di questi gruppi in alcuni istituti è stata all'origine del testo Cum sanctissimus. Uno di questi istituti si dichiara ormai " movimento ecclesiale "; un altro è diventato prelatura personale. Il problema dei membri in senso largo consiste nel riconoscere il valore delle diverse vocazioni. All'inizio, certi movimenti ecclesiali, non sapendo come ottenere una approvazione diocesana, o anche più generale da Roma, si rivolsero alla Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari. La soluzione proposta non può affatto soddisfare: un gruppo di persone che vivono la vita consacrata nel mondo sarebbe stato riconosciuto come gruppo centrale, costituito da membri in senso stretto dell'istituto, che vivessero i tre consigli evangelici; gli altri sarebbero stati considerati come membri in senso largo. Come dichiarava un fondatore, non era possibile fare una simile distinzione; tutti i membri vivono di uno stesso spirito, ciascuno secondo la propria vocazione e formando gruppo con quelli che sono della stessa condizione canonica e dello stesso stato ecclesiale. Si prevedeva un gruppo sacerdotale, un gruppo di seminaristi, un gruppo di laici che vivono i consigli evangelici, uomini e donne, un gruppo più largo di persone che vivono il Vangelo secondo il loro stato e hanno come missione una stessa testimonianza secondo lo spirito della fondazione. La distinzione dei membri in senso stretto e in senso largo non poteva essere accettata: essa sembrava sminuire la vocazione di questi ultimi. In questa stessa prospettiva i membri in senso stretto avrebbero avuto la direzione e la responsabilità dei gruppi di membri in senso largo. Anche questa soluzione è stata rifiutata; ogni gruppo aveva i propri responsabili, che, come membri del gruppo, conoscevano meglio la vita, i problemi e l'azione delle persone che si riunivano per vivere un medesimo carisma. La stessa distinzione tra membri in senso stretto e in senso largo è stata, per un altro raggruppamento, non solo inapplicabile ma disastrosa. Un movimento di pietà aveva già riunito un gran numero di persone, quando alcuni vollero costituire un gruppo ristretto più fervente che si riconobbe come l'equivalente di un istituto secolare. La sua presenza sarebbe stata discreta; essa poteva formare come il cuore del movimento in estensione. Al momento in cui il gruppo ristretto che voleva vivere la vita consacrata mediante i consigli si presentò per essere approvato, ebbe come un rovesciamento di strutture. I membri dell'associazione, che ignoravano ancora l'esistenza del gruppo di vita consacrata che si era formata nel loro seno, si videro dichiarati membri in senso largo. Fu la distruzione dell'associazione e la perdita della sua unita. Il gruppo conobbe delle dissidenze che non poterono più essere superate. Questi fatti dimostrano che già si preparava nella Chiesa un nuovo genere di associazione di tipo ecclesiale, che vive il mistero della Chiesa e rispetta, in un movimento unico, la varietà delle vocazioni e degli stati di vita. Un solo spirito è l'anima di questa nuova forma di vita. La vita consacrata vi ha il suo posto, riunendo chierici, laici, uomini e donne in gruppi distinti, come riunisce seminaristi, giovani e famiglie, sposi e figli. Numerosi ormai sono questi movimenti che cercano come farsi approvare. È vero che non si vede per il momento quale dicastero romano potrebbe essere competente per farlo, considerato che le competenze sono ripartite per stati di vita o per ministero: Congregazione dei vescovi, Congregazione per il clero, Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari. Solo la Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli avrebbe una tale competenza, ma essa potrebbe approvare soltanto un movimento che corrisponda alla sua finalità: lavoro missionario e aiuto alle missioni. Tutta questa evoluzione provocherà una migliore presa di coscienza della vocazione specifica degli istituti di piena secolarità. Gli istituti secolari sono stati, all'inizio almeno, troppo identificati in rapporto agli istituti religiosi, e connotati in modo negativo: mancanza di professione pubblica dei consigli, di vita comune, di abito proprio, di opere comuni. Quest'ultimo punto fu del resto meno determinante per dare o rifiutare le approvazioni chieste. Devono ancora essere meglio definiti dei criteri positivi di secolarità: nessun documento ufficiale li ha fino ad ora stabiliti. Questa situazione non può essere che intermedia. Si può prevedere che a breve termine certi istituti riprenderanno come più caratteristica la loro approvazione primitiva; alcuni ridiventeranno una semplice associazione di fedeli, altri si faranno riconoscere come " movimento ecclesiale ", altri ancora diventeranno forse una prelatura personale. Quest'ultima forma associativa è essenzialmente clericale; essa non può dare a ciascuna vocazione la propria fisionomia nell'insieme. La cosa sarebbe stata possibile, se questa prelatura fosse stata considerata come chiesa particolare; esiste il pericolo che essa lo sia di fatto, se non di diritto. Essa otterrebbe così la più intensa espressione di una esenzione piena, più ampia e più forte di quella degli ordini religiosi prima del Concilio di Trento. 16. Separazione dall'Istituto Una legislazione in questa materia è necessaria: per ogni forma di istituzione o di associazione occorre prevedere una uscita libera prima dell'impegno o, se questo è temporaneo, durante questo o alla fine della sua durata. Può accadere che i responsabili ritengano un rinnovamento dell'impegno non opportuno per il bene della persona o per quello del gruppo, o per il bene di entrambe le parti; questa decisione può essere considerata come una esclusione ed è auspicabile che essa sia presa, se possibile, di comune accordo. Se gli impegni sono definitivi o perpetui, possono di nuovo presentarsi due possibilità: la persona così impegnata pensa di dover lasciare il gruppo per motivi superiori e seri, o l'istituto può, per gravi ragioni e dopo avvertimenti debitamente espressi, decidere di non tenere più questo membro tra il gruppo; in questo caso, la partenza per motivi gravi è una dimissione, una uscita imposta. In ogni diritto associativo si devono prevedere situazioni simili e prevenire le ingiustizie; i diritti delle persone devono essere salvaguardati, come quelli dell'associazione. Di qui la necessità di norme generali in proposito nel diritto ecclesiale; norme che vanno riprese negli statuti, ma in maniera tale da essere applicate secondo lo spirito proprio dell'associazione o dell'istituto. Una semplice ripresa testuale dei canoni è segno di debolezza. Si possono presentare tre situazioni: la prima riguarda il passaggio da un istituto a un altro; e fu sempre trattata in primo luogo. In tale caso si conservava la vita consacrata, ma cambiava l'appartenenza all'istituto. Questa visione delle cose sembra oggi troppo formale, se si riflette all'importanza del carisma proprio di ciascun istituto. Casi simili devono essere trattati con estrema prudenza. Il secondo punto riguarda un tempo di riflessione e la possibilità di una presa di distanza, in vista di un migliore discernimento. In una vita di clausura si parla di " esclaustrazione "; sarebbe più opportuno parlare di " esonero temporaneo "; alcuni preferiscono parlare di " liberazione dagli oneri ". Questa situazione deve essere prevista in tutti gli istituti. Infine, un terzo punto è la dimissione diretta per causa di scandalo, senza che si debba conservare un legame con la persona che è veramente colpevole dei fatti o di atteggiamenti scandalosi. Questa norma deve essere prevista: la sua applicazione potrebbe facilmente essere ingiusta. Ogni legislazione particolare considererà necessariamente la situazione della persona separata dall'istituto o dall'associazione. Visto l'aspetto comune di una tale legislazione, si sarebbe potuto trattare tali questioni tra le norme comuni a istituti, società o associazioni. La legislazione degli istituti secolari e delle società di vita comune nel Codice attuale rimanda ai canoni che trattano queste materie nella parte che riguarda i religiosi. È ovvio che tali norme sono valide per ogni associazione, e più specialmente per quelle che desiderano essere riconosciute come istituti di vita consacrata. Quanto alle nuove forme di vita consacrata, anch'esse dovrebbero ispirarsi a queste norme comuni, frutto dell'esperienza della Chiesa. a. Passaggio a un altro istituto Il passaggio da un istituto secolare a un altro, previsto nel c. 730, si fa secondo le norme date per i religiosi nei cc. 684 S§ 1, 2 e 4, e 685. Il passaggio si fa con il consenso dei due responsabili generali e con il consenso del loro consiglio; ciò vuol dire che questo permesso non può essere dato da altri superiori, essendo qui determinanti i consigli. Quanto al tempo di prova prima dell'impegno perpetuo nel nuovo istituto, esso è obbligatoriamente di tre anni; può però essere di una durata più lunga - il che è da consigliare per gli istituti secolari - considerati i termini del canone che parlano dei tre anni come di un minimo. Che fare se colui che chiede questo passaggio è considerato come impegnato definitivamente nell'istituto che vuol lasciare? La prova sarà della stessa durata; ma l'impegno preso, se è annuale, è definitivo? La risposta affermativa può essere sostenuta, ma fa comprendere tutto ciò che vi è di aleatorio in queste specie di passaggi. In effetti, il canone suggerisce una decisione importante: se la persona non decide di integrarsi nel nuovo istituto, deve rientrare in quello che ha lasciato, a meno che non ottenga " indulto di secolarizzazione ", dice il c. 684 § 2; indulto che dispensa da ogni impegno. Esso non può, in un istituto secolare, essere detto " indulto di secolarizzazione "; questa terminologia è propria dei religiosi; sarebbe meglio parlare di " dispensa dagli impegni ". Come prevede il c. 684 § 3, la durata e la natura del periodo di prova da fare prima di ogni impegno in un nuovo istituto devono essere determinate dal diritto proprio. Gli istituti secolari prolungheranno normalmente questo tempo di prova, anche al di là di cinque anni, durata minima secondo il c. 732 § 2 prima dell'impegno perpetuo nel nuovo istituto o dell'impegno definitivo, che, per prudenza, esige una durata più lunga di rinnovamento di impegno, prima che questo diventi definitivo. Si dovrà esigere una durata maggiore del periodo di prova, se il nuovo istituto non ha impegno perpetuo? Sembra che una risposta affermativa sia la migliore. Non si può dire che la norma di diritto, quale si esprime concretamente nel c. 684 § 4, sia applicabile agli istituti secolari; tale norma fu concepita per istituti religiosi che abitualmente dopo tre anni di voti temporanei possono ammettere alla professione perpetua. L'applicazione del c. 685 non presenta difficoltà. Durante la prova nel nuovo istituto, sono sospesi i diritti e doveri che il religioso aveva nel precedente istituto; questi sono soppressi dall'impegno nel nuovo istituto, impegno che si esprime in una consacrazione nuova a Dio e agli uomini e con l'incorporazione piena nel nuovo istituto. Per dire il vero, ogni passaggio pone dei problemi. Si comprende che certi istituti, solleciti del proprio spirito, vi si oppongano, e rifiutino nel loro diritto proprio ogni passaggio; è norma di saggezza. Che fare in questo caso delle persone che lasciano l'istituto e desiderano una vera consacrazione a Dio nel mondo? Il c. 604 permette loro una simile consacrazione, tanto pia adattata al loro caso in quanto è individuale. Rimane da segnalare la norma in materia di passaggio da un istituto secolare a un istituto religioso o a una società di vita apostolica. Questi passaggi sono riservati alla Santa Sede, restrizione che però non era necessaria. Agli istituti considerare il da farsi. Del resto, un ricorso imposto alla Santa Sede non è sempre una buona soluzione; in effetti la persona di cui si tratta rimane sconosciuta a quelli che devono decidere tale passaggio. Un contatto personale è sempre importante, e comporta talvolta diversi incontri. Perché questa restrizione? Essa risponde a una difficoltà reale, cioè che quelli che passano da un istituto religioso a un istituto secolare, dopo un certo tempo, desiderano vivere nell'istituto secolare ciò che costituiva elemento significativo della loro vita religiosa, la vita comunitaria. Il loro influsso può essere deleterio per la secolarità di un istituto secolare. È vero che la difficoltà è la stessa, se si tratta di una persona che passa da un istituto secolare che aveva una vita fraterna in coabitazione a un istituto di stretta secolarità: il che dimostra la debolezza di questa riserva fatta alla Santa Sede. Come dicevamo, questi passaggi da una vita comunitaria a una vita necessariamente individuale in piena secolarità sono sempre da sconsigliare; essi comportano difficoltà che neppure un intervento della Santa Sede può eliminare. Ovviamente, un passaggio non potrebbe essere concesso, neppure dall'autorità superiore, contro le norme del diritto proprio di un istituto che vi si oppongano per principio, e facciano dell'appartenenza precedente di un tale candidato un impedimento insormontabile che invalida l'ammissione. b. Uscita dall'istituto Il c. 726 prevede tre forme di uscita per i membri, impegnati temporaneamente: il c. 727 prevede l'uscita di un membro impegnato da vincoli perpetui. Dobbiamo inoltre esaminare come applicare questa legislazione al caso in cui il membro è impegnato da vincoli temporanei considerati come definitivi. Il primo caso è quello della uscita libera alla scadenza degli impegni temporanei. A una lettura del canone, la cosa appare facile, accettabile; il c. 688 § 1 è dello stesso tenore. Nel diritto proprio, bisognerebbe far rilevare il pericolo di illusione, tanto più frequente in quanto all'inizio, dopo un periodo di prova senza grandi difficoltà, la vita reale comporta delle crisi da superare, ma che non sono segni di non-vocazione; anzi, spesso si deve costatare il contrario. Un discernimento è normalmente necessario e obbligatorio; è consigliabile che sia fatto con l'aiuto di persona di esperienza, che sia membro dell'istituto, o lo conosca bene e gli sia favorevole. L'uscita può essere resa obbligatoria, se non viene concesso il rinnovamento degli impegni temporanei: questo rifiuto è praticamente una esclusione. Sarebbe opportuno che avvenisse di comune accordo; il che non accade sempre. Perché la decisione sia più motivata, è utile che gli statuti determinino certi motivi di rifiuto, come l'assenza regolare e non sufficientemente motivata dalle riunioni, specialmente da quelle destinate alla formazione dei membri con vincoli temporanei; o la mancanza di riserbo nella maniera di vivere la secolarità consacrata, e in rapporto alla appartenenza all'istituto; o una cattiva scelta professionale, o attività apostoliche nocive alla secolarità consacrata, non solo personale, ma dell'intero gruppo. Altri motivi specifici possono essere indicati, se l'esperienza dell'istituto ne dimostra la gravita e l'influsso negativo sulla vita dei membri. La terza forma di uscita suppone una decisione del responsabile generale dell'istituto, per rispondere al desiderio di lasciare l'istituto, espresso da un membro impegnato con vincoli temporanei. Per concedere l'indulto di uscita, occorre il consenso del consiglio generale. Il Codice mette in rilievo la gravita della causa di questa domanda. Questi motivi dovranno essere, sembra, altrettanto gravi di quelli che può avere un membro impegnato per non rinnovare il proprio impegno temporaneo: questo nel caso di uscita libera, considerato sopra come primo caso di uscita. Che dire, se un membro non rinnova i suoi impegni temporanei, mentre questi sono considerati " definitivi "? Non si dovrebbe prevedere che una simile decisione sia presa soltanto dopo aver consultato il responsabile generale? È necessario, nel diritto proprio, prevedere il consenso o almeno il parere del consiglio generale? Se gli impegni sono " definitivi ", sembra che queste condizioni possano essere poste dal diritto proprio. Sono esse efficaci? Sì, nel senso che pongono l'accento sulla decisione da prendere e sull'importanza delle sue conseguenze; no, in effetti, in quanto non possono impedire che il membro non rinnovi i suoi impegni temporanei. Questi impegni " definitivi " restano d'altra parte temporanei, per salvaguardare tale libertà dei membri, che deve essere tanto più rispettata quanto più l'istituto non sia ancora riuscito a esprimere chiaramente il proprio carisma, e l'autorità competente, particolarmente quella diocesana, non si mostri abbastanza rispettosa dell'identità di questi istituti di fondazione recente. Vista l'importanza della secolarità e del riserbo, anzi del segreto che essa comporta, è utile che un responsabile generale possa agire da solo, in tutta coscienza, per approvare o permettere una simile uscita dall'istituto, che include la dispensa dagli impegni e sopprime questo vincolo con l'istituto, considerato come definitivo. L'uscita di un membro che abbia assunto impegni perpetui, anche dietro sua richiesta, è più grave. Il Codice mette in rilievo tale gravita chiedendo che la cosa sia seriamente considerata davanti al Signore, nella preghiera e in un discernimento spirituale serio, fatto chiedendo consiglio a persone competenti, nell'istituto o fuori di esso. Una simile consultazione può essere consigliata dal diritto proprio; può anche essere imposta? Sì, ma questo obbligo è efficace solo se la persona interessata è di buona volontà e vuole veramente restare fedele a Dio; ciò che non si verifica sempre. Vista la gravita dell'indulto di uscita, che comporta la piena dispensa dagli impegni spirituali e la perdita di tutti i diritti nell'istituto, come recita il c. 728, questo indulto di uscita è riservato alla Santa Sede, se l'istituto è di diritto pontificio; esso può essere ottenuto anche dal vescovo diocesano, se l'istituto è di diritto diocesano. L'etiam del testo latino è importante: per motivo di discrezione, questo indulto può anche essere ottenuto dalla Santa Sede. Tale ricorso deve essere consigliato, se si vuole salvaguardare il pieno riserbo. Non si vede veramente perché si dovrebbe far conoscere il nome di una persona che lascia l'istituto, se la sua partecipazione all'istituto è normalmente sconosciuta al vescovo, per conservare una piena secolarità. Come abbiamo detto sopra, sarebbe comprensibile che questi indulti fossero dati in ogni caso dal responsabile generale; in caso di vincoli perpetui, sarebbero da dispensare dallo stesso responsabile generale con il consenso del suo consiglio. E anche quest'ultima restrizione può essere messa in discussione: tutti i membri sono veramente conosciuti dal consiglio, se l'istituto è numeroso ed esteso in parecchie nazioni o continenti? Si comprende che certi istituti abbiano ottenuto su questo punto una autonomia assai estesa. Se vi è abuso, è sempre possibile un ricorso. Riservare la concessione dell'indulto all'autorità ecclesiale non è, come si vede, la soluzione migliore. In sintesi, secondo il diritto attuale l'indulto è concesso dalla Santa Sede se l'istituto è di diritto pontificio, a meno che gli statuti approvati abbiano ottenuto una maggiore autonomia. Se l'istituto è di diritto diocesano, l'indulto può essere concesso dal vescovo del luogo dove risiede la persona che lo domanda; il diritto proprio potrebbe riservare questi indulti al vescovo di fondazione o della sede principale dell'istituto. Per sollecitudine di riserbo, il Codice prevede tuttavia che questo indulto possa ugualmente essere ottenuto dalla Santa Sede. Questa determinazione era necessaria per mantenere la discrezione richiesta dalla secolarità consacrata. A nostro avviso, è sempre più riservato rivolgersi alla Santa Sede. c. Dimissione La legislazione riguardante gli istituti secolari segue da vicino ciò che è stato determinato per gli istituti religiosi nei cc. 694-695; rimandiamo perciò al commento che ne abbiamo fatto a suo luogo. Il c. 696 richiedeva un adattamento alla secolarità consacrata. Parecchi motivi di dimissione sono propri degli istituti religiosi, come l'assenza illegittima dalla casa religiosa prolungata per sei mesi. Le altre cause di dimissione si applicano ugualmente ai religiosi e agli istituti secolari. Cause meno gravi possono motivare la dimissione di un membro legato da impegni temporanei, a meno che questi non siano " definitivi " e pongano il membro definitivamente incorporato nella posizione di un membro di consacrazione perpetua. Questi motivi devono essere stabiliti dal diritto proprio, dunque non necessariamente dagli statuti o dalle costituzioni. Quanto alla maniera di procedere in caso di dimissione, il Codice applica agli istituti secolari la stessa procedura prevista per gli istituti religiosi. Tale procedura è nuova, e ha certo il vantaggio di rispettare al meglio i diritti delle persone, come quelli dell'istituto. Bisogna tuttavia considerare se tali procedure sono facilmente applicabili agli istituti secolari. Alcuni punti dovranno essere attentamente vagliati, per es. se il superiore maggiore di cui parla il c. 697 non sarebbe piuttosto il responsabile generale; quest'ultimo sarà il solo competente, se l'istituto non è strutturato in province come previsto nel c. 581. Tali strutture inferiori sono più flessibili in certi istituti secolari, e per questo fatto i loro responsabili non possono essere considerati come equivalenti del superiore maggiore di un istituto religioso. La conferma del decreto di dimissione da parte della Santa Sede è una esigenza che non era prevista nel progetto del 1980. La procedura è tanto più difficile, per un istituto secolare, quando questo non abbia un membro residente a Roma, e non preveda un procuratore presso la Congregazione competente. Quanto alla conferma prevista da parte del vescovo diocesano del domicilio della persona da dimettere, bisognerà applicare, a nostro avviso, la stessa riserva che comporta il c. 727, che permette, per motivi di riserbo, di trattare direttamente con la Congregazione romana competente. L'applicazione del c. 701 è un principio generale; sarebbe stato più opportuno porlo come norma comune a tutti gli istituti: chi lascia un istituto per indulto di uscita e per decreto di dimissione è dispensato dai vincoli che lo obbligano in coscienza, e perde ogni dipendenza in rapporto all'istituto che lascia. I cc. 692 e 701 sono da raffrontare con i cc, 726 e 727, che non fanno menzione di questa norma; essa è certamente valida per questi casi. Invece il c. 743 ne fa menzione. Rimane ancora un'ultima osservazione: la dimissione di un chierico membro impegnato definitivamente o in perpetuo non pone alcun problema, se il chierico è incardinato nella sua diocesi. Il caso è più difficile, se è incardinato nell'istituto: egli è obbligato a cercarsi una diocesi il cui vescovo consenta di incardinarlo. Si deve notare la differenza tra il c. 693 e il 701. In caso di indulto di uscita, tale indulto viene concesso solo se un vescovo accetti di incardinare il chierico così liberato dai suoi obblighi nell'istituto; al contrario, quando si tratta di una dimissione, il chierico non può esercitare ministeri finché non trova un vescovo che voglia ammetterlo nella sua diocesi, o almeno permettergli di fare del ministero. Una volta ritirato tale permesso, rivive la proibizione di cui fa menzione il c. 701. Appare da tutto questo che l'incardinazione di un chierico nell'istituto lo sottopone a procedure proprie dei religiosi; il che è certamente da evitare per ogni istituto che vuol essere veramente secolare. Resta qui da trattare un'ultima questione. Molti istituti, soprattutto di chierici, non hanno previsto alcuna norma di dimissione dei loro membri. Dopo la promulgazione del Codice, questa situazione è insostenibile; anzi, per stretta giustizia, bisogna esigere che queste norme e procedure siano conosciute dai membri dell'istituto. Che cosa pensare allora, se un medesimo delitto deve essere oggetto di intervento dell'autorità diocesana, sia contro il chierico, sia contro un membro laico di istituto secolare? Su questo punto certi istituti lasciano al vescovo ogni responsabilità di agire. Non dicono però chiaramente se un intervento diocesano, e anche una condanna, comportano ipso iure la dimissione dall'istituto. Su questo punto il Codice non da alcuna precisazione. Bisogna in ogni caso che questa situazione sia prevista chiaramente dal diritto proprio degli istituti secolari, nei loro statuti o costituzioni, o in altri codici o testi dell'istituto. Con il tempo, una giurisprudenza permetterà di situare meglio questi problemi e darà loro una soluzione di equità, forse anche più adattata, se non più discreta. 17. Codice, Costituzioni e Diritto proprio Lo studio della legislazione sugli istituti secolari mette in risalto un elemento tipico di queste norme: esse rimandano quasi esclusivamente alle costituzioni di tali istituti. Le costituzioni, in forza del c. 587 § 1, formano il codice fondamentale dell'istituto, che deve essere approvato dall'autorità ecclesiale competente, sia dal vescovo di fondazione o del centro principale dell'istituto ( c. 595 ), sia dalla Santa Sede, se l'istituto è di diritto pontificio, o se la Santa Sede è intervenuta in maniera speciale nel momento della fondazione dell'istituto ( c. 595 ). Sui 21 canoni di questo titolo, notiamo 12 rimandi alle costituzioni, 3 al diritto proprio. Alle costituzioni rimandano i cc. 712, 714, 717, 720, 721, 722 § 3, 723 §§ 2 e 4, 724, 725, 727 e 729, al diritto proprio i cc. 716, 718 e 719. Questo tallo suscita commenti che è bene segnalare; essi possono d'altra pane non soltanto far comprendere il senso di questa anomalia, ma anche situare meglio questi istituti nella vita della Chiesa. Si è visto in essi anzitutto una ricerca di centralizzazione, o, come dicono altri, un modo di sottolineare la dipendenza degli istituii dall'autorità ecclesiale, che teneva ad affermarsi più vigorosamente in rapporto a questi istituti. Sembra tuttavia che questa dipendenza sia il segno di uno sforzo comune per far fronte a ciò che può comportare l'inesperienza di questi istituti, e rimediare a situazioni poco o nulla definite. Con il tempo, si farà luce un certo pluralismo, che esigerà maggiore flessibilità da parte della legge comune e più rispetto per i diversi carismi. Quest'ultima osservazione conserva tutta la sua importanza. Bisogna però anche osservare che gli istituti stessi desiderano una legislazione propria ferma e semplice, e preferiscono vederla codificata in un unico testo. Di più, la vita consacrata secolare lascia maggior ampiezza alla responsabilità personale dei suoi membri, e ciò comporta una maggiore semplicità delle norme di vita ed esige un testo che si limiti all'essenziale. E utile rilevare a questo proposito che i rimandi al diritto proprio riguardano punti di flessibilità maggiore nella vita consacrata secolare. È vero che molti statuti o costituzioni di istituti secolari restano per il momento molto sobri, ma anche mollo giuridici. Mancano per molti istituti una esposizione approfondita del carisma che non si limiti alla finalità dell'istituto, è un diritto proprio più dettagliato o più sollecito dell'elemento spirituale nella vita consacrala di questi istituti. Certamente si può dire senza esitazione che la maggior parte degli statuii di istituti secolari non sono riusciti a unire in uno stesso lesto gli elementi spirituali e gli elementi canonici in maniera ispirante. Sarà importante per l'avvenire applicare questa consegna del Concilio, ripresa dal c. 587 § 3 e che vale per tutti i testi di diritto proprio, e non solo per le costituzioni o statuti, come il canone in questione sembra restringere questo principio ai testi fondamentali. Tutto considerato, dovendo essere concisi, questi canoni del Codice non hanno l'ampiezza necessaria per far fronte alla varietà e alla flessibilità della vita. Forse, in luogo di tanti rimandi al diritto degli istituti religiosi, sarebbe stato più opportuno rimandare alle norme comuni, a condizione tuttavia che queste fossero emendale da una terminologia troppo religiosa e rivedute nella prospettiva che esigeva la vita consacrala secolare. Valutazione di questa legislazione La legislazione sugli istituii secolari è un fatto nuovo e importante, che avrà certamente un grande influsso sull'evoluzione di questi istituti, invitati ad approfondire il loro carisma e a vivere una secolarità consacrata sempre più autentica. I cc. 711 e 713-715 riprendono in forma concreta la dottrina del Concilio. Se gli istituti di laici consacrati in pieno mondo con la loro vita e con l'approfondimento della loro dottrina hanno dato alla Chiesa una migliore coscienza della natura e della missione del laicato, definendo la sua condizione secolare, il Codice ha messo in maggior luce ciò che è la secolarità consacrala dei chierici come quella dei laici, pur non giungendo a chiarire pienamente la secolarità degli istituii di sacerdoti; lavoro che dovrà essere oggetto di una ulteriore riflessione dottrinale, partendo dalla vita e dall'esperienza di questi istituii, del resto non molto numerosi. Alcuni istituti saranno costretti a fare una scelta: parecchi sono secolari solo di nome; tra questi, alcuni formeranno un movimento ecclesiale, altri saranno riconosciuti come società di vita apostolica; qualche altro come prelatura personale. La vocazione degli istituii secolari è difficile. La loro vita nascosta, la loro azione a modo di lievito non soltanto nel mondo ma nel cuore del laicato o dei presbiteri diocesani, rende la loro posizione nella Chiesa riservata, talvolta ignorata; il che diminuisce l'informazione diretta su questo tipo di vita consacrata: clero e religiosi lo ignorano ancora troppo per saper discernere le chiamale a questo genere di vita. I canoni del Codice hanno il vantaggio di rispettare a! meglio l'identità di ciascun istituto; in questo senso rappresentano un modello. Gli istituti religiosi non godono ancora di una simile flessibilità e di una vera ricerca di adattamento ai carismi diversi che determinano la loro identità. Il livellamento che è prevalso non soltanto nel Codice del 1917 ma già prima, continua a farsi sentire. La Chiesa intera deve prendere coscienza dell'impatto dei carismi: la sua legislazione deve aprirsi alla loro diversità. Se si vuol dare ai carismi la possibilità di esprimersi, occorrerà dare questa flessibilità del diritto non solo agli istituti di vita consacrata, ma a tutte le forme comunitarie ecclesiali, e anzitutto alle chiese particolari, e in esse alle parrocchie e ad altre comunità ecclesiali. Esse potranno in tal modo vivere la loro identità in una autonomia relativa, secondo il loro diritto proprio e il loro governo. Da questo punto di vista, il Codice riflette il Concilio. Ma il Concilio non è riuscito a trarre le conclusioni della sua dottrina. Il Codice ha iniziato questa evoluzione, e se è il " Codice del Concilio " e il suo " ultimo documento ", come dice Giovanni Paolo II, resta un Codice di transizione, e permette allo Spirito di continuare l'opera che ha iniziato, superando un giorno le norme conciliari e le sue opzioni, per condurre a maturità una visione nuova della comunione ecclesiale nel mondo.