Pro mundi vita

B154-A1

( In margine al Congresso Eucaristico Internazionale di Monaco )

Il Crocifisso e l'Eucaristia

1. Dachau … La storia non è nuova a questi contrasti o ritorni drammatici delle cose; ma essa non può coglierne che l'aspetto esteriore.

Nel campo dello sterminio umano, la Chiesa ha continuato a celebrare il Suo sacrificio, pro mundi vita e il XXXVII Congresso Internazionale di Monaco lasciava, in quel luogo di agonie d'anime e di corpi, una cappella ed un altare dedicati alla Agonia del Cristo, testimonianza d'una perenne immolazione più che traccia d'un momentaneo trionfo.

Non diversamente, infatti, la Croce è risalita sul bivacco del Golgota: non « perché il Cristo scendesse, finalmente, dalla Croce; ma per restarvi crocifisso, con noi ».

Non diversamente, la Croce è tornata nell'arena sanguinosa del Colosseo: non per presentarsi trionfatrice dello spettacolo obbrobrioso e cruento dei cristiani dati in pasto alle belve; ma per levarsi, ancora una volta, unica cosa duratura, sui ludibrii di oggi e di ieri.

Che cosa è, difatti, questo mistero della morte che genera la vita - dal tepido e maledetto sangue del capro dei primi sacrifici, a quello del Cristo e dei martiri di tutti i tempi, catene o fame o morbi contrassegnino l'inesausto umano dolore, - e di contro, il mistero che rifiuta la vita e genera la morte, con un bisogno furioso di esaurirsi nelle cose, maledicendone più che non godendone l'insoddisfatta finitudine?

2. San Giovanni, che conosce la luce sfolgorante di Dio ( « Dio e luce, … camminiamo nella luce, come anche lui sta nella luce, … con mutuo amore » ( 1 Gv 1, 5-7 ) e della luce, il dono di gioia e di vita ( « Queste cose vi scrivo affinché ne godiate e la vostra gioia sia completa » ( Gv 1,4 ) contrappone a questo « mistero di luce », le tenebre del peccato ( « Tutto ciò ch'è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita » ( 1 Gv 2,16 ).

Queste « tenebre » non sono solo fuori di noi, « nei sentieri del mondo »: in ciascuno di noi c'è una zona d'ombra, e per uscir di metafora, ogni uomo sente in sé la presenza d'inclinazioni perverse, una storia di complicità nativa con il male, la facilità a concedersi, ad abbandonarsi financo, agli appetiti della natura, e più prepotentemente ancora, a sottrarsi o ad affermarsi orgogliosamente contro Dio, contro il prossimo …

Ed è naturale pensare che se queste « tenebre » non fossero in me, non esisterebbe un « mistero di iniquità » nel mondo; ma esso risplenderebbe ancora di quella luce in cui Dio contemplò primamente tutto ciò che aveva fatto a e vide ch'era molto buono » ( Gen 1,31 ).

Di questa mattutina luce del creato, per i più non rimane altro riverbero se non l'« utile » che l'uomo esprime immediatamente per i suoi bisogni.

E l'uomo è proteso, con le sue tecniche, a dominare la natura, stupito che questa gli obbedisca, mentre crede di poter violentare l'ordine logico e morale a quel modo che costringe gli elementi.

Ma nell'ebbrezza della sua vittoria, non può non sentirne il vuoto morale, anzi, non può non vedere ostili le cose stesse del suo dominio, la propria « umanità » sempre più dispersa.

È lontano ancora, l'uomo, dall'angoscia di non essere altro se non cosa fra le cose, e solo contraddistinto dal peso del suo dolore?

Conquistare la gittata di una V1, voleva proprio il contrapasso dell'angustia del forno o della cella dei gas?

Pro mundi vita! Sì, quelle agonie, quelle morti hanno, un senso solo: se io le posso pensare parte d'un riscatto.

Riscatto larvale, sia pure, e per sé inefficace, d'un ordine morale che la libertà ha potuto violare, ma la ragione non ha potuto ristabilire, con le sue architetture di parole, la « sapientia verbi » di cui parla l'Apostolo ( 1 Cor 1,19 ).

Il dolore è l'avvio alla saggezza della croce: questa alla « saggezza di Dio », che si rivela nel « mistero del Cristo, e del Cristo crocifisso » ( 1 Cor 2,2 ).

3. La vita del mondo è tutta qui: liberarci dal male, dal peccato che inquina noi e le cose. ( « Dio ha in abominio non solo il peccato, ma le cose stesse del nostro peccato », Dt 23,18 ), restituirle a Dio, ridare alla nostra vita ed a tutte le creature, il respiro del divino, e queste, amare con l'amore di carità, che le senta e veda nella loro natura di dono e insieme scorga la mano del Padre che da e i fratelli, che il Padre vuole partecipi del suo dono; quella, aprire alla comunione con Dio, ch'è l'istanza morale ultima della creatura razionale, che non finalizza a sé le cose se non per rioffrirle, inesausta e divina liturgia, spiritualizzate, a Dio, attraverso il Cristo, che ce l'ha mostrato il valore trascendente nell'amore ( « Fate del bene … » Lc 6,35 ) e nel sacrificio ( « Se la tua mano o il tuo occhio ti scandalizza, troncalo, è meglio per te … » Mt 5,30 ).

Il peccato è veramente il suggello, della morte; ma per la liberazione dal male, per la « conoscenza di Dio », per la vita « divina » ( Col 1,10-13 ), non basta, evidentemente, lo sforzo e la volontà umana.

È l'opera della Redenzione, il « mistero di Cristo », del Verbo che associa alla generazione eterna nel seno del Padre, la nascita nel tempo, con l'Incarnazione, nel seno della Vergine, per opera dello Spirito Santo, per « morire » in croce …

Il cristianesimo, non rileva qui dalla persuasione d'un ragionamento ( anche Platone, pensò, per spiegarsi il male nel mondo, ad una colpa all'origine, e costruì tutta la filosofia, come liberazione dal corpo e ritorno del nostro spirito in Dio ); ma dalla sottomissione al fatto storico del Vangelo ( la vita di Cristo, d'un « profeta » rinnegato dalla sua nazione e crocifisso dai Romani ) rischiarato dalla illuminazione interna che viene da Dio.

È un fatto soprannaturale come la « vita » che sostituisce al peccato; come la « grazia » che fa del cristiano l'uomo spirituale, strappandolo dalla servitù dei sensi e dell'orgoglio, per dargli il « senso di Cristo ».

Ed ecco, mosso da questo spirito, che si riassume nell'ideale evangelico di « conoscere Cristo e Cristo crocifisso », l'uomo riprende il suo cammino verso la vita ( « Chi vuol venire dietro di me, prenda la sua croce, e mi segua » Mt 16,24 ) e sull'unico fondamento di Lui, si ridistendono misteriose coordinate vitali nel mondo e per il mondo, che vengono dalla Sua morte, che operano nella Sua morte, ed il mistero di Cristo crocifisso, si rifrange, si ripercuote e moltiplica nelle nostre « croci », concretando nell'esperienza singola e personale una conoscenza che la carità ha mutato in spinto, e vita.

4. Ve nella croce, la rivelazione d'un mistero che non cessa, - dopo tanti secoli - di essere « uno scandalo » agli occhi del mondo che non può scorgere il piano trascendentale e divino d'una realtà che fa il destino umano, universalmente e singolarmente, dipendente da quello del Cristo morto e risuscitato: la morte dell'Innocente per il riscatto del colpevole ed in una prospettiva acosmica, l'esigenza d'una giustizia immanente che esige il prezzo - umanamente insolvibile - del peccato.

Il mistero è mistero anche per la fede.

Ma il « dramma » ha i suoi termini umani.

Bastano a stabilire l'atteggiamento di ciascuno di noi di fronte alla colpa e al suo riscatto, anche se la morte ignominiosa del Salvatore sullo strumento del suo supplizio, non possa, nel mistero cristiano, dissociarsi dall'esaltazione della sua vittoria sul mondo e sulla morte nella susseguente risurrezione, le cui risonanze non sono certo assenti in noi, ma più remote, poiché del Crocifisso, noi vediamo primamente il supplizio del legno, l'ignominia dello strazio, la morte, lenta, del dissanguato …

Il castigo, cioè, che l'economia redentrice chiama ciascuno a condividere, perché la partecipazione alla croce è effettivamente la condizione della nostra unione vitale con il Cristo ( a Quelli che appartengono a Gesù Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni ed i suoi desideri », Gal 5,24 ).

Il legno, dapprima, con i suoi chiodi: qualcosa di rigido ed ostile nella sua costrizione, quello con la fissità dei suoi piani, come l'immobilità d'una legge cui bisogna tornare volenti o nolenti; questi, con il morso delle loro lacerazioni, e la piaga ulcerosa della necessità dei nostri bisogni …

Non sono i sensi, che hanno valicato ogni legge?

Non si sono impadroniti d'ogni cosa, come loro propria ed esclusiva?

E con quale ingordigia? ( Da gran tempo, la fame e la miseria sarebbero scomparse dal mondo, se ciascuno si contentasse del necessario ).

E quante cancrenose ferite, nelle necessità che han rigettato il povero e il debole in condizioni infra-umane di vita, di lavoro, di abbrutimento …

I sensi non possono pretendere, neppure di fronte alla ragione, più di quello che loro occorra; ma di fronte alla croce, credo, non possono neppure rifiutare il dolore; la privazione dovrà essere più dolce del godimento; ne la sensualità, sarà mai il prezzo d'un bene, od una soddisfazione cercata …

È un primo aspetto, quello mortificato e combattivo, dell'ascetica cristiana: la prima prevenzione « il sale della terra » ( Mt 5,13 ), che ci sottrae all'impero dei sensi e dell'animalità, e non per lo scorbutico orgoglio dell'uomo, ma per « il prezzo di sangue », la sofferenza buona « con cui saldiamo un debito », o non lo accresciamo, almeno.

Cicerone ci parla della croce come del castigo degli schiavi colpevoli dei maggiori delitti ( Pro Clu., 66; De Supp. 3-6 ): è il nostro, perché tali sono le nostre colpe; ma nel mistero cristiano, questo supplizio è la prima liberazione « l'affrancamento » del battesimo, reso operativo e salvifico dalla penitenza, dalla carità ( « per amore di Lui, crocifisso » ), dalla giustizia ( « perché altri non debba pagare per noi » ).

L'ignominia del Golgota. Sì: ma non ci stupisce, che l'empio condanni il giusto; poiché supremamente logico che il disonesto t'incolpi d'impudicizia; l'avaro, di sordidezza: l'impostore, di falsità …

Sono anche i soli a sentire dentro di sé il rodìo delle loro turpitudini: ne sanno il peso.

Accusare un innocente, è crearsi un alibi; rimuovere un testimone …

È altra l'« ignominia » della croce.

Il cristiano, nell'accezione di S. Paolo, non è toccato da queste cose.

« L'uomo spirituale - egli dice, - fu giudizio di tutte le cose; lui stesso poi da nessuno è giudicato » ( 1 Cor 2,15 ).

Di fronte alla croce, siamo chiamati ad un'umiltà più radicale, che non al disprezzo o alla tolleranza dell'ingiuria altrui, ed è il riconoscimento della nostra colpa davanti a Dio, di questo nostro inconcepibile orgoglio, che ha potuto metterci contro Dio, sottrargli noi stessi e le cose, di cui abbiamo preteso il dominio, facendole e facendoci del mondo, mentre sono Sue tutte le creature.

Così ci siamo posti nella morte, con la risibile fatuità d'un nulla che si fa un Dio, e tutto commisura a sé, idolatra altrettanto stupido che crudele, del suo fango …

Quel fango appunto che Dio ha dovuto riplasmare, con le Sue mani, nel Cristo, Dio fatto uomo, per riscattarci; per non lasciarci nella morte: il mistero della croce è questa reviviscenza feconda del sangue di Gesù Cristo, che penetra il nostro mondo, che lo ricompone nella sua unità, a misura che ci raggiunge.

È il « sangue della croce », la carità di Cristo, che ci ricongiunge con i nostri fratelli, ricongiungendoci con Dio.

La morte sulla croce, con l'ineffabile mistero dei suoi dolori, delle sue umiliazioni, si presenta con la folgorazione improvvisa dell'amore: « Vivete nella carità, sull'esempio di Cristo, che ci ha amati e si è dato per noi, offrendosi a Dio in sacrificio soavissimo … » ( Ef 5,2 ).

Ecco, nella carità, « si ricostruisce il mondo » ( Col 1,24 ).

È questo il valore dello stillicidio di sangue, che consuma la vita del Crocifisso.

Sangue, non parole; la vita, non il superfluo; la croce, non la soddisfazione o l'applauso …

È la carità di Cristo che ci,spinge ( 2 Cor 5,14 ), del Cristo che ha patito ed è morto per noi, per i nostri peccati; che ci ha fatti « sue membra » ( 1 Cor 12,2 ), attribuendo, anche al nostro dolore, la sua virtù salvifica e vitale.

Dal Divin crocifisso, dall'apertura delle Sue piaghe, dall'inesausto rifluire del Suo amore e del Suo dolore, parte l'invito e la forza ad aprirci su tutte le creature, ad amare in esse quel grado di bene, che ciascuna rappresenta, senza timore di smarrirci, ovunque lo si scorga.

È la « follia della croce », non solo perché scandalo al leguleio farisaico e insipienza alla conclusa razionalità del filosofo, ma per quel prodigioso dono di amore, che non dispera di ricreare la vita sulla morte; che gode del suo martirio, che non teme ne l'esiguità delle sue forze ( « Allora, quando sono esausto, io sono potente … » 2 Cor 12,10 ), né il malanimo o il rifiuto altrui.

Per questo, nonostante il trionfo del male, il bene s'è conservato nel mondo; per questo, perché tutto si radica nel Cristo Crocifisso, ogni creatura conserva alcunché del suo bene.

Finché sulla terra si celebra il sacrificio del sangue dell'Agnello, l'umanità può guardare al suo domani su prospettive eterne, e non temere la morte.

5. Il Sacrificio della croce, la S. Messa, la Chiesa, tre momenti dell'Incarnazione eterna del Verbo: il Golgota, l'altare della Sua storia; la Mensa eucaristica, quello della nostra storia d'oggi; il Corpo Mistico, quello della storia futura: Dio solo poteva congiungerli in una sola realtà immanente e il Cristo lo ha fatto: « Il calice della benedizione, - si chiede l'Apostolo, - non è forse la comunione del sangue di Cristo?

E il pane che noi spezziamo, non è egli la comunione del sangue del Signore? » ( 1 Cor 10,14 ).

Or come non formare un unico corpo, con l'alimento di cui ci nutriamo, come non formare tra di noi « un solo corpo, nutrendoci tutti dello stesso pane » ( 1 Cor 10,22 )?

La « cena » è certo comunità di vita e per la vita; pure, com'è suggestivo il rito di morte in cui s'annuncia, si stabilisce e si perpetua!

È notissimo il testo paolino; ma non ci sono parole, che lo possano Sostituire: « … Perché io l'ho ricevuto dal Signore, quello che ho insegnato a voi: che il Signore Gesù, nella notte in cui era tradito, prese del pane, e dopo aver rese le grazie, lo spezzò e disse: - Prendete e mangiate; questo è il mio corpo, che è dato ( il greco ha il presente, non il futuro della vulgata: sarà dato ) a morte per voi.

Fate questo in memoria di me.

- Parimenti, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: - Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue: tutte le volte che ne berrete, fatelo in memoria di me … ».

Qual mirabile intrecciarsi della vita e della morte!

Quale appello alla vita, da una morte immanente, cui ben s'addice, non come nel poeta latino ( Lucr., De rer. nat.. IlI, 869 ), l'epiteto di « mors immortalis », se, con il Cristo, anche il martire affronterà la morte, per le ragioni della vita; anzi, se ciascuno, a quella morte, attingerà i motivi e le forme della sua esistenza.

L'umiltà e la carità stanno alla base di ogni martirio, che non è solo la conclusione tragica d'una lotta, ma anche la lenta crocifissione d'ogni dì.

« Or dunque, - conclude l'Apostolo, - tutte le volte che mangerete questo pane, tutte le volte che berrete questo calice annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga » ( 1 Cor 11,26 ).

6. L'Eucaristia ha, certo, un insopprimibile carattere intimo e personale.

Il « cibo », l'alimento ha bisogno d'una persona viva e singolare, cui sia proporzionato.

Non è diverso per la creatura spirituale.

Nel S. Vangelo le espressioni « Io sono il pane di vita … La mia carne è cibo … Il pane, che vi darò, è la mia carne … Se non mangerete la mia carne, non avrete in voi la vita … » ( Gv 6 passim ), nel contesto e nell'interpretazione ch'esse ricevono dagli uditori, hanno un riferimento individuale, immediato.

La moltiplicazione dei pani sfama degli individui, anche se costituiscono una moltitudine: non diversamente, nella cena, il Cristo opera su d'un pane e per esso si moltiplica; la sua Eucaristia è un « pane » offerto singolarmente a chi crede in Lui.

Non dunque, l'universalità astratta d'una dottrina, ma la concretezza del « mangiare », del « bere », come del pane della moltiplicazione, « di cui ciascuno si saziò, e ne sopravvanzarono sei canestri »; come della manna del deserto, venuta dal cielo « perché chi ne mangiasse, non morisse »; una funzione della vita per la vita stessa di chi la compie.

« Come può costui darci la sua carne da mangiare? » ( Gv 6,52 ) « In verità, in verità, vi dico, che se non mangerete la carne del Figliolo dell'uomo, non avrete in voi la vita …

La mia carne è veramente cibo, il mio sangue bevanda ( Gv 6,55 ) …

Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui » ( Gv 6,56 ).

« Colui che mi mangia, vivrà di me » ( Gv 6,57 ).

L'alimento e la vita, certo la vita eterna, perché l'alimento è divino: il pane e il vino dell'Eucaristia sigillano l'unione mistica con il Cristo vivente, né nella vita ci sono elementi o residui di morte.

È Lui, che vivrà, che dovrà spiritualmente vivere nella « nuova creatura » …

7. L'Eucaristia, anche come « cena », ha indubbi elementi associativi: la comunione al corpo e al sangue di Cristo ( 1 Cor 10,15-22 ) è partecipazione ad un rito sociale; comunque numerosi, i comunicanti, appartengono ad un corpo spirituale unico, perché tutti partecipano dello stesso pane; sacramento di unità, vincolo di pace, che non solo simbolizza, ma produce, con la fusione degli spiriti e dei cuori nella carità; e questo corpo partecipa al corpo di Cristo.

S. Paolo lo stabilisce anche e contro l'accezione giudaica della partecipazione « all'altare » da parte di chi ha offerto la vittima, e più ancora contro l'idolotìa dei pagani ( le quali pure costituivano un legame di solidarietà o di parentela tra il sacrificante e il Dio, e tra gli offerenti stessi ) mettendo in risalto l'intimità creata dalla coppa, dal pane e dalla mensa cristiana: « Poiché vi è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo, che partecipiamo ad un unico pane … » ( 1 Cor 10,17 ).

La vita « spirituale » di ciascuno dei comunicanti, non può non portare anche nel mondo il fermento individuale della loro vita : « prò mundi vita » ha di fatto la sua equivalenza in questo stesso testo, con il « per voi » dei sinottici, e con il « per molti » di Mc 14,24.

E tuttavia, lo si comprende, il valore massimo, « prò mundi vita », consiste nei misteriosi legami che uniscono il sacrificio della messa, a quello del Calvario e la Chiesa, con precedenza assoluta al « sacrificio », non ai valori unitivi del Corpo Mistico o all'elevazione spirituale della stessa santità della Chiesa e dei suoi membri.

« Il sacrificio che noi offriamo, - scriveva eco della primitiva tradizione, s. Cipriano di Cartagine ( + 258 ), - è la passione del Signore » ( Ep. LXIII, 17 ).

Ed è noto come S. Tommaso, insistendo particolarmente su tale identità, analizzi i rapporti sacramentali del sacrificio eucaristico, e non della sola comunione, come sorgente di grazia ( Sum. theol., IIP, q. LXXIII, a. 6 ).

La cena e la messa: due sacrifici rituali, quella, con la realtà dell'offerta della passione e morte, che doveva seguire, questa, con la stessa vittima, lo stesso offerente, nell'unica realtà della immolazione già avvenuta: incruente entrambi, nella perfezione del sacrificio interiore, che tra la cena e il Calvario si è compiuto il mistero della croce.

Un sacrificio unico, ed irreperibile, con valore assoluto e definitivo, che la Cena istituisce, il Calvario consuma, la messa applica.

8. É evidente che il sacrificio eucaristico dipenda in maniera assoluta dal valore di quello consumato sul Calvario; ma le parole del Cristo: « Fate questo in memoria di me » ( Lc 22,19; 1 Cor 11,24 ), ci mettono in mano, con le stesse sue non mutate disposizioni, il dono ch'egli ha fatto di sé, ordinandoci di rioffrirlo, perché sia anche nostro.

Non si tratta di rifare il Cristo, vittima, ancora una volta, per la nostra redenzione; ma di « appropriarci » della vittima, per partecipare del suo sacrificio; ne si tratta di cercare un'altra redenzione, per noi, come se la Sua fosse incompleta o comunque abbisognasse del nostro apporto, ma solo di applicarne i meriti …

Unico il dono, alla cena, al Calvario, alla messa, identico il Sacerdote: il rito varia nella cena e nella messa, con il rapporto di prefigurazione e anamnesi del sacrificio incruento, all'effettiva effusione del sangue e della morte in croce: il tempo non rinnova la « morte », perpetua la « vita » e ne feconda i frutti.

Ogni cosa, però, in questo sacrificio, che pure opera l'unione di tutta la Chiesa - dell'umanità, - nel Corpo mistico di Cristo, supera l'apporto che, e la Chiesa, come società, e il singolo, come membro di essa, può offrire con la libera sua volontà di adesione, di contributi formali di carità, di umiltà, di obbedienza, di sofferenza, poiché in esso tutto trae valore dalla « vittima divina », che conferisce alla nostra oblazione un sovvraprezzo incomparabile.

Vero è che il sacrificio eucaristico è pur sempre come la nostra valorizzazione di quello redentore del Cristo.

Così, l'oblazione sanguinosa del Calvario, emanata, un tempo, dalla carità del Cristo obbediente al Padre fino alla morte, appare operante di continuo nell'attuazione della Redenzione, non solo nel cielo dove intercede per noi, con i titoli unici della sua filiazione e del suo sacerdozio, ma ancora quaggiù, in tutte le offerte, che nel tempo e nello spazio, si consumano in Lui, per Lui, con Lui, dagli uomini, cui ha riaperto le vie di Dio.

9. Sant'Agostino, nel contrasto tra la città degli uomini, con le sue torri di morte, ed i valli rinserranti il brulichìo dei vermi della putredine, le tenebre cupe dello spasimo e della negazione, la fossa buia della belva umana bramosa e dolorante - e la città di Dio, che sale, faticoso, il cammino della salvezza e vede i lucori d'un'alba non lontana, in cui il sole si dispiegherà su nuovi cieli e nuove terre, dove la pace, e la giustizia si baceranno in fronte, - vede la Chiesa, come la cittadella dell'umanità nuova, essa corpo di Cristo, nell'atto di offrire all'altare quel sacrificio che ha appreso dal Salvatore: « … il sacrificio più glorioso, più eccellente che possa essergli offerto, siamo noi, - esclama, - noi stessi, la sua Città, ed è il mistero che noi celebriamo nelle nostre oblazioni » ( De civ. Dei, 19, c. 23 ).

L'immagine è grandiosa e vera: tutta la società riscattata dal sangue di Cristo, che si raccoglie in un solo corpo per essere offerto a Dio, con il suo Capo, per rioffrirsi nella sua carità e nella sua obbedienza …

Ci sono tutti i nostri dolori, ma fragranti d'amore; c'è la volontà d'un riscatto di noi, delle cose …

La città non è il piccolo numero chiuso nella cittadella: sono i cittadini sparsi ancora per le vie del mondo.

È lontano ancora il ritorno? È ogni dì meno facile? Come rompere la prepotente servitù della materia?

Oh, l'ansia di questo ritorno, è pur quella di Cristo!

Dall'edenica immagine dell'unico ovile sott'un solo pastore ( « Ho ancora molte greggi, che non sono nell'ovile », Gv 10,16 ), all'angoscia del Golgota ( « Padre, perdona loro perché non sanno … », Lc 23,34 ).

Risponde, almeno, alla Sua ansia, il nostro tormento?

No, certo, finché, temendoli, li odiarne; che non è già temendo per noi, che si ama quelli che ci sono di contro …

Da gran tempo, il mondo è in agonia: disperata è la sua lotta, per consegnarsi alla morte.

Ma c'è, di contro, l'Agonia del Cristo, che comprende ogni dolore - dal filo spinato alle foibe, dalle disgregazioni atomiche, a quelle prodotte nel gran corpo sociale dalla temulenza dei gregari di Satana, che pur sono l'opera del male … - che soprattutto, accoglie ed avvalora ogni sofferenza buona, - la lagrima d'un bimbo e quella d'una mamma, la fame del povero, l'inedia del malato, i lutti e gli insuccessi … - e prepara quel « miracolo della morte » ( quasi una soglia che Dio s'è riservata sull'estremo della vita dell'uomo, per dare a Cristo, un'anima di più ) ch'è una salvezza per l'individuo, e la speranza di chi non vuole disperare del mondo.

Agonia che contrasta l'agonia.

C'è, di fatto, una morte per la vita.

Ed una vita per la morte ( « Chi vorrà risparmiare la sua anima, la perderà », Gv 12,25 ).

Nella Chiesa tutto converge in un ammirabile sacrificio, che si identifica con quello del Calvario.

L'unità della Chiesa cristiana, scrive un teologo del sec. XVII, non si lascia dividere in molte ostie e in vari sacrifici.

Tutti questi frammenti d'olocausto, se così posso esprimermi, fanno parte d'un solo olocausto d'una plenitudine universale.

Sì gran numero di vittime, non sono che le membra d'un'unica vittima, che celebra sulla croce la sanguinosa sua oblazione e nell'eucaristia, la stessa oblazione incruenta, e che si incorpora ogni oblazione, sanguinosa o no, delle sue membra, come elementi della sua propria immolazione ( Thomassin, De Verbo Ine., 1. X, e. 20, n. 4 ).

Ora la Chiesa è stata stabilita quaggiù per la salvezza del mondo, e Dio le ha dato, per il Cristo, due fontane di vita e di grazie inesauribili, il sacrificio della Croce e l'Eucaristia, che fondono le loro acque in un sol corso.

Ed anche, per ciascuno di noi, se vogliamo essere « pietre vive del suo tempio », c'è la stessa legge di salvezza e di fecondità: « Consacrate, di bel nuovo, a Dio il tempio della vostra anima, sacrificandogli il vostro cuore e tutte le vostre volontà, dopo averlo ricevuto devotamente nella santa Comunione » ( S. G.B. de La Salle, Med. 188,3 ).

« Portate sempre nel vostro corpo, come dice S. Paolo, la mortificazione di Gesù Cristo, affinché la vita di Gesù Cristo appaia nei vostri corpi; è l'effetto che deve produrre quest'eccellente sacrificio » ( Med. 66,3 ).

Sì, anche dai riquadri del filo spinato dei campi di sterminio …

F. Emiliano