Convegno ecclesiale di Verona

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Privare l'ateismo dei suoi privilegi

Intervento della prof.ssa Margaret S. Archer

18 ottobre 2006

Anche in questa occasione gioiosa e celebrativa non possiamo ignorare tutti i « segni oscuri » nei confronti della nostra fede, segni che sono pervasivi in tutta l'Europa.

Intendo soffermarmi su quelli che vengono dal mondo accademico, specialmente dalle scienze sociali e dalla filosofia contemporanea.

Sono segni importanti a causa della posizione influente degli accademici, sia attraverso i media - dove i nostri concetti complessi si fanno discorsi comuni - sia a causa della nostra influenza, direttamente su una percentuale crescente di giovani e indirettamente sulla formazione dei loro insegnanti.

Questi « segni oscuri » provenienti dal mondo accademico sono l'eredità dell'illuminismo.

Quell'eredità privilegia l'ateismo, facendo « l'uomo misura di tutte le cose ».

In breve la realtà ( naturale e trascendentale ) diviene fatta a sua immagine, in modo antropocentrico o, sempre più spesso, sociocentrico.

Di conseguenza, l'ateismo è diventato l'opzione preselezionata nella cultura accademica: è una credenza, che però non è tenuta a giustificarsi come credenza.

Quegli accademici che osano proporre o difendere visioni religiose, avanzando così pretese di verità, non godono di pari opportunità: viene detto loro che le loro credenze non possono essere parte dell'impresa scientifica o che tali credenze riguardano qualcosa di diverso da ciò che ritengono coloro che le credono.

Tornerò a breve su questo processo di marginalizzazione ed esclusione.

Il risultato è stato una ritirata del religioso: in pubblico ci comportiamo come atei laicisti; le nostre credenze e pratiche religiose sono privatizzate.

Ci comportiamo pertanto come cristiani « in privato »: per esempio Peter Berger, forse il sociologo della religione più influente e un luterano credente, sin dagli anni '70 del secolo scorso ha raccomandato che nello studiare la religione « tutte le spiegazioni metaumane del fenomeno devono essere messe tra parentesi o da parte ».1

Al loro posto egli ha difeso l'« ateismo metodologico ».

Così ha confinato il suo cristianesimo nel privato, con qualche occasionale intervento di tono diverso di fronte ai teologi.

L'« ateismo metodologico » è stato accolto a braccia aperte nel mondo accademico, ma il suo effetto è stato la negazione a priori della possibilità che la realtà di Dio fosse davvero responsabile delle esperienze religiose che la gente aveva e che raccontava come tali.

L'esperienza religiosa riguardava qualcos'altro ed era stata descritta nel modo sbagliato.

Sin dall'inizio l'« ateismo metodologico » riteneva impossibile che le esperienze religiose si riferissero a qualcosa di effettivamente religioso - il che era perfettamente accettabile per gli eredi dell'illuminismo.

Cito questo esempio, perché mostra quanto il presupposto dell'ateismo abbia allontanato la credenza dal mondo accademico, anche per un credente tenace.

Per tutto il XX secolo, nella filosofia, nelle scienze sociali e nelle discipline umanistiche l'assalto è stato spietato.

1. Il positivismo ha vietato il discorso su Dio perché non poteva essere empiricamente verificato.

Ciò che non poteva essere verificato era metafisica, non scienza, e per i positivisti logici la metafisica era « priva di senso ».

2. Wittgenstein e la svolta linguistica hanno sostenuto che ogni gioco linguistico non è altro che la componente discorsiva di un'intera forma di vita, dalla quale il gioco linguistico deriva il suo senso.

Per loro, la religione era un gioco linguistico diverso dalla scienza.

Il linguaggio religioso non fa asserzioni sulla realtà indipendentemente dalla comunità dei credenti, piuttosto mobilita quella comunità in certe direzioni spirituali.

Ha pertanto una funzione performativa, assai differente da quella del linguaggio scientifico.

Quando i credenti pregano Dio insieme, non importa se Dio è reale oppure no.

Tutto ciò che importa è che coloro che pregano si riconsolidino come comunità religiosa.

Questo tipo di discorso aveva una sua attrattiva: il discorso religioso diventava accettabile per gli atei perché non avanzava pretese di verità, riguardava solo la costruzione di una comunità.

Molti accademici credenti accettarono i termini di questo « concordato »: « Rispettiamo tutte le "forme di vita" perché anche la nostra sarà rispettata ».

Ma questo è un accordo di suicidio reciproco.

Se niente di quello che chiunque dice riguarda la verità, perché merita rispetto?

Paradossalmente, consacrare il « sociale » ha come prezzo il relativismo.

3. Tuttavia, uno scetticismo ancora più profondo doveva arrivare con il postmodernismo.

Lascia perdere la domanda sull'esistenza di Dio: esiste una qualunque cosa?

Nemmeno i risultati più solidi della scienza sono reali, perché tutta la realtà è una costruzione sociale frammentata dal potere.

La formula di Derrida ( il n'y a pas de hors texte, « non c'è un fuori testo » ) - nonostante i suoi equivoci successivi - fu sentita come una dichiarazione che non c'è una realtà obiettiva oltre le nostre interpretazioni culturali.

Ci sono soltanto i nostri testi e i discorsi: quando questi cambiano, cambia anche la realtà, perché l'ontologia è stata completamente ridotta all'epistemologia.

Questa posizione si confuta da se stessa, dato che la negazione di una qualsiasi cosa fuori dal testo deve essere interpretata proprio come il tipo di pretesa di verità astratta vietata dalla dichiarazione stessa.

Nondimeno, essa rimane estremamente attraente, in larga misura perché sottoscrive l'imperialismo delle scienze sociali.

È la realizzazione del sogno di Auguste Comte: la sociologia diviene finalmente la regina delle scienze.

Il trionfo del costruttivismo sociale spiega il tempismo del realismo critico, emerso in Gran Bretagna.

Si tratta di una filosofia delle scienze sociali totalmente contraria, basata su tre pilastri, che possono sostenere in modo non preconcetto le pretese di verità sia di ambito religioso sia di ogni altro ambito.

Su quella base, alcuni di noi sono usciti dal « privato » e hanno rivendicato la possibilità di prendere le affermazioni religiose sul serio.

Il nostro tentativo di giustificare nuovamente la religione nel mondo accademico si basava molto sulle affermazioni che la gente fa circa la propria esperienza religiosa personale, dato che l'esperienza di qualsiasi parte della realtà era in effetti negata dal costruzionismo.

1. Realismo ontologico, che asserisce l'esistenza obiettiva della realtà.

Tutta la realtà è indipendente dalle nostre credenze su di essa, anche se ci sbagliamo o rimaniamo completamente ignoranti al riguardo.

L'esistenza o non esistenza di una cosa qualsiasi non dipende in alcun modo dalle nostre convinzioni individuali o culturali.

Nella religione, come nella scienza, le nostre credenze sono veramente in dialogo con la realtà: mettere tra parentesi la realtà ed esaminarne un solo elemento - il « sociale » - rende impossibile capire la scienza o la religione come qualcosa che non sia una costruzione sociale, dato che il «sociale» è l'unico giocatore ammesso al tavolo da gioco.

Non è solo una qualsiasi realtà indipendente - ad esempio Dio - che viene messa tra parentesi se ci concentriamo solo sulle pratiche, sui discorsi e sui testi.

Avviene lo stesso anche per il soggetto umano e la sua esperienza dato che discorsi, testi ecc. non possono fare esperienza di alcunché: solo il soggetto può farlo.

Attraverso pratiche, discorsi e testi gli individui fanno esperienza della realtà ed esprimono la realtà di cui fanno esperienza.

Mettere tra parentesi colui che fa esperienza e ciò di cui si fa esperienza è come cercare di capire il matrimonio avendo messo tra parentesi mariti e mogli.

In ogni esperienza vera, l'oggetto d'esperienza contribuisce qualcosa al contenuto dell'esperienza.

Se un presunto oggetto d'esperienza non contribuisce niente al contenuto dell'esperienza, quell'esperienza è solo un'illusione.

Pertanto, il realismo difende pari opportunità per tutti e la possibilità di avanzare pretese di verità.

Qual è l'illusione, la presenza percepita di Dio o la sua altrettanto percepita assenza?

Non ci sono risposte semplici, ma nemmeno risposte pregiudicate.

2. Relatività epistemica: ogni conoscenza è carica di valori e di teorie.

Insieme a praticamente chiunque altro, i realisti accettano che ogni conoscenza si dà a partire da qualche punto di vista.

Non ci sono « notizie da nessun luogo », per parafrasare il titolo del libro di Thomas Nagel.

Però insistiamo sul fatto che, anche se non c'è una visione epistemologicamente obiettiva del mondo, questo non significa che non ci sia un mondo obiettivo.

All'interno dei nostri concetti dobbiamo sempre fare una distinzione tra ciò che, a nostro parere, esiste indipendentemente da noi e ciò che non esiste: questo è oggetto di discussione.

Ma se combiniamo i due aspetti non c'è niente da discutere: abbiamo solo visioni del mondo diverse e abitiamo pertanto mondi differenti.

Al contrario, se abbiamo esperienze religiose, queste non sono infallibili, ma non assumiamo automaticamente che possano essere « liquidate » con spiegazioni.

Inoltre il relativismo epistemico si estende agli atei e agli agnostici.

L'assenza di esperienze religiose è anch'essa epistemicamente relativa, soggetta com'è al costume diffuso, agli schemi concettuali, alle psicobiografie personali o ai pregiudizi inculcati.

Quella che viene riportata come esperienza dell'assenza non è meno rivedibile dell'esperienza della presenza.

In modo simile, se la credenza religiosa deve essere in parte spiegata socialmente, allora lo stesso vale anche per la miscredenza religiosa.

3. Infine, il terzo pilastro è la razionalità giudicante: possiamo discutere pubblicamente le nostre affermazioni sulla realtà, così come pensiamo che sia, e ordinare gli argomenti in favore di queste affermazioni.

Attraverso la discussione arriviamo a giudizi ragionati, anche se provvisori, su come è fatta obiettivamente la realtà.

Possiamo davvero applicare la razionalità giudicante alla religione?

Senza alcun dubbio: sono i cristiani ad aver applicato i criteri più rigorosi di critica testuale alla vita storica di Gesù.

Ma tale razionalità può essere applicata alla coscienza religiosa, che sembra essere individuale e soggettiva?

Sì, nello stesso senso in cui i musicisti eccellenti con l'« orecchio per la musica » e i sommeliers con il « naso per il vino » ci danno i loro giudizi.

Tali giudizi sono basati su una lunga esperienza e sull'accordo interpersonale: nessun altro tribunale può emettere un giudizio.

Anche noi, però, abbiamo dei « competenti », che non esiteranno a valutare alcune esperienze riferite come « sovraeccitate », « isteriche » o « inautentiche ».

Perché dovremmo avere fiducia ne Les meilleures sommeliers du monde [ i vincitori del concorso a miglior sommelier del mondo, ndt ] ma non nei nostri grandi ordini di contemplativi?

Alla fine, la religione è un « fare », una « pratica », non una dichiarazione di credenze astratte che contengono pretese di verità.

Se ci troviamo in disaccordo con un gruppo di sommeliers sul vino o con dei virtuosi sulla musica, ci mettiamo al lavoro per migliorare il nostro « palato » o il nostro « orecchio » con la pratica.

Non dovremmo fare lo stesso per avanzare nella nostra competenza religiosa, ossia nella nostra ricettività di Dio e nella nostra prontezza a dare una testimonianza autentica?

Conclusione

Mi è stato esplicitamente richiesto se la Chiesa cattolica potesse offrire « segni di speranza » all'Europa; se sì, quali; e infine quale ruolo poteva esser giocato dalla Chiesa italiana nello scenario europeo.

Per ovvie ragioni, non mi sognerei di dare buoni consigli alla Chiesa italiana, ma, tornando al tema per me centrale dell'esperienza religiosa e della religione come pratica, sono convinta che c'è un ruolo chiaro che noi cattolici possiamo giocare in Europa.

Forse qui l'Italia e la Gran Bretagna emergeranno persino come attori chiave.

Il 1° gennaio 2007 la Romania ( e la Bulgaria ) entreranno nell'Unione europea.

I rumeni ( probabilmente, cento o duecentomila ) vorranno entrare nei nostri paesi, seppure con un permesso limitato di lavoro.

Per la maggior parte, porteranno con sé la loro fede ortodossa - una fede basata sulla pratica - perché è grazie alle pratiche che la cristianità ortodossa in Romania è potuta sopravvivere prima al comunismo e poi all'autocrazia di Ceausescu.

Per fortuna il dialogo tra le nostre Chiese è ripreso e gli ostacoli a relazioni più strette non sono fondamentalmente di natura sacramentale.

Abbiamo così tanto da imparare dal retaggio dell'ortodossia - e questi sono principalmente mezzi per estendere le nostre pratiche religiose e accrescere il nostro repertorio di esperienza - dal punto di vista liturgico, per mezzo dell'iconografia, delle messe lunghe, delle benedizioni generose, della commemorazione regolare dei defunti e delle pratiche domestiche che trasformano la casa in una Chiesa.

Anche loro hanno molto da scoprire nella Chiesa cattolica: accogliamoli quindi in Cristo nelle nostre Chiese rendendo la nostra anche la loro.

Questi sono correligionari che sono anche stranieri in terre estranee: accogliamoli come compagni di fede e rispondiamo a quanti tra i nostri connazionali li vedono solo come concorrenza per i posti di lavoro e altre risorse socialmente scarse.

A mio parere, questo è ciò che Giovanni Paolo II segnalava quando restituì le reliquie di San Giovanni Crisostomo e San Gregorio di Nissa, che erano nella basilica di S. Pietro, al patriarca Bartolomeo della Grecia.

Dopo tutto, a quell'epoca la Polonia era appena diventata parte dell'Europa ma la Romania ortodossa sarebbe venuta dopo!

Possa la Chiesa in Italia diventare un faro di accoglienza all'interno della nostra Europa ingrandita.

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1 P. Berger, Heretical Imperative, Anchor Books, New York 1979,36; tr. it. L'imperativo eretico, LDC, Torino 1987,71.