Sant'Antonio di Padova Sermoni Prologo 1. Leggiamo nel primo libro dei Paralipomeni: "Davide diede [ al figlio Salomone ] oro finissimo, perché con esso venisse costruita una specie di quadriga di cherubini che, stendendo le ali, coprissero l’arca dell’alleanza del Signore" ( 1 Par 28,18 ). 2. Dice la Genesi che nella terra di Hevilath "si trova l’oro, e l’oro di quella terra è purissimo" ( Gen 2,12 ). Hevilath vuol dire "partoriente", e raffigura la sacra Scrittura, che è "la terra che produce prima l’erba, quindi la spiga, e infine il chicco pieno nella spiga" ( Mc 4,28 ). Nell’erba è indicata l’allegoria ( il senso allegorico ), che edifica la fede: "La terra germogli erba verdeggiante", comanda Dio nella Genesi ( Gen 1,11 ). Nella spiga – il cui nome viene da spiculum, punta o freccia – è indicata l’applicazione morale, o l’insegnamento morale, che forma i costumi e con la sua soavità penetra nello spirito. Nel chicco pieno è indicata l’anagogia ( il senso mistico ), che tratta della pienezza del gaudio e della beatitudine angelica. Ecco dunque che nella terra di Hevilath si trova l’oro finissimo, perché dal testo della pagina divina scaturisce "la scienza sacra". Come l’oro è superiore a tutti i metalli, così la scienza sacra è superiore a ogni altra scienza: non sa di lettere chi non conosce le "lettere sacre". Dunque è della scienza sacra che si parla, quando dice: "Davide diede oro finissimo". Davide vuol dire "misericordioso", oppure "di mano forte", o anche "avvenente di aspetto", ed è figura del Figlio di Dio, Gesù Cristo, il quale fu misericordioso nell’incarnazione, forte e valoroso nella passione, e sarà di aspetto sommamente desiderabile per noi nella beatitudine eterna. Parimenti è misericordioso nell’infusione della grazia: e questo negli incipienti, per cui è detto misericordioso, quasi a dire "che irriga il cuore misero" ( misericors, miserum rigans cor ). 3. Nell’Ecclesiastico infatti è detto: "Innaffierò il giardino delle piante e irrorerò il frutto del mio parto" ( Sir 24,29 ). Il giardino è l’anima nella quale Cristo, come un giardiniere, mette a dimora i misteri della fede, poi la irriga e la feconda con la grazia della compunzione; e dell’anima dice ancora: "e irrorerò il frutto del mio parto": l’anima nostra è detta "frutto del parto del Signore", cioè del suo dolore, perché, come una donna partoriente, l’ha generata nei dolori della passione: "Offrendo – dice l’Apostolo – preghiere e suppliche con forti grida e lacrime" ( Eb 5,7 ). E Isaia: "Io che faccio partorire gli altri, forse non partorirò?" ( Is 66,9 ), dice il Signore?". Irrora quindi il frutto del suo parto quando con la mirra e l’aloe della sua passione mortifica i piaceri della carne, affinché l’anima, come inebriata da questa irrorazione, dimentichi le cose temporali: "Hai visitato la terra e l’hai inebriata" ( Sal 65,10 ). Parimenti è di mano forte quando fa avanzare di virtù in virtù, e opera questo nei proficienti. Dice infatti Isaia: "Io sono il Signore, Dio tuo, che ti prendo per mano e ti dico: Non temere, perché io ti ho aiutato" ( Is 41,13 ). Come una madre amorosa prende con la sua mano la mano del bambino insicuro sulle gambe, perché possa salire con lei, così il Signore con la mano della sua misericordia prende la mano dell’umile penitente affinché possa salire per la scala della croce i gradini della perfezione ( i perfetti ), e sia fatto degno di contemplare colui che è avvenente di aspetto, "il re nella sua gloria" ( Is 33,17 ), "colui nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo" ( 1 Pt 1,12 ). Il nostro Davide, il Figlio di Dio, il Signore benigno e misericordioso ( Sal 111,4 ), che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare ( Gc 1,5 ), ha dato l’oro, cioè la sacra intelligenza della divina Scrittura: "Aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture" ( Lc 24,45 ); ha dato l’oro purissimo, cioè perfettamente purificato da ogni immondezza e da ogni scoria di malvagità e di eresia. 4. "Affinché con esso fosse costruita una specie di quadriga di cherubini": con questa espressione si intende la pienezza della scienza e vengono indicati l’Antico e il Nuovo Testamento, nei quali è la pienezza di tutta la scienza, la sola che sa insegnare, la sola che rende sapienti. Le sue massime ( lat. auctoritates ) sono come delle ali, che si distendono quando vengono spiegate nel triplice senso sopraddetto; e in questo modo velano l’arca dell’alleanza del Signore. L’arca è così chiamata in quanto tiene lontano ( lat. arcet ) gli sguardi o il ladro. L’arca è l’anima fedele, che deve allontanare da sé lo sguardo della superbia, di cui è detto in Giobbe: "Tutte le cose alte disprezza" ( Gb 41,25 ), e il ladro, così chiamato da "notte oscura" ( lat. fur, ladro, e furva nox, notte oscura ): il ladro che finge di essere santo, e che è chiamato: "il nemico che si aggira nelle tenebre" ( Sal 91,6 ). Quest’arca è detta "dell’alleanza del Signore", perché nel battesimo l’anima fedele ha stabilito con il Signore un’alleanza eterna, quella cioè di rinunciare al diavolo e alle sue suggestioni, come è scritto: "Giurai e stabilii di osservare i tuoi precetti di giustizia ( Sal 119,106 ). Quest’arca è velata dalle ali dei cherubini quando con la predicazione dell’Antico e del Nuovo Testamento viene protetta e difesa dalla fiamma della prosperità umana, dalla pioggia della concupiscenza carnale e dalla folgore delle suggestioni diaboliche. 5. Perciò a gloria di Dio e per l’edificazione delle anime, a consolazione del lettore e dell’ascoltatore, con l’approfondimento del senso della sacra Scrittura e ricorrendo ai vari passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, abbiamo costruito una quadriga, affinché su di essa l’anima venga sollevata dalle cose terrene e portata, come il profeta Elia, in cielo per mezzo della frequentazione delle verità celesti ( cf. 2 Re 2,11 ). E osserva che, come nella quadriga ci sono quattro ruote, così in questi sermoni vengono trattate quattro materie, vale a dire i vangeli domenicali, i racconti dell’Antico Testamento come vengono letti nella chiesa, gli introiti, e le epistole della messa domenicale. Quasi raccogliendo dietro ai mietitori le spighe dimenticate, come Rut la moabita nel campo di Booz ( cf. Rt 2,3.7 ), con timore e trepidazione perché impari a così sublime e arduo compito, ma vinto dalle preghiere e dall’amore dei fratelli che a ciò mi spingevano, ho riunito e concordato tra loro queste quattro materie, nella misura concessami dalla grazia divina e per quanto me lo consentiva il modesto ruscello della mia piccola scienza. E perché la complessità della materia e la varietà dei riferimenti non producesse nella mente del lettore confusione o dimenticanze, abbiamo diviso i vangeli in parti, come Dio ci ispirava, e ad ogni parte abbiamo fatto corrispondere le parti dei racconti dell’Antico Testamento e quelle delle epistole. Abbiamo esposto un po’ più diffusamente i vangeli e i racconti della Bibbia, mentre siamo stati più brevi e sintetici nell’esposizione dell’introito e delle epistole, perché l’eccesso di parole non provocasse un dannoso fastidio. È veramente difficile riassumere in un discorso breve ed efficace una materia così vasta! A tal punto è giunta la frivola mentalità dei lettori e degli uditori del nostro tempo, che se non incontrano in ciò che leggono o in ciò che ascoltano uno stile elegante, infiorettato di frasi ricercate e di parole rare e nuove, si annoiano di ciò che leggono e disprezzano ciò che sentono. Quindi, per evitare che la Parola di Dio avesse a suscitare noia o disprezzo a danno delle loro anime, all’inizio di ogni vangelo abbiamo posto un prologo appropriato, e abbiamo introdotto qua e là descrizioni di elementi naturali e di animali, ed etimologie di nomi, il tutto interpretato in senso morale. Abbiamo anche riunito insieme gli inizi ( gli incipit ) di tutte le citazioni di questa opera, dalle quali in pratica è possibile dedurre il tema del sermone; e all’inizio abbiamo elencato tutti i passi del libro nei quali trovarle e a quale argomento ognuna di esse possa essere adattata. Sia data dunque ogni lode, ogni gloria e ogni onore al Figlio di Dio, principio di tutta la creazione: in lui unicamente abbiamo riposto e da lui aspettiamo la ricompensa di questo lavoro. Egli è Dio benedetto, glorioso e beato per i secoli eterni. E tutta la chiesa canti: Amen. Alleluia! Domenica di settuagesima Temi del sermone – Vangelo di Settuagesima: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa"; si divide in due parti. – Introito della messa: "Mi circondarono gemiti di morte". – Epistola: "Non sapete che quelli che corrono nello stadio". – Storia biblica: "In principio Dio creò il cielo e la terra". – Parte I: Nella prima parte di questo vangelo troverai almeno questi temi dei sermoni, ossia gli argomenti principali delle prediche. – Anzitutto il sermone per la formazione del cuore del peccatore e sulla proprietà del mattone: "Prenditi un mattone". – Sermone sui sette articoli di fede: "Il primo giorno Dio disse: Sia fatta la luce". – Sermone sulla natività del Signore: "Il primo giorno Dio disse: Sia fatta la luce". – Sermone sul battesimo e su coloro che lo profanano: "Sia fatto il firmamento". – Sermone sulla passione di Cristo e sulla fede della chiesa: "La terra produca …" – Parte II: Nella seconda parte del vangelo c’è anzitutto il sermone ai penitenti sulla contrizione del cuore: "Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu". – Sermone ai penitenti: "Entrato Saul". – Sermone contro i ricchi: "Il Signore mandò un tarlo". – Sermone a coloro che si confessano: "Sia fatto il firmamento". – Sermone ai penitenti o ai claustrali: "Chi lasciò libero l’asino selvatico?" – Sermone sull’amore di Dio e del prossimo: "Siano fatte due grandi luci". – Osserva anche che da questa citazione si può ricavare il sermone per la festa degli apostoli Pietro e Paolo. Pietro fu la luce maggiore che regolò il giorno, cioè i giudei; Paolo fu la luce minore che regolò la notte, cioè i gentili. – Sermone ai contemplativi e sulle proprietà dell’uccello: "L’uomo nasce alla fatica". – Sermone sulla duplice glorificazione, ossia sulla glorificazione dell’anima e del corpo: "Ci sarà mese da mese". Esordio sermone per la formazione del cuore del peccatore 1. In principio Dio creò …, ecc. ( Gen 1,1 ). A Ezechiele, cioè al predicatore, parla lo Spirito Santo: "E tu, figlio dell’uomo, prenditi un mattone e disegna su di esso la città di Gerusalemme" ( Ez 4,1 ). Il mattone, per le quattro proprietà che possiede, raffigura il cuore del peccatore: viene preparato tra due tavole, viene portato alla giusta larghezza, si indurisce con il fuoco, e diventa di color rosso. Anche il cuore del peccatore dev’essere formato tra le due tavole dei due Testamenti. Dice il Profeta: "Tra i due monti – cioè tra i due Testamenti – passeranno le acque" ( Sal 104,10 ) cioè gli insegnamenti dottrinali. Giustamente è detto "dev’essere formato", perché il peccatore, deformato dal peccato, riceve la sua forma dalla predicazione dei due Testamenti. Così pure "è portato alla giusta larghezza": la larghezza della carità, che dilata il cuore angusto del peccatore; dice infatti il salmo: "Oltre ogni confine si estende il tuo comandamento" ( Sal 119,96 ), e la carità è più vasta dell’oceano. E ancora: s’indurisce con il fuoco; con il fuoco della tribolazione l’animo molle e fiacco si solidifica per non disperdersi nell’amore delle cose temporali, perché – dice Salomone – ciò che è la fornace per l’oro, ciò che è la lima per il ferro, ciò che è il battitoio per il grano, questo è la tribolazione per il giusto ( cf. Sap 3,6 ). Infine diventa rosso: e in questo fatto è indicata l’arditezza del sacro zelo, del quale è detto: "Lo zelo della tua casa – cioè della chiesa o anche dell’anima fedele – mi ha divorato ( Sal 69,10 ); e anche Elia dice: "Io ardo di zelo" ( 1 Re 19,10 ) per la casa d’Israele. Quindi nell’immagine del mattone sono posti in evidenza questi quattro argomenti: la conoscenza di entrambi i Testamenti per istruire il prossimo, la ricchezza della carità per amarlo, l’accettazione della sofferenza per sopportare il disprezzo per amore di Cristo, l’arditezza dello zelo per combattere contro ogni male. "Prenditi perciò un mattone e disegna su di esso la città di Gerusalemme". 2. Ricorda che c’è una triplice Gerusalemme spirituale: la prima è la chiesa militante, la seconda è l’anima fedele, la terza è la patria celeste. Quindi nel nome del Signore io prenderò il mattone, cioè il cuore di ogni ascoltatore, e disegnerò su di esso questa triplice città, vale a dire gli articoli di fede della chiesa, le virtù dell’anima fedele e i premi della patria celeste, citando e spiegando dei passi scritturali presi dall’Antico e dal Nuovo Testamento, includendo il tutto nel simbolico numero di sette. I. i sette giorni della creazione e i sette articoli di fede 3. "In principio Dio creò il cielo e la terra" ( Gen 1,1 ). Intendi bene il contenente e il contenuto. Dio, cioè il Padre, nel principio, cioè nel Figlio, creò e ricreò: creò per sei giorni e nel settimo riposò; ricreò con sei articoli di fede, promettendo con il settimo il riposo eterno. Il primo giorno Dio disse: "Sia fatta la luce. E la luce fu" ( Gen 1,3 ); primo articolo di fede: la Natività. Il secondo giorno Dio disse: "Sia fatto il firmamento nel mezzo delle acque, e separi acque da acque" ( Gen 1,6 ); secondo articolo di fede: il Battesimo. Il terzo giorno Dio disse: "La terra germogli erba verdeggiante che produce il seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie" ( Gen 1,11 ); terzo articolo di fede: la passione. Il quarto giorno Dio disse: "Ci siano due grandi luci nel firmamento" ( Gen 1,14 ); quarto articolo di fede: la Risurrezione. Il quinto giorno Dio fece gli uccelli dell’aria ( cf. Gen 1,20 ); quinto articolo di fede: l’Ascensione. Il sesto giorno Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza" ( Gen 1,26 ). "E soffiò sul suo viso un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente" ( Gen 2,7 ); sesto articolo di fede: l’invìo dello Spirito Santo. Il settimo giorno Dio si riposò da ogni lavoro che aveva compiuto ( cf. Gen 2,2 ); settimo articolo di fede: l’arrivo al giudizio, nel quale ci riposeremo da ogni nostro lavoro e da ogni fatica. Invochiamo ora lo Spirito Santo, che è amore e vincolo di unione del Padre e del Figlio, affinché ci conceda di unire e concordare tra loro ognuno di questi sette punti, cioè i giorni e gli articoli di fede, in modo che tutto risulti a suo onore e a edificazione della chiesa. 4. Il primo giorno Dio disse: "Sia fatta la luce". Questa luce è la Sapienza di Dio Padre, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo ( cf. Gv 1,9 ), e che abita una luce inaccessibile ( cf. 1 Tm 6,16 ). Di questa luce l’Apostolo nella lettera agli Ebrei dice: "Egli è lo splendore e la figura della sua sostanza" ( Eb 1,3 ); e il Profeta: "E nella tua luce vedremo la luce" ( Sal 36,10 ); e nel libro della Sapienza: "È lo splendore della luce eterna" ( Sap 7,26 ). Di essa dunque il Padre ha detto: "Sia fatta la luce; e la luce fu"; e Giovanni con maggiore chiarezza scrive: "Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi" ( Gv 1,14 ). Ed Ezechiele con lo stesso senso ma con altre parole: "Si fece sentire sopra di me la mano del Signore" ( Ez 3,22 ), cioè il Figlio, nel quale e per mezzo del quale il Padre ha fatto tutte le cose. Quindi la luce, che era inaccessibile e invisibile, si è fatta visibile nella carne, illuminando chi sedeva nelle tenebre e nell’ombra della morte ( cf. Lc 1,79 ). Di questa illuminazione trovi in Giovanni che Gesù "sputò in terra e fece del fango e ne spalmò gli occhi del cieco nato" ( Gv 9,6 ). La saliva, che scende dal capo del Padre, simboleggia la sapienza. "Il capo di Cristo è Dio" ( 1 Cor 11,3 ), dice l’Apostolo. La saliva viene unita alla polvere, cioè la divinità è unita all’umanità, affinché vengano illuminati gli occhi del cieco nato, cioè del genere umano, accecato nei progenitori. È chiaro dunque che nel giorno in cui Dio disse "Sia fatta la luce", in quello stesso giorno, cioè la domenica, la Sapienza di Dio Padre, nata dalla Vergine Maria, scacciò le tenebre che "erano sopra la faccia dell’abisso" ( Gen 1,2 ), vale a dire nel cuore dell’uomo. Perciò in quello stesso giorno, nella Messa della Luce ( Messa dell’Aurora, nel giorno di Natale ), si canta: "Oggi splenderà su di noi la luce …", e nel vangelo: "Una luce dal cielo avvolse i pastori …" ( Lc 2,9 ). 5. Il secondo giorno Dio disse: "Sia fatto il firmamento nel mezzo delle acque e separi acque da acque". Il firmamento nel mezzo delle acque è il Battesimo, che separa le acque superiori da quelle inferiori, separa cioè i fedeli dagli infedeli: giustamente gli infedeli sono chiamati "acque inferiori", giacché cercano le cose inferiori e ogni giorno si abbassano con le loro cadute. Invece le "acque superiori" rappresentano i fedeli, i quali, come dice l’Apostolo, devono cercare "le cose di lassù, dove sta Cristo che siede alla destra di Dio" ( Col 3,1 ). E osserva che queste acque vengono definite "cristalline". Infatti il cristallo, toccato o colpito dai raggi del sole, sprigiona scintille ardenti; così l’uomo fedele, illuminato dai raggi del sole, deve sprigionare le scintille della sana predicazione e del buon comportamento, che infiammeranno il prossimo. Ma ahimè, ahimè! squarciato il firmamento, le acque superiori si disperdono nel mare morto, entrando a far parte dei morti. Per questo dice Ezechiele: "Queste acque che escono dal cumulo di sabbia orientale e scendono alla piana del deserto, entreranno nel mare" ( Ez 47,8 ). Il cumulo ( lat. tumulus ) indica la contemplazione, nella quale, come in un tumulo, il morto viene sepolto e occultato. L’uomo contemplativo, morto al mondo, appartato dall’agitazione degli uomini, è come sepolto. E Giobbe a proposito dice: "Nell’abbondanza entrerai nel sepolcro, come a suo tempo si raccoglie il mucchio di grano" ( Gb 5,26 ). Il giusto, nell’abbondanza della grazia che gli è elargita entra nel sepolcro della vita contemplativa, come a suo tempo il mucchio di grano viene portato nel granaio: soffiata via la paglia delle cose temporali, la sua mente si rinchiude nel granaio della pienezza celeste e, così rinchiusa, si sazia della sua dolcezza. 6. E osserva che questo cumulo è detto "di sabbia orientale". Nella sabbia è indicata la penitenza. Per questo trovi nell’Esodo che Mosè "nascose sotto la sabbia l’egiziano che aveva colpito a morte" ( Es 2,12 ), perché il giusto deve uccidere il peccato mortale con la confessione e seppellirlo con la pratica della penitenza: e questa deve essere sempre rivolta a quell’Oriente del quale Zaccaria dice: "Ecco l’uomo, il cui nome è Oriente" ( Zc 6,12 ). "Queste acque escono dal cumulo di sabbia orientale". Ahimè, quante acque, quanti religiosi escono dal tumulo della vita contemplativa, dalla sabbia della penitenza, dall’oriente della grazia! Escono, ripeto, con Dina ed Esaù dalla casa paterna ( cf. Gen 34,1; Gen 28,9 ), con il diavolo e con Caino si allontanano dal volto di Dio ( cf. Gen 4,16 ), con Giuda traditore – che era ladro, e aveva il suo gruzzolo segreto ( Gv 12,6 ) – abbandonano la scuola di Cristo ( cf. Gv 13,29-30 ), e scendono nella piana del deserto, alla distesa del deserto di Gerico, nella quale il re Sedecia viene accecato da Nabucodonosor, cioè dal diavolo, come dice il profeta Geremia ( cf. Ger 39,4-7 ); e ciò significa che nell’abbondanza delle cose temporali il peccatore viene privato del lume della ragione, dei propri figli, cioè delle sue opere, distrutte dal diavolo stesso. In questa piana Caino, il cui nome vuol dire "possesso", uccise Abele, il cui nome significa "lutto". Il possesso di un’effimera abbondanza distrugge il lutto della penitenza. Scendono dunque le acque nella piana deserta; infatti leggiamo nella Genesi: "E camminando da oriente verso occidente, trovarono una pianura nella terra di Sennaar" ( Gen 11,2 ). Dall’oriente della grazia, i figli di Adamo camminano verso l’occidente della colpa e, trovata una piana di gaudio mondano, popolano la terra di Sennaar, nome che si interpreta "fetore". Infatti nel fetore della gola e della lussuria costruiscono la casa della loro dimora, chiamando il nome di Dio non come cristiani, ma invano come i pagani, mentre il Signore nell’Esodo comanda: "Non chiamerai invano il nome del Dio tuo" ( Es 20,7 ). Chiama invano il nome di Dio colui che porta non la sostanza del nome, ma il nome senza la sostanza. E in questo modo entrano nel mare, cioè nell’amarezza dei peccati, per arrivare poi all’amarezza dei tormenti. a Dio ha fatto il firmamento del Battesimo nel mezzo delle acque, per dividere acque da acque. E questi peccatori, come dice Isaia, "hanno trasgredito le leggi, hanno cambiato il diritto, hanno infranto l’alleanza eterna. Per questo la maledizione divorerà la terra: i suoi abitatori peccheranno e perciò impazziranno coloro che la coltivano" ( Is 24,5-6 ). Trasgrediscono le leggi della lettera e della grazia, perché non vogliono custodire né la legge della lettera come gli schiavi, né quella della grazia, come i figli; stravolgono il diritto naturale, che dice: Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te ( cf. Tb 4,16 ); infrangono l’eterna alleanza che hanno stipulato col Battesimo. Ecco perciò che la maledizione della superbia divorerà la terra, cioè i mondani, e i suoi abitatori cadranno nel peccato di avarizia; a questi è detto nell’Apocalisse: "Guai a coloro che abitano la terra" ( Ap 8,13 ), e coloro che la coltivano impazziranno nel peccato della lussuria, la quale appunto è follia e demenza. 7. Il terzo giorno Dio disse: "La terra germogli erba verdeggiante". La terra, il cui nome deriva dal verbo latino tero: pestare, tritare, è il corpo di Cristo, "che fu schiacciato a causa dei nostri peccati", come dice il profeta Isaia ( Is 53,5 ). E questa terra ( il corpo di Cristo ) fu scavata e arata con i chiodi e con la lancia, e di essa è detto: "La terra scavata darà frutto nel tempo desiderato. La carne di Cristo trafitta ha dato il regno dei cieli" ( Hervieux ). Questa terra germogliò l’erba verdeggiante negli apostoli, produsse il seme della predicazione nei martiri, e l’albero fruttifero che portò frutto nei confessori della fede e nelle vergini. La fede nella chiesa primitiva era quasi tenera erba, per cui gli apostoli potevano dire con il Cantico di Cantici ( Ct 8,8ss ): "La nostra sorella", cioè la chiesa primitiva, "è piccola" per il numero dei fedeli, "e non ha le mammelle" con le quali allattare i suoi figli; infatti ancora non era stata resa feconda dallo Spirito Santo, e quindi dicevano: "Che cosa faremo alla nostra sorella nel giorno" della Pentecoste, "nel quale si dovrà parlarle" con la parola dello Spirito Santo? Di questa parola il Signore nel vangelo dice: "Egli vi insegnerà ogni cosa, vi ricorderà – cioè vi somministrerà – ogni cosa" ( Gv 14,26 ). 8. Il quarto giorno Dio disse: "Ci siano due grandi luci nel firmamento". Nel firmamento, cioè in Cristo già glorificato con la risurrezione, ci furono due luci: lo splendore della risurrezione appunto, indicata dal sole, e l’incorruttibilità della carne, simboleggiata dalla luna, tenendo presente però com’era la condizione del sole e della luna prima della caduta dei progenitori: perché dopo la loro disobbedienza tutta la creazione ha subìto un danno; infatti dice l’Apostolo: "Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi delle doglie del parto" ( Rm 8,22 ). 9. Il quinto giorno Dio creò gli uccelli del cielo, e con questo concorda molto bene il quinto articolo di fede, vale a dire l’Ascensione, per la quale il Figlio di Dio, come un uccello, volò alla destra del Padre con la carne umana che aveva assunta. Disse infatti con le parole del profeta Isaia: "Io chiamo dall’oriente un uccello e da una terra lontana l’uomo della mia volontà" ( Is 46,11 ). "Chiamo dall’oriente", vale a dire dal monte degli Ulivi che è in oriente, colui del quale è detto: "Egli è salito alla sommità del cielo" ( Sal 68,34 ), cioè alla stessa dignità del Padre; "l’uccello", cioè il Figlio mio; e "da una terra lontana", vale a dire dal mondo, "l’uomo della mia volontà", colui che disse: "Il mio cibo è fare la volontà del Padre che mi ha mandato" ( Gv 4,34 ). 10. Il sesto giorno Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza". Il sesto articolo di fede è l’invìo dello Spirito Santo, in virtù del quale l’immagine di Dio, deturpata e deformata nell’uomo, con l’infusione dello Spirito Santo che "alitò nel volto dell’uomo il soffio della vita", viene restaurata e illuminata; è scritto infatti negli Atti degli Apostoli: "Venne improvviso dal cielo un rombo, come un vento che si abbatte gagliardo" ( At 2,2 ). E osserva che giustamente lo Spirito Santo è detto "gagliardo" ( lat. vehemens, veemente ), vale a dire: che toglie via l’eterno guai ( vae adimens ); o anche, che porta in alto la mente ( vehens mentem ). Dice infatti il profeta Davide: "È segnata su di noi, Signore, la luce del tuo volto" ( Sal 4,7 ). Il volto del Padre è il Figlio. Come infatti una persona si riconosce dal volto, così per mezzo del Figlio abbiamo conosciuto il Padre. Quindi la luce del volto di Dio è la conoscenza del Figlio e l’illuminazione della fede, che nel giorno della Pentecoste fu segnata e impressa nel cuore degli Apostoli come un carattere, e così "l’uomo divenne un essere vivente" ( Gen 2,7 ). 11. Il settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere. E anche la chiesa, nel settimo articolo, si riposerà da ogni fatica e sudore, quando "Dio asciugherà ogni lacrima dai suoi occhi" ( Ap 21,4 ), eliminerà cioè ogni motivo di pianto. Allora essa sarà lodata dal suo sposo e sarà degna di sentirsi dire: "Datele del frutto delle sue mani, le sue opere la lodino alle porte ( Pr 31,31 ) del giudizio; e insieme ai suoi figli udrà "il mormorio di un vento leggero" ( 1 Re 19,12 ): "Venite, benedetti! …" ( Mt 25,34 ). Dopo aver descritto brevemente "sul mattone" questi sette giorni e i sette articoli di fede, ci accingiamo ora a descrivere in senso morale le sei virtù dell’anima fedele e le sei ore della lettura evangelica, concordandole con il "denaro" e col "sabato". Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Verbo del Padre, principio di tutta la creazione, affinché, vivendo il settenario di questa vita secondo il corpo, ci faccia vivere il settenario degli articoli della fede secondo lo spirito, per giungere, col suo aiuto, al lui che è la vita stessa, che è il riposo del sabato e il denaro [ la ricompensa ] dei santi. Ce lo conceda lui, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. i sei giorni della creazione e le sei virtù dell’anima 12. Consideriamo brevemente la "seconda Gerusalemme", cioè l’anima fedele, che in Matteo è chiamata "vigna" ( cf. Mt 21,33 ): vediamo in che modo debba essere sarchiata con il sarchio ( la zappa ) della contrizione, potata con la falce della confessione e sostenuta con i paletti della penitenza ( soddisfazione ). Disse dunque Dio: "Sia fatta la luce. E la luce fu". Poiché, come dice Ezechiele, "una ruota era in mezzo a un’altra ruota" ( Ez 1,16 ), il Nuovo Testamento cioè è nell’Antico, e cortina trae cortina ( cf. Es 26,3 ), vale a dire il Nuovo Testamento spiega l’Antico, ecco che spiegando in senso morale le "sei ore" del vangelo con le opere dei sei giorni compiute da Dio, concorderemo il Nuovo con l’Antico Testamento. 13. Il primo giorno, dunque, Dio disse: "Sia fatta la luce. E la luce fu". Senti la concordanza della prima ora: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì di primo mattino", ecc. ( Mt 20,1 ). Osserva che le virtù dell’anima sono sei, e cioè: la contrizione del cuore, la confessione della bocca, l’opera di penitenza ( la soddisfazione ), l’amore di Dio e del prossimo, l’esercizio della vita attiva e di quella contemplativa, il conseguimento della perseveranza finale. Quando sopra la faccia dell’abisso, cioè nel cuore, ci sono le tenebre del peccato mortale, l’uomo è vittima della mancanza della conoscenza divina e dell’ignoranza della propria fragilità, e non sa più distinguere tra il bene e il male. E questo è il "triduo" di cui si parla nell’Esodo, dove dice che per tre giorni ci furono nella terra d’Egitto delle tenebre così fitte da sembrare palpabili; ma dove si trovavano i figli d’Israele, lì c’era la luce ( cf. Es 10,21-23 ). I tre giorni sono la conoscenza di Dio, la conoscenza di se stessi, e la capacità di distinguere tra il bene e il male. Riguardo ai primi due, sant’Agostino prega: "Signore, fa’ che io conosca te, fa’ che io conosca me". Riguardo al terzo, è detto nella Genesi che l’albero del bene e del male – ossia la capacità di distinguere tra l’uno e l’altro – stava nel giardino ( cf. Gen 2,9 ), cioè nella mente, nello spirito dell’uomo. Il primo giorno ci illumina affinché conosciamo la dignità della nostra anima; per questo dice l’Ecclesiastico: "Custodisci con la mansuetudine la tua anima e rendile onore" ( Sir 10,31 ). Ma l’uomo, ridotto alla miseria, quando era nell’onore non comprese, e divenne simile agli animali ( Sal 49,13 ). Il secondo giorno ci illumina affinché conosciamo la nostra infermità, e perciò dice Michea: "La tua umiliazione è in mezzo a te" ( Mi 6,14 ). Il centro del nostro corpo è il ventre, deposito di escrementi, e se ci meditiamo sopra, la nostra superbia resta umiliata, l’arroganza si sgonfia e la vanagloria svanisce. Il terzo giorno ci illumina per distinguere il giorno dalla notte, la lebbra dalla nitidezza, il puro dall’impuro: e questo è assolutamente necessario. Infatti "il male confina con il bene, nell’errore stesso. Spesso la virtù deve pagare per i delitti del vizio" ( Ovidio ). In questi tre giorni ci sono tenebre palpabili nella terra di Egitto e sulla faccia dell’abisso; ma dovunque ci sono i veri figli d’Israele c’è la luce, della quale Dio disse "sia la luce". Questa luce è la contrizione del cuore che illumina l’anima, produce la conoscenza di Dio e della propria infermità, e mostra la differenza tra l’uomo retto e quello malvagio. 14. Questo è il primo mattino e la prima ora nella quale uscì il padrone di casa, cioè il penitente, per ingaggiare operai che coltivassero la sua vigna, come è detto nel vangelo di questa domenica; e nell’introito della messa si canta: Mi hanno circondato gemiti di morte; e si legge la lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi: Non sapete che quelli che corrono nello stadio, ecc. Di questo mattino il profeta dice: "Al mattino", cioè all’inizio della grazia, "starò davanti a te" ( Sal 5,5 ), retto ed eretto, come retto ed eretto tu mi hai fatto. Dio infatti, dice Agostino, è retto ed eretto, e ha fatto anche l’uomo retto ed eretto, affinché solo con i piedi toccasse la terra, cercasse cioè dalla terra solo le cose necessarie. Di questo mattino è detto in Marco: "Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro, essendo già sorto il sole" ( Mc 16,2 ). E osserva bene che dice "il primo giorno dopo il sabato": nessuno infatti può "andare al sepolcro", cioè meditare sulla propria morte, se prima non si libera dalla preoccupazione delle cose materiali. "Nel mattino" della contrizione – dice il Profeta – sterminavo tutti i peccatori della terra" ( Sal 101,8 ), reprimevo cioè tutti i moti disordinati della mia carne. "Chi è costei" – dice lo sposo dell’anima penitente – "che avanza come l’aurora che sorge?" ( Ct 6,9 ). Infatti come l’aurora segna l’inizio del giorno e la fine della notte, così la contrizione segna la fine del peccato e l’inizio della penitenza. Perciò dice l’Apostolo: "Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore" ( Ef 5,8 ), e ancora: "La notte è avanzata, il giorno è vicino" ( Rm 13,12 ). 15. Perciò alla prima luce e di buon mattino esca il padrone di casa a coltivare la vigna, della quale dice Isaia: "Al mio amato è stata fatta ( data ) una vigna su di un colle ( in cornu ) figlio dell’olio ( ubertoso, fertile ). Egli la circondò di una siepe e la liberò dai sassi; edificò in mezzo ad essa una torre, vi costruì un torchio e vi piantò delle viti scelte" ( Is 5,1-2 ). "La vigna", cioè l’anima", "è stata fatta per l’amato", cioè ad onore dell’amato, "in un colle ( in cornu )", cioè nella potenza della passione. "Per l’amato, figlio dell’olio", cioè della misericordia; infatti solo per la sua misericordia e "non per opere di giustizia da noi compiute" ( Tt 3,5 ) egli ha salvato la vigna. "E la circondò di una siepe", la siepe della legge scritta e di quella della grazia, di cui Salomone nell’Ecclesiaste dice: "Chi distrugge la siepe", cioè trasgredisce la legge, "lo morderà il serpente" ( Qo 10,8 ), il diavolo che cerca le ombre ( coluber, colit umbras ), cerca cioè i peccatori. Per questo dice Giobbe: "Egli dorme all’ombra", cioè nella mente tenebrosa, "riposa nascosto nel canneto", vale a dire nella falsità dell’ipocrita, "e in luoghi umidi" ( Gb 40,16 ), ossia nei lussuriosi. "E la liberò dai sassi", cioè dalla durezza del peccato; "edificò la torre" dell’umiltà, ossia la parte superiore della ragione, "in mezzo ad essa, e vi costruì il torchio" della contrizione, dal quale si spreme il vino delle lacrime, e così con gli esempi e gli insegnamenti dei santi "impiantò viti scelte": in questa vigna il padrone di casa deve condurre di buon mattino gli operai, cioè l’amore e il timore di Dio, che la coltivino nel modo dovuto. 16. A proposito di questo mattino, trovi ancora nel primo libro dei Re, che "Saul, entrato in mezzo agli accampamenti" dei figli di Ammon "sul primo mattino, fece strage degli Ammoniti fino a che il giorno si fece caldo" ( 1 Sam 11,11 ). Saul indica il penitente, unto con l’olio della grazia; questi, di primo mattino, cioè con la contrizione del cuore, deve introdursi tra gli accampamenti dei figli di Ammon, nome che s’interpreta "acqua paterna" e indica i moti carnali, i quali provengono a noi come acqua fluente dai progenitori. Saul deve distruggerli fino a che il giorno si fa caldo, vale a dire finché il fervore della grazia irradia l’anima e, dopo averla irradiata, la riscalda. Sempre a proposito di questo mattino, troviamo nel profeta Giona che "il Signore allo spuntar dell’alba mandò un verme ( tarlo ) che rosicchiò l’edera, e questa seccò" ( Gn 4,7 ). L’edera che da se stessa non può spingersi in alto, ma lo fa attaccandosi ai rami di qualche albero, sta a significare il ricco di questo mondo, il quale può elevarsi al cielo non per se stesso, ma con le elemosine elargite ai poveri, che lo sollevano a modo di braccia. Perciò il Signore nel vangelo dice: "Fatevi degli amici con il denaro dell’iniquità, cioè dell’ingiustizia, affinché quando verrete a mancare, vi accolgano", ecc. ( Lc 16,9 ). Questa edera, "allo spuntar dell’alba", cioè col sorger della grazia o con la contrizione del cuore, viene colpita e staccata dal dente del tarlo, cioè dal rimorso della coscienza, così che cadendo per terra, cioè considerandosi terra, si dissecca in se stessa e svilisce; dice infatti il Profeta: "Venne meno il mio cuore", cioè la superbia del mio cuore, "e la mia carne" ( Sal 73,26 ), cioè la mia carnalità. Dopo aver fatto queste considerazioni sul "primo giorno" della creazione e sul "primo mattino" della contrizione, passiamo al secondo giorno della creazione e all’ora terza della confessione. 17. Il secondo giorno Dio disse: "Sia fatto il firmamento nel mezzo delle acque e separi acque da acque". Il firmamento è la confessione, che recinge saldamente l’uomo affinché non si disperda nei piaceri. Perciò il Signore, per bocca di Geremia, rimprovera l’anima peccatrice, priva di questo firmamentum, cioè di questo sostegno: "Fino a quando ti consumerai nei piaceri, o figlia vagabonda?" ( Ger 31,22 ); e Isaia aggiunge: "Percorri la terra come un fiume, o figlia del mare, perché tu non hai più cintura" ( Is 23,10 ). La misera anima è detta "figlia del mare", perché succhia avidamente, quasi da diabolica mammella, i piaceri del mondo, che hanno il gusto della dolcezza ma generano amarezza sempiterna. Dice infatti Giacomo: "La concupiscenza genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte" ( Gc 1,15 ). Alla misera anima è detto: "Percorri la terra come un fiume", come le dicesse: Cingiti con la cintura della confessione e raccogli le tue vesti affinché non scendano a toccare le immondezze; e non voler passare attraverso l’abbondanza dei beni terreni, dove molti si sono perduti, ma scegli di passare per la semplicità e le strettezze della povertà: giacché attraverso un ruscello si passa con tranquillità di spirito. Ma l’anima peccatrice "non ha cintura", non ha il sostegno della confessione, del quale appunto è detto: "Sia fatto il firmamento nel mezzo delle acque, e divida acque da acque". Le acque superiori sono gli effluvi della grazia, le acque inferiori sono le esalazioni della concupiscenza, che devono essere tenute sotto il dominio dell’uomo. O in altro senso: la mente del giusto ha le acque superiori, cioè la ragione che è la potenza superiore dell’anima e richiama sempre l’uomo al bene; ha le acque inferiori, cioè la sensualità che tende sempre alla caduta. Il firmamento della confessione divida perciò le acque superiori dalle inferiori, affinché il penitente, uscito da Sodoma e salendo ai monti, non si volti indietro a guardare, come la moglie di Lot, e venga trasformato in una statua o in blocco di sale ( cf. Gen 19,17-26 ), che gli animali, cioè i demoni, consumeranno leccandolo con grande avidità. Il penitente, uscito dall’Egitto con i veri Israeliti e dirigendosi verso la terra promessa, non si prenda come guida la propria volontà, che lo farebbe ritornare alle pentole di carni, ai meloni e alle cipolle dell’Egitto, cioè ai desideri carnali. "Sia fatto dunque", vi scongiuro, "un firmamento nel mezzo delle acque", affinché il penitente, data al confessore la caparra del fermo proposito di non ricadere in peccato, nella stessa confessione, quasi nell’ora terza, meriti, insieme con gli apostoli, di essere inebriato col mosto dello Spirito Santo, e come un otre, divenuto nuovo con la confessione, sia riempito del nuovo vino. Dice infatti il Signore: Se il vino nuovo, cioè la grazia dello Spirito Santo, fosse versato nell’otre vecchio dei giorni di peccato, l’otre si romperebbe e il vino si verserebbe ( cf. Lc 3,57 ), come accadde all’incallito traditore Giuda il quale, sospeso per il collo come un otre, crepò al centro del ventre, e si sparsero per terra le sue viscere, che erano state corrose dal veleno dell’avarizia ( cf. At 1,18 ). Giustamente la confessione è chiamata "ora terza", nella quale il vero penitente, come un padrone di casa, coltiva la vigna della sua anima. Egli infatti deve confessarsi colpevole di tre cose: di aver offeso il Signore, di aver ucciso se stesso e di aver scandalizzato il prossimo, omettendo di dare a ciascuno secondo la debita giustizia: a Dio l’onore, a se stesso la diffidenza, al prossimo l’amore. Ecco perché nell’introito della messa di oggi si lamenta dicendo: "Mi hanno circondato gemiti di morte" perché ho offeso Dio; "le pene dell’inferno mi hanno afferrato", perché sono caduto nel peccato mortale; "e nella mia tribolazione", nella quale soffro perché ho scandalizzato il prossimo, "ho invocato" con la contrizione del cuore "il Signore, ed egli dal suo santo tempio", cioè dalla sua umanità nella quale abita la divinità, "ha ascoltato la mia voce" ( Sal 18,5-7 ), cioè la voce della mia confessione. 18. Il terzo giorno Dio disse: "La terra germogli erba verdeggiante che produce seme secondo il genere suo, e abbia in se stessa il suo seme sopra la terra". Ricorda che nel terzo giorno viene indicato l’adempimento della penitenza ( la soddisfazione ), che consiste in tre cose: la preghiera, il digiuno e l’elemosina, tutte e tre indicate dalle parole di Dio. "La terra germogli erba verdeggiante". L’erba verdeggiante raffigura la preghiera. Dice Giobbe del penitente: "Chi lasciò libero l’asino selvatico e chi sciolse i suoi legami? Ad esso ho dato per casa il deserto e le sue tende sono in terra salmastra. Disprezza la moltitudine della città e non sente il clamore dell’esattore ( dei sorveglianti ). Abbraccia con lo sguardo i monti del suo pascolo e va in cerca di tutto ciò che è verde" ( Gb 39,5-8 ). L’ònagro, il cui nome deriva da onus ( peso ) e ager ( campo ), raffigura il penitente, che nel campo della chiesa si sottopone al peso della penitenza. Il Signore lo manda libero e scioglie i suoi legami, quando gli permette di andarsene, libero dalla schiavitù del demonio e sciolto dalle catene dei suoi peccati. Per questo il Signore dice agli Apostoli: "Scioglietelo e lasciatelo andare" ( Gv 11,44 ). A questo penitente Dio dà per casa la solitudine della mente e le tende della vita attiva, nelle quali combatte "in terra salmastra", vale a dire tra le vicissitudini mondane. E così questo penitente disprezza la moltitudine della città, della quale il Signore per bocca del Profeta dice: "Io sono il Signore e non cambio" ( Ml 3,6 ), e non entro nella città; e David: "Nella città ho visto l’iniquità" contro Dio, "e le contese" contro il prossimo ( Sal 55,10 ). "E non ascolta la voce dell’esattore". L’esattore è il diavolo, che una volta offrì al nostro progenitore la moneta del peccato, e adesso non cessa mai di richiederla ogni giorno con gli interessi dell’usura. Il penitente non ascolta la voce di questo esattore, quando si rifiuta di acconsentire alle sue suggestioni. Oppure: l’esattore è il ventre che ogni giorno esige ad alta voce il tributo della gola; ma il penitente non lo ascolta per nulla, perché gli obbedisce non per il piacere, ma solo per necessità. Questo ònagro "abbraccia con lo sguardo i monti del suo pascolo", perché, arrivato ad un modo di vivere superiore, guardandosi intorno ha scoperto i pascoli della Sacra Scrittura, e dice con il Profeta: "Il Signore mi ha posto su pascoli erbosi" ( Sal 23,2 ); e così ricerca nella preghiera assidua tutto ciò che è verde, per giungere, dai pascoli della lettura sacra, al possesso delle erbe verdeggianti dell’orazione devota, della quale è detto appunto: Germogli la terra erba verdeggiante. 19. "E che produca il seme": parole con le quali è indicato il digiuno. Dice Isaia: "Beati voi, che seminate sopra le acque, e legate il piede del bue e dell’asino ( Is 32,20 ). Semina sopra le acque colui che alla preghiera e alla compunzione delle lacrime aggiunge il digiuno, e così lega con i vincoli dei comandamenti "il piede del bue e dell’asino", vale a dire gli affetti dello spirito e del corpo. Dice infatti il Signore: Questa specie di demoni, cioè l’impurità del cuore e la lussuria della carne, non può essere scacciata se non con la preghiera e il digiuno ( cf. Mt 17,20 ). Infatti con la preghiera purifichiamo il cuore dai pensieri cattivi, e con il digiuno freniamo l’arroganza della carne. Segue il terzo punto: "L’albero da frutto, che faccia frutto secondo la sua specie". Nell’albero da frutto è raffigurata l’elemosina che produce il suo frutto nei bisognosi e per mano degli stessi viene riportato in cielo. E osserva che è detto: "che faccia frutto secondo la sua specie". La specie dell’uomo è un altro uomo, creato dalla terra ( humus ) e reso vivente con l’anima. Perciò deve fare l’elemosina, "deve fare frutto secondo la sua specie", perché l’anima si ristora con il pane spirituale e il corpo con quello materiale. Dice infatti Giobbe: "Visitando la tua specie non commetterai peccato" ( Gb 5,24 ). La tua specie è l’altro uomo, che tu devi visitare sia con l’elemosina spirituale che con quella materiale; e così non peccherai contro quel comandamento che dice: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" ( Mt 22,39 ). Ma osserva che è detto: "Abbia in sé il suo seme" ( Gen 1,11 ), e Agostino insegna: "Chi vuol fare l’elemosina rettamente, deve incominciare prima da se stesso". Queste tre cose dunque rendono perfetta la pratica della penitenza ( soddisfazione ), la quale è bene raffigurata nell’ora sesta, cioè il mezzogiorno, quando il padrone di casa uscì e ingaggiò operai che coltivassero la vigna. Osserva che il mezzogiorno, momento in cui il sole scotta più che nelle altre ore del giorno, raffigura il fervore nel compiere la soddisfazione ( l’opera di penitenza ordinata nella confessione ). Verso la fine del Deuteronomio sta scritto: "Neftali nuoterà nell’abbondanza e sarà ripieno della benedizione del Signore: possederà il mare e il mezzogiorno" ( Dt 33,23 ). Neftali si interpreta "convertito" oppure "dilatato", e raffigura il penitente che si converte dalla sua cattiva condotta, e si allarga alle buone opere. Egli, nel suo cammino, godrà dell’abbondanza della grazia e sarà ripieno della benedizione della gloria; ma per essere degno di meritarla, è necessario che sia prima in possesso del mare, cioè dell’amarezza del cuore ( pentimento ), e del mezzogiorno, cioè del fervore della soddisfazione. 20. Il quarto giorno Dio disse: "Ci siano nel firmamento due grandi luci". La quarta virtù è l’amore verso Dio e verso il prossimo: l’amore di Dio è raffigurato dallo splendore del sole, l’amore del prossimo dalla mutevolezza della luna. Non ti dà l’impressione di una certa mutevolezza l’espressione: "godere con quelli che godono e piangere con quelli che piangono"? ( Rm 12,15 ). Troviamo a proposito nel Deuteronomio: "La terra di Giuseppe sia ripiena di tutti i frutti del sole e della luna" ( Dt 33,14 ). I frutti indicano le opere del giusto, per la gioia della perfezione, per la bellezza della retta intenzione, per il profumo della buona reputazione. Questi frutti provengono dal sole e dalla luna, cioè dall’amore di Dio e del prossimo, due virtù che rendono perfetto chiunque. Questo duplice amore è raffigurato nell’ora nona, quando ancora una volta uscì il padrone di casa. La perfezione di questo duplice amore conduce alla perfezione della beatitudine angelica, che il profeta Ezechiele suddivide in nove ordini, sotto il simbolo delle nove pietre preziose, quando dice a Lucifero: "Tu eri coperto di ogni pietra preziosa: rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici, diaspri, zaffiri, carbonchi e smeraldi" ( Ez 28,13 ). 21. Il quinto giorno Dio creò i pesci nel mare e gli uccelli sopra la terra. La quinta virtù è la pratica della vita attiva e di quella contemplativa. In essa l’uomo attivo, come il pesce, percorre le vie del mare, cioè del mondo, per poter assistere il prossimo sofferente nelle sue necessità; e l’uomo contemplativo, come un uccello che si innalza al cielo sulle ali della contemplazione, nella misura delle sue capacità contempla "il re nel suo splendore" ( Is 33,17 ). "L’uomo – dice Giobbe – nasce alla fatica" della vita attiva, "e l’uccello al volo" della vita contemplativa ( Gb 5,7 ). Osserva poi che, come l’uccello che ha il petto largo viene frenato dal vento perché sposta molta aria, mentre quello che ha il petto stretto e penetrante vola più veloce e senza difficoltà, così la mente del contemplativo, se si allarga a molti e svariati pensieri, viene troppo ostacolata nel volo della contemplazione; se invece la sua mente incomincia a volare raccolta e concentrata in una cosa sola, fruirà veramente del gaudio della contemplazione. L’esercizio di questa duplice vita è raffigurato nell’ora undicesima, nella quale il padrone di casa esce per l’ultima volta. L’undicesima ora consta dell’uno e del dieci: la vita contemplativa si riferisce all’uno, perché essa ha per oggetto Dio solo, unico gaudio; invece la vita attiva si riferisce ai dieci precetti del decalogo, nei quali essa stessa raggiunge la sua pienezza nel tempo di questo esilio terreno. 22. Il sesto giorno Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza". La sesta e ultima virtù dell’anima è la perseveranza finale, che è raffigurata nella coda della vittima sacrificale, e nella lunga, variopinta tunica di Giuseppe; senza la perseveranza finale le altre cinque virtù sopra elencate sono inutili; solo insieme ad essa si possiedono fruttuosamente; solo in essa l’immagine e la somiglianza di Dio, che mai deve essere deturpata, o macchiata o cancellata, si imprime eternamente nel volto dell’anima, come avvenne nel sesto giorno della creazione. Questa "sera" ( lat. sero, tardi ) del vangelo, ultima ora della vita umana, nella quale il padrone di casa per mezzo del suo amministratore, cioè del suo Figlio, dà il denaro a colui che ha lavorato assiduamente nella vigna, è rappresentata dal sabato, che vuol dire "riposo". Di esso dice Isaia: "Ci sarà mese da mese", vale a dire che la perfezione della gloria dipenderà dalla perfezione della vita; e "ci sarà sabato da sabato" ( Is 66,23 ): il riposo dell’eternità, cioè, dipenderà dalla tranquillità del cuore, che è data dalla duplice stola dell’anima e del corpo ( la veste della grazia e dell’innocenza ). L’anima sarà glorificata con tre prerogative, e il corpo con quattro. L’anima sarà ornata con la sapienza, con l’amicizia e con la concordia. La sapienza di Dio risplenderà nel volto dell’anima: vedrà Dio come egli è ( cf. 1 Gv 3,2 ), e lo conoscerà come essa stessa è conosciuta ( cf. 1 Cor 13,12 ). Anche l’amicizia riguarda Dio, e di essa Isaia dice: "Colui il cui fuoco è stato in Sion", cioè nella chiesa militante, "avrà la sua fornace" di ardentissimo amore "in Gerusalemme", vale a dire nella chiesa trionfante ( Is 31,9 ). La concordia riguarda il prossimo, della cui gloria l’anima esulterà e godrà quanto godrà della propria. Quattro poi saranno le prerogative del corpo: lo splendore, la trasparenza, l’agilità e l’immortalità. Di esse è detto nella Sapienza: "I giusti risplenderanno", ecco lo splendore, "e come scintille", ecco la trasparenza, "correranno qua e là", ecco l’agilità, "e il loro Signore regnerà in eterno", ecco l’immortalità ( Sap 3,7-8 ). Dio infatti non è il dio dei morti ma il Dio dei viventi ( cf. Mt 22,32 ). 23. Per essere degni di ricevere questa corona incorruttibile, adorna di queste sette pietre preziose ( tre dell’anima e quattro del corpo ), corriamo come ci raccomanda l’Apostolo nell’epistola di oggi: "Non sapete che quelli che corrono nello stadio, corrono sì tutti, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo. Però quelli che si affrontano nella gara sono temperanti in tutto: essi lo fanno per guadagnarsi una corona corruttibile, noi invece dobbiamo farlo per guadagnarne una incorruttibile" ( 1 Cor 9,24-25 ). Lo stadio è l’ottava parte del miglio, misura centoventicinque passi e raffigura la fatica di questo esilio, durante il quale dobbiamo correre nell’unità della fede ( cf. Ef 4,13 ), con i passi dell’amore, che sono appunto centoventicinque. In questo numero è indicata tutta la perfezione dell’amore divino: nel cento, che è il numero perfetto, è raffigurata la dottrina evangelica; nel venti i precetti del decalogo, che devono essere osservati sia in senso letterale che in senso spirituale; nel cinque è indicato l’appagamento dei cinque sensi dell’uomo, che dev’essere frenato ed evitato. Colui che corre in questo stadio conquista il premio, cioè la ricompensa della corona incorruttibile, della quale è detto nell’Apocalisse: "Io ti darò – dice il Signore – la corona della vita" ( Ap 2,10 ). Fratelli carissismi, con suppliche e lacrime imploriamo il Signore affinché, lui che ci ha creati e ricreati, creati dal nulla e ricreati con il suo sangue, si degni di stabilirci nel mistico settenario dell’eterna felicità. E così meritiamo di vivere eternamente con lui che è il principio di tutte le creature. Ce lo conceda benignamente lui stesso, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Domenica si sessagesima Temi del sermone – Vangelo di Sessagesima: "Il seminatore uscì a seminare". – Introito della messa: "àlzati, perché dormi, Signore?" – Epistola: "Voi sopportate facilmente gli stolti". – Storia di Noè e della sua arca. – Anzitutto sermone ai predicatori. Il predicatore supremo: "Isacco seminò nella terra di Gerar". – Sermone sulla costruzione dell’arca di Noè e suo significato: "Costruisciti un’arca". – Sermone contro i lussuriosi: "Mentre seminava, parte della semente cadde lungo la strada". – Sermone contro i falsi religiosi: "Parte cadde sulla pietra". – Sermone contro gli avari e gli usurai: "Parte cadde tra le spine". – Sermone agli attivi e ai contemplativi: "Parte infine cadde in buona terra". Esordio - sermone ai predicatori 1. "Il seminatore uscì a seminare la sua semente" ( Lc 8,5 ). Dice Isaia ai predicatori: "Beati voi che seminate sopra le acque ( Is 32,20 ). Le acque, come dice Giovanni nell’Apocalisse, sono i popoli ( cf. Ap 17,15 ), dei quali Salomone scrive: Tutti i fiumi escono dal mare … e al mare ritornano ( cf. Qo 1,7 ). Osserva che c’è una duplice amarezza: quella del peccato originale e quella della morte corporale. Tutti i fiumi quindi, cioè tutti i popoli, escono dal mare, cioè dall’amarezza del peccato originale – per cui dice David: "Ecco, io sono stato concepito nei peccati ( Sal 51,7 ), ecc., e l’Apostolo: Tutti siamo nati figli dell’ira ( cf. Ef 2,3 ) – e ritornano nel mare, cioè all’amarezza della morte corporale. Dice infatti l’Ecclesiastico: Quale giogo pesante è posto sopra i figli di Adamo, dal giorno in cui escono dal seno della madre! ( cf. Sir 40,1 ). E ancora: "O morte, quanto è amaro il tuo pensiero!" ( Sir 41,1 ). Riferendosi a questi due fatti, il Signore dice al peccatore: Sei terra, per l’impurità della concezione, e alla terra andrai con la distruzione del tuo corpo ( cf. Gen 3,19 ). "Beati voi, dunque, che seminate sopra le acque". "La semente", come dice Dio stesso nel vangelo di oggi, "è la parola di Dio" ( Lc 8,11 ). Quindi, per meritare di essere benedetto tra i beati, io seminerò sopra di voi nel nome di Gesù Cristo, che uscì dal seno del Padre e venne nel mondo a seminare la sua semente, perché uno solo e lo stesso è il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento, Gesù Cristo, Figlio di Dio. Dice infatti Isaia: "Io stesso che parlavo, ecco che sono presente" ( Is 52,6 ). Io che parlavo ai padri per bocca dei profeti, ora sono presente con la realtà dell’incarnazione. Perciò, ad onore dell’unico Dio e ad utilità degli ascoltatori, concorderemo tra loro i due Testamenti, secondo quanto Dio stesso mi concederà. Diciamo dunque: "Il seminatore uscì a seminare la sua semente". 2. In questa domenica si legge nella chiesa il vangelo del seminatore e della semente; si proclama e si canta la storia di Noè e della costruzione della sua arca; e nell’introito della messa si canta: "Álzati, perché dormi, Signore?" E si legge l’epistola del beato Paolo ai Corinzi: "Voi sopportate volentieri gli stolti", ecc. Quindi nel nome del Signore, concordiamo insieme tutti questi brani. Nel racconto evangelico di oggi si devono tener presenti sei cose molto importanti: il seminatore e la semente, la strada, la pietra, le spine e la buona terra. E nel racconto biblico ci sono altre sei cose: Noè e l’arca; questa aveva cinque scomparti: il primo per la raccolta dei rifiuti, il secondo destinato ai viveri, il terzo per gli animali feroci, il quarto per gli animali domestici, il quinto destinato alle persone e agli uccelli. Però fa’ bene attenzione che in questa concordanza, il quarto e il quinto scomparto saranno considerati come uno solo. L’arca di Noè e la chiesa di Cristo 3. Il seminatore è Cristo, oppure anche il suo predicatore; la semente è la parola di Dio; la strada raffigura i lussuriosi; la pietra i falsi religiosi; le spine gli avari e gli usurai; la buona terra i penitenti e i giusti. E che tutto questo corrisponda a verità, lo proveremo con le citazioni della Scrittura. Il seminatore è Cristo. Trovi scritto nella Genesi: "Isacco seminò nella terra di Gerar e in quello stesso anno raccolse il centuplo" ( Gen 26,12 ). Isacco s’interpreta "gaudio", ed è figura di Cristo che è il gaudio dei santi, i quali, come dice Isaia, "avranno gaudio e letizia" ( Is 35,10 ): gaudio dall’umanità glorificata di Cristo, letizia dalla visione di tutta la Trinità. Questo nostro Isacco seminò nella terra di Gerar, che s’interpreta "dimora", e raffigura questo mondo, del quale dice il Profeta: "Ahimè, giacché la mia dimora – cioè la mia peregrinazione – si è prolungata!" ( Sal 120,5 ). Nella terra di Gerar dunque, cioè in questo mondo, Cristo ha seminato tre specie di semente: la santità della sua vita esemplare, la predicazione del regno dei cieli, il compimento dei miracoli. "E in quello stesso anno raccolse il centuplo". Rammenta che tutta la vita di Cristo è detta anno del perdono e della misericordia ( cf. Is 61,1-2 ). Come infatti nell’anno ci sono quattro stagioni: l’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno, così nella vita di Cristo ci fu l’inverno della persecuzione di Erode, per la quale fuggì in Egitto; ci fu la primavera della predicazione, e allora "apparvero i fiori" ( Ct 2,12 ), cioè le promesse della vita eterna, "e nella nostra terra si udì la voce della tortora" ( Ct 2,12 ) cioè del Figlio di Dio: "Fate penitenza, il regno dei cieli è vicino" ( Mt 4,17 ). Ci fu l’estate della passione, della quale dice Isaia: "Col suo spirito di rigore ha preso le sue decisioni per il giorno dell’ardore" ( Is 27,8 ). Cristo per il giorno dell’ardore, cioè della sua passione, con il suo spirito di rigore, cioè inflessibile nel sostenere la passione, ha meditato, mentre pendeva dalla croce, come potesse sbaragliare il demonio, strappare dal suo potere il genere umano, e ai peccatori ostinati infliggere la pena eterna. Per questo diceva ancora il profeta: "Ho stabilito nel mio cuore il giorno della vendetta" ( Is 63,4 ). C’è infine l’autunno della sua risurrezione, per la quale, soffiate via le paglie della sofferenza e la polvere della mortalità, la sua umanità, unita al Verbo, gloriosa e immortale, fu riposta nelle stanze del re ( cf. Ct 1,3 ), cioè alla destra di Dio Padre. iustamente quindi è detto: "In quello stesso anno raccolse il centuplo", cioè elesse gli apostoli, ai quali promise: Riceverete il centuplo ( cf. Mt 19,29 ), ecc. Oppure, il centuplo raffigura la centesima pecora, vale a dire il genere umano, che con gioia portò nell’assemblea dei nove cori degli angeli, con le sue braccia inchiodate alla croce. Adesso dunque sai con certezza che il seminatore è Cristo. 4. Cristo è anche il Noè, al quale il Padre disse: "Fatti un’arca di legnami piallati; nell’arca farai dei piccoli locali; la spalmerai di bitume di dentro e di fuori. E la farai in questo modo: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, la sua larghezza sarà di cinquanta cubiti e la sua altezza di trenta cubiti" ( Gen 6,14-15 ). Noè s’interpreta "riposo", e raffigura Gesù Cristo che dice nel vangelo: "Venite a me voi tutti che siete affaticati" in Egitto, nel fango della lussuria e nel mattone dell’avarizia, "e siete oppressi" sotto il giogo della superbia, "e io vi farò riposare" ( Mt 11,28 ). "Egli – come è detto nella Genesi – ci ha consolato dei lavori e delle fatiche delle nostre mani, nella terra alla quale Dio ha dato la maledizione" ( Gen 5,29 ). A lui disse il Padre: "Fatti un’arca". L’arca è la chiesa. Uscì dunque Cristo a seminare la sua semente; uscì anche a costruire la sua chiesa, "di legni piallati", cioè di santi, puri e perfetti, e la spalmò con il bitume della misericordia e della carità, al di dentro, negli affetti, e al di fuori, col compimento delle opere. La sua lunghezza è di trecento cubiti, a motivo dei "tre ordini" in essa esistenti, raffigurati in Noè, Daniele e Giobbe, e che sono i prelati, i casti e i coniugati. La larghezza di cinquanta cubiti si riferisce ai penitenti della stessa chiesa. Infatti nel cinquantesimo giorno dalla Pasqua, agli apostoli è stata infusa la grazia per mezzo dello Spirito Santo; e nel salmo 51, il "Miserere mei, Deus", ai penitenti è promessa la remissione dei peccati. L’altezza di trenta cubiti si riferisce ancora ai fedeli della stessa chiesa, per la loro fede nella Santa Trinità. Uscì dunque Cristo dal seno del Padre e venne nel mondo per seminare, e per costruire la sua chiesa, nella quale fosse conservata una semente non corruttibile, ma destinata a durare nei secoli dei secoli. 5. Continua il discorso sulla semente. "La semente è la parola di Dio" ( Lc 8,11 ), della quale dice Salomone nell’Ecclesiaste: "Spargi di buon mattino la tua semente" ( Qo 11,6 ). Di buon mattino, cioè nel tempo della grazia che scaccia le tenebre del peccato, spargi, o predicatore, la semente della parola, la tua semente, cioè quella a te affidata. E vedi quanto giustamente la parola di Dio sia chiamata semente. Come infatti la semente, seminata nella terra, germoglia e cresce, e dapprima – come dice il Signore in Marco – produce quasi "un filo d’erba, poi la spiga, e quindi nella spiga il chicco pieno" ( Mc 4,28 ), così la parola di Dio, seminata nel cuore del peccatore, produce dapprima l’erba della contrizione, della quale è detto nella Genesi: "La terra, cioè la mente del peccatore, germogli l’erba verdeggiante ( Gen 1,11 ), la contrizione; poi la spiga della confessione, che si spinge verso l’alto per la speranza della remissione; e infine il chicco pieno della soddisfazione ( cioè dell’opera penitenziale ) della quale dice il Profeta: "Le valli", cioè gli umili penitenti, "abbonderanno del frumento" della piena soddisfazione ( Sal 65,14 ), affinché la penitenza sia proporzionata alla colpa. Giustamente quindi è detto: Uscì il seminatore a seminare la sua semente. 6. Ma poiché non tutti hanno la fede e "non tutti obbediscono al Vangelo" ( Rm 10,16 ), per questo continua: "E mentre seminava, parte della semente cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono" ( Lc 8,5 ). Il primo scomparto dell’arca di Noè era destinato alla raccolta dei rifiuti. Quindi la strada calpestata e lo scomparto dei rifiuti raffigurano i lussuriosi. Dice infatti Salomone nell’Ecclesiastico: "La donna impudica è come il sudiciume della strada" ( Sir 9,10 ); e Isaia inveisce contro il lussurioso: "Hai fatto del tuo corpo come terra, come strada per i passanti" ( Is 51,23 ), cioè per i demoni che, mentre passano, calpestano la semente perché non germogli ( cf. Lc 8,12 ). E ancora dice Isaia: "Con i piedi sarà calpestata la corona di superbia degli ubriachi di Efraim" ( Is 28,3 ). Efraim s’interpreta "che porta frutto", e indica l’abbondanza delle cose temporali: gli ubriachi sono i lussuriosi, resi tali dal calice d’oro di Babilonia, cioè dell’abbondanza materiale; la corona di superbia sulla testa raffigura il pensiero altezzoso nella mente corrotta. Questo è calpestato dai piedi dei demoni quando da pensiero di mente corrotta arriva all’ebbrezza della lussuria; e così nella terra maledetta la semente del Signore non può più germogliare. Gli stessi demoni sono detti anche "uccelli", a motivo della superbia, "del cielo", cioè dell’aria nella quale abitano: essi rapiscono la semente dal cuore del lussurioso e la divorano, perché non fruttifichi. Dice Osea: "Gli stranieri", cioè i demoni, "divorarono la sua forza" ( Os 7,9 ), cioè la forza della parola divina. E osserva che non dice "sulla strada", ma che "lungo la strada" è caduta la semente, perché il lussurioso non accoglie la parola dentro l’orecchio del cuore, ma solo come un suono che sfiora superficialmente l’orecchio del corpo. I lussuriosi sono "lo scomparto dei rifiuti", "che marcirono come giumenti sul loro letame" ( Gl 1,17 ); di essi dice il salmo: "Essi perirono in Endor", che s’interpreta "fuoco della generazione", "diventarono", nell’ardore della lussuria, "come lo sterco della terra" ( Sal 83,11 ). E nota che da questo sterco della terra vengono generati quattro vermi, che sono la fornicazione, l’adulterio, l’incesto e il peccato contro natura. La fornicazione, cioè il rapporto tra due persone non sposate, è peccato mortale; ed è detta fornicazione, cioè uccisione della forma ( formae necatio ), vale a dire morte dell’anima che è formata a somiglianza di Dio. L’adulterio è così chiamato perché è come l’ingresso al talamo altrui ( ad alterius torum ). L’incesto è l’abuso dei consanguinei o degli affini ( parenti per matrimonio ). Il peccato contro natura si commette effondendo il seme in qualsiasi modo, fuorché nell’organo della concezione, vale a dire nell’organo della donna. Tutti coloro che si macchiano di questi peccati sono strada calpestata dai demoni e scomparto di rifiuti. E perciò la semente della parola di Dio in essi va perduta, e ciò che è stato seminato viene rapito dal diavolo. 7. "Parte della semente cadde sulla pietra, e nata che fu, seccò, perché non aveva umidità" ( Lc 8,6 ). E il secondo scomparto dell’arca di Noè fu la dispensa, il deposito dei viveri. La pietra e la dispensa raffigurano i falsi religiosi: pietra, perché si gloriano della sublimità della loro religione; dispensa, perché vendono le opere della loro vita per il denaro della lode umana. Si dica dunque: Una parte cadde sulla pietra, della quale parla il profeta Abdia, inveendo contro il religioso superbo: "La superbia del tuo cuore ti ha innalzato, tu che abiti nelle fenditure della pietra" ( Abd 1,3 ). La superbia è detta così da super e eo ( vado sopra ), perché va, per così dire, al di sopra di sé. O religioso, la superbia del tuo cuore ti ha sollevato, ti ha portato fuori di te perché tu vanamente ti innalzassi al di sopra di te, che abiti nelle fenditure della pietra. La pietra è qualsiasi religione ( ordine religioso ) della chiesa, della quale dice Geremia: Mai mancherà la neve dalla pietra del campo ( cf. Ger 18,14 ). Il campo è la chiesa; la pietra è la religione fondata sulla pietra della fede; la neve è la purezza della mente e del corpo, che mai deve venir meno nella religione. Ma, ahimè, ahimè, quante fenditure, quanti scismi, quante divisioni e dissensi vi sono nella pietra, cioè negli ordini religiosi. E se la semente della divina parola cadrà su di essi, non fruttificherà, perché non ha l’umidità, l’umore della grazia dello Spirito Santo, che non abita nelle fenditure della discordia ma nella casa dell’unità. Dice Luca: "Erano un’anima sola e un cuore solo" ( At 4,32 ). In realtà negli ordini ci sono le divisioni, perché c’è la lite nel capitolo, la rilassatezza nel coro, la mormorazione nel chiostro, l’ingordigia in refettorio, l’impudenza della carne in dormitorio. Giustamente dunque dice il Signore: Parte della semente cadde sulla pietra e, nata che fu, seccò perché, come dice Matteo, "non aveva radice" ( Mt 13,6 ), cioè non aveva l’umiltà, che è la radice di tutte le virtù. Ecco, adesso vedi chiaramente che dalla superbia del cuore provengono le divisioni negli ordini religiosi, e quindi non possono portare frutto, perché non hanno in sé la radice dell’umiltà. Siffatto ordine è raffigurato dallo scomparto viveri ( dell’arca ). Infatti i religiosi, quando sono in discordia all’interno, cercano le lodi all’esterno. I falsi religiosi, come dei magazzinieri, vendono dei prodotti sofisticati nella piazza pubblica: sotto l’abito dell’ordine e all’ombra di un nome falso, bramano essere lodati; davanti alla gente indossano una certa personale apparenza di perfezione, vogliono sembrare santi ma non vogliono esserlo. Ah, purtroppo! La religione che dovrebbe conservare ogni sorta di virtù e il profumo dei buoni costumi, viene distrutta e diventa uno spaccio di piazza. Gioele se ne lamenta dicendo: "Sono distrutti i granai", cioè i chiostri di coloro che vivono sotto una regola; "le dispense", vale a dire le abbazie dei monaci, "sono vuote perché il grano è stato disperso" ( Gl 1,17 ). Nel grano, che è bianco all’interno e bruno all’esterno, è indicata la carità, che custodisce la purezza verso se stessi e l’amore verso il prossimo. Questo grano è disperso perché è caduto sopra la pietra e, appena nato, si è seccato perché non aveva la radice dell’umiltà, né l’umore della grazia dei sette doni dello Spirito Santo. Quindi vedi che con la dispersione del grano, cioè della carità, viene distrutto il sacro deposito di tutta la religione. 8. "Una parte della semente cadde tra le spine che, germogliate insieme, la soffocarono" ( Lc 8,7 ). Il terzo scomparto dell’arca di Noè era destinato agli animali feroci. Osserva quanta rispondenza ci sia tra le spine e gli animali feroci, che raffigurano gli avari e gli usurai. Sono spine, giacché l’avarizia cattura, punge e fa sanguinare; sono bestie feroci, perché l’usura rapisce e sbrana. Dica perciò il Signore: Una parte cadde tra le spine, che, come egli stesso spiega, sono le ricchezze ( cf. Lc 8,14; Mt 13,22 ), che afferrano l’uomo e lo arrestano. E Pietro, per non essere preso e arrestato da esse, dice al Signore: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" ( Mt 19,27 ). Commenta il beato Bernardo: Hai fatto bene, Pietro! Infatti, se eri appesantito da un carico, non potevi seguire colui che corre. Le spine poi pungono. Dice Geremia: "Giovenca elegante e formosa è l’Egitto, ma le verrà da settentrione chi le farà sentire il pungolo" ( Ger 46,20 ). Egitto, che s’interpreta "tenebre", è l’avaro, avvolto nelle tenebre dell’ignoranza. È detto "giovenca" per due motivi: per la licenziosità della carne e per l’instabilità della mente; è detto elegans, ricercato, per i figli e i parenti che gli si affollano intorno; è detto formoso per la bellezza degli edifici e delle vesti che possiede. A questa giovenca arriva il pungolatore, cioè il diavolo, da settentrione, da dove, afferma Geremia, "si spanderà ogni male" ( Ger 1,14 ) e la tormenterà con il pungolo dell’avarizia, perché corra e arranchi per ammassare spine, cioè ricchezze, delle quali Isaia dice che "una volta ammassate saranno distrutte dal fuoco" ( Is 33,12 ). La spina dunque punge, e pungendo fa uscire sangue. Ogni anima ( ogni essere vivente ) è o vive nel suo sangue, dice Mosè ( cf. Lv 17,14 ). Il sangue dell’anima è la virtù, della quale l’anima vive. L’avaro perciò distrugge la vita dell’anima, cioè la virtù, quando brama di accumulare ricchezze. Infatti dice l’Ecclesiastico: "Nulla c’è di più iniquo di colui che ama il denaro: costui nella sua vita getta via anche le sue viscere" ( Sir 10,10 ), cioè le virtù. E continua il Signore: "Crescendo insieme, le spine soffocarono la semente". Quindi dice Osea: "Làppole e rovi cresceranno sui loro altari" ( Os 10,8 ). La làppola è un arbusto che si attacca ai vestiti; il rovo ( lat. tribolus ) è così chiamato perché quando punge produce tribolazione. Dunque làppole e rovi sono le ricchezze, che si attaccano all’uomo mentre passa e lo fanno tribolare. Essi crescono sopra il loro altare, cioè nel cuore degli avari, nel quale dovrebbe venir offerto a Dio un sacrificio, cioè "lo spirito contrito" ( Sal 51,19 ), e invece soffocano la semente della parola di Dio e anche il sacrificio di un animo contrito. 9. Alle spine corrispondono le bestie feroci, con le quali, come abbiamo detto, intendiamo i perfidi usurai. Di essi dice il Profeta: "Ecco il mare grande e dalle braccia larghe e spaziose: lì ci sono rettili senza numero, animali piccoli e grandi. Lo solcano le navi" ( Sal 104,25-26 ). Fa’ attenzione alle parole: Il mare, cioè questo mondo, pieno di amarezze, è grande per le ricchezze, spazioso per i piaceri, perché spaziosa e larga è la via che conduce alla morte ( cf. Mt 7,13 ). Ma per chi? Non certo per i poveri di Cristo, i quali entrano per la porta stretta ( cf. Mt 7,13 ), ma per le mani degli usurai, i quali si sono ormai impadroniti di tutto il mondo. Per causa delle loro usure le chiese sono depauperate, i monasteri sono stati spogliati dei loro beni; e quindi si lamenta di loro il Signore con le parole di Gioele: "Avanza sopra la mia terra una gente forte e innumerevole: i suoi denti sono come i denti del leone, i suoi molari sono come i cuccioli del leone. Ha ridotto a deserto la mia vigna e ha scorticato le mie piante di fico, le ha denudate e spogliate e i loro rami sono diventati bianchi" ( Gl 1,6-7 ). La gente maledetta degli usurai, forte e innumerevole, è cresciuta sulla terra, i suoi denti sono come i denti del leone. Osserva nel leone due cose: il collo inflessibile, nel quale c’è un solo osso, e il fetore dei denti. Così l’usuraio è duro, inflessibile, perché non si piega di fronte a Dio, e non teme l’uomo ( cf. Lc 18,2 ); i suoi denti puzzano, perché nella sua bocca c’è sempre il letame del denaro e lo sterco dell’usura. I suoi molari sono come i cuccioli del leone, perché ruba, distrugge e ingoia i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove. L’usuraio riduce a un deserto la vigna, ossia la chiesa del Signore, quando con l’usura s’impossessa dei suoi beni; e scortica, denuda e spoglia la pianta di fico del Signore, cioè la casa di qualche congregazione, quando, sempre con l’usura, si appropria dei beni che ad essa i fedeli hanno elargito. Per questo i suoi rami sono diventati bianchi, vale a dire i monaci o i regolari di quella osservanza sono afflitti dalla fame e dalla sete. Ecco che sorta di elemosine fanno quelle mani: esse grondano del sangue dei poveri; di esse nel salmo è detto anche: "Lì", cioè nel mondo, "vi sono rettili senza numero", ecc. ( Sal 104,25 ). Fa’ attenzione qui alle tre specie di usurai. Ci sono alcuni che praticano l’usura privatamente: questi sono i rettili, che strisciano di nascosto, e sono senza numero. Ci sono altri che esercitano l’usura pubblicamente, ma non su larga scala, per sembrare misericordiosi: e questi sono gli animali piccoli. Altri ancora sono gli usurai scellerati, dannati e impudenti, che praticano l’usura davanti a tutti, quasi in piazza: e questi sono gli animali grandi, più crudeli degli altri, che saranno preda della caccia del demonio e subiranno sicuramente la rovina della morte eterna, a meno che non restituiscano il mal tolto e non facciano una congrua penitenza. E affinché possano fare una penitenza adeguata, "lì", cioè proprio in mezzo a loro, "le navi", vale a dire i predicatori della chiesa, devono passare e spargere la semente della parola di Dio. Ma, a motivo dei peccati, le spine delle ricchezze e le bestie feroci delle usure soffocano la parola così assiduamente seminata, e quindi non fanno frutto di penitenza. 10. "E una parte della semente cadde in buona terra e, nata, portò frutto" ( Lc 8,8 ), "dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento" ( Mt 13,8 ). E il quarto scomparto nell’arca di Noè fu quello degli animali domestici, e il quinto quello delle persone e degli uccelli. Voi dunque vedete, carissimi, che nei tre scomparti sopraddetti, sulla strada dei lussuriosi, raffigurati dallo scomparto dei rifiuti, sulla pietra dei religiosi superbi, raffigurati dallo scomparto dei viveri, e tra le spine degli avari e degli usurai, raffigurati dallo scomparto degli animali feroci, la semente della parola di Dio non ha potuto portare frutto. Perciò i fedeli della chiesa santa, nell’introito della messa di oggi gridano al Signore: "Àlzati, perché dormi, Signore?" ( Sal 44,23 ). Osserva che per ben tre volte gridano "Àlzati", ed è per queste tre cose: la strada, la pietra, le spine. Àlzati, dunque, Signore, contro il lussuriosi, che sono la strada del diavolo: essi, poiché dormono nei peccati, credono che anche tu sia addormentato. Àlzati contro i falsi religiosi, che sono come la pietra senza l’umore della grazia. Àlzati contro gli usurai, che sono come le spine pungenti, "e aiutaci e liberaci dalle loro mani" ( Sal 44,26 ). In questi tre luoghi la semente della tua parola, o Signore, non ha potuto portare frutto; ma quando finalmente cadde in terra buona, il frutto lo produsse. 11. E osserva quanto bene si concordino tra loro la buona terra, gli animali domestici, gli uomini e gli uccelli, che stanno ad indicare i giusti e i penitenti, coloro che fanno vita attiva e i contemplativi. La buona terra, benedetta dal Signore, è la mente del giusto, della quale dice il salmo: "Tutta la terra ti adori e canti a te, canti un salmo al tuo nome" ( Sal 66,4 ). E osserva che "tutta la terra" comprende oriente, occidente, settentrione e meridione. Pertanto lo spirito del giusto dev’essere terra orientale in considerazione della sua origine, occidentale nel ricordo della sua fine, settentrionale in considerazione delle tentazioni e delle miserie di questo mondo, meridionale per la prospettiva della beatitudine eterna. Quindi "tutta la terra", cioè lo spirito buono del giusto, "ti adori", o Dio, "in spirito e verità" ( Gv 4,23 ) e nella contrizione del cuore: questo è il frutto al trenta per uno; "e canti a te", nella confessione del tuo nome e nell’accusa del suo peccato: e questo è il frutto al sessanta per uno: e per ottenere questi due risultati dobbiamo cantare a Dio nei sei giorni di una vita laboriosa; "e canti un salmo al tuo nome", nelle opere della soddisfazione ( della penitenza ) e nella perseveranza finale: e questo è il frutto al cento per uno, ed è quello perfetto. 12. C’è anche un’altra interpretazione. La buona terra è la santa chiesa, l’arca di Noè che accoglie in sé gli animali domestici, gli uomini e gli uccelli. "Gli animali domestici" raffigurano i fedeli sposati, che si applicano alle opere di penitenza, danno del loro ai poveri, non offendono né fanno danno a nessuno. Di questi dice l’Apostolo nell’epistola di oggi: "Volentieri sopportate gli stolti, essendo voi saggi. Infatti sopportate chi vi riduce in schiavitù, chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia" ( 2 Cor 11,19-20 ): questi fanno frutto al trenta per uno. "Gli uomini" raffigurano quelli che vivono in castità e fanno vita attiva: questi sono veri uomini, usano cioè la retta ragione. Essi si sottopongono alla fatica della vita attiva, si espongono al pericolo per il prossimo, predicano la vita eterna con la parola e con l’esempio, vigilano su se stessi e sui loro sottoposti. Questi, come afferma l’Apostolo, sono "nella fatica e nel travaglio, nelle veglie frequenti, nella fame e nella sete, nei prolungati digiuni, nel freddo e nella nudità" ( 2 Cor 11,27 ): essi fanno frutto al sessanta per uno. "Gli uccelli", posti nella parte superiore dell’arca, raffigurano le vergini e i contemplativi che, quasi elevati al cielo sulle ali delle virtù, contemplano "il re nel suo splendore" ( Is 33,17 ). Questi, non dico nel corpo ma nello spirito, vengono rapiti nella contemplazione fino al terzo cielo ( cf. 2 Cor 12,2 ), contemplando con l’acutezza dello spirito la gloria della Trinità, dove sentono con l’orecchio del cuore quelle cose che non si possono esprimere con parole ( cf. 2 Cor 12,4 ), e neppure comprendere con la mente: e questi sono coloro che portano frutto al cento per uno. Ti preghiamo, dunque, o Signore Gesù, di renderci terra buona, atta ad accogliere la semente della tua grazia e a produrre il "frutto degno di penitenza" ( Mt 3,8 ), affinché meritiamo così di vivere eternamente nella tua gloria. Concedici questo tu stesso, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Domenica di quinquagesima Temi del sermone – Vangelo di Quinquagesima: "Un cieco sedeva lungo la via". – Anzitutto sermone ai predicatori: "Samuele prese un’ampolla di olio". – Sermone contro il superbo: "Un cieco sedeva lungo la via"; le proprietà del nido e del sangue mestruale. – Sermone contro i tiepidi e i lussuriosi: "Avvenne un giorno che Tobia", ecc. – Sermone sulla passione di Cristo: "Apri il ventre del pesce". – Sermone ai prelati della chiesa: "Le labbra del sacerdote". – Sermone sulla passione di Cristo: "Sarà consegnato ai pagani", ecc. Esordio - sermone ai predicatori 1. "Un cieco sedeva lungo la via, e gridava: Figlio di David, abbi pietà di me" ( Lc 18,35.38 ). Leggiamo nel primo libro dei Re: "Samuele prese un’ampolla di olio e lo versò sul capo di Saul" ( 1 Sam 10,1 ). Samuele s’interpreta "richiesto", e indica il predicatore, che la chiesa con le sue preghiere richiede a Cristo, il quale dice nel vangelo: "Pregate il padrone della mèsse, perché mandi operai nella sua mèsse" ( Mt 9,38 ). Il predicatore deve prendere l’ampolla dell’olio, che è un vasetto quadrangolare, figura della dottrina evangelica, detta quadrangolare a motivo dei quattro evangelisti, e da essa deve versare l’olio della predicazione sul capo di Saul, vale a dire nell’anima del peccatore. Saul s’interpreta "colui che abusa", che fa cattivo uso, e giustamente rappresenta il peccatore che fa cattivo uso dei doni di grazia e di natura. Osserva che l’olio unge e illumina. Così la predicazione unge e rende malleabile la pelle invecchiata nei giorni di peccato ( cf. Dn 13,52 ) e indurita dai peccati, vale a dire la coscienza del peccatore; o anche unge l’atleta di Cristo e lo consacra al combattimento contro le potenze dell’aria ( diaboliche ) che devono essere debellate. Per questo troviamo nel terzo libro dei Re che Sadoc unse Salomone a Gihon ( cf. 1 Re 1,45 ). Sadoc s’interpreta "giusto", e simboleggia il predicatore che in qualità di sacerdote offre il sacrificio di giustizia sull’altare della passione del Signore. Egli unse Salomone, che s’interpreta "pacifico", a Gihon, che significa "lotta"; infatti il predicatore con l’olio della predicazione deve ungere il peccatore convertito per renderlo idoneo alla lotta, affinché non ceda alle suggestioni diaboliche, calpesti le lusinghe della carne e disprezzi il mondo ingannatore. L’olio inoltre illumina, perché la predicazione illumina l’occhio della ragione, affinché diventi capace di vedere il raggio del vero sole. E allora, nel nome di Cristo io prenderò l’ampolla di questo santo vangelo, e da essa verserò l’olio della predicazione, con il quale si illuminino gli occhi di questo cieco, del quale è detto: "Un cieco sedeva lungo la via". 2. In questa domenica si legge il vangelo del cieco illuminato. Nello stesso vangelo si fa memoria della passione di Cristo, e si legge e si canta la storia della peregrinazione di Abramo e dell’immolazione del figlio suo Isacco. E nell’introito della messa si dice: "Sii per me, Signore, il Dio che protegge", e si legge l’epistola del beato Paolo ai Corinzi: "Anche se parlassi le lingue degli angeli e degli uomini", ecc. Quindi a onore di Dio e per l’illuminazione della vostra anima, concorderemo tra loro tutte queste letture. I. la cecità dell’anima 3. "Un cieco sedeva", ecc. Senza nominare per ora tutti gli altri ciechi illuminati dal Signore, vogliamo ricordarne soltanto tre. Il primo è quello del vangelo, cieco dalla nascita, illuminato con la saliva e il fango ( cf. Gv 9,17 ); il secondo è Tobia, accecato dallo sterco delle rondini, ma guarito con il fiele del pesce ( cf. Tb 2,11ss ); il terzo è il vescovo della chiesa di Laodicea, al quale il Signore dice: "Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato e raffinato con il fuoco per diventare ricco, e di indossare vesti bianche perché non si manifesti la vergogna della tua nudità; e ungi i tuoi occhi con il collirio, affinché tu possa vedere" ( Ap 4,17-18 ). Vedremo che cosa simboleggino questi tre ciechi. Il cieco dalla nascita rappresenta in modo allegorico il genere umano, accecato nei progenitori. Gesù lo illuminò quando sputò in terra e gli spalmò sugli occhi il fango così ottenuto. La saliva, che scende dalla testa, simboleggia la divinità, la terra rappresenta l’umanità. La mescolanza della saliva con la terra raffigura l’unione della natura divina con la natura umana: per effetto di questa unione fu illuminato il genere umano. E le parole del cieco che grida, seduto lungo la strada, richiamano appunto le due nature: "Abbi pietà di me", si riferisce all’umanità, e "Figlio di David" alla divinità. 4. In senso morale, questo cieco raffigura il superbo. La sua superbia viene così descritta dal profeta Abdia: "Anche se tu fossi innalzato come un’aquila e collocassi il tuo nido fra le stelle, di lassù ti farei precipitare, dice il Signore" ( Abd 1,4 ). L’aquila, che vola più in alto degli altri uccelli, raffigura il superbo, che con le due ali dell’arroganza e della vanagloria brama d’essere ritenuto superiore a tutti. A lui è detto: "Anche se tu collocassi il tuo nido", cioè la tua vita, "fra le stelle", vale a dire fra i santi, che in un luogo caliginoso ( cf. 2 Pt 1,19 ) brillano come stelle nel firmamento, "io ti farò precipitare di lì, dice il Signore". Infatti il superbo tenta di collocare il nido della sua vita in compagnia dei santi. Dice infatti Giobbe: "La piuma dello struzzo", cioè dell’ipocrita, "assomiglia alle penne della cicogna e dello sparviero" ( Gb 39,13 ), cioè del giusto. Osserva anche che il nido ha in se stesso tre qualità: all’interno è fatto di cose soffici, all’esterno è costruito di cose dure e ruvide, è situato in un luogo insicuro, esposto al vento. Così la vita del superbo ha all’interno una certa morbidezza, che è il piacere carnale; ma lui all’esterno è circondato di spine e di legni secchi, cioè di opere morte; infine è esposto al vento della vanità, si trova in una situazione precaria, perché dal mattino alla sera non sa se sarà tolto di mezzo. E questa è la conclusione: "Di lassù", dice il Signore, "io ti precipiterò giù all’inferno". E per questo è detto ancora nell’Apocalisse: "Quanto si innalzò e visse nei piaceri, tanto dategli di tormenti" ( Ap 18,7 ). 5. E osserva che questo cieco superbo viene illuminato con lo sputo e il fango. Lo sputo è il seme del padre, che viene immesso nella flaccida matrice della madre, nella quale viene generata la misera creatura umana: certamente la superbia non l’accecherebbe, se considerasse la forma così miseranda della sua generazione. Per questo dice Isaia: "Ponete mente alla pietra dalla quale siete stati tagliati e alla cava del lago dalla quale foste tratti" ( Is 51,1 ). La pietra è il nostro padre carnale; la cava del lago è la matrice della madre nostra. Dal primo usciamo nella fetida effusione del seme, dalla seconda veniamo estratti nel parto pieno di dolore. Perché dunque ti insuperbisci, o misera creatura umana, generata con sì vile sputo, procreata in così orrido lago e ivi nutrita per nove mesi con sangue mestruo? Al contatto di quel sangue le messi più non germogliano, il mosto va in aceto, le erbe muoiono, le piante perdono i frutti, la ruggine corrode il ferro, i bronzi anneriscono, e se i cani ne ingeriscono sono colpiti dalla rabbia, di modo che i loro morsi sono pericolosi e rendono linfatici. Inoltre gli sguardi stessi delle donne, che pure durante il periodo delle loro regole sentono minori stimoli, non sono certo innocui. Con lo sguardo guastano gli specchi, così che la loro lucentezza, colpita dallo sguardo, viene diminuita. E questa lucentezza quasi spenta fa svanire la consueta somiglianza del volto; l’aspetto viene come offuscato da una specie di caligine, causata appunto dall’indebolimento della lucentezza. Se tu, o misero uomo, o cieco superbo, mediterai attentamente queste cose e ti considererai generato col fango e con lo sputo, veramente sarai illuminato, realmente ti umilierai. E che la citazione di Isaia sopra riportata si riferisca alla generazione carnale, risulta chiarissimo da ciò che segue: "Guardate ad Abramo, vostro padre, e a Sara che vi ha partorito" ( Is 51,2 ). A questo cieco superbo il Signore comanda: "Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre", ecc. ( Gen 12,1 ). Osserva qui tre specie di superbia: la superbia nei riguardi dell’inferiore, dell’uguale e del superiore. Il superbo calpesta, disprezza e schernisce: calpesta l’inferiore come fosse terra, la quale si chiama così dal verbo latino tero, pestare; disprezza l’uguale come fosse della sua parentela; il superbo infatti disprezza e scandalizza con facilità parenti e affini; schernisce perfino il superiore, come la casa del padre. Il superiore è detto "casa del padre" perché sotto di lui il suddito, come fa il figlio nella casa paterna, si deve proteggere dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica, dal fuoco della prosperità mondana. Ma il cieco superbo schernisce il superiore con quel disprezzo che si esprime come arricciando il naso. Dice perciò il Signore: "Esci", o cieco superbo, "dalla tua terra" per non calpestare l’inferiore; "esci dalla tua parentela" per non disprezzare l’uguale, "e dalla casa di tuo padre" per non schernire il superiore. 6. Segue: "E va’ in una terra che io ti indicherò" ( Gen 12,1 ). Questa terra è l’umanità di Gesù Cristo, della quale il Signore dice a Mosè: "Slégati i calzari dai piedi, perché la terra sulla quale stai è terra santa" ( Es 3,5 ). I calzari sono le opere morte, che tu devi sciogliere, cioè togliere, dai piedi, vale a dire dagli affetti della tua mente, perché la terra, cioè l’umanità di Cristo, nella quale stai per mezzo della fede, è santa e santifica te peccatore. Va’ dunque, o superbo, in quella terra, considera l’umanità di Cristo, osserva la sua umiltà e distruggi l’orgoglio del tuo cuore. Cammina con i passi dell’amore, avvicinati con l’umiltà del cuore, dicendo con il Profeta: "Nella tua verità ( con ragione ) mi hai umiliato" ( Sal 119,75 ). O Padre, nella tua verità, cioè nel Figlio tuo, umiliato, povero e pellegrino, mi hai umiliato; il Figlio tuo è stato umiliato nel grembo della Vergine, è stato povero nel presepio, nella stalla degli animali; è stato pellegrino andando al patibolo della croce. Nulla è in grado di umiliare la superbia del peccatore quanto l’umiliazione dell’umanità di Gesù Cristo. Dice infatti Isaia: "Se tu squarciassi i cieli e discendessi: al tuo cospetto si liqueferebbero i monti" ( Is 64,1 ). Al suo cospetto, cioè alla presenza dell’umanità di Cristo, i monti, vale a dire i superbi, si dileguano, e vengono meno in se stessi quando considerano il capo della divinità reclinato nel grembo della Vergine Maria. Va’ dunque nella terra che quasi con il dito ti ho indicato nel fiume Giordano, dicendo: "Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto" ( Mt 3,17 ). Anche tu sarai il diletto, nel quale mi sono compiaciuto, figlio adottivo per grazia, se sull’esempio del Figlio mio, che è a me uguale, ti sarai umiliato; per questo te l’ho mostrato, perché tu uniformassi il comportamento della tua vita alla forma della sua vita, e così uniformato ricevessi l’illuminazione, e quindi potessi udire: "Vedi, la tua fede ti ha salvato" ( Lc 18,42 ), ti ha ridato la vista. 7. Il secondo cieco, reso tale dallo sterco delle rondini, ma poi risanato con il fiele del pesce, è Tobia, del quale nell’omonimo libro si racconta: "Avvenne che un giorno, stanco per aver fatto una sepoltura, tornato a casa si sdraiò appoggiato alla parete e si addormentò, e da un nido di rondini caddero sui suoi occhi, mentre dormiva, degli escrementi e così diventò cieco" ( Tb 2,10-11 ). Vediamo brevemente che cosa significhino Tobia, la sepoltura, la casa, il muro, il prender sonno, il nido, le rondini e i loro escrementi. Tobia è il giusto tiepido, la sepoltura è la penitenza, la casa è la cura del corpo, la parete è il piacere della carne, il prender sonno è il torpore della negligenza, il nido è il consenso della mente viziosa, le rondini sono i demoni, gli escrementi sono la gola e la lussuria. Tobia raffigura il giusto tiepido, svogliato, del quale il Signore dice nell’Apocalisse: "Giacché non sei freddo", per la paura della pena, "e neppure caldo", per amore della grazia, "ma perché sei tiepido, per questo incomincerò a vomitarti dalla mia bocca" ( Ap 3,15-16 ). Infatti come l’acqua tiepida provoca il vomito, così la tiepidezza e la negligenza espelle dal seno della misericordia divina l’ozioso e il tiepido. Maledetto colui che compie con indolenza le opere del Signore, esclama Geremia ( cf. Ger 48,10 ). Costui, stanco dalla sepoltura, ritorna a casa, quando nella fatica della penitenza – nella quale e sotto la quale deve nascondere i corpi dei morti, cioè i peccati mortali, per essere tra quelli di cui è detto: Beati coloro dei quali i peccati sono coperti ( Sal 32,1 ) – è preso dalla noia e ritorna con i suoi desideri alla cura del suo corpo e alla sua concupiscenza, comportandosi così al contrario di ciò che dice l’Apostolo ( cf. Rm 13,14 ). Infatti soggiunge: "Si sdraiò contro una parete". La parete è il piacere della carne. Come nella parete una pietra viene posta sull’altra ed è fissata con il cemento, così nei piaceri della carne il peccato della vista è unito al peccato dell’udito, il peccato dell’udito a quello del gusto, e così degli altri sensi, e si congiungono tenacemente tra loro con il cemento delle cattive abitudini; quindi si addormenta abbandonato al torpore della negligenza, e così avviene la defecazione delle rondini sugli occhi del dormiente. Le rondini, per il loro agilissimo volo, raffigurano i demoni, la cui superbia avrebbe voluto volare al di sopra delle nubi, al di sopra delle stelle del cielo, e arrivare all’uguaglianza con il Padre, a somiglianza del Figlio ( cf. Is 14,13-14 ). Il nido dei demoni è il consenso della mente effeminata, costruito con le penne della vanagloria e con il fango della lascivia. Da tale nido cadono gli escrementi della gola e della lussuria sugli occhi di Tobia addormentato, e così vengono accecati gli occhi, cioè la ragione e l’intelletto della sventurata anima. 8. Fate attenzione, o carissimi, e guardatevi bene da questo funesto ingranaggio: dal tedio della sepoltura, cioè dal disgusto della penitenza si arriva alla casa della cura del corpo; questa, sotto l’apparenza della necessità, si appoggia alla parete del piacere, e quindi, immersa nel sonno della negligenza, viene accecata dallo sterco della lussuria. Dice il Poeta: Ci si domanda come mai Egisto sia diventato adultero. Il motivo è lì evidente: se ne stava in ozio ( Ovidio ). Grida dunque, o tiepido Tobia, o cieco lussurioso, che giaci appoggiato alla parete, grida: "Figlio di David, abbi pietà di me!". Perciò questo cieco, nell’introito della messa di oggi, prega di essere illuminato, dicendo: "Sii tu il Dio che mi protegge, il luogo di riparo, perché tu sei il mio sostegno e il mio rifugio, e per il tuo nome sarai la mia guida e mi nutrirai" ( Sal 31,2ss ). Il cieco chiede quattro cose: "Sii tu il Dio che mi protegge": mi proteggi e mi difendi con le braccia aperte sulla croce, come la chioccia i suoi pulcini sotto le sue ali; "il luogo di riparo": nel tuo fianco, trafitto dalla lancia, possa io trovare il luogo di riparo, dove nascondermi di fronte al nemico; "perché tu sei il mio sostegno", affinché non cada, "e il mio rifugio", anzi "retrofugio", perché se cadrò, non ad altri ma solo a te io mi rivolga; "e per il tuo nome" che è "Figlio di David", sarai guida a me che sono cieco, perché mi porgerai la mano della tua misericordia, e mi nutrirai con il latte della tua grazia. "Figlio di David, abbi dunque pietà di me". II. la passione di cristo 9. Il Figlio di Dio e di David, l’angelo del supremo consiglio, il medico e la medicina del genere umano, sempre nel libro di Tobia, ti consiglia dicendo: Sventra il pesce, estrai il fiele, ungi gli occhi ( cf. Tb 6,5ss ) e così potrai riacquistare la vista. In senso allegorico, il pesce raffigura Cristo, che per noi è stato, per così dire, arrostito sulla graticola della croce. Il fiele è la sua amarissima passione, e se gli occhi della tua anima saranno di essa cosparsi, riacquisterai la vista. Infatti l’amarezza della passione del Signore scaccia tutta la cecità della lussuria e ogni escremento di carnale concupiscenza. Ha detto un sapiente: "Il ricordo del crocifisso crocifigge i vizi" ( Guerrico ); e nel libro di Rut leggiamo: "Intingi il tuo boccone nell’aceto" ( Rt 2,14 ). Il boccone è il meschino, momentaneo piacere della carne; devi intingere il boccone nell’aceto, cioè nell’amarezza della passione di Gesù Cristo. Anche a te perciò il Signore comanda quello che ha comandato ad Abramo, nel racconto che si legge in questa domenica: "Prendi il tuo figlio Isacco, che tanto ami, e va’ nella terra della visione, e lì offrilo a me in olocausto" ( Gen 22,2 ). Isacco s’interpreta "riso" o "godimento", e in senso morale sta a significare la nostra carne, che ride quando le cose di questo mondo le sorridono, e gode quando soddisfa i suoi desideri. E Salomone dice in proposito: "Il riso", cioè le cose temporali, "ho reputato un errore" perché fanno deviare ( errare ) dalla via della verità, "e al godimento" della carne ho detto: perché invano ti illudi?" ( Qo 2,2 ). Prendi dunque il figlio tuo, la tua carne, che ami e che nutri con tanto affetto: non sai, povero meschino, che non c’è al mondo peste peggiore del nemico che vive in casa con te? E continua Salomone: "Colui che nutre con delicatezza il suo servo fin dall’infanzia, se lo ritroverà poi pieno di insolenza" ( Pr 29,21 ). "Prendilo dunque, prendilo e crocifiggilo" ( Gv 19,15 ), è reo di morte. Risponde Pilato, cioè l’affetto carnale: "Che cosa ha fatto di male?" ( Mt 26,66; Mt 27,23; Lc 23,22 ). Oh, quanti mali ha fatto il tuo riso, il tuo figlio. Ha disprezzato Dio, ha scandalizzato il prossimo, ha dato la morte alla sua anima. E tu dici: Che cosa ha fatto di male? Prendilo dunque e va’ nella terra della visione. 10. "Terra della visione" fu chiamata Gerusalemme, della quale si legge nel vangelo di oggi: "Gesù chiamò segretamente i suoi dodici discepoli e disse loro: Saliamo a Gerusalemme" ( Mt 20,17-18 ). Prendi anche tu il figlio tuo e sali con Gesù e gli apostoli a Gerusalemme, e lì offri sull’altare, cioè nella meditazione della passione del Signore, sulla croce della penitenza, il tuo corpo in olocausto. E fa’ bene attenzione che dice "in olocausto". "Olocausto" viene dal greco olon, tutto, e cauma, bruciamento, combustione; perciò "olocausto" significa "tutto bruciato". Offri quindi tutto il tuo figlio, tutto il tuo corpo a Gesù Cristo, che si offrì tutto al Padre per distruggere tutto intero il corpo del peccato ( cf. Rm 6,6 ). E osserva che come il corpo umano è composto di quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra, il fuoco negli occhi, l’aria nella bocca, l’acqua nei lombi, la terra nelle mani e nei piedi; così il corpo del peccatore, schiavo del peccato, ha il fuoco negli occhi per la curiosità ( bramosia ), l’aria nella bocca per la loquacità, l’acqua nei lombi per la lussuria e la terra nelle mani e nei piedi per la spietatezza. Invece il Figlio di Dio ebbe velato il suo volto – nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ) – per mortificare la morbosa curiosità dei tuoi occhi; restò muto come un agnello davanti a colui che non solo lo tosò, ma addirittura lo uccise, e mentre veniva maltrattato non aprì la sua bocca ( cf. Is 53,7; At 8,32 ), per frenare la tua smodata loquacità; il suo fianco fu squarciato dalla lancia per far uscire da te gli umori malsani della lussuria; fu appeso alla croce con i chiodi conficcati nelle mani e nei piedi per eliminare dalle tue mani e dai tuoi piedi l’iniquità ( delle opere cattive ). Prendi dunque il figlio tuo, il tuo riso, la tua carne, e offri tutto in olocausto, affinché tu possa ardere tutto di carità "la quale copre la moltitudine dei peccati" ( 1 Pt 4,8 ). L’Apostolo nell’epistola di oggi dice della carità: "Se io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo risonante o un cembalo squillante" ( 1 Cor 13,1 ). Dice Agostino: Io chiamo carità quell’impulso dell’anima che spinge a fruire di Dio per lui stesso, e a fruire di sé e del prossimo in ordine a Dio. E chi non ha questa carità, anche se fa tante cose buone, tante buone opere, fatica invano; per questo appunto dice l’Apostolo: Anche se parlassi le lingue degli angeli, ecc. La carità portò il Figlio di Dio al patibolo della croce. È detto nel Cantico dei Cantici: "L’amore è forte come la morte" ( Ct 8,6 ). E il beato Bernardo esclama: "O carità, quanto forte è il tuo legame, con il quale perfino il Signore poté essere legato!". Prendi dunque il figlio tuo ( il tuo corpo ) e offrilo sull’altare della passione di Gesù Cristo: con il suo fiele, cioè con la sua amarezza sarai illuminato e meriterai di sentirti dire: "Vedi! la tua fede ti ha salvato" ( Lc 18,42 ), ti ha ridato la vista. 11. C’è anche un’altra applicazione. Tobia fu illuminato con il fiele del pesce. La carne del pesce è gustosa, invece il fiele è amaro, e se con esso si bagna la carne del pesce, anch’essa diventa tutta amara. La carne del pesce raffigura il piacere della lussuria, e il fiele che dentro vi è nascosto è l’amarezza della morte eterna. Per questo Giobbe, nello stesso senso anche se con parole diverse, dice: "Il loro cibo era la radice del ginepro" ( Gb 30,4 ). Osserva che la radice del ginepro è dolce e commestibile, ma ha come foglie le spine; così il piacere della lussuria, che è il cibo degli uomini dediti ai piaceri carnali, al momento sembra dolce, ma alla fine produrrà le spine dell’eterna morte. Sventra dunque il pesce, medita cioè sul piacere del peccato e comprendi quanto sia abietto. Estrai il fiele, vale a dire volgi la tua attenzione alla pena, al castigo che è comminato al peccato e come quel castigo non abbia mai fine: così potrai cambiare in amarezza ogni piacere della tua carne. 12. Il terzo cieco fu l’angelo di Laodicea, illuminato con il collirio. Laodicea s’interpreta "tribù cara al Signore", e indica la santa chiesa, per amore della quale il Signore ha versato il suo sangue, e da essa, come fece con la tribù di Giuda, scelse il "sacerdozio regale" ( 1 Pt 2,9 ). L’angelo di Laodicea è il vescovo, ossia il prelato della santa chiesa, che giustamente è chiamato "angelo" per la dignità del suo ufficio, del quale il profeta Malachia dice: "Le labbra del sacerdote custodiscono la scienza; dalla sua bocca si ricerca la legge, perché egli è l’angelo del Signore degli eserciti" ( Ml 2,7 ). Osserva che in questa citazione sono indicate cinque prerogative, assolutamente necessarie al vescovo o al prelato della chiesa: e cioè la vita, la fama, la scienza, la ricchezza della carità, la tunica talare della purezza. Le labbra del sacerdote sono due: la vita e la fama; esse devono custodire la scienza, affinché ciò che il sacerdote sa e predica custodisca la sua vita, per quanto riguarda lui stesso, e la sua scienza, per quanto riguarda il prossimo. Da queste due labbra infatti procede la scienza di una predicazione fruttuosa. E se nel prelato ci sono anzitutto queste tre qualità, dalla sua bocca i sudditi ricercheranno la legge, cioè la carità, della quale dice l’Apostolo: "Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo" ( Gal 6,2 ), cioè il suo precetto della carità; Cristo infatti solo per amore portò nel suo corpo sopra la croce il peso dei nostri peccati. La legge è la carità, che i sudditi "cercano al di fuori" ( exquirunt ), cercano cioè anzitutto nelle opere, per riceverla poi più volentieri e più fruttuosamente dalla bocca stessa del prelato: perché Gesù "incominciò prima a fare e poi a insegnare" ( At 1,1 ). Egli infatti "era potente in opere e in parole" ( Lc 24,19 ). 13. "Perché è l’angelo ( il messaggero ) del Signore degli eserciti". Ecco la stola della purezza interiore. Vivere nella carne, prescindendo dalla carne, come dice Girolamo, è proprio non della natura umana ma di quella celeste. Ma all’angelo di Laodicea, cioè al prelato della chiesa, privo di queste cinque doti, il Signore fa dei gravi rimproveri, quando dice: "Tu sei infelice e miserabile, cieco, povero e nudo". Sei infelice nella tua vita, miserabile nella fama, cieco nella scienza, povero nella carità, nudo della tunica talare della purezza. Ma poiché il Signore sa curare i mali con i rimedi ad essi contrari, e quando corregge insegna e mentre pungola lenisce il dolore, ecco che dà i suoi consigli al cieco di Laodicea, dicendo: "Ti esorto a comprare da me oro purificato nel fuoco e garantito, per diventare ricco, e a indossare vesti bianche affinché non si veda la vergogna della tua nudità; e ungi i tuoi occhi con il collirio per vedere". Ti esorto a comprare con il prezzo della buona volontà, da me e non dal mondo, l’oro di una vita preziosa, contro la scoria della tua vita infelice; oro purificato dal fuoco della carità, contro la miseria della tua povertà; oro garantito dal crogiolo della buona fama, contro il fetore della tua infamia; e a rivestirti di vesti bianche, contro la vergogna della tua nudità, e irrorare i tuoi occhi con il collirio, contro la cecità della tua insipienza. 14. Osserva che questo collirio, con il quale si illuminano gli occhi dell’anima, si compone delle cinque parole della passione del Signore, che sono come cinque erbe, delle quali parla appunto il vangelo di oggi: "Sarà consegnato ai pagani, e sarà schernito, flagellato e coperto di sputi; e dopo averlo flagellato, lo uccideranno" ( Lc 18,32 ). Ahimè, ahimè, [ colui che è ] la libertà dei prigionieri è imprigionato; la gloria degli angeli è schernita, il Dio di tutti è flagellato, lo specchio senza macchia e il candore della luce eterna ( cf. Sap 7,26 ) è coperto di sputi; colui che è la vita dei morenti è ucciso: e a noi miseri che resta ormai da fare, se non che andiamo e moriamo con lui? ( cf. Gv 11,16 ). Sollevaci, o Signore, dal fango della feccia con l’uncino della tua croce, perché possiamo correre, non dico al profumo ( cf. Ct 1,3 ), ma all’amarezza della tua passione. O anima mia, prepàrati il collirio, fa’ un amaro pianto sulla morte dell’Unigenito ( cf. Ger 6,26 ), sulla passione del Crocifisso! Il Signore innocente è tradito dal discepolo, è schernito da Erode, è flagellato dal preside, è coperto di sputi dalla plebaglia dei giudei, è crocifisso dalla coorte dei soldati! Facciamo una breve considerazione su ognuno di questi fatti. 15. Fu tradito da un suo discepolo. Giuda disse: "Che cosa volete darmi, e io ve lo consegnerò?" ( Mt 26,15 ). O dolore! Si tenta di dare un prezzo a ciò che è inestimabile! Ahimè, Dio viene tradito e venduto per poco denaro. "Che cosa volete darmi?" O Giuda, tu vuoi vendere Dio, il Figlio di Dio, come uno schiavo senza valore, come un "cane morto", giacché interroghi non la tua volontà ma quella dei compratori. "Che cosa volete darmi?". E che cosa possono darti? Se ti dessero Gerusalemme, la Galilea e la Samaria, potrebbero forse comperare Gesù? Se potessero darti il cielo e gli angeli, la terra e gli uomini, il mare con quanto contiene, sarebbero forse in grado di comperare il Figlio di Dio, "nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza"? ( Col 2,3 ). Certamente no! Il Creatore può forse essere comperato o venduto dalla creatura? E tu dici: Che cosa volete darmi, e io ve lo consegnerò? Dimmi un po’: In che cosa ti ha offeso, che cosa ti ha fatto di male, perché tu dica: E io ve lo consegnerò? Dov’è l’incomparabile umiltà del Figlio di Dio e la sua volontaria povertà? Dov’è la sua dolcezza e la sua affabilità? Dov’è la sua umanissima predicazione e dove i miracoli da lui operati? Dove sono le sue lacrime pietose versate su Gerusalemme e per la morte di Lazzaro? Dov’è il privilegio per il quale ti ha scelto come apostolo e ti ha fatto suo amico e familiare? Questi fatti e altri ancora non avrebbero dovuto intenerire il tuo cuore e richiamarlo alla pietà e impedirti di dire: Io ve lo consegnerò? Purtroppo, quanti Giuda Iscariota, nome che s’interpreta "mercede", ci sono oggi, che per la mercede di un qualche vantaggio temporale vendono la verità, tradiscono il prossimo con il bacio dell’adulazione, e così alla fine si impiccano al laccio della dannazione eterna! 16. Fu poi schernito da Erode. Dice infatti Luca: "Erode con il suo esercito lo disprezzò, e per schernirlo gli fece indossare una veste bianca" ( Lc 23,11 ). Il Figlio di Dio viene disprezzato da quella volpe di Erode – "Andate, aveva detto un giorno Gesù, e dite a quella volpe" ( Lc 13,32 ) –, e dal suo esercito; mentre invece l’esercito degli angeli gli canta con voce incessante: Santo, santo, santo il Signore, Dio degli eserciti. E Daniele dice: Mille migliaia lo servono e diecimila miriadi lo assistono ( cf. Dn 7,10 ). "E per schernirlo gli fece indossare una veste bianca" ( simbolo di pazzia ). Il Padre rivestì il figlio suo Gesù di una veste bianca, vale a dire "la carne, monda da ogni macchia di peccato", presa dalla Vergine immacolata. Dio Padre ha glorificato il Figlio, che Erode ha disprezzato. Il Padre l’ha rivestito della veste bianca, e Erode lo ha schernito vestendolo allo stesso modo. Oh, dolore, così avviene anche oggi! Erode s’interpreta "gloria della pelle", e raffigura l’ipocrita che si vanta della sua apparenza esteriore quasi di una pelle, mentre invece "tutta la gloria della figlia del re", cioè dell’anima che è figlia del Re del cielo, deve provenire "dall’interno" ( Sal 45,14 ). Costui ( l’ipocrita ) disprezza e schernisce il Signore: lo disprezza quando predica il crocifisso, ma del crocifisso non porta le stimmate; lo schernisce quando si nasconde sotto la gloria della pelle ( dell’apparenza ) per poter ingannare le membra di Cristo. Suona dolcemente lo zufolo l’uccellatore, mentre inganna l’uccello ( Catone ). Quanti ne inganna anche oggi la gloria della pelle erodiana ( l’ipocrisia )! 17. Fu anche flagellato da Ponzio Pilato. Leggiamo in Giovanni: "Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare" ( Gv 19,1 ). E dice Isaia: "Quando passerà il flagello distruttore, voi sarete la massa da lui calpestata, e ogni volta che passerà vi prenderà" ( Is 28,18-19 ). Affinché questo flagello, nel quale sono indicate la morte eterna e la potenza del diavolo, non ci colpisse, il Dio di tutti, il Figlio di Dio, fu legato alla colonna come malfattore, e spietatamente flagellato, tanto da sprizzare sangue da ogni parte del corpo. O dolcezza della divina misericordia, o pazienza della paterna bontà, o profondo e imperscrutabile mistero dell’eterno consiglio! Tu, o Padre, vedevi il tuo Unigenito, colui che è uguale a te, venir legato alla colonna come un malfattore e dilaniato con i flagelli come un omicida. E come hai potuto trattenerti? Ti rendiamo grazie, o Padre santo, perché per le catene e per i flagelli del tuo Figlio diletto siamo stati liberati dalle catene e dai flagelli del diavolo. Ma, ahimè, Ponzio Pilato flagella ancora e di nuovo Gesù Cristo. Ponzio s’interpreta "deviante", e Pilato "martellatore", o anche "che abbatte con la bocca", e raffigura colui che devia dai buoni propositi e dopo il voto ritorna al vomito. Costui con la sua bocca blasfema e con il martello della lingua colpisce e flagella Cristo nelle sue membra: allontanatosi infatti, insieme a Satana, dalla presenza del Signore ( cf. Gb 2,7 ), diffama l’Ordine, di uno dice che è superbo, dell’altro che è goloso e, per apparire lui stesso innocente, giudica gli altri colpevoli, e così maschera la sua cattiveria infamando tanti altri. 18. Fu anche coperto di sputi dai giudei. Matteo: "Allora gli sputarono in faccia e lo percossero con pugni; altri gli dettero degli schiaffi sul viso" ( Mt 26,67 ). O Padre, il capo del figlio tuo Gesù, che incute tremore negli arcangeli, viene percosso con una canna; il volto, nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ), è lordato dagli sputi dei giudei, colpito dai loro schiaffi; la sua barba è strappata, è colpito con pugni, è trascinato per i capelli. E tu, o clementissimo, taci e dissimuli, e preferisci che uno, che è il tuo unico, sia così coperto di sputi, così schiaffeggiato, piuttosto che tutto il popolo perisca ( cf. Gv 11,50 ). A te la lode, a te la gloria, perché dagli sputi, dagli schiaffi e dai pugni ricevuti dal figlio tuo Gesù hai ricavato per noi la teriàca, il contravveleno per espellere il veleno dall’anima nostra. Altra applicazione: Il volto di Gesù Cristo raffigura i prelati della chiesa, per mezzo dei quali, come per mezzo del volto, conosciamo Dio. Su questo volto i perfidi giudei, cioè i sudditi malvagi, sputano, quando calunniano e maledicono gli stessi prelati, cosa che il Signore vieta quando dice: "Non maledire il capo del tuo popolo" ( At 23,5; cf. Es 22,28 ). 19. Infine, fu crocifisso dai soldati. Dice Giovanni: "I soldati, dopo averlo crocifisso, presero le sue vesti" ecc. ( Gv 19,23 ). "O voi tutti che passate per la strada", fermate il passo, "considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore" ( Lam 1,12 ). I discepoli fuggono, i conoscenti e gli amici si eclissano, Pietro rinnega, la sinagoga incorona di spine, i soldati crocifiggono, i giudei bestemmiano deridendo e gli danno da bere fiele e aceto. Quale dolore è come il mio dolore? Come dice la sposa nel Cantico dei Cantici, "le sue mani tornite, auree, piene di giacinti" ( Ct 5,14 ) furono trafitte dai chiodi. I piedi, ai quali il mare stesso si offrì perché vi camminassero sopra, furono inchiodati alla croce. Il volto, che è come il sole quando splende in tutto il suo fulgore ( cf. Ap 1,16 ), si coprì del pallore della morte. Gli occhi amati, ai quali nessuna creatura è invisibile, sono chiusi nella morte. E quale dolore è come il mio dolore? In tutto quello strazio, venne in suo soccorso soltanto il Padre, nelle cui mani affidò il suo spirito dicendo: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" ( Lc 23,46 ). E dopo aver detto questo, "reclinato il capo", egli che non aveva dove posare il capo, "rese lo spirito" ( Gv 19,30 ). Ma ahimè, ahimè, tutto il corpo mistico di Cristo, che è la chiesa ( cf. Col 1,24 ), viene di nuovo crocifisso e ucciso! E in questo corpo alcuni sono il capo, altri le mani, altri i piedi, altri il corpo. Il capo sono i contemplativi, le mani sono coloro che fanno vita attiva, i piedi sono i predicatori santi, il corpo tutti i veri cristiani. Tutto questo corpo di Cristo, ogni giorno, i soldati, cioè i demoni, lo crocifiggono con le loro istigazioni, che sono in certo modo dei chiodi; i giudei, i pagani, gli eretici lo bestemmiano, e gli fanno bere il fiele e l’aceto dei tormenti e della persecuzione. Ma non c’è da meravigliarsi: perché "tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo, subiranno persecuzione" ( 2 Tm 3,12 ). Giustamente quindi è detto: "Sarà consegnato, sarà schernito, sarà flagellato, sarà lordato di sputi e sarà crocifisso". Con queste cinque parole, come con cinque preziosissime erbe, prepàrati il collirio, o angelo di Laodicea, e irrora gli occhi della tua anima per riavere la luce e tu possa sentirti dire: "Vedi! La tua fede ti ha salvato" ( Lc 18,42 ). O carissimi, preghiamo e chiediamo con insistenza e con la devozione della mente che il Signore Gesù Cristo si degni di illuminare gli occhi della nostra anima con la fede nella sua incarnazione, con il fiele e il collirio della sua passione, egli che ha illuminato il cieco nato, Tobia e l’angelo di Laodicea, affinché anche noi siamo fatti degni di contemplare, nello splendore dei santi e nel fulgore degli angeli, lo stesso Figlio di Dio, che è luce da luce. Ce lo conceda egli stesso, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Inizio del digiuno ( Mercoledì delle Ceneri ) 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Quando digiunate non diventate tristi come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, ungiti il capo e lavati il volto, perché gli uomini non vedano che tu digiuni, ma il Padre tuo che è nel segreto" ( Mt 6,16-18 ). In questo brano evangelico notiamo due argomenti: - il digiuno, - l’elemosina. I. Il digiuno 2. "Quando digiunate". In questa prima parte si devono considerare quattro cose: la finzione degli ipocriti, l’unzione della testa, la lavanda del volto, l’occultamento del bene. "Quando digiunate". Si legge nella Storia Naturale che con la saliva dell’uomo digiuno si resiste agli animali portatori di veleno: anzi se un serpente la ingerisce, esso muore ( Plinio ). Quindi nell’uomo digiuno c’è veramente una grande medicina. Adamo nel paradiso terrestre, finché digiunò dal frutto proibito, si mantenne nell’innocenza. Ecco la medicina che uccide il diabolico serpente e che restituisce il paradiso, perduto per colpa della gola. Perciò è detto che Ester castigò il suo corpo con i digiuni, per far cadere l’orgoglioso Aman e riconquistare ai giudei la benevolenza del re Assuero ( cf. Est 4 ). Digiunate dunque se volete conseguire queste due cose: la vittoria sul diavolo e la restituzione della grazia perduta. Ma "quando digiunate, non diventate tristi come gli ipocriti" ( Mt 6,16 ), cioè non ostentate il vostro digiuno con la tristezza del volto: non proibisce la virtù, bensì la falsa apparenza della virtù. Ipocrita si dice anche "dorato", che cioè ha l’apparenza dell’oro, ma all’interno, nella coscienza, è fangoso. Questo è l’idolo dei Babilonesi Bel ( Bal ), del quale dice Daniele: "Non t’ingannare, o re, quest’idolo di fuori è di bronzo, ma di dentro è solo fango" ( Dn 14,6 ). Il bronzo risuona e all’aspetto può quasi sembrare oro. Così l’ipocrita ama il suono della lode e ostenta una parvenza di santità. L’ipocrita è umile nel volto, dimesso nella veste, sommesso nella voce, ma lupo nella sua mente. Questa tristezza non è secondo Dio. È un modo strano di procurarsi la lode, quello di ostentare i segni della tristezza. Gli uomini sono soliti rallegrarsi quando guadagnano soldi. Ma si tratta di affari diversi: in questi ultimi c’è la vanità, negli altri la falsità. "Si sfigurano ( lat. exterminant ) la faccia" ( Mt 6,16 ), cioè la avviliscono oltre i limiti ( extra terminos ) della condizione umana. Come si può menar vanto del lusso delle vesti, così si può farlo anche dello squallore e della macilenza. Non si deve abbandonarsi né ad uno squallore esagerato, né ad una eccessiva ricercatezza: è bene tenere il giusto mezzo. "Per far vedere agli uomini …". Qualunque cosa facciano, è apparenza, dipinta di falso colore. Commenta la Glossa: Lo fanno per apparire diversi dagli altri ed essere chiamati superuomini, perfino per lo svilimento. "… che digiunano" ( Mt 6,16 ). L’ipocrita digiuna per riceverne lode, l’avaro per riempire la borsa, il giusto per piacere a Dio. "In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa" ( Mt 6,16 ). Ecco la mercede del postribolo, del quale dice Mosè: "Non prostituire tua figlia" ( Lv 19,29 ). La figlia rappresenta le loro opere, che pongono nel postribolo del mondo per riceverne la ricompensa della lode. Sarebbe pazzo chi vendesse per un soldo di piombo una preziosa moneta d’oro. Ma vende per un prezzo vilissimo una cosa di grande valore, colui che fa il bene per averne lode dagli uomini. 3. "Tu invece, quando digiuni, ungiti il capo e lavati il volto" ( Mt 6,17 ). Ciò è in accordo con quanto dice Zaccaria: "Questo dice il Signore degli eserciti: Il digiuno del quarto mese, del quinto, del settimo e del decimo mese saranno per la casa di Giuda giorni di gaudio e di letizia, giorni di grande festa" ( Zc 8,19 ). "Casa di Giuda" s’interpreta "che manifesta", o "che loda", e raffigura i penitenti che manifestando e confessando i loro peccati dànno lode a Dio. Di costoro è, e dev’essere, il digiuno del quarto mese, perché digiunano ( si astengono ) da quattro peccati: dalla superbia del diavolo, dall’impurità dell’anima, dalla gloria del mondo, dall’ingiuria al prossimo. "Questo è il digiuno che io amo" dice il Signore ( Is 58,6 ). Il digiuno del quinto mese consiste nel trattenere i cinque sensi dalle distrazioni e dai piaceri illeciti. Il digiuno del settimo mese è la repressione della cupidigia terrena: come infatti si legge che il settimo giorno non ha fine, così neppure la cupidigia del denaro tocca mai il fondo della sufficienza. Il digiuno del decimo mese consiste nell’astenersi dal perseguire uno scopo cattivo. Il dieci segna la fine di ogni numero: e chi vuol contare oltre deve ricominciare dall’uno. Il Signore si lamenta per bocca di Malachia: "Voi mi frodate, e mi dite: In che cosa ti abbiamo frodato? Nelle decime e nelle primizie" ( Ml 3,8 ), cioè nel cattivo scopo e nell’inizio di una intenzione perversa. E fa’ attenzione, che mette le decime prima delle primizie, perché è soprattutto per il fine perverso che viene condannata tutta l’opera precedente. Questo digiuno si trasforma per i penitenti in gaudio della mente, in letizia di amore divino e in splendida solennità di celeste conversazione. Questo vuol dire ungere il capo e lavare il volto. Unge il capo colui che nel suo interno è ricolmo di letizia spirituale; lava il suo volto colui che orna le sue opere con l’onestà della vita. 4. Altro senso. "Tu invece quando digiuni …". Sono molti coloro che digiunano in questa quaresima, e tuttavia persistono nei loro peccati. Questi non si ungono il capo. Osserva che c’è un triplice unguento: il lenitivo ( sedativo ), il corrosivo e il pungitivo ( che punge ). Il primo lo produce il pensiero della morte, il secondo la presenza del futuro Giudice, il terzo la geenna. C’è il capo coperto di pustole, di verruche e di impetigine. La pustola è una piccola protuberanza superficiale, rigonfia di marcia ( pus ); la verruca è un’escrescenza di carne superflua, per cui verrucoso può significare anche "superfluo"; l’impetigine è una scabbia secca, che deturpa la bellezza. In queste tre infermità sono indicate la superbia, l’avarizia e la lussuria ostinata. Tu, o superbo, richiama agli occhi della tua mente la corruzione del tuo corpo, il marciume e il fetore che manderà. Dove sarà allora quella tua superbia del cuore, quella tua ostentazione di ricchezze? Allora non ci saranno più le parole piene di vento, perché la vescica si sgonfia ad una minima puntura di ago. Queste verità, meditate nell’intimo, ungono il capo pustoloso, umiliano cioè la mente orgogliosa. E tu, o avaro, ricordati dell’ultimo esame, dove ci sarà il Giudice sdegnato, ci sarà il carnefice pronto a tormentare, vi saranno i demoni che accusano e la coscienza che rimorde. Allora il tuo argento sarà gettato via, l’oro diventerà sudiciume; il tuo oro e il tuo argento non potranno liberarti dal giorno dell’ira del Signore ( cf. Ez 7,19 ). Queste verità, meditate con attenzione, consumano e staccano le verruche della superfluità, e le dividono tra coloro che mancano anche del necessario. Perciò, quando digiuni, cospargi – ti scongiuro – il tuo capo con questo unguento, affinché ciò che sottrai a te stesso venga elargito al povero. Tu poi, o lussurioso, pensa alla geenna dal fuoco inestinguibile, dove ci sarà morte senza morte, fine senza fine; dove si cerca la morte ma non la si trova; dove i dannati si mangeranno la lingua e malediranno il loro Creatore. Legna di quel fuoco saranno le anime dei peccatori e il soffio dell’ira di Dio le incendierà. Dice Isaia: "Da ieri", cioè dall’eternità, "è preparato il Tofet", la geenna di fuoco, "profonda e vasta. Fuoco e legna abbonderanno; il soffio del Signore l’accenderà come torrente di zolfo" ( Is 30,33 ). Ecco l’unguento che punge, che penetra, capace di risanare la più ostinata lussuria. Come chiodo scaccia chiodo, così queste verità, meditate assiduamente, sono in grado di reprimere gli stimoli della lussuria. Tu quindi, quando digiuni, ungiti il capo con questo unguento. 5 "Lava il tuo volto". Le donne, quando vogliono uscire in pubblico, si mettono davanti allo specchio e se scoprono nel loro viso qualche macchia, la lavano con l’acqua. Così anche tu, guarda nello specchio della tua coscienza, e se vi troverai la macchia di qualche peccato, corri immediatamente alla fonte della confessione. Quando nella confessione si lava con le lacrime il viso del corpo, anche il volto dell’anima viene deterso e illuminato. C’è da osservare che le lacrime sono luminose contro l’oscurità, sono calde contro il freddo, sono salate contro il fetore del peccato. "Perché gli uomini non vedano che tu digiuni". Digiuna per gli uomini chi cerca il loro plauso. Digiuna per il Signore chi si macera per suo amore e largisce agli altri ciò che sottrae a se stesso. "Ma solo il Padre tuo che è nel segreto" ( Mt 6,18 ). Aggiunge la Glossa: Il Padre è nel segreto, cioè nell’intimo, per mezzo della fede, e ricompensa ciò che viene fatto nel segreto. Quindi nel segreto si deve digiunare, perché lui solo veda. Ed è necessario che chi digiuna, digiuni in modo da piacere a colui che porta in seno. Amen. II. L’elemosina 6. "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano" ( Mt 6,19 ). La ruggine consuma i metalli, la tignola le vesti; ciò che si salva da questi due flagelli, lo rubano i ladri. Con queste tre espressioni viene condannata ogni forma di avarizia. Vedremo il significato morale delle cinque parole: terra, tesori, ruggine, tignola e ladri. La terra, così chiamata perché si dissecca ( lat. torret ) per la siccità naturale, raffigura la carne, che è talmente assetata da non dire mai basta. I tesori sono i preziosi sensi del corpo. La ruggine, malattia del ferro, così chiamata da erodere, indica la libidine che, mentre diletta, distrugge lo splendore dell’anima e la consuma. La tignola, così chiamata perché "tiene", indica la superbia oppure l’ira. I ladri ( lat. fures, da furvus: oscuro ), che lavorano nell’oscurità della notte, raffigurano i demoni. Quindi se lavoriamo portiamo qualcosa nella carne, nascondiamo i tesori nella terra, vale a dire che, mentre occupiamo i preziosi sensi del corpo nei desideri terreni o della carne, la ruggine, cioè la libidine, li consuma. Inoltre la superbia, l’ira e gli altri vizi distruggono la veste dei buoni costumi, e se resta ancora qualche cosa i demoni la rubano, poiché sono sempre intenti proprio a questo: spogliare dei beni spirituali. "Accumulatevi dei tesori nel cielo" ( Mt 6,20 ). Grande tesoro è l’elemosina. Disse Lorenzo: Le ricchezze della Chiesa sono state riposte nel tesoro celeste dalle mani dei poveri. Accumula tesori in cielo chi dà a Cristo. Dà a Cristo chi largisce al povero: Ciò che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me ( cf. Mt 25,40 ). "Elemosina" è un termine greco: in latino è misericordia. Misericordia significa "che irrìga il misero cuore" ( miserum rigans cor ). L’uomo irrìga l’orto per ricavarne i frutti. Irrìga anche tu il cuore del povero miserabile con l’elemosina, che è detta l’acqua di Dio, per riceverne il frutto nella vita eterna. Il tuo cielo sia il povero: in lui riponi il tuo tesoro, affinché in lui sia sempre il tuo cuore: e ciò soprattutto durante questa santa quaresima. E dov’è il cuore è anche l’occhio; e dove sono il cuore e l’occhio, lì è anche l’intelletto, del quale dice il salmo: "Beato chi fa attenzione ( intelligit, comprende, ha cura ) al misero e al povero ( Sal 41,2 ). E Daniele disse a Nabucodonosor: "Ti sia accetto, o re, il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con opere di misericordia verso i poveri" ( Dn 4,24 ). Molti sono i peccati e le iniquità, e perciò molte devono essere le elemosine e le opere di misericordia verso i poveri: riscattati con esse dalla schiavitù del peccato, possiate ritornare liberi alla patria celeste. Ve lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. III. Sermone morale 7. Si legge nel libro dei Giudici che Gedeone espugnò gli accampamenti di Madian con lucerne, trombe e brocche ( cf. Gdc 7,16-23 ). Anche Isaia dice: "Ecco il Dominatore, il Signore degli eserciti spezzerà con il terrore la brocca di terracotta; gli alti di statura saranno troncati, e i potenti saranno umiliati. Il folto della selva sarà distrutto col ferro, e il Libano cadrà con i suoi alti cedri" ( Is 10,33-34 ). Vediamo che significato morale abbiano Gedeone, la lucerna, la tromba e la brocca. Gedeone s’interpreta "che gira nell’utero", e indica il penitente che, prima di accostarsi alla confessione, deve girare nell’utero della sua coscienza, nella quale viene concepito e generato il figlio della vita o della morte. [ Deve pensare ] alla sua età, a quanti anni poteva avere quando incominciò a peccare mortalmente, e poi quanti e quali peccati mortali ha commesso e quante volte; quali furono i luoghi, quali i tempi; se ha peccato in privato o in pubblico, se è stato costretto, se è stato prima tentato oppure se ha peccato prima ancora di essere tentato, ciò che è molto più grave. E se si è già confessato di tutte queste cose; e se, dopo essersi confessato, è ricaduto negli stessi peccati, e quante volte; perché in questo caso è stato molto e molto più ingrato verso la grazia di Dio. Se ha trascurato la confessione e per quanto tempo è rimasto in peccato senza confessarsi; e se in peccato mortale ha ricevuto il corpo del Signore. Di questo giro di ricerca è detto nel primo libro dei Re: "Samuele fu giudice ( iudicabat ) in Israele tutti i giorni della sua vita. E ogni anno andava in giro a Betel, a Gàlgala e a Masfa. Ritornava poi a Rama perché lì era la sua casa" ( 1 Sam 7,15-16 ). Samuele s’interpreta "che ascolta il Signore", Betel "casa di Dio", Gàlgala "colle della circoncisione", Masfa "che contempla il tempo", Rama "vidi la morte". Quindi il penitente, sentendo il Signore che dice "fate penitenza" ( Mt 3,2 ), deve giudicare se stesso per tutti i giorni della sua vita, per vedere se egli è Israele, cioè se è uno che vede Dio. Ogni anno, durante questa quaresima, deve perquisire la propria coscienza, che è la casa di Dio, e tutto ciò che vi trova di nocivo o di superfluo deve circonciderlo nell’umiltà della contrizione; e deve anche considerare il tempo passato, cercando diligentemente ciò che ha commesso, ciò che ha omesso, e, dopo tutto questo, ritornare sempre al pensiero della morte, che deve avere davanti agli occhi, anzi in questo pensiero deve dimorare. 8. Il penitente, attento esploratore, fatto in questo modo il giro, deve subito accendere la lampada che arde e illumina ( cf. Gv 5,35 ); in essa è indicata la contrizione, la quale, per il fatto che arde, per questo anche illumina. Infatti dice Isaia: "La luce d’Israele diverrà un fuoco e il suo Santo una fiamma; e sarà acceso e divorerà le sue spine e i suoi rovi in un giorno. La magnificenza della sua selva e del suo Carmelo sarà consumata dall’anima fino alla carne" ( Is 10,17-18 ). Ecco che cosa fa la vera contrizione. Quando il cuore del peccatore si accende con la grazia dello Spirito Santo, brucia per il dolore e illumina per la cognizione di se stesso; e allora le spine, cioè la coscienza piena di triboli e di rimorsi, e i rovi, vale a dire la tormentosa lussuria, tutto viene distrutto, perché all’interno e all’esterno viene riportata la pace. E la magnificenza della selva, cioè del lusso di questo mondo, e del Carmelo, che s’interpreta "molle", e cioè la dissolutezza carnale, vengono estirpate dall’anima fino alla carne, poiché tutto ciò che c’è d’immondo, sia nell’anima che nel corpo, viene consumato dal fuoco della contrizione. Fortunato colui che brucia e illumina con questa lampada, della quale dice Giobbe: "Lampada disprezzata nel pensiero dei ricchi, preparata per il tempo stabilito" ( Gb 12,5 ). I pensieri dei ricchi di questo mondo sono: custodire le cose conquistate e sudare nel conquistarne altre; e perciò raramente o mai si trova in essi la vera contrizione; essi la disdegnano perché fissano l’animo nelle cose transitorie. Infatti mentre perseguono con tanto ardore il piacere delle cose temporali, dimenticano la vita dell’anima, che è la contrizione, e così vanno incontro alla morte. Dice la Storia Naturale che la caccia ai cervi si fa in questo modo. Due uomini partono, e uno di loro zufola e canta: allora il cervo segue il canto perché ne è attratto; intanto il secondo scocca la freccia, lo colpisce e lo uccide. Nello stesso modo viene data la caccia ai ricchi. I due cacciatori sono il mondo e il diavolo. Il mondo davanti al ricco zufola e canta, perché gli mostra e gli promette i piaceri e le ricchezze; e mentre quello stolto lo segue incantato, perché in quelle cose trova diletto, viene ucciso dal diavolo e portato nella cucina dell’inferno per esservi cotto e arrostito. 9. Ma ecco finalmente il tempo della quaresima, istituito dalla chiesa per espiare i peccati e salvare le anime: in esso è preparata la grazia della contrizione, che ora sta spiritualmente alla porta e bussa; se vorrai aprirle e accoglierla, cenerà con te e tu con lei ( cf. Ap 3,20 ). E allora comincerai a suonare la tromba in modo meraviglioso. La tromba è la confessione del peccatore contrito. Di essa è detto nell’Esodo: "Tutto il monte Sinai fumava, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco, e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace, e tutto il monte metteva terrore. E un suono di tromba a poco a poco si faceva più forte e persistente" ( Es 19,18-19 ). Queste parole descrivono come deve comportarsi il peccatore nella sua confessione. Il monte è così chiamato perché non si muove. Il monte Sinai, nome che s’interpreta "i miei denti", raffigura il penitente, forte e intrepido nel tempo della tentazione, che con i denti, cioè con i castighi che si infligge, lacera le sue carni, vale a dire le sue tendenze carnali. Egli fuma tutto per le lacrime che salgono dalla fornace della contrizione: e ciò proviene dalla discesa della grazia celeste. "E tutto il monte incuteva terrore", perché il penitente ha le lacrime e la mestizia nel volto, la povertà nelle vesti, il dolore nel cuore e i sospiri nella voce. "E il suono della tromba, cioè della confessione, a poco a poco si faceva più forte e insistente", ecc. Qui è indicato il modo di confessarsi. All’inizio della confessione deve incominciare dall’accusa di sé, come è passato dalla suggestione al piacere, dal piacere al consenso, dal consenso alla parola, dalla parola all’azione, dall’azione alla ripetizione del peccato, dalla ripetizione all’abitudine. Incominci prima dalla lussuria, da tutte le sue modalità e circostanze, secondo natura e contro natura. Poi dall’avarizia, usura, furto e rapina e da tutto il mal tolto, che è tenuto a restituire se ne ha la possibilità. Se poi è chierico incominci dalla simonia, e se ha ricevuto gli ordini mentre era scomunicato, o se li ha esercitati, o se nel riceverli ha commesso delle irregolarità. In fine potrà confessarsi di tutte le altre cose, come sembrerà meglio al penitente e al confessore. 10. Fatta la confessione, dev’essere imposta la penitenza ( soddisfazione ), che è indicata nella rottura della brocca o del vaso di terracotta. Il vaso viene spezzato, il corpo viene fatto soffrire; Madian, che s’interpreta "dal giudizio" o "iniquità", cioè il diavolo che dal giudizio di Dio è già condannato, viene sconfitto e la sua iniquità annientata. Ed è appunto ciò che dice Isaia: "Gli alti di statura", cioè i demoni, "saranno troncati", "e i potenti", cioè gli uomini superbi "saranno umiliati, e il folto della selva", cioè la dovizia della cose temporali, "sarà distrutta dal ferro" del timore di Dio; "e il Libano", cioè lo splendore del lusso mondano, "con i suoi alti cedri", cioè le nullità, le truffe e le apparenze, "tutto crollerà" ( Is 10,33-34 ). Fa’ attenzione che la soddisfazione, cioè la penitenza, consiste in tre cose: nell’orazione per ciò che riguarda Dio, nell’elemosina per ciò che riguarda il prossimo, e nel digiuno per ciò che riguarda noi stessi, affinché la carne, che nel piacere ha condotto al peccato, nell’espiazione e nella sofferenza conduca al perdono. Si degni di concedercelo colui che è benedetto nei secoli. Amen. Domenica I di quaresima ( 1 ) Temi del sermone – Vangelo: "Gesù fu condotto nel deserto"; si divide in sermone allegorico e sermone morale. – Sermone allegorico: in primo luogo, il triplice deserto, e il sermone sulla venuta del Signore: "Manda, Signore, l’agnello". – Sermone sul "ternario" maledetto: "Ioab prese tre lance". – Sermone morale: in primo luogo sermone ai claustrali: "Furono date alla donna due ali di aquila"; la natura dell’aquila e le proprietà dell’avvoltoio. – Sermone sulla contrizione del cuore: "Nel soffio potente", e "Sacrificio a Dio". – Sermone ai sacerdoti, come debbano tener segreta la confessione: "La confessione deve essere inabitabile"; e "Guardatevi bene dal salire sul monte". – Sermone sui sette vizi e sulle proprietà dello struzzo, dell’asino e del riccio: "Sarà un covo di dragoni". – Sermone a coloro che si confessano, come debbano confessare i peccati e le loro circostanze: "Prendi la cetra". – Sermone sulla confessione: "Quanto è terribile questo luogo". – Sermone sul digiuno di quaranta giorni: "E avendo digiunato quaranta giorni", e "Gli esploratori mandati da Mosè". – Sermone sul dovere di confessare e specificare le circostanze del peccato: "Giosuè conquistò anche Makkeda". – Sermone sul "ternario" maledetto, con il quale il diavolo ci tenta: "Rivestiamoci dell’uomo nuovo". Esordio - il deserto di engaddi 1. "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo", ecc. ( Mt 4,1 ). Leggiamo nel primo libro dei Re, che Davide abitò nel deserto di Engaddi ( cf. 1 Sam 24,1-2 ). Davide s’interpreta "di mano forte" e indica Gesù Cristo che, con le mani inchiodate sulla croce, sconfisse le potenze dell’aria ( diaboliche ). O meravigliosa potenza: vincere il proprio nemico con le mani legate! Cristo abitò nel deserto di Engaddi, nome che s’interpreta "occhio della tentazione". Osserva che l’occhio della tentazione è triplice. Il primo è quello della gola, del quale è detto nella Genesi: "E la donna vide che l’albero era buono da mangiare, bello agli occhi e di aspetto gradevole; prese del suo frutto, ne mangiò e ne diede a suo marito" ( Gen 3,6 ). Il secondo è quello della superbia e della vanagloria, del quale Giobbe, parlando del diavolo, dice: "Guarda tutto ciò che è alto: egli è il re di tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ). Il terzo è quello dell’avarizia, del quale parla il profeta Zaccaria: "Questo è il loro occhio in tutta la terra" ( Zc 5,6 ). Cristo dunque dimorò nel deserto di Engaddi per quaranta giorni e quaranta notti; in esso subì dal diavolo le tentazioni della gola, della vanagloria e dell’avarizia. 2. È detto perciò nel vangelo di oggi: "Gesù fu condotto nel deserto". Osserva che i deserti sono tre, e in ognuno di essi fu condotto Gesù: il primo è il grembo della Vergine, il secondo è quello del vangelo di oggi, il terzo è il patibolo della croce. Nel primo fu condotto solo dalla misericordia, nel secondo per darcene l’esempio, nel terzo per obbedire al Padre. Del primo dice Isaia: "Manda, Signore, l’agnello dominatore della terra, dalla pietra del deserto al monte della figlia di Sion" ( Is 16,1 ). O Signore, Padre, manda l’agnello, non il leone, il dominatore, non il distruttore, dalla pietra del deserto, cioè dalla beata Vergine che è detta "pietra del deserto": "pietra", per il fermo proposito della verginità, per cui rispose all’angelo: "Come può avvenire questo, poiché non conosco uomo?" ( Lc 1,34 ), vale a dire: ho fatto il fermo proposito di non conoscerlo?; "del deserto", perché non lavorabile ( lat. inarabilis ): restò infatti intatta, vergine prima del parto, nel parto e dopo il parto. Mandalo al monte della figlia di Sion, cioè alla santa chiesa che è figlia della celeste Gerusalemme. Del secondo deserto dice Matteo: "Gesù fu condotto nel deserto, per essere tentato dal diabolo", ecc. Del terzo parla Giovanni Battista: "Io sono la voce di colui che grida nel deserto" ( Gv 1,23 ). Giovanni Battista è detto "voce" perché, come la voce precede la parola, così egli precedette il Figlio di Dio. Io, disse, sono la voce di Cristo, che grida nel deserto, cioè sul patibolo della croce: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" ( Lc 23,46 ). In questo deserto tutto fu pieno di spine ed egli fu privo di ogni forma di umano soccorso. La triplice tentazione di Adamo e di Gesù Cristo 3. "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto". Si è soliti domandarsi da chi Gesù sia stato condotto nel deserto. Luca lo dice chiaramente: "Gesù, pieno di Spirito Santo, si ritirò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto" ( Lc 4,1 ). Fu condotto da quello stesso Spirito di cui era ripieno, e del quale egli stesso dice per bocca di Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché mi ha consacrato con l’unzione" ( Is 61,1 ). Da quello Spirito, dal quale fu "unto" ( consacrato ) più dei suoi compagni ( cf. Eb 1,9 ), fu condotto nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Poiché il Figlio di Dio, il nostro Zorobabele, nome che s’interpreta "maestro di Babilonia", era venuto a ricostruire il mondo rovinato dal peccato e, come medico, a risanare i malati, fu necessario che egli curasse i mali con i rimedi opposti: come nell’arte medica le cose calde si curano con il freddo, e le cose fredde con il caldo. La rovina e la fragilità del genere umano fu il peccato di Adamo, costituito da tre passioni: la gola, la vanagloria, l’avarizia. Dice infatti il verso: "La gola, la vanagloria e la cupidigia vinsero il vecchio Adamo" ( autore ignoto ). Questi tre peccati li trovi descritti nella Genesi: "Disse il serpente alla donna: Il giorno in cui mangerete di questo frutto, si apriranno i vostri occhi", ecco la gola; "sarete come dèi", ecco la vanagloria; "conoscerete il bene e il male", ecco l’avarizia ( Gen 3,4-5 ). Queste furono le tre lance con le quali fu ucciso Adamo insieme con i suoi figli [ con la sua discendenza ]. Leggiamo nel secondo libro dei Re: "Ioab prese in mano tre lance e le conficcò nel cuore di Assalonne" ( 2 Sam 18,14 ). Ioab s’interpreta "nemico" e giustamente indica il diavolo che è il nemico del genere umano. Egli, con la mano della falsa promessa, "prese tre lance", cioè la gola, la vanagloria e l’avarizia, "e le conficcò nel cuore", nel quale è la fonte del calore e della vita dell’uomo – "da esso, dice Salomone, procede la vita" ( Pr 4,23 ) –, per spegnere il calore dell’amore divino e togliere completamente la vita; "nel cuore di Assalonne", nome che s’interpreta "pace del padre". E questo fu Adamo, che fu posto in un luogo di pace e di delizie affinché, obbedendo al Padre, conservasse eternamente la sua pace. Ma poiché non volle obbedire al Padre, perdette la pace e nel suo cuore il diavolo conficcò le tre lance e lo privò completamente della vita. 4. Il Figlio di Dio venne dunque nel tempo favorevole e, obbedendo a Dio Padre, reintegrò ciò che era perduto, curò i vizi con i rimedi opposti. Adamo fu posto nel paradiso nel quale, immerso nelle delizie, cadde. Gesù invece fu condotto nel deserto, nel quale, persistendo nel digiuno, sconfisse il diavolo. Osservate come concordino tra loro, nella Genesi e in Matteo, le tre tentazioni: "Disse il serpente: Nel giorno in cui ne mangerete"; "e avvicinandosi, il tentatore gli disse: Se sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pani" ( Mt 4,3 ): ecco la tentazione di gola. Parimenti: "Sarete come dèi"; "allora il diavolo lo portò nella città santa, e lo pose sul pinnacolo del tempio" ( Mt 4,5 ), ecco la vanagloria. E infine: "Conoscerete il bene e il male"; "di nuovo il diavolo lo portò su di un monte altissimo, gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, e gli disse: Tutto questo io ti darò, se prostrandoti mi adorerai" ( Mt 4,8-9 ). Il diavolo, quanto è perfido, altrettanto perfidamente parla: questa è la tentazione dell’avarizia. Ma la Sapienza, poiché sempre sapientemente agisce, superò le tre tentazioni del diavolo con tre sentenze del Deuteronomio. Gesù, quando il diavolo lo tentò di gola, rispose: "L’uomo non vive di solo pane" ( Mt 4,4; cf. Dt 8,3 ), come dicesse: Come l’uomo esteriore vive di pane materiale, così l’uomo interiore vive del pane celeste, che è la parola di Dio. La Parola di Dio è il Figlio, che è la Sapienza che procede dalla bocca dell’Altissimo ( cf. Sir 24,5 ). La sapienza è chiamata così da sapore. Quindi il pane dell’anima è il sapore della sapienza, con il quale assapora i doni del Signore e gusta quanto soave è il Signore stesso ( cf. Sal 34,9 ). Di questo pane è detto nel libro della Sapienza: "Hai preparato loro un pane dal cielo, che ha in sé ogni delizia e ogni soave sapore" ( Sap 16,20 ). E questo intende quando dice: "Ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" ( Mt 4,4; cf. Dt 8,3 ). "Di ogni parola", perché la parola di Dio e la sapienza hanno ogni soave sapore, che rende insipido ogni piacere della gola. E poiché Adamo ebbe nausea di questo pane, cedette alla tentazione della gola. Giustamente dunque è detto: Non di solo pane, ecc. Parimenti, quando il diavolo lo tentò di vanagloria, Gesù rispose: "Non tenterai il Signore, Dio tuo" ( Mt 4,7; Dt 6,16 ). Gesù Cristo è Signore per la creazione, è Dio per l’eternità. E questo Gesù il diavolo tentò, quando esortò a gettarsi giù dal pinnacolo del tempio lo stesso creatore del tempio, e promise l’aiuto degli angeli al Dio di tutte le potenze celesti. "Non tenterai, dunque, il Signore, tuo Dio!" Anche Adamo ha tentato il Signore Dio, quando non osservò il comando del Signore e Dio, ma prestò fede con leggerezza alla falsa promessa: "Sarete come dèi". Quale vanagloria, credere di poter diventare dèi! O miserabile! Invano ti innalzi al di sopra di te stesso, e perciò ancor più miseramente crolli al di sotto di te. "Non tentare, quindi, il Signore, tuo Dio. Infine, quando il diavolo lo tentò di avarizia, Gesù rispose: "Adorerai il Signore, Dio tuo, e a lui solo servirai" ( Mt 4,10; cf. Dt 6,13; Dt 10,20 ). Tutti coloro che amano il denaro o la gloria del mondo, si inginocchiano davanti al diavolo e lo adorano. Noi invece, per i quali il Signore è venuto nel grembo della Vergine, e ha subìto il patibolo della croce, istruiti dal suo esempio, andiamo nel deserto della penitenza e con il suo aiuto reprimiamo la cupidigia della gola, il vento della vanagloria e il fuoco dell’avarizia. Adoriamo anche noi colui che gli arcangeli stessi adorano, serviamo colui che gli angeli servono, colui che è benedetto, glorioso, degno di lode ed eccelso nei secoli eterni. E tutto il creato dica: Amen! Domenica I di quaresima ( 2 ) La penitenza esordio. Sermone ai claustrali, ossia sermone sull’anima penitente 1. "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto", ecc. ( Mt 4,1 ). Leggiamo nell’Apocalisse: "Furono date alla donna due ali di aquila, perché volasse nel deserto" ( Ap 12,14 ). Questa donna raffigura l’anima penitente, della quale nel vangelo di Giovanni il Signore dice: "La donna", cioè l’anima, "quando partorisce" nella confessione il peccato, che ha concepito nel piacere, "è in tristezza" ( Gv 16,21 ), ed è giusto che lo sia. A questa donna vengono date due ali di aquila. L’aquila, così chiamata per l’acutezza della sua vista, o anche del becco, raffigura il giusto; l’aquila infatti ha una vista acutissima, e quando per la vecchiaia il suo becco si ingrossa, lo affila sfregandolo ad una pietra, e così ringiovanisce. Allo stesso modo il giusto, con l’acutezza della contemplazione, fissa lo sguardo nello splendore del vero sole, e se un po’ alla volta il suo becco, cioè l’ardore della mente, si infiacchisce a motivo di qualche peccato, così che non è più in grado di nutrirsi dell’abituale cibo della dolcezza interiore, subito lo affila alla pietra della confessione e così ringiovanisce nella giovinezza della grazia. Infatti dice di lui il Profeta: "La tua giovinezza si rinnoverà come quella dell’aquila" ( Sal 103,5 ). Due sono le ali di quest’aquila, l’amore e il timore di Dio, di cui il Signore dice a Giobbe: "Forse che per la tua sapienza si veste di penne lo sparviero e distende la sue ali verso il mezzogiorno?" ( Gb 39,26 ). Anche lo sparviero, come l’aquila, è figura del giusto. E osserva che lo sparviero fa due cose: afferra con gli artigli del piede, e non afferra un uccello se non durante il volo. Così fa anche il giusto: afferra con il piede dell’affetto, e non afferra il bene se non volando: delle cose terrene non si cura. Egli mette le penne della sapienza di Dio. Le penne dell’avvoltoio sono i pensieri puri del giusto, che si formano ordinatamente nella sua mente per mezzo della sapienza di Dio, così chiamata da "sapore": infatti in quanto hai sapore di Dio, in tanto metti le penne; in quanto provi il sapore della sua dolcezza, in tanto metti le penne dei buoni pensieri. E così quest’avvoltoio distende le sue ali, cioè l’amore e il timore divino, verso mezzogiorno, cioè verso Gesù Cristo, che viene da mezzogiorno ( cf. Ab 3,3 ), per effondere il calore che nutre e infondere in esse la grazia che sostiene. Queste due ali sono date alla donna, cioè all’anima penitente, con le quali, sollevata dalle cose terrene, possa volare nel deserto della penitenza, del quale è detto nel vangelo di questa domenica: "Gesù fu condotto nel deserto". 2. E sempre in questa domenica si legge nell’introito della messa: "Mi invocherà e io lo esaudirò"; e l’epistola del beato Paolo ai Corinzi dice: "Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio". E poiché sono arrivati per noi i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e per la salvezza delle anime, tratteremo della penitenza, che consiste in tre atti: la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di soddisfazione ( riparazione ); tratteremo poi dei peccati contrari alla penitenza, cioè la gola, la vanagloria e l’avarizia. Tutti questi sei argomenti sono desunti dal vangelo di oggi. E tutto sia a lode di Dio e ad utilità della nostra anima. I. la contrizione del cuore 3. "Gesù fu condotto nel deserto". "Io vi ho dato un esempio – dice Gesù – affinché come ho fatto io, così facciate anche voi" ( Gv 13,15 ). Che cosa ha fatto Gesù? Fu condotto dallo Spirito nel deserto. E tu che credi in Gesù e da Gesù speri la salvezza, fatti condurre, ti scongiuro, nel deserto della confessione dallo spirito di contrizione, per compiere in modo perfetto il numero quaranta della soddisfazione ( riparazione ). Osserva che la contrizione del cuore è chiamata "spirito", soffio; infatti Davide dice: "Con il soffio violento tu sfascerai le navi di Tarsis" ( Sal 48,8 ). Tarsis s’interpreta "ricerca del godimento". Le navi di Tarsis raffigurano le aspirazioni dei secolari che, attraverso il mare di questo mondo, dalla vela della concupiscenza carnale e dal vento della vanagloria sono portati alla ricerca del godimento del benessere mondano. Quindi nel vento impetuoso della contrizione il Signore sfascia le navi di Tarsis, vale a dire le aspirazioni dei secolari, affinché, trasformati dalla contrizione, non ricerchino il falso godimento, ma quello vero. Osserva che lo spirito ( vento ) di contrizione è detto "impetuoso" per due motivi: perché porta in alto la mente ( vehemens, vehit sursum mentem ), e perché sopprime l’eterno "guai!" ( vae àdimit ). Di questo spirito è detto nella Genesi: "Soffiò sul suo viso un alito di vita" ( Gen 2,7 ). Il Signore soffia sul volto dell’anima l’alito di vita, che è la contrizione del cuore, quando l’immagine e la somiglianza di Dio, deturpata dal peccato, si imprime nuovamente nell’anima, e si rinnova, per mezzo della contrizione del cuore. 4. Quale debba essere la contrizione, lo indica il Profeta dicendo: "Sacrificio a Dio è lo spirito addolorato, affranto; un cuore contrito e umiliato tu, o Dio, non disprezzi" ( Sal 51,19 ). In questo versetto vengono indicati quattro atti: il pentimento del cuore addolorato per i peccati, la riconciliazione del peccatore, l’universale contrizione di tutti i peccati, la continua umiliazione del peccatore contrito. Dice dunque: Lo spirito del penitente, il quale per i peccati che sono come triboli, è tribolato e compunto, è sacrificio a Dio, che cioè placa Dio nei riguardi del peccatore e riconcilia il peccatore stesso con Dio. E poiché la contrizione deve essere universale, aggiunge "cuore contrito". E osserva che non dice soltanto tritum ( tritato ), ma contritum ( tritato insieme ). Il peccatore deve avere il cuore trito e contrito: trito, per spezzarlo con il martello della contrizione, e perché la spada del dolore lo divida in tante particelle, e una particella sia posta su ogni peccato mortale, e pianga nel dolore, e si addolori nel pianto, e si dolga maggiormente di un peccato mortale commesso, che non se avesse perduto, dopo esserne venuto in possesso, tutto il mondo e tutto ciò che in esso si trova. Infatti con il peccato mortale ha perduto il Figlio di Dio che è più degno, più caro e più prezioso di tutto il creato. Deve avere inoltre il cuore contrito, cioè trito insieme, per struggersi per tutti i peccati commessi, per tutti i peccati di omissione e per quelli dimenticati, per tutti globalmente. E poiché la perfezione di ogni bene è l’umiltà, al quarto e ultimo posto è detto: [ un cuore ] "umiliato Dio non lo disprezza". Anzi, come dice Isaia: "L’Eccelso e il Sublime, che ha una sede eterna, ha la sua dimora nello spirito contrito e umile, per ravvivare lo spirito degli umili e vivificare lo spirito dei contriti" ( Is 57,15 ). O bontà di Dio! O dignità del penitente! Colui che ha una sede eterna, abita anche nel cuore dell’umile e nello spirito del penitente! È proprio del cuore veramente contrito umiliarsi in tutto e reputarsi un cane morto e una pulce ( cf. 1 Sam 24,15 ). II. la confessione della bocca ( l’accusa ) 5. Da questo spirito di contrizione, dunque, il penitente è condotto nel deserto della confessione, la quale è detta giustamente "deserto" per tre motivi. Osserva che è chiamata deserto una terra inabitabile, piena di bestie, e che incute terrore. Tale precisamente era il deserto nel quale restò Gesù per quaranta giorni e quaranta notti. Così anche la confessione dev’essere inabitabile, cioè privata, segreta, nascosta ad ogni conoscenza di uomo e rinchiusa nel tesoro della memoria del solo confessore sotto inviolabile sigillo, e occulta per ogni umana coscienza: tanto che, se anche tutti gli uomini che sono nel mondo conoscessero il peccato del peccatore che si è confessato da te, tu devi ugualmente tenerlo nascosto e chiuderlo sotto la chiave del tuo perpetuo silenzio. Sono veramente figli del diavolo, condannati dal Dio vivo e vero, espulsi dalla chiesa trionfante, scomunicati dalla chiesa militante, da destituirsi dall’ufficio e dal beneficio e da esporre alla pubblica infamia, coloro che, non dico con le parole, cosa che è peggiore di ogni omicidio, ma anche con un gesto o in qualunque altro modo occulto o palese, per scherzo o sul serio, scoprono o manifestano il segreto della confessione. Lo affermo espressamente: Chiunque viola la confessione pecca più gravemente di Giuda traditore, che vendette ai giudei il Figlio di Dio, Gesù Cristo. Io mi confesso all’uomo, non come a uomo, ma come a Dio. E il Signore dice per bocca di Isaia: "Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me" ( Is 24,16 ). E l’uomo, nato dall’umo ( terra ), non sigillerà il segreto della confessione nella parte più recondita del suo cuore? 6. Giustamente dunque è detto che la confessione dev’essere come una terra inabitabile e inaccessibile, affinché a nessun uomo sia svelato il segreto della confessione. Perciò il Signore, minacciando, comanda nell’Esodo: "Guardatevi dal salire sul monte e dal toccare le sue falde: chiunque toccherà il monte sarà messo a morte. Nessuna mano però dovrà toccare costui; egli dovrà essere colpito con le pietre e trafitto con le frecce; che sia animale o che sia uomo, non dovrà sopravvivere" ( Es 19,12-13 ). Questo monte Sinai, il cui nome s’interpreta "misura", raffigura la confessione, che giustamente è detta "monte" per la sua sublimità, che è la remissione dei peccati. Che cosa infatti ci può essere di più sublime della remissione dei peccati? Ed è detta "misura" per l’esatta corrispondenza che ci dev’essere tra la colpa e la confessione di essa. Il peccatore cioè deve fare in modo che la confessione corrisponda esattamente alla colpa, in modo da non dire di meno per vergogna o timore, né, sotto l’apparenza di umiltà, aggiungere di più, di come realmente stanno le cose. Neppure per umiltà infatti è lecito mentire. Guardatevi bene, dunque, o confessori, o sacerdoti, dal salire su questo monte. Salire sul monte significa svelare il segreto della confessione. E non dico soltanto: non salite, ma "non toccatene neppure le falde". Le falde del monte sono le circostanze della confessione, che né a parole, né con gesti, né in qualunque altro modo devono essere rivelate. Ahimè, ci sono alcuni che hanno sì paura di salire sul monte, ma non temono di violarne le falde, palesando appunto con qualche parola e gesto le circostanze del peccato. Ascoltino perciò, questi infelici, la loro sentenza di morte: "Chiunque toccherà il monte, sarà messo a morte". E quale morte, o Signore? La mano del potere secolare non lo tocchi, per essere impiccato come un ladro o un omicida, ciò che forse sarebbe meno penoso per lui, ma venga colpito con le pietre, cioè con severe scomuniche, oppure sia trafitto con le frecce della dannazione eterna; e sia che si tratti di un animale, cioè di un semplice sacerdote, oppure di un uomo, cioè di un sacerdote istruito e pieno di scienza, non dovrà sopravvivere. Inteso altrimenti: sia che si tratti di un animale, cioè di un laico o di un semplice chierico, ai quali in caso di estrema necessità possiamo confessare i peccati se non è presente un sacerdote; sia che si tratti di un uomo, cioè di un sacerdote della chiesa, non potrà più vivere, ma morirà in eterno, perché è salito sul monte e ne ha toccato le falde. Ben a ragione quindi è detto che la confessione è una terra inabitabile e inaccessibile. 7. La confessione è detta anche deserto perché è piena di bestie. Vediamo quali sono queste bestie, delle quali la confessione deve essere piena. Le bestie sono i peccati mortali; il termine latino bestiae, suona quasi come vastiae, devastatrici, perché i peccati mortali devastano e dilaniano l’anima. Di essi Isaia, quando parla della perfida Giudea, cioè dell’anima peccatrice, dice: "Sarà un covo di dragoni e pascolo di struzzi. Vi si incontreranno demoni con onocentàuri ( animali favolosi, incrocio tra asino e toro ), e i satiri ( caproni ) grideranno uno all’altro; lì si accovacciò lo sciacallo ( làmia ) e vi trovò riposo. Lì trovò la sua tana il riccio e vi nutrì i suoi piccoli, scavò intorno e li riscaldò alla sua ombra" ( Is 34,13-15 ). Osserva che in questo passo sono nominate sette specie di bestie, che sono il drago, lo struzzo, l’onocentàuro, inteso per due: asino e toro, il satiro, lo sciacallo e il riccio. In queste sette bestie ravvisiamo sette specie di peccati, tutti da rivelare con esattezza nella confessione, insieme con quelli che sono ad essi simili; come sono stati commessi nel consenso della mente e nell’esecuzione dell’opera. Dice dunque: Sarà un covo di draghi, ecc. Nel drago è indicata la velenosa malizia dell’odio e della diffamazione, nello struzzo la falsità dell’ipocrisia, nell’asino la lussuria, nel toro la superbia, nei satiri ( caproni ) l’avarizia e l’usura, nello sciacallo la perfidia dell’eresia, nel riccio la cavillosa scusa del peccatore. 8. "Sarà un covo di draghi", ecc. La mente, o la coscienza del peccatore è un covo di draghi a causa del veleno dell’odio e della diffamazione. Infatti è detto nel cantico di Mosè: "Fiele di draghi è il loro vino, veleno micidiale di vipere" ( Dt 32,33 ). Il loro vino, cioè l’odio e la diffamazione dei peccatori, che stordisce e intossica la mente di coloro che li ascoltano, è fiele di draghi e micidiale veleno di vipere. Per questo dice Salomone nell’Ecclesiaste: "Il diffamatore occulto non è da meno del serpente che morde senza rumore" ( Qo 10,11 ). E giustamente dice "micidiale", perché "Il colpo della sferza produce un livido, ma il colpo della lingua spezza le ossa" ( Sir 28,21 ). Infatti il colpo della sferza produce un livido che si vede all’esterno, ma i colpi della lingua della diffamazione frantumano all’interno le ossa delle virtù. Giustamente quindi è detto: Sarà un covo di draghi. 9. "Sarà pascolo degli struzzi". Lo struzzo, che ha sì le ali ma che a motivo della grandezza del suo corpo non può volare, è figura dell’ipocrita, il quale, appesantito dall’attaccamento alle cose terrene, si camuffa da sparviero fingendo di elevarsi alla contemplazione con le ali di una falsa religiosità. Dice Giobbe: "L’ala dello struzzo è simile a quelle della cicogna e dello sparviero" ( Gb 39,13 ). Quindi nella mente del religioso falso c’è il "pascolo dello struzzo". Osserva con quanta proprietà sia detto "pascolo", perché l’ipocrita, mentre si vanta di avere le ali dello sparviero, in realtà si pasce della sua stessa vanteria; fa come il pavone che, quando è ammirato dai bambini, mette in mostra tutta la magnificenza delle sue penne, con la coda fa una ruota, ma facendo la ruota scopre vergognosamente il posteriore. Così l’ipocrita: mentre si vanta, ostenta le penne della santità che finge di avere e fa la ruota della sua vanagloria. Dice infatti: Ho fatto questo e quello, ho incominciato la tal cosa, ho portato a termine quest’altra. E mentre in questo modo "fa la ruota" e si pavoneggia, non fa che rivelare la laidezza della sua infamia. Lo stolto infatti diventa ributtante proprio per ciò per cui crede di rendersi attraente. 10. "E i demoni si incontreranno con gli onocentàuri" ( asino e toro ). Onos in greco, asinus in latino. L’asino raffigura il lussurioso. L’asino infatti è ignorante, pigro e pauroso. Così il lussurioso è ignorante perché ha perduto la vera sapienza, il cui sapore rende l’uomo saggio e sobrio e così elimina la lussuria della carne, che rende l’uomo appunto ignorante e fatuo. Il lussurioso è anche pigro. Dice il Poeta: "Ci si domanda come mai Egisto è diventato adultero; la causa è evidente: era pigro" ( Ovidio ). Ed è anche pauroso, come l’asino. Si legge nella Storia Naturale che l’animale che ha il cuore grosso è pauroso, quello che lo ha misurato è più coraggioso. E la situazione in cui viene a trovarsi questo animale per la paura, dipende solo dal fatto che il calore del cuore è limitato e non può riscaldare tutto il suo corpo; e diventa ancora più debole nei cuori dilatati, e perciò il sangue si raffredda. Il cuore dilatato lo hanno anche le lepri, i cervi e i topi, oltre che gli asini. Come un fuoco piccolo scalda meno in una casa vasta che in una casa piccola, così in questi animali avviene anche del calore del cuore. La stessa cosa si verifica nel lussurioso, che ha un cuore dilatato nel pensare e nel commettere un grande delitto e un grave peccato di lussuria, ma poco o nulla ha di calore e di amore dello Spirito Santo; e quindi è vigliacco, instabile e incostante in tutte le sue azioni ( cf. Gc 1,8 ). Il toro poi raffigura il superbo. E il Signore si lamenta per bocca del Profeta: "Grossi tori mi hanno assediato" ( Sal 22,13 ). I tori, cioè i superbi, grossi per l’abbondanza delle cose materiali, mi hanno assediato, come i giudei, con la volontà di crocifiggermi di nuovo. A questi "onocentàuri", cioè ai lussuriosi e ai superbi, nell’ora della morte correranno vicino i demoni per impadronirsi della loro anima mentre esce dal corpo, per trascinarla alle pene eterne: e così avranno come torturatori nella pena coloro che ebbero come istigatori nella colpa. 11. "E i satiri grideranno uno all’altro". I satiri ( caproni ) sono gli avari e gli usurai, che giustamente sono chiamati satiri ( in lat. pilosi, pelosi, irsuti ), vale a dire danarosi. L’avarizia chiama l’usura e l’usura chiama l’avarizia: quella induce a questa, e questa induce a quella. Oh, sventura! Il clamore di questi satiri ha riempito ormai tutto il mondo. E di costoro è figura il "peloso" Esaù, nome che s’interpreta "quercia"; e gli avari e gli usurai sono pelosi nel ricevere, ma sono come fatti di quercia, cioè duri e irremovibili, quando si tratta di restituire. 12. "Lì si accovacciò lo sciacallo e vi trovò riposo". Lo sciacallo, dicono, è una bestia che ha volto umano, ma termina con la coda da bestia. Raffigura gli eretici che, per trarre più facilmente in inganno, si presentano con volto umano e parole suadenti. Dice di essi Geremia nelle Lamentazioni: "Gli sciacalli scoprono la mammella e allattano i loro cuccioli" ( Lam 4,3 ). Gli eretici scoprono la mammella quando esaltano la loro setta, e allattano i loro cuccioli quando in quella falsità ammaestrano i loro seguaci spergiuri, che giustamente sono chiamati cuccioli e non figli, perché non sanno fare altro che latrare contro la chiesa e bestemmiare contro i cattolici, dato che sono rozzi, volgari e dissoluti. 13. E continua: "Lì ha la tana il riccio". Osserva che il riccio è tutto spinoso, e se qualcuno tenta di catturarlo si arrotola completamente su se stesso e diventa come un palla in mano di colui che vuole prenderlo; ha la testa e la bocca piuttosto in basso e in bocca ha cinque denti. Il riccio è il peccatore ostinato, tutto ricoperto delle spine del peccato. Se vuoi rimproverarlo del peccato commesso, si rinchiude subito su se stesso e nasconde con varie scuse il peccato commesso: per questo ha la testa e la bocca rivolte in basso. Nella testa è indicata la mente, nella bocca la parola. Il peccatore, quando scusa se stesso del male commesso, che cos’altro fa se non piegare verso le cose terrene la mente e le parole? Per questo si dice che in bocca ha cinque denti. I cinque denti che sono in bocca al riccio sono le cinque specie di scuse del peccatore ostinato. Infatti, quando è rimproverato adduce come scuse l’ignoranza, o la fatalità, o la suggestione diabolica, o la fragilità della carne o l’occasione creata dal prossimo; e così, soggiunge Isaia, "nutre i cuccioli", vale a dire i suoi impulsi peccaminosi, "vi scava intorno le difese e li asseconda all’ombra delle sue scuse". 14. Queste sette bestie, nel numero delle quali si possono racchiudere tutte le specie di peccati, devono comparire in grande numero, anzi tutte, nel deserto della nostra confessione, affinché nulla resti nascosto al sacerdote, niente sfugga al penitente, ma confessi tutto con la massima esattezza, sia i peccati che le circostanze. Dice infatti il Signore per bocca di Isaia: "Dopo settant’anni Tiro sarà come il canto di una meretrice. Prendi la cetra, percorri la città, o meretrice posta in oblio: canta bene, ripeti il tuo canto, affinché riviva il tuo ricordo" ( Is 23,15-16 ). In questo passo, con il numero settanta degli anni e il numero sette delle bestie, è indicata la totalità dei peccati. Per questo è detto che il Signore scacciò dalla Maddalena sette demoni, cioè tutti i vizi. Quindi con i settant’anni e le sette bestie intendiamo tutti i vizi. Dice dunque Isaia: "Dopo settant’anni", cioè dopo aver commesso ogni sorta di crimini, "per Tiro" – che significa angustia –, vale a dire per l’anima angustiata dai peccati, "non resta che il canto", cioè la confessione; infatti, dopo aver commesso ogni sorta di crimini, all’infelice anima non resta altro rimedio che la confessione dei peccati, "che è la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio" ( P. Lombardo ). All’anima è detto: "O meretrice", poiché hai scacciato il vero sposo Gesù Cristo e ti sei unita al diavolo adultero, e se non ti convertirai sarai consegnata all’eterno oblio, "prendi la cetra". Fa’ attenzione alle parole. In questo verbo "prendi" ( sume ) è indicata la volontà pronta, non costretta, ma disposta a confessarsi; nella cetra è indicata la confessione di ogni peccato e delle sue circostanze. Prendi dunque la cetra, confessati spontaneamente: "Vivo e sano, dice l’Ecclesiastico, tu confesserai" ( Sir 17,27 ), cioè darai lode a Dio. 15. Osserva che come nella cetra si tendono le corde, così nella confessione si devono spiegare le circostanze dei peccati, che rispondono alle domande seguenti: Chi, che cosa, dove, per mezzo di chi, quante volte, perché, in che modo, quando. Specifica [ o confessore ] tutte queste cose, e tanto con le donne come con gli uomini, interroga con diligenza e con discrezione. Chi: se è sposato o celibe, se è laico o chierico, se è ricco o povero, quale ufficio esercita o quale carica ricopre, se è libero o schiavo, a quale ordine o a quale religione appartiene. Che cosa: quanto grande o di che specie è il peccato, se è una semplice fornicazione, come avviene tra due che non hanno contratto matrimonio; se colei che è nubile si prostituisce o vende il suo corpo; se c’è adulterio; se c’è incesto, che avviene tra consanguinei e tra affini; se uno ha violato una vergine, perché così ha aperto la via al peccato e ha commesso un atto gravissimo; e si guardi costui di non rendersi complice di tutti i peccati che quella donna potrebbe commettere, se non l’avrà sistemata in qualche posto dove possa fare penitenza, o trovarle da sposarsi se è in grado di farlo; se ha commesso un peccato contro natura, che consiste in qualsiasi effusione del seme, che non avvenga nell’organo femminile. Però di tutte queste cose si deve parlare con la massima discrezione et a remotis, cioè da lontano, [ senza scendere in particolari ]. Se ha commesso un omicidio con la mente, con la bocca o di fatto; se ha fatto un sacrilegio, una rapina, un furto, e a quali persone, e se è stato fatto in pubblico o in privato; se ha esercitato l’usura e in quale modo – infatti tutto ciò che si riceve in più del capitale è usura –; se c’è spergiuro, falsa testimonianza, e in che modo è stata fatta; se ha agito con superbia, che è di tre specie: non voler obbedire al superiore, non voler avere uguali, disprezzare l’inferiore: anche queste cose devono essere confessate a puntino. Dove: se ha commesso il peccato in una chiesa consacrata o non consacrata, o vicino alla chiesa, o nel cimitero dei fedeli, o in qualche luogo destinato alla preghiera, o se in tutti questi luoghi ha fatto dei discorsi illeciti. Per mezzo di chi: con l’aiuto o con il consiglio di quali persone ha peccato, o chi ha indotto a peccare; se pochi o molti sono stati complici o a conoscenza del suo peccato; se ha commesso il peccato per ricevere denaro, o se ha dato denaro per poter peccare. Quante volte: si deve confessare quante volte si è commesso un peccato, almeno approssimativamente; se ha peccato spesso o raramente; se è rimasto in peccato a lungo o per breve tempo; se è recidivo e si confessa abbastanza spesso. Perché: se ha peccato con pieno consenso della mente, o se ha prevenuto la tentazione, compiendo il peccato addirittura prima di essere tentato; se per compiere il peccato ha fatto, in qualche modo, violenza alla natura, peccando così in modo gravissimo. In che modo: si devono confessare le modalità del peccato: se in modo indebito, in modo inconsueto, con illeciti contatti, o cose simili. Quando: se nel tempo del digiuno, se nella festa di qualche santo; se è andato a compiere qualcosa di illecito nel tempo in cui avrebbe dovuto andare in chiesa; e anche che età aveva quando ha commesso questo o quel peccato. Poiché queste circostanze e altre simili rendono più grave il peccato e tormentano l’anima del peccatore, devono essere tutte dichiarate nella confessione. Queste sono come le corde tese nella cetra della confessione, della quale appunto è detto: "Prendi la cetra". 16. "Percorri la città". La città è la vita dell’uomo, che egli stesso deve percorrere: il tempo e l’età, il peccato e le sue modalità, il luogo e le persone con le quali ha peccato e che ha fatto peccare con il cattivo esempio, con la parola e con le azioni; e i peccatori che non ha trattenuto dal peccato, potendolo fare; tutto, come si è detto, deve confessare apertamente e con chiarezza. Così infatti faceva il Profeta, che diceva: "Andai intorno e immolai nella sua tenda un sacrificio di vociferazione ( lode ad alta voce )" ( Sal 27,6 ). Ho percorso tutta la mia vita come un buon soldato che va intorno al suo accampamento per controllare che non ci sia [ nella recinzione ] qualche squarcio per il quale possa entrare il nemico, e immolai nella sua tenda, cioè nella chiesa, davanti al sacerdote, un sacrificio di "vociferazione", cioè ho fatto la confessione, che giustamente è detta vociferazione, perché il peccatore non deve confessare il suo peccato a metà e a bocca stretta, quasi balbettando, ma a piena bocca, quasi gridando. Giustamente dunque è detto: Percorri la città. 17. "Canta bene", canta te stesso e non dare la colpa al diavolo, o alla fatalità o ad altre persone. Oppure anche: canta bene, confessando tutti i tuoi peccati ad un solo sacerdote, e non dividendoli tra diversi sacerdoti. Forse mi domandi un consiglio su questo fatto, e mi dici: Ho fatto la confessione generale di tutti i miei peccati a un solo sacerdote, ma poi sono ricaduto in peccato mortale: è necessario che io confessi di nuovo tutti i peccati già confessati? Ti do un consiglio retto e vantaggioso e veramente necessario alla tua anima. Ogni volta che ti presenti a un confessore nuovo, confessati come se non ti fossi mai confessato prima di allora. Se invece vai dal confessore al quale la tua coscienza è nota e al quale hai già fatto la tua confessione generale, sei tenuto a confessargli soltanto i peccati fatti dopo quella confessione generale, o quelli dimenticati. "Canta bene", dunque, "e ripeti il canto" della confessione, più e più volte accusando te stesso. E questo perché? Perché il ricordo di te viva al cospetto di Dio e dei suoi angeli, perché Dio perdoni i tuoi peccati, ti infonda la sua grazia e ti renda partecipe della gloria eterna. 18. Adesso sai quali sono le bestie, delle quali il deserto della tua confessione deve abbondare; nella confessione si devono dichiarare con semplicità e chiarezza i peccati e le loro circostanze: solo così il deserto della confessione incuterà grande terrore. E a chi? Appunto agli spiriti immondi. Leggiamo infatti nella Genesi: "Quanto è terribile questo luogo! Questa è veramente la casa di Dio e la porta del cielo" ( Gen 28,17 ). Il luogo della confessione, anzi la stessa confessione è terribile per gli spiriti immondi. È scritto nel libro di Giobbe: "I miei ruggiti sgorgano come un’inondazione" ( Gb 3,24 ). Al ruggito del leone tutte le altre bestie trattengono il passo. L’inondazione travolge ogni ostacolo. Il ruggito del leone è la confessione del peccatore pentito, del quale dice il Profeta: "Ruggivo per lo strazio del mio cuore" ( Sal 38,9 ), perché dallo strazio del cuore deve prorompere il ruggito della confessione e, ascoltandolo, gli spiriti del male, terrorizzati, più non si azzardano a farsi avanti con le tentazioni. L’inondazione raffigura le lacrime della contrizione che dissolvono e travolgono tutto ciò che gli spiriti del male ordiscono per impedire al peccatore di piangere il suo peccato. La confessione è detta anche "casa di Dio", a motivo della riconciliazione del peccatore. Infatti nella confessione il peccatore viene riconciliato con Dio, il figlio viene riconciliato con il padre, quando viene da lui accolto nella casa paterna. Per questo leggiamo in Luca che quando il figlio maggiore fu vicino alla casa paterna, nella quale il figlio pentito banchettava con il padre, sentì la musica e il coro ( cf. Lc 15,25 ). Osserva che in quella casa c’erano tre cose: il banchetto, la musica e il coro; così nella casa della confessione, nella quale viene accolto il peccatore che ritorna dalla "regione della dissomiglianza" [ dove con il peccato ha perduto la somiglianza con Dio ], ci devono essere tre cose: il banchetto della contrizione, la musica dell’accusa, il coro dell’emendamento: come ti accusi peccatore, così devi anche fare ogni sforzo per correggerti. Ascolta la musica che risuona soavemente: "Riconosco la mia colpa e il mio peccato mi sta sempre dinanzi" ( Sal 51,5 ). Ascolta il coro che risponde in perfetta sintonia: "Io sono pronto al castigo … e sta sempre davanti a me il mio dolore" ( Sal 38,18 ). Purtroppo, quanti sono coloro che fanno musica soave, che cioè si accusano, ma che poi mai si correggono! 19. Altra applicazione. Se nella casa della confessione risuona la musica del pianto dell’amara compunzione, subito risponde ad una voce il coro della divina misericordia che perdona i peccati. Infatti nell’introito della messa di oggi è promesso: Mi invocherà e io lo esaudirò, lo libererò e lo coprirò di gloria, lo sazierò di lunghi giorni ( cf. Sal 91,15-16 ). Osserva che al penitente vengono fatte quattro promesse: la prima, quando dice "mi invocherà" perché io gli perdoni i peccati, "e io lo esaudirò", perché gli infonderò la mia grazia. La seconda: "lo libererò" da quei quattro mali che sono nominati nel "tratto" della messa, e cioè dal terrore della notte, dalla freccia che vola di giorno, dalla peste che vaga nelle tenebre e dal demonio che devasta a mezzogiorno ( cf. Sal 91,5-6 ). Il terrore della notte è la subdola tentazione del diavolo; la freccia che vola è la sua palese iniquità; la peste che vaga nelle tenebre sono gli intrighi degli ipocriti; il demonio che devasta a mezzogiorno è la focosa lussuria della carne: da tutto ciò il Signore libera il vero pentito. La terza: "lo glorificherò" nel giorno del giudizio con una duplice stola di gloria. La quarta: "lo sazierò di lunghi giorni" nella perennità dell’eterna vita. La confessione è chiamata anche "porta del cielo". O vera porta del cielo, o vera porta del paradiso! Per mezzo di essa infatti, come attraverso una porta, il peccatore pentito viene introdotto al bacio dei piedi della divina misericordia, viene sollevato al bacio delle mani della grazia celeste, viene innalzato al bacio del volto della riconciliazione con il Padre. O casa di Dio, o porta del cielo, o confessione del peccato! Beato colui che abiterà in te, beato colui che entrerà attraverso di te, beato chi si umilierà in te! Umiliatevi ed entrate per la porta della confessione, carissimi fratelli; confessate i peccati, confessate le circostanze del peccato, come avete sentito, perché "questo è il tempo favorevole" per la confessione, "questo è il giorno della salvezza" ( 2 Cor 6,2 ), per la riparazione. E dopo tutto questo aggiunge: "Avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti" ( Mt 4,2 ). L’opera di riparazione ( soddisfazione ) 20. Il digiuno di Cristo, durato quaranta giorni e quaranta notti, ci insegna in quale modo possiamo fare penitenza per i peccati commessi e come dobbiamo comportarci per non ricevere inutilmente la grazia di Dio. Ci dice l’Apostolo: "Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Dice infatti il Signore per bocca di Isaia: "Al momento favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza" ( 2 Cor 6,1-2; cf. Is 49,8 ). Riceve inutilmente la grazia di Dio chi non vive secondo la grazia che gli è stata data; e anche riceve inutilmente la grazia di Dio chi crede di aver ricevuto per suo merito quella grazia che invece gli è stata elargita gratuitamente; e la riceve inutilmente anche colui che, dopo la confessione dei suoi peccati, si rifiuta di farne la penitenza nel momento favorevole, nel giorno della salvezza. Ecco dunque ora il tempo favorevole, ecco il giorno della salvezza, che ci è dato appunto perché conquistiamo questa salvezza. Dice il beato Bernardo: "Niente è più prezioso del tempo, e, purtroppo, nulla si trova oggi che sia meno apprezzato. Passano i giorni della salvezza e nessuno riflette, nessuno si preoccupa di perdere un giorno che non gli ritornerà mai più. Come non cadrà un capello dal capo, così neppure un istante di tempo andrà perduto". E anche Seneca avverte: "Se ci fosse tanto tempo di avanzo, ugualmente dovrebbe essere usato con parsimonia; che cosa quindi si deve fare, disponendone di così poco?". E l’Ecclesiastico: "O figlio, abbi cura del tempo!" ( Sir 4,23 ) perché è un dono sacrosanto. Quindi in questi sacrosanti quaranta giorni [ della quaresima ] facciamo penitenza. Il numero quaranta è formato dal quattro e dal dieci. Il creatore di tutte le cose, Dio, ha creato il corpo e l’anima, e in ognuna di queste due entità [ dell’uom o] ha immesso una serie di quattro elementi e un’altra serie di dieci. Il corpo è composto dei "quattro elementi" e si regola ed agisce con i dieci organi di senso, quasi dieci soprintendenti, che sono: due occhi, due orecchi, l’odorato, il gusto, due mani e due piedi. Nell’anima invece Dio ha infuso quattro virtù principali, che sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza; e le ha dato i dieci precetti del decalogo, che sono: "Ascolta, Israele: Il Signore tuo Dio è uno solo" ( Dt 6,4 ). "Non usare invano il nome del tuo Dio. Ricordati di santificare il sabato" ( Es 20,7-8 ). Questi tre precetti, che si riferiscono all’amore di Dio, sono stati scritti nella prima tavola. Gli altri sette, che si riferiscono all’amore del prossimo, sono stati scritti nella seconda, e sono: "Onora tuo padre e tua madre, non uccidere, non fornicare, non rubare, non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo, non desiderare la casa ( le cose ) del tuo prossimo, non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo, né la sua serva, né il bue, né l’asino, né null’altro di quanto gli appartiene" ( Es 20,12-17 ). Ora, giacché noi, con il nostro corpo mortale, che è composto dei quattro elementi e che agisce attraverso i dieci sensi, pecchiamo ogni giorno contro le quattro virtù e contro i dieci precetti, dobbiamo riparare e soddisfare il Signore con il digiuno di quaranta giorni. 21. E in che modo questo si debba fare, l’abbiamo nel libro dei Numeri, dove si racconta che gli esploratori, mandati da Mosè e dai figli di Israele, percorsero per quaranta giorni tutta la terra di Canaan ( cf. Nm 13,26 ). Canaan s’interpreta "commercio" o anche "umile". La terra di Canaan è il nostro corpo, con il quale dobbiamo operare, o permutare, con cambio favorevole, le realtà terrene per quelle eterne, le cose passeggere per quelle che resteranno, e questo sempre nell’umiltà del cuore. Di questo commercio leggiamo nei Proverbi, quando si parla della donna forte: "Gustò e vide che il suo commercio andava bene" ( Pr 31,18 ). Nota che dice due cose: gustò e vide. La donna forte, cioè l’anima, gusta quando, con il sano palato della mente, prova le delizie della gloria celeste, per amore della quale disprezza il regno di questo mondo e tutte le sue ricchezze; e in questo modo, con l’andar del tempo, con l’occhio penetrante della ragione, vede e comprende che è un buon affare vendere tutto quello che ha e darne il ricavato ai poveri ( cf. Mt 19,21 ), e poi, spoglia di tutto, seguire Cristo nudo. È quello che dice Giobbe: "Pelle per pelle, e tutto quanto l’uomo ha, è pronto a darlo per la sua anima" ( Gb 2,4 ). L’uomo, provando e constatando quanto è buono il Signore ( cf. Sal 34,9 ), dà e scambia la pelle della grandezza di questo mondo per la pelle della gloria celeste. Ed è anche disposto a consegnare al carnefice e al torturatore il suo corpo mortale di pelle ed esporlo alla spada e alla morte, in cambio della pelle gloriosa del corpo immortale. Giustamente il nostro corpo è chiamato "pelle": infatti, come la pelle più viene lavata e più si deteriora, così il nostro corpo quanto più viene nutrito con delicatezza e infiacchito dai piaceri, tanto più presto perde le forze, invecchia e si copre di rughe. E per la sua anima l’uomo dev’essere disposto a dare non solo la pelle, ma anche tutto ciò che possiede, per meritare di sentirsi dire, come agli apostoli che avevano abbandonato la pelle e tutto il resto: "Sederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele" ( Mt 19,28 ). 22. Noi dunque, come veri e valorosi esploratori, durante questi quaranta giorni percorriamo ogni regione del nostro corpo, cercando attentamente i peccati che abbiamo commesso con la vista, con l’udito, con il gusto, con l’odorato e con il tatto, confessandoli diligentemente con tutte le loro circostanze, affinché non ne rimanga neppure la minima traccia, sull’esempio di quanto fece Giosuè, del quale è detto: "Giosuè conquistò anche Makkeda e passò a fil di spada il suo re e tutti i suoi abitanti: non vi lasciò neppure il minimo avanzo" ( Gs 10,28 ). Makkeda s’interpreta "prima" o anche "bruciamento", e indica il peccato, per il quale l’uomo viene dapprima bruciato per mezzo del battesimo; questo peccato infatti si eredita come castigo [ il peccato originale ]. Il re di questa città è la cattiva volontà che viene distrutta con la "bocca della spada" ( lat. in ore gladii ), vale a dire con la "spada della bocca", nella confessione. I sudditi di quel re sono coloro che obbediscono ai cinque sensi, che devono essere distrutti pure con la penitenza, cioè liberati dallo stato di peccato. "Gli avanzi" sono la memoria del peccato e il piacere di parlarne, che non devono assolutamente essere risparmiati. Leggiamo nello stesso libro: "Giosuè devastò tutto il territorio montuoso, quello di mezzogiorno e quello di campagna, come pure Asedoth, con i loro re; non vi lasciò alcun resto, ma uccise tutto ciò che aveva respiro" ( Gs 10,40 ). Il territorio montuoso è la superbia; quello a mezzogiorno è la cupidigia; quello di campagna è la lussuria, per la quale il lussurioso scorrazza attraverso i campi come un cavallo sfrenato. Asedoth s’interpreta "maleficio del popolo", e indica ogni turpe immaginazione che alimenta il fuoco del peccato. Deponiamo tutto questo nella confessione con il proposito di non ricadervi mai più, e di tutto facciamo una congrua penitenza: quanto più il corpo è insorto e si è ribellato, tanto più umiliamolo nella confessione; quanto più si è abbandonato ai piaceri, tanto più castighiamolo con le sofferenze ( cf. Ap 18,7 ), mettendolo a pane e acqua, con la disciplina e con le veglie, perché si senta dire come la figlia di Jefte: "Mi hai rovinato, figlia mia", mia carne, con i piaceri della gola e della lussuria, ma adesso resti rovinata anche tu ( cf. Gdc 11,35 ), cioè sei castigata con i flagelli, con le veglie e con i digiuni. Dopo aver fatto tutte queste cosiderazioni sullo spirito di contrizione, sul deserto della confessione, sui quaranta giorni della penitenza, e dopo aver precisato in che cosa consista la remissione di tutti i peccati, l’infusione della grazia e il premio della vita eterna, accingiamoci ora a descrivere i vizi che vi si oppongono, e cioè la gola, la vanagloria e la lussuria. Ciò che si oppone ai tre atti di penitenza, ossia la triplice tentazione 23. Il vangelo continua: "Il tentatore gli si accostò e gli disse: Se sei il Figlio di Dio," ecc. Il diavolo in circostanze uguali procede con uguali metodi. Con la tattica con la quale ha tentato Adamo nel paradiso terrestre, con la stessa ha tentato Cristo nel deserto, e con la stessa tenta anche ogni cristiano in questo mondo. Tentò il primo Adamo con la gola, con la vanagloria e con l’avarizia, e tentandolo lo vinse; tentò il secondo Adamo, Gesù Cristo, allo stesso modo, ma nella tentazione restò vinto, perché colui che tentò non era solo un uomo, ma era anche Dio. Noi che siamo partecipi di entrambi, dell’uomo secondo la carne e di Dio secondo lo spirito, spogliamoci dell’uomo vecchio con le sue opere che sono la gola, la vanagloria e l’avarizia, e rivestiamoci dell’uomo nuovo ( cf. Col 3,9 ), rinnovati per mezzo della confessione, per frenare col digiuno lo sfrenato ardore della gola, per abbattere con l’umiliazione della confessione la boriosità della vanagloria, per pestare e disprezzare con la contrizione del cuore il denso fango dell’avarizia. "Beati, dice il Signore, i poveri nello spirito", che hanno cioè lo spirito addolorato e il cuore contrito ( cf. Sal 51,19 ), "perché di essi è il regno dei cieli" ( Mt 5,3 ). 24. Osserva ancora che, come il diavolo tentò il Signore di gola nel deserto, di vanagloria nel tempio e di avarizia sul monte, così fa anche con noi ogni giorno: ci tenta di gola nel deserto del digiuno, di vanagloria nel tempio dell’orazione e dell’ufficio, e di tante forme di avarizia nel monte delle nostre cariche. Mentre digiuniamo ci tenta di gola, con la quale pecchiamo in cinque modi, come è detto nel seguente versetto di san Gregorio: Troppo presto, lautamente, troppo, voracemente, con raffinatezza. Troppo presto, quando si anticipa l’ora [ del pasto ]. Lautamente, quando si eccita la golosità e si vuole risvegliare un appetito fiacco con condimenti, spezie e sontuosità di cibi. Troppo, quando si ingurgita più cibo di quanto sia necessario al corpo. Dicono certi golosi: Siamo tenuti al digiuno, quindi mangiamo tanto da supplire in una sola volta sia al pranzo che alla cena. Questi sono come il bruco che non abbandona la pianta nella quale si è insediato se prima non l’ha divorata interamente. Il bruco è chiamato così perché è fatto quasi solo di bocca ( in lat. bruchus, bucca ) e raffigura il goloso che è tutto gola e ventre e che assalta il piatto come si trattasse di una fortezza e non lo lascia se prima non ha divorato tutto: o crepa il ventre o si vuota il piatto. Voracemente, quando l’uomo si getta su ogni cibo quasi andasse all’assalto di un forte, apre le braccia, allunga le mani, e mangia con tutto se stesso: a tavola è come un cane che, in cucina, non tollera rivali. Con raffinatezza, quando si cercano cibi squisiti e si preparano con grande ricercatezza. Come si legge nel primo libro dei Re, che i figli di Eli non volevano accettare la carne cotta, ma pretendevano quella cruda, per potersela poi preparare con più ricercatezza e raffinatezza ( cf. 1 Sam 2,15 ). 25. Parimenti il diavolo ci tenta di vanagloria nel tempio. Infatti mentre siamo in preghiera, mentre recitiamo l’ufficio e siamo occupati nella predicazione, siamo assaliti dal diavolo con i dardi della vanagloria e, purtroppo, molto spesso feriti. Ci sono infatti alcuni che mentre pregano e piegano le ginocchia e mandano sospiri, vogliono essere veduti. E ci sono altri che quando cantano in coro modulano la voce e gorgheggiano, e desiderano essere ascoltati. E ci sono altri ancora che quando predicano, tuonano con la voce, moltiplicano le citazioni, le commentano a modo loro, si girano intorno, e desiderano essere lodati. Tutti questi mercenari, credetemi, "hanno già ricevuto la loro ricompensa" ( Mt 6,2 ), e hanno collocato la loro figlia nel postribolo. Dice Mosè nel Levitico: "Non prostituirai la tua figlia" ( Lv 19,29 ). Mia figlia è la mia opera, e la prostituisco, cioè la metto nel lupanare, quando la vendo per il denaro della vanagloria. Per questo il Signore ci consiglia: "Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega il Padre tuo" ( Mt 6,6 ). Tu, quando vuoi pregare o fare qualcosa di bene – e in questo consiste il pregare senza interruzione ( cf. 1 Ts 5,17 ) –, entra nella tua stanza, cioè nel segreto del tuo cuore, e chiudi la porta dei cinque sensi, per non bramare di essere né visto, né ascoltato, né lodato. Dice infatti Luca che Zaccaria entrò nel tempio del Signore nell’ora dell’incenso ( cf. Lc 1,9 ). Nel tempo della preghiera, che sale al cospetto del Signore come l’incenso ( cf. Sal 141,2 ), devi entrare nel tempio del tuo cuore e pregare il Padre tuo, "e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà" ( Mt 6,6 ). 26. Inoltre sul monte delle nostre cariche, della nostra temporanea dignità, siamo tentati a commettere molti peccati di avarizia. Non c’è solo l’avarizia del denaro ma anche quella della preminenza ( predominio ). Gli avari più hanno e più bramano di avere, e coloro che sono posti in alto, quanto più salgono tanto più si forzano di salire, e così avviene che crollino con una caduta molto più rovinosa, giacché "i venti investono le cose molto alte" ( Ovidio ) e agli idoli vengono immolati vittime nelle alture ( cf. 1 Re 3,2; 2 Re 12,3 ). Dice Salomone in proposito: "Il fuoco non dice mai: basta!" ( Pr 30,16 ). Il fuoco, cioè l’avarizia del denaro e della preminenza, non dice mai: basta! Ma cosa dice? "Dammi, dammi!" ( Pr 30,15 ). O Signore Gesù, togli, togli questi due "dammi, dammi" dai prelati della tua chiesa, che si pavoneggiano sul monte delle dignità ecclesiastiche e sperperano il tuo patrimonio, da te conquistato con gli schiaffi, con i flagelli, con gli sputi, con la croce, con i chiodi, con l’aceto, con il fiele e la lancia. Noi dunque, che siamo chiamati cristiani dal nome di Cristo, imploriamo tutti insieme con la devozione della mente lo stesso Gesù Cristo e chiediamogli insistentemente che dallo spirito di contrizione ci faccia arrivare al deserto della confessione, affinché in questa quaresima meritiamo di ricevere la remissione di tutte le nostre iniquità e, rinnovati e purificati, siamo fatti degni di fruire della letizia della sua santa Risurrezione e di essere collocati nella gloria dell’eterna beatitudine. Ce lo conceda colui al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Domenica II di quaresima ( 1 ) Temi del sermone – Vangelo della seconda domenica di Quaresima: "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni". – Sermone ai predicatori: "Vieni da me sul monte". – Sermone ai penitenti o ai religiosi: "Quando verrai alla quercia del Tabor". – Sermone per la Natività del Signore o per la festa della beata Vergine Maria: "Giacobbe vide in sogno una scala". – Sermone ai fedeli della chiesa: "Mosè ed Aronne"; la caratteristica dello zaffiro. – Sermone sulla discrezione: "Il tuo naso come torre del Libano", ecc. – Sermone sulla contemplazione: "Gustate e vedete"; le caratteristiche del sole. – Sermone sulla misericordia di Dio verso i peccatori che si convertono: "Se i vostri peccati fossero come lo scarlatto". – Sermone al prelato: "Apparvero Mosè ed Elia". – Sermone per la dedicazione di una chiesa, o per la festa di un martire o di un confessore: "Dopo che tutto fu compiuto". Esordio - sermone ai predicatori 1. "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un monte molto alto", ecc. ( Mt 17,1 ). Nell’Esodo si legge che il Signore parlò a Mosè dicendo: "Sali da me sul monte e fermati lì; ti darò due tavole, la legge e i comandamenti che vi ho scritti, affinché tu li insegni ai figli di Israele" ( Es 24,12 ). Mosè s’interpreta "acquatico" ( cf. Es 2,10 ) ed è figura del predicatore che irrora le menti dei fedeli con l’acqua della dottrina "che zampilla per la vita eterna" ( Gv 4,14 ). Al predicatore il Signore dice: "Sali da me sul monte". Il monte, a motivo della sua altezza, raffigura la sublimità della vita santa, alla quale il predicatore deve salire per la scala del divino amore, abbandonando la valle delle cose temporali: e lì troverà il Signore. Infatti nella sublimità della vita santa si trova il Signore. Perciò è detto nella Genesi: "Sul monte il Signore vedrà" ( Gen 22,14 ); il Signore cioè, nella sublimità della vita santa, gli farà vedere e capire ciò che deve a Dio e ciò che deve al prossimo. Ti darò due tavole". Nelle due tavole è indicata la conoscenza dei due Testamenti, la sola in grado di insegnare, la sola che rende sapienti. Questa è l’unica scienza che insegna ad amare Dio, a disprezzare il mondo, a sottomettere la carne. Queste cose il predicatore deve insegnare ai figli di Israele, perché da esse dipende tutta la legge e i profeti ( cf. Mt 22,40 ). Ma dove si trova questa scienza così preziosa? Proprio sul monte. "Sali – ha detto – da me sul monte, e fermati lì", perché lì c’è "il cambiamento fatto dalla destra dell’Altissimo" ( Sal 77,11 ), la trasfigurazione del Signore, la contemplazione del vero gaudio. Proprio di quel monte si dice nel vangelo di oggi: "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni", ecc. 2. Osserva che in questo vangelo ci sono cinque momenti ai quali si deve prestare la massima attenzione: la salita al monte di Gesù con i tre apostoli, la sua trasfigurazione, l’apparizione di Mosè e di Elia, l’ombra prodotta dalla nube luminosa, e la dichiarazione della voce del Padre: "Questo è il Figlio mio amatissimo". In onore di Dio e per l’utilità delle anime vostre, vedremo il significato morale di questi cinque episodi, secondo quanto il Signore vorrà ispirarci. I. la salita al monte di gesù cristo con i tre apostoli 3. "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni". Questi tre apostoli, compagni intimi di Gesù Cristo, raffigurano le tre facoltà della nostra anima, senza le quali nessuno può salire al monte della luce, cioè alla sublimità della familiarità divina. Pietro s’interpreta "colui che conosce", Giacomo "colui che soppianta o estirpa", Giovanni "grazia del Signore". Gesù dunque prese con sé Pietro, ecc. Anche tu, che credi in Gesù e da Gesù speri la salvezza, prendi con te Pietro, vale a dire la conoscenza, la consapevolezza del tuo peccato, il quale consiste in tre vizi: la superbia del cuore, la concupiscenza della carne e l’attaccamento alle cose del mondo. Prendi con te Giacomo, cioè la distruzione ( supplantatio ) di questi tre vizi, affinché quasi sotto la pianta della ragione, cioè con la forza della ragione, tu possa distruggere la superbia del tuo spirito, mortificare la concupiscenza della tua carne e rigettare la vana falsità delle cose del mondo. Prendi infine anche Giovanni, cioè la grazia del Signore – il quale sta alla porta e bussa ( cf. Ap 3,20 ) – affinché ti illumini e ti faccia conoscere il male che hai fatto e ti renda perseverante nel bene che hai incominciato a fare. I tre apostoli sono quelle tre persone, delle quali Samuele disse a Saul: "Quando arriverai alla quercia del Tabor, ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo a Dio in Betel: uno porta tre capretti, il secondo tre forme di pane, il terzo un’anfora di vino" ( 1 Sam 10,3 ). La quercia del Tabor e il Tabor stesso sono figura della sublimità della vita santa, che giustamente viene chiamata e quercia, e monte, e Tabor: quercia, perché è costante e irremovibile fino alla perseveranza finale; monte, perché è elevata e sublime fino alla contemplazione di Dio; Tabor – che s’interpreta "splendore che viene" –, perché diffonde la luce del buon esempio. Nella sublimità della vita santa sono richieste queste tre qualità: che sia costante in se stessa, immersa nella contemplazione di Dio e luce che illumina il prossimo. "Quando dunque verrai", cioè stabilirai di venire o di salire alla quercia o al monte Tabor, ti verranno incontro tre uomini, che stanno salendo a Dio in Betel. Questi tre uomini sono Pietro, colui che riconosce, Giacomo, colui che soppianta o sradica, e Giovanni, la grazia di Dio. Pietro porta tre capretti, Giacomo tre forme di pane, Giovanni un’anfora del vino. Pietro, cioè colui che si riconosce peccatore, porta tre capretti. Nel capretto è simboleggiato il fetore del peccato; nei tre capretti le tre specie di peccati nei quali più frequentemente si cade, cioè la superbia del cuore, l’impudenza della carne, l’attaccamento alle cose del mondo. Quindi chi vuole salire al monte della luce deve portare questi tre capretti, cioè riconoscersi colpevole di queste tre specie di peccati. Giacomo, cioè colui che soppianta o sradica i vizi della carne, porta tre forme di pane. Il pane simboleggia la bontà dell’animo, che consiste nell’umiltà del cuore, nella castità del corpo e nell’amore alla povertà; nessuno può avere questa bontà se prima non ha sradicato i vizi. Quindi porta tre forme di pane – vale a dire la triplice bontà dell’animo – solo colui che reprime la superbia del cuore, che frena l’impudenza della carne e che rigetta l’avarizia del mondo. Giovanni, cioè colui che con la grazia di Dio – che previene, accompagna e coopera – conserva tutte queste cose con fedeltà e costanza, porta veramente l’anfora del vino. Il vino nell’anfora rappresenta la grazia dello Spirito Santo, infusa nella volontà di fare il bene. Gesù dunque prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Prendi anche tu insieme con te questi tre personaggi e accingiti così a salire sul monte Tabor. 4. Ma, credi a me, difficile è la salita, perché il monte è altissimo. Vuoi nondimeno salirvi con grande facilità? Procurati quella scala della quale si legge e si canta nel racconto biblico di questa domenica: "Giacobbe vide in sogno una scala drizzata, ossia appoggiata in terra, la cui sommità toccava il cielo; vedeva anche gli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa, e il Signore appoggiato alla scala" ( Gen 28,12 ). Fa’ attenzione alle singole parole e ne constaterai la concordanza con il vangelo. Vide, ecco la conoscenza del peccato, della quale il beato Bernardo dice: Dio mi conceda di non avere altra visione se non la conoscenza dei miei peccati. Giacobbe, che ha lo stesso significato di "Giacomo": ecco la sopraffazione della carne; di Giacobbe disse Esaù: "Ecco che per la seconda volta mi ha sopraffatto!" ( Gen 27,36 ). In sogno, ecco la grazia del Signore che infonde il sonno della quiete e della pace. Così il Filosofo descrive il sonno: "Il sonno è la quiete delle facoltà animali, con la intensificazione, il rafforzamento di quelle naturali" ( Aristotele, Il sonno e la veglia ). Infatti quando uno dorme il sonno della grazia, in lui le potenze della carne desistono ( quiescunt ) dalle loro opere cattive, e si ravvivano, si rafforzano le potenze dello spirito. Dice infatti la Genesi: "Al tramonto del sole, un torpore cadde su Abramo e un grande terrore lo assalì" ( Gen 15,12 ). Per "sole" si intende qui il piacere carnale: quando questo viene vinto, scende su di noi un sopore, cioè l’estasi della contemplazione, e ci invade un grande orrore dei peccati passati e delle pene dell’inferno. Vuoi sentire il rafforzamento delle facoltà spirituali e l’infiacchimento di quelle carnali? "Io dormo", dice la sposa del Cantico dei Cantici, cioè desisto dalla brama delle cose temporali, "e il mio cuore veglia" ( Ct 5,2 ) nella contemplazione di quelle celesti. Quindi giustamente è detto: "Giacobbe vide in sogno una scala": per mezzo di essa tu puoi salire al monte Tabor. 5. Osserva che la scala ha due "braccia" ( montanti ) e sei scalini, per mezzo dei quali è agevole la salita. Questa scala raffigura Gesù Cristo; le due braccia sono la natura divina e quella umana; i sei gradini sono la sua umiltà e povertà, la sapienza e la misericordia, la pazienza e l’obbedienza. Fu umile nell’assumere la nostra natura, quando "guardò all’umiltà della sua ancella" ( Lc 1,48 ). Fu povero nella sua natività, nella quale la Vergine poverella, dando alla luce lo stesso Figlio di Dio, non ebbe dove adagiarlo, avvolto in fasce, se non una mangiatoia di pecore ( cf. Lc 2,7 ). Fu sapiente nella sua predicazione, perché "incominciò a fare e ad insegnare" ( At 1,1 ). Fu misericordioso nell’accogliere benignamente i peccatori: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" ( Mt 9,13 ) alla penitenza. Fu paziente sotto i flagelli, gli schiaffi, gli sputi; disse infatti per bocca di Isaia: "Ho reso la mia faccia come pietra durissima" ( Is 50,7 ). La pietra, se viene percossa, non reagisce né si lamenta contro chi la percuote. Così Cristo: "Oltraggiato, non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta ( 1 Pt 2,23 ). Fu poi "obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" ( Fil 2,8 ). Questa scala era appoggiata alla terra quando Cristo era dedito alla predicazione e operava miracoli; toccava il cielo quando, come ci dice Luca, passava le notti in preghiera ( cf. Lc 6,12 ), in colloquio col Padre. Ecco, la scala è drizzata. Perché dunque non salite? Perché continuate a strisciare per terra con le mani e con i piedi? Salite, perché Giacobbe vide gli angeli che salivano e scendevano per la scala. Salite dunque, o angeli, o prelati della chiesa, o fedeli di Gesù Cristo! Salite, vi dico, a contemplare quanto è soave il Signore ( cf. Sal 34,9 ); scendete ad aiutare e a consigliare il prossimo, perché di questo il prossimo ha bisogno. Perché tentate di salire per un’altra via, invece che per la scala? Da qualunque altra parte voi vogliate salire, incombe su di voi un precipizio. "O stolti e tardi di cuore", non dico "nel credere" ( Lc 24,25 ), perché voi credete, e anche i demoni credono ( cf. Gc 2,19 ); ma siete duri e di sasso nell’operare. Presumete di poter salire per altra via al monte Tabor, al riposo della luce, alla gloria della beatitudine celeste, invece che per la scala dell’umiltà, della povertà e della passione del Signore? Convincetevi che non è possibile! Ecco la parola del Signore: "Chi vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" ( Mt 16,24 ). E in Geremia leggiamo: "Tu mi chiamerai Padre, e non tralascerai di camminare dietro a me" ( Ger 3,19 ). Dice Agostino: "Il medico beve per primo la medicina amara, affinché non si rifiuti di berla l’ammalato". E Gregorio: "Bevendo il calice amaro si giunge alla gioia della guarigione". "Per salvare la vita, devi affrontare il ferro e il fuoco" ( Ovidio ). Salite dunque, non temete, perché c’è il Signore alla sommità alla scala, pronto ad accogliere quelli che salgono. "Gesù, infatti, prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì su di un monte altissimo". II. la trasfigurazione di Gesù Cristo 6. "E fu trasfigurato davanti a loro" ( Mt 17,2 ). Imprimi te stesso come molle cera su questa figura, per poter ricevere la figura di Gesù Cristo. Ecco come fu: "Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve" ( Mt 17,2 ). In questa espressione si devono osservare quattro particolari: il volto, il sole, le vesti e la neve. Vedremo quale sia il loro significato morale. Nella parte frontale della testa, che è il volto dell’uomo, ci sono tre sensi, la vista, l’odorato e il gusto, ordinati e disposti in modo mirabile. L’olfatto è posto tra la vista e il gusto, quasi come una bilancia. Analogamente nel volto della nostra anima ci sono tre sensi spirituali, disposti in ordine perfetto dalla sapienza del sommo artefice: la visione della fede, l’olfatto ( il fiuto ) della discrezione e il gusto della contemplazione. 7. Riguardo alla visione della fede, si legge nell’Esodo che "Mosè e Aronne, Nadab e Abiu e settanta anziani videro il Signore di Israele; sotto i suoi piedi vi era come un’opera di pietra di zaffiro, simile al cielo quando è sereno" ( Es 24,9-10 ). In questa citazione sono descritti tutti coloro che vedono con l’occhio della fede, e che cosa debbano vedere, cioè credere. Mosè s’interpreta "acquatico", e raffigura tutti i religiosi che devono impregnarsi dell’acqua delle lacrime; a tale scopo infatti sono stati tolti dal fiume dell’Egitto, affinché in questa orribile solitudine [ del mondo ] seminino nelle lacrime e poi raccolgano in giubilo nella terra promessa. Aronne, sommo pontefice, che s’interpreta "montano" – [ Dio lo mandò a incontrare Mosè sul monte ( cf. Es 4,27 ) ] –, raffigura tutti gli alti prelati della chiesa, che sono costituiti sul monte della dignità e dell’autorità. Nadab, che s’interpreta "spontaneo", rappresenta tutti i sudditi, i quali devono obbedire spontaneamente, volentieri, e non per costrizione. Abiu, che s’interpreta "padre di essi", raffigura tutti coloro che sono uniti in matrimonio secondo la forma della chiesa, affinché siano genitori di figli. Infine i settanta anziani d’Israele rappresentano tutti i battezzati, che nel sacramento hanno ricevuto lo Spirito Santo, il quale infonde i sette doni della grazia. Tutti costoro vedono, cioè credono, e devono vedere e credere nel Dio d’Israele. "E sotto i suoi piedi c’era come un’opera di pietra di zaffiro". Ecco che cosa devono credere. Le parole "Signore d’Israele" indicano la divinità, le parole " sotto i suoi piedi" indicano l’umanità di Gesù Cristo, che dobbiamo credere vero Dio e vero uomo. Di questi piedi dice Mosè: "Quelli che si avvicinano ai suoi piedi riceveranno la sua dottrina" ( Dt 33,3 ). Perciò è detto che Maria [ di Màgdala ] sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la sua parola ( cf. Lc 10,39 ). Sotto i piedi del Signore, vale a dire dopo l’incarnazione di Gesù Cristo, apparve l’opera del Signore, come di pietra di zaffiro e simile al cielo quando è sereno. Lo zaffiro e il cielo sereno sono dello stesso colore. E osserva che lo zaffiro ha quattro proprietà: mostra in se stesso una stella, fa scomparire il carbonchio [ dell’uomo ], è simile al cielo sereno e ferma il sangue. Lo zaffiro raffigura la santa chiesa, che ebbe inizio dopo l’incarnazione di Cristo e durerà sino alla fine del tempo. Essa si articola in quattro ordini, cioè gli apostoli, i martiri, i confessori della fede e le vergini, che possiamo giustamente paragonare alle quattro proprietà dello zaffiro. Lo zaffiro mostra in se stesso una stella: questo fatto è figura degli apostoli, che per primi hanno mostrato la stella mattutina della fede a coloro che sedevano nelle tenebre e nell’ombra della morte ( cf. Lc 1,79 ). Lo zaffiro con il contatto fa scomparire il carbonchio, che è una malattia mortale: e questo è figura dei martiri, che con il loro martirio hanno sconfitto la malattia mortale dell’idolatria. Lo zaffiro, che ha il colore del cielo, raffigura i confessori della fede, i quali, reputando sudiciume tutte le cose temporali, si sono innalzati con la fune dell’amore divino alla contemplazione della beatitudine celeste, dicendo con l’Apostolo: "La nostra patria è nei cieli" ( Fil 3,20 ). Infine lo zaffiro ferma il sangue: e questo raffigura le vergini, che per amore dello sposo celeste hanno fermato totalmente in se stesse il sangue della concupiscenza carnale. E questa è l’opera meravigliosa di pietra di zaffiro, che apparve sotto i piedi del Signore. È chiaro dunque che cosa la tua anima debba vedere e che cosa tu debba credere con l’occhio della fede. 8. Sull’olfatto ( fiuto ) della discrezione, leggiamo nel Cantico dell’amore ( Cantico dei Cantici ): "Il tuo naso è come la torre del Libano che guarda contro Damasco" ( Ct 7,4 ). In questa citazione ci sono quattro parole molto importanti: naso, torre, Libano e Damasco. Nel naso è indicata la discrezione; nella torre l’umiltà; nel Libano, che s’interpreta "bianchezza", la castità; in Damasco, che s’interpreta "chi beve sangue", la perfidia del diavolo. Il naso dell’anima dunque è la virtù della discrezione, per mezzo della quale essa, come con un naso, deve saper distinguere il profumo dal fetore, il vizio dalla virtù, e avvertire anche cose poste lontano, cioè le tentazioni del diavolo che stanno per arrivare. Dice appunto Giobbe del vero giusto: "Sente da lontano l’odore della battaglia, gli incitamenti dei condottieri e le urla degli eserciti" ( Gb 39,25 ). L’anima fedele con l’olfatto, cioè con la virtù della discrezione, prevede la guerra della carne, e i comandi dei condottieri, cioè le suggestioni della vana ragione raffigurate nei condottieri, e questo per non cadere nella fossa dell’iniquità sotto l’apparenza della santità; sente gli urli dell’esercito, cioè le tentazioni dei demoni che ululano come bestie feroci: l’ululato è proprio delle bestie feroci. Questo "naso" della sposa dev’essere come la torre del Libano: la virtù della discrezione consiste soprattutto nell’umiltà del cuore e nella castità del corpo. E giustamente l’umiltà è detta "torre di castità" perché, come la torre difende l’accampamento, così l’umiltà del cuore difende la castità del corpo dai dardi della fornicazione. Se tale sarà l’olfatto della sposa, potrà agevolmente guardare contro Damasco, cioè contro il diavolo, che brama succhiare il sangue delle nostre anime, smascherando così la sua sottile perfidia. 9. Del gusto della contemplazione, dice il Profeta: "Gustate e vedete quanto è buono il Signore!" ( Sal 34,9 ). Gustate, cioè con la gola della vostra mente spremete, e spremendo rievocate la beatitudine di quella celeste Gerusalemme, che è la glorificazione delle anime sante, l’ineffabile gloria delle schiere angeliche, la perenne dolcezza del Dio uno e trino; e pensate anche a quanto grande sarà la gloria di partecipare ai cori degli angeli, insieme ad essi lodare Dio con voce instancabile, contemplare di presenza il volto di Dio, ammirare la manna della divinità nell’urna d’oro dell’umanità. Se gusterete a fondo queste cose, in verità, in verità constaterete quanto è soave il Signore. Beata quell’anima, il cui volto è dotato e ornato di tali sensi! Osserva ancora che l’olfatto è posto, quasi come l’ago della bilancia, tra la vista della fede e il gusto della contemplazione. Nella fede infatti è necessaria la discrezione, affinché non ci azzardiamo ad avvicinarci a vedere il roveto ardente ( cf. Es 3,3 ), a sciogliere i legacci dei sandali ( cf. Lc 3,16 ), cioè a voler investigare il mistero dell’incarnazione del Signore. Credi soltanto, e questo è sufficiente. Non è in tuo potere sciogliere i legami. Dice Salomone: " Chi ha la pretesa di scrutare la maestà di Dio, sarà oppresso dalla gloria" ( Pr 25,27 ). Crediamo dunque con fermezza, e professiamo la nostra fede con semplicità. Anche nella contemplazione è necessaria la discrezione, per non pretendere di assaporare delle cose celesti più di quanto sia conveniente ( cf. Rm 12,3 ). Dice infatti Salomone: "Figlio, hai trovato il miele?", cioè la dolcezza della contemplazione? "Mangiane solo quanto ti basta, per non vomitarlo se ne mangi troppo" ( Pr 25,16 ). Vomita il miele colui che, non contento della grazia che gli è data senza suo merito, vuole esplorare con la ragione umana la dolcezza della contemplazione, trascurando ciò che è detto nella Genesi, che alla nascita di Beniamino, Rachele morì ( cf. Gen 35,17-19 ). In Beniamino è raffigurata la grazia della contemplazione, in Rachele l’umana ragione. Alla nascita di Beniamino muore Rachele, perché quando la mente, pretendendo di elevarsi al di sopra delle sue forze, intravede qualcosa della luce della divinità, ogni umana ragione viene meno. La morte di Rachele raffigura il venir meno della ragione. Perciò ha detto qualcuno: "Nessuno con l’umana ragione può giungere fin dove è stato rapito Paolo" ( Riccardo di San Vittore ). Pertanto l’olfatto della discrezione sia come una bilancia posta tra la visione della fede e il gusto della contemplazione, affinché il volto dell’anima nostra risplenda come il sole. 10. Osserva ancora che nel sole ci sono tre prerogative: lo splendore, la bianchezza e il calore. E vedi come queste tre proprietà del sole si accordino perfettamente con i tre sopraddetti sensi dell’anima. Lo splendore del sole si accorda con la visione della fede, che con la chiarezza della sua luce vede e crede alle cose invisibili. La bianchezza, cioè la nitidezza e la purezza, si confà alla discrezione dell’olfatto; e giustamente, perché come ci turiamo il naso e ci voltiamo dall’altra parte davanti a una cosa puzzolente, così per la virtù della discrezione dobbiamo allontanarci dall’immondezza del peccato. E anche il calore del sole conviene al gusto della contemplazione, perché in questa c’è veramente il calore dell’amore. Dice infatti il beato Bernardo: "È assolutamente impossibile che il sommo Bene possa essere contemplato senza essere amato": Dio infatti è l’amore stesso. Fate dunque attenzione, o carissimi, e vedete quanto sia utile, quanto salutare prendere con sé quei tre compagni e salire sul monte della luce, perché lì c’è veramente la trasfigurazione dall’apparenza di questo mondo, che svanisce ( cf. 1 Cor 7,31 ), alla figura di Dio, che resta nei secoli dei secoli, e della quale è detto: "Il suo volto rifulse come il sole". Risplenda come il sole anche il volto della nostra anima, affinché ciò che vediamo con la fede brilli nelle opere; e il bene che ben comprendiamo all’interno si traduca nella testimonianza delle opere all’esterno, per la virtù della discrezione; e ciò che gustiamo nella contemplazione di Dio si accenda di calore nell’amore del prossimo. Solo così il nostro volto risplenderà come il sole. 11. "Le sue vesti divennero bianche come la neve" ( Mt 17,2 ), "quali nessun lavandaio sulla terra riuscirebbe a fare" ( Mc 9,2 ). Le vesti dell’anima nostra sono le membra di questo nostro corpo: esse devono essere candide. Dice Salomone: "In ogni tempo siano candide le tue vesti!" ( Qo 9,8 ). Di quale candore? "Come la neve", dice il vangelo. Il Signore, per bocca di Isaia, promette ai peccatori che si convertono: "Se i vostri peccati saranno come lo scarlatto, saranno resi bianchi come la neve ( Is 1,18 ). Osserva qui due cose: lo scarlatto e la neve. Lo scarlatto è una stoffa che ha il colore del fuoco e del sangue. La neve è fredda e bianca. Nel fuoco è raffigurato l’ardore del peccato, nel sangue la sua immondezza; nella freddezza della neve è simboleggiata la grazia dello Spirito Santo, nella bianchezza la purezza della mente. Dice dunque il Signore: "Se i vostri peccati fossero come lo scarlatto", ecc. È come se dicesse: Se ritornerete a me, io infonderò in voi la grazia dello Spirito Santo che estinguerà l’ardore del peccato e laverà la sua immondezza. Egli stesso dice ancora per bocca di Ezechiele: "Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure" ( Ez 36,25 ). Perciò le vesti, vale a dire le membra del nostro corpo, siano bianche come la neve, affinché la freddezza della neve, cioè la compunzione della mente, estingua l’ardore del peccato, e la purezza di una vita santa deterga ogni immondezza. Le vesti raffigurano anche le virtù della nostra anima, che, di esse rivestita, appare gloriosa al cospetto del Signore. Di queste vesti, nel racconto biblico di questa domenica, è detto che Rebecca rivestì Giacobbe di vesti molto belle, che teneva presso di sé ( cf. Gen 27,15 ). Rebecca, cioè la sapienza di Dio Padre, rivestì Giacobbe, vale a dire il giusto, di virtù, vesti molto belle perché intessute con la mano e l’arte della sua Sapienza: vesti che tiene presso di sé, riposte nel tesoro della sua gloria; e le ha veramente, perché è Signore e padrone di tutto e le dà a chi vuole, quando vuole e come vuole. Queste vesti sono dette candide per l’effetto che producono, perché rendono l’uomo candido, non dico solo come la neve, ma molto più di essa. E tali vesti nessun lavandaio, cioè nessun predicatore sopra la terra, può renderle così candide con il lavaggio della sua predicazione. III. l’apparizione di Mosè e di Elia 12. "Apparvero Mosè ed Elia, che discutevano con lui" ( Mt 17,3 ). Al giusto così trasfigurato, così illuminato, così rivestito, appaiono Mosè ed Elia. In Mosè, che era il più mansueto di tutti gli uomini che abitavano sulla terra ( cf. Nm 12,3 ), i cui occhi non si erano appannati, né smossi i denti ( Dt 34,7 ), è simboleggiata la mansuetudine della misericordia e della pazienza. "Mansueto" è come dire "abituato alla mano" ( manui assuetus ). Questi è come un figlio, come un animale addomesticato, abituato alla mano ( all’azione ) della grazia divina: il suo occhio, cioè la ragione, non si annebbia con la fuliggine dell’odio, né si offusca con la nuvola del rancore; i suoi denti non si muovono contro alcuno con la mormorazione, né mordono con la detrazione. In Elia, del quale si narra nel terzo libro dei Re che uccise i profeti di Baal sulle rive del torrente Cison ( cf. 1 Re 18,40 ), è simboleggiato lo zelo per la giustizia. "Baal" s’interpreta "che sta in alto", o "divoratore", e "Cison" "la loro durezza". Perciò colui che veramente arde di zelo per la giustizia, uccide con la spada della predicazione, della minaccia e della scomunica i profeti e i servi della superbia, che tendono sempre verso l’alto; uccide i servi della gola e della lussuria, che tutto divorano: li uccide perché muoiano al vizio e vivano per Iddio ( cf. Gal 2,19 ). E compie quest’opera nel torrente Cison, cioè per l’eccessiva durezza del loro cuore, per la quale accumulano su di sé la collera per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio ( cf. Rm 2,5 ). E dice in proposito il Signore per bocca di Ezechiele: "Sono figli di dura cervice e di cuore indomabile, quelli ai quali io ti mando" ( Ez 2,4 ); "davvero tutta la casa d’Israele è di fronte impudente e di cervice ostinata" ( Ez 3,7 ). Ha la fronte impudente colui che, quando viene rimproverato, non solo disprezza la correzione, ma neppure arrossisce del suo peccato. A costui rinfaccia Geremia: "Ti sei fatta una faccia da meretrice: non hai voluto arrossire" ( Ger 3,3 ). Mosè ed Elia, cioè la mansuetudine della misericordia e lo zelo per la giustizia, devono apparire col giusto, già trasfigurato sul monte della santa vita, affinché, come il Samaritano, sia in grado di versare sulle piaghe del ferito il vino e l’olio, affinché il vigore del vino supplisca alla delicatezza dell’olio, e la delicatezza dell’olio attenui la forza del vino. Dell’angelo che apparve nella Risurrezione di Cristo, è detto in Matteo che il suo aspetto era come la folgore e le sue vesti come la neve ( cf. Mt 28,3 ). Nella folgore è indicata la severità del giudizio, nel candore della neve la grazia della misericordia. L’angelo, cioè il prelato, deve avere l’aspetto della folgore, affinché le donne, cioè le menti effeminate, inorridiscano di sé alla vista della sua santità. Come fece Ester, della quale è detto: "Quando Assuero alzò il viso e mostrò dallo sfavillio degli occhi la collera del suo animo, la regina si sentì venir meno, mutò il suo colore in pallore e abbandonò la testa sulla spalla dell’ancella che l’accompagnava". Ma il prelato, come fece Assuero, deve porgere lo scettro d’oro della benevolenza, e indossare le vesti della neve, affinché quelli che la severità paterna ha rimproverato, li consoli la pietosa benevolenza della madre. Per questo è detto: Pur usando la sferza del padre, abbi anche le mammelle della madre. Il prelato dev’essere come il pellicano, che – come si racconta – uccide i suoi nati, ma poi estrae dal proprio corpo del sangue e lo versa sopra di essi, e così li richiama in vita. Così deve fare il prelato: i suoi figli, i suoi sudditi, che ha stimmatizzato con il flagello della disciplina e ucciso con la spada dell’aspra invettiva, deve poi con il suo sangue, cioè con la compunzione della mente e l’effusione delle lacrime – che Agostino definisce "sangue dell’anima" –, richiamarli alla penitenza, nella quale appunto sta la vita dell’anima. IV. la dichiarazione della voce del padre: "questo è il mio figlio amatissimo" 13. E se in te si effettueranno prima queste tre eventi, cioè la salita sul monte, la trasfigurazione e l’apparizione di Mosè ed Elia, il quarto seguirà necessariamente, come continua il vangelo: "Ed ecco che una nube luminosa li avvolse" ( Mt 17,5 ). Un’espressione simile la troviamo alla fine dell’Esodo, dove è detto: "Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonianza, e la gloria del Signore la riempì" ( Es 40,31-32 ). Rammenta che nella tenda della testimonianza c’erano quattro oggetti: il candelabro a sette lumi, la mensa della proposizione, l’arca del testamento e l’altare d’oro ( cf. Es 25,31-36 ). La tenda della testimonianza raffigura il giusto: tenda, perché "la sua vita sulla terra è un combattimento" ( Gb 7,1 ): infatti è dalla tenda che i soldati armati sono soliti uscire per affrontare i nemici, quando sono da essi attaccati; così fa pure il giusto quando intraprende il combattimento, e viene lui stesso attaccato; per questo si dice: "Il nemico che combatte valorosamente, fa combattere valorosamente anche te" ( Ovidio ); tenda della testimonianza, che ha non solo da quelli che sono fuori ( cf. 1 Tm 3,7 ) e che talvolta non corrisponde al vero, ma da se stesso, perché sua gloria è la testimonianza della sua coscienza ( cf. 2 Cor 1,12 ), e non della lingua altrui. In questa tenda della testimonianza, il candelabro d’oro, battuto a mano, con sette lumi, raffigura la compunzione del cuore d’oro del giusto, che è percosso da molteplici sospiri come da tanti martelli. I sette lumi di questo candelabro sono i tre capretti, le tre forme di pane e l’anfora di vino, portati dai tre suddetti compagni del giusto. E nella tenda del giusto c’è anche la mensa della proposizione, nella quale è raffigurata la perfezione della vita santa, sulla quale devono essere posti i pani della proposizione, cioè il nutrimento della predicazione, che a tutti deve essere offerto. Dice infatti l’Apostolo: "Sono in debito sia verso i greci che verso i barbari" ( Rm 1,14 ). E ancora lì nella tenda c’è l’arca dell’alleanza, con dentro la manna e la verga di Aronne. Nell’arca, cioè nella mente del giusto, ci dev’essere la manna della mansuetudine, per essere come Mosè, e la verga della correzione, per essere come Elia. E infine c’è l’altare d’oro, simbolo del fermo proposito della perseveranza finale. In questo altare viene offerto ogni giorno l’incenso della devota compunzione e da esso salgono gli aromi della profumata orazione. 14. Giustamente quindi è detto: "Dopo che tutte le cose furono compiute, una nube coprì la tenda della testimonianza". Tale tenda, nella quale è compiuto tutto ciò che riguarda la perfezione, è coperta dalla nube ed è riempita dalla gloria del Signore, come è detto nel vangelo di oggi: "E una nube luminosa li avvolse". Infatti la grazia del Signore ripara il giusto trasfigurato sul monte della luce, cioè della santa vita: lo ripara dagli ardori della prosperità di questo mondo, dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica; e così merita di sentire lo spirare di un’aura leggera ( cf. 1 Re 19,12 ), la tenerezza di Dio Padre che dice: "Questo è il figlio mio amatissimo, ascoltatelo!" ( Mt 17,5 ). È veramente degno di essere chiamato figlio di Dio, colui che ha preso con sé i tre sopraddetti compagni, che è salito sul monte, che ha trasfigurato se stesso dalla figura di questo mondo nella figura di Dio, che ha avuto come compagni Mosè ed Elia e ha meritato di essere avvolto dalla nube luminosa. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che dalla valle della miseria tu ci faccia salire al monte della vita santa, affinché segnati dall’impronta della tua passione e fondati sulla mansuetudine della misericordia e lo zelo della giustizia, meritiamo nel giorno del giudizio di essere avvolti dalla nube luminosa e di sentire la voce della gioia, della letizia e dell’esultanza: "Venite, benedetti del Padre mio", che vi ha benedetti sul monte Tabor, "ricevete il regno che è stato preparato per voi fin dall’origine del mondo" ( Mt 25,34 ). A questo regno si degni di condurci colui al quale è onore e gloria, lode e dominio, maestà ed eternità nei secoli dei secoli. E ogni spirito risponda: Amen! Domenica II di quaresima ( 2 ) Temi del sermone – Vangelo per la stessa domenica: "Partito Gesù di lì". – Anzitutto sermone ai predicatori: "Israele uscì in battaglia". – Sermone sul disprezzo del mondo: "Giacobbe, partito da Bersabea". – Sermone ai penitenti: "Ciò che prima non voleva toccare"; la triplice tentazione del diavolo; in quanti modi avvenga la polluzione notturna. – Sermone ai religiosi: "E tu, figlio dell’uomo, prenditi del frumento". – Sermone sulla confessione, nella quale sono necessari cinque atti: "Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone"; i quattro componenti dell’arco e della cetra. – Sermone contro i curiosi e quelli che vagano tra le cose del mondo: "Uscì Dina per vedere". Esordio - sermone ai predicatori 1. "Gesù, partito da quel luogo, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna cananea, uscita da quei luoghi, si mise a gridare: Pietà di me, Signore, figlio di Davide", ecc. ( Mt 15,21-22 ). Leggiamo nel primo libro dei Re: "Israele uscì in battaglia contro i Filistei e si accampò presso la pietra del soccorso" ( 1 Sam 4,1 ). Israele s’interpreta "semente di Dio", e raffigura il predicatore o anche la sua predicazione, della quale Isaia dice: "Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato la semente", cioè la predicazione, "noi saremmo come Sodoma e come Gomorra" ( Is 1,9 ). Il predicatore deve uscire in battaglia contro i Filistei. Filistei s’interpreta "cadenti per il bere", e sono figura dei demoni che, ubriachi di superbia, caddero dal cielo. Contro di essi il predicatore esce in battaglia quando con la sua predicazione fa ogni sforzo per strappare dalle loro mani il peccatore: ma non può far questo se non si accamperà presso "la pietra del soccorso". La pietra del soccorso è Cristo. Di essa, nel racconto biblico di questa domenica, è detto: "Giacobbe prese una pietra, se la pose sotto il capo e si addormentò" ( Gen 28,11 ). Così il predicatore deve mettersi sotto il capo, cioè nella sua mente, la pietra del soccorso, Gesù Cristo, per poter in lui riposare e in lui e con lui scacciare i demoni. E questo vogliono dire le parole: "Si accampò presso la pietra del soccorso", perché vicino a Gesù Cristo, che è aiuto nelle tribolazioni, confidando in lui, tutto a lui attribuendo, il predicatore deve erigere l’accampamento della sua attività e fissare le tende della sua predicazione. Perciò nel nome di Gesù Cristo uscirò contro il Filisteo, cioè contro il demonio, per poter liberare dalla sua mano, con questa predicazione, il peccatore, schiavo del peccato; fiducioso nella grazia di colui che è uscito per la salvezza del suo popolo ( cf. Ab 3,13 ). Per questo leggiamo nel vangelo di oggi: "Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone". 2. Osserva che l’essenza del vangelo di oggi consiste soprattutto in tre momenti: l’uscita di Gesù Cristo, la supplica della donna cananea per la figlia tormentata dal demonio, e la liberazione della figlia stessa. Vedremo il significato morale di ciascuno di questi tre fatti. I. l’uscita di Gesù, ossia l’uscita del penitente dalla vanità del mondo 3. "Gesù, uscito…", ecc. L’uscita di Gesù raffigura l’uscita del penitente dalla vanità del mondo. Di questo si legge e si canta nel racconto di questa domenica: "Uscito Giacobbe da Bersabea, andava verso Carran" ( Gen 28,10 ). Ecco come concordano i due Testamenti: "Uscito, Gesù si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone", dice Matteo; "Uscito Giacobbe da Bersabea, andava verso Carran", dice Mosè nella Genesi. Giacobbe s’interpreta "soppiantatore" e raffigura il peccatore convertito, che sotto la pianta ( del piede ) della ragione calpesta, schiaccia la sensualità della carne. Egli esce da Bersabea, che s’interpreta "settimo pozzo" e indica l’insaziabile cupidigia di questo mondo che è la radice di tutti i mali ( cf. 1 Tm 6,10 ). Di questo pozzo, Giovanni nel suo vangelo, riportando le parole della Samaritana che parla con Gesù, dice: "Signore, tu non hai nulla con cui attingere, e il pozzo è profondo" ( Gv 4,11 ). E Gesù risponde: "Tutti coloro che berranno di quest’acqua, avranno ancora sete" ( Gv 4,13 ). O Samaritana, ben a ragione hai detto che il pozzo è profondo: infatti la cupidigia del mondo è profonda, perché appunto è senza il fondo della sufficienza, della sazietà. E perciò chiunque berrà dell’acqua di questo pozzo, con la quale intendiamo le ricchezze e i piaceri temporali, avrà sete di nuovo. È proprio vero, e lo ripetiamo, perché anche Salomone dice nelle parabole: "La sanguisuga ha due figlie che dicono: Dammi, dammi!" ( Pr 30,15 ). La sanguisuga è il diavolo che ha sete del sangue dell’anima nostra e brama succhiarlo. Sue sono le due figlie: le ricchezze, cioè, e i piaceri, che dicono sempre: "Dammi, dammi!", e mai: "Basta!". Parimenti, di questo pozzo dice ancora l’Apocalisse: "Dal pozzo salì un fumo, come il fumo di una grande fornace, e si oscurò il sole e l’aria. E dal fumo del pozzo uscirono sulla terra le cavallette" ( Ap 9,2-3 ). Il fumo che acceca gli occhi della ragione sale dal pozzo della cupidigia mondana, che è la grande fornace di Babilonia. Da questo fumo sono oscurati il sole e l’aria. Il sole e l’aria raffigurano i religiosi. "Sole", perché devono essere puri, fervorosi e splendenti: puri per la castità, fervorosi per la carità e splendenti per la povertà; "aria", perché devono essere aerei, cioè contemplativi. Ma, sotto la spinta dei nostri peccati, uscì il fumo dal pozzo della cupidigia e ormai affumicò tutti. Infatti Geremia nelle Lamentazioni deplora: "Come si è oscurato l’oro, il suo splendido colore come è cambiato! ( Lam 4,1 ). Sole e oro, aria e colore splendido significano la stessa cosa: lo splendore del sole e dell’oro si è oscurato, l’aria e il colore si sono alterati. E osserva con quanta esattezza ha detto: oscurato e alterato. Infatti il fumo della cupidigia oscura lo splendore della religione e affumica lo splendido colore della contemplazione celeste, nella quale il volto dell’anima viene misticamente soffuso di splendido colore, diviene cioè candido e vermiglio: candido per l’incarnazione del Signore, vermiglio per la sua passione; candido per l’avorio della castità, vermiglio per l’ardente desiderio dello sposo celeste. 4. Ahimè, ahimè, questo splendido colore viene oggi deteriorato perché è affumicato dal fumo della cupidigia, del quale è scritto ancora: "E dal fumo del pozzo uscirono sulla terra le cavallette". Le cavallette, per i salti che fanno, raffigurano tutti i religiosi, i quali, congiunti entrambi i piedi della povertà e dell’obbedienza, devono saltare all’altezza della vita eterna. Ma ahimè, con un salto all’indietro dal fumo del pozzo sono usciti sulla terra e, come è detto nell’Esodo, ne hanno coperto tutta la superficie ( cf. Es 10,5 ). Oggi non ci sono mercati, non si fanno adunanze civili o ecclesiastiche, nelle quali non si trovino monaci e religiosi. Comprano e rivendono, "fanno e disfanno, cambiano in rotondo ciò che è quadrato" ( Orazio, Epistole ). Nelle cause convocano le parti, litigano davanti ai giudici, assoldano legisti e avvocati, trovano testimoni pronti a giurare insieme ad essi per cose effimere, frivole e vane. Ditemi, o fatui religiosi, se nei profeti e nei vangeli di Cristo, o nelle lettere di Paolo, e nella regola di san Benedetto o di sant’Agostino avete trovato questi dibattiti, queste distrazioni, questi clamori e queste dichiarazioni nei processi, per cose effimere e caduche. O piuttosto non dice il Signore agli apostoli, ai monaci, a tutti i religiosi, non a titolo di consiglio ma proprio come comando, giacché hanno eletto la via della perfezione: "Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono, pregate per quelli che vi calunniano. E a chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra. E a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende del tuo, non richiederlo. E ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. E se amate quelli che vi amano, quale merito ne avrete? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se beneficate quelli che vi beneficano, quale merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso" ( Lc 6,27-33 ). Questa è la regola di Gesù Cristo, da preferirsi a tutte le regole, le istituzioni, le tradizioni, gli espedienti, "perché non c’è servo più grande del suo padrone, né apostolo più grande di chi lo ha mandato" ( Gv 13,16 ). Osservate, ascoltate e vedete, o popoli tutti, se c’è stoltezza, se c’è presunzione uguale alla loro. Nella loro regola e nelle loro costituzioni sta scritto che ogni monaco, o canonico, abbia due o tre tuniche, due paia di calzature, adatte all’inverno e all’estate. Se per caso succede che non abbiano queste cose a tempo e a luogo, protestano che non si osservano i comandi, e che così si pecca vergognosamente contro la regola. Vedi con quanto scrupolo osservano una regola, o una prescrizione che riguarda il corpo; ma la regola di Gesù Cristo, senza la quale non possono salvarsi, la osservano poco o nulla. E che cosa dirò del clero e dei prelati della chiesa? Se un vescovo o un prelato della chiesa fa qualcosa contro una decretale di Alessandro, o di Innocenzo, o di qualche altro papa, viene subito accusato, l’accusato viene convocato, il convocato viene convinto del suo crimine, e dopo essere stato convinto viene deposto. Se invece commette qualcosa di grave contro il vangelo di Gesù Cristo, che è tenuto ad osservare sopra tutte le cose, non c’è nessuno che lo accusi, nessuno che lo riprenda. Tutti infatti amano ciò che è proprio, e non ciò che è di Gesù Cristo ( cf. Fil 2,21 ). Lo stesso Cristo, in merito a queste cose, sia ai religiosi che ai chierici dice: "Avete annullato il comando di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti, bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me; invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini" ( Mt 15,6-9 ). E di nuovo: "Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, dell’aneto ( finocchio ), della ruta e di tutte le erbe, e poi trasgredite le leggi della giustizia e dell’amore di Dio. Queste cose bisognava curare, senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che cercate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze. Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, mentre voi quei pesi non li toccate neppure con un dito. Guai a voi, dottori della legge, che vi siete impadroniti della chiave della scienza: voi non vi siete entrati, e a quelli che volevano entrarvi l’avete impedito" ( Lc 11,42-43.46.52 ). Ben a ragione quindi l’Apocalisse afferma che "è salito il fumo del pozzo come il fumo di una grande fornace, che ha oscurato il sole e l’aria, e dal fumo del pozzo sono uscite sulla terra le cavallette". 5. Osserva ancora che il pozzo della cupidigia umana è chiamato "settimo pozzo", e questo per due motivi: o perché è la sentìna e la fogna di sette crimini – dice infatti l’Apostolo che la cupidigia è la radice di tutti i mali ( cf. 1 Tm 6,10 ) –; o perché la cupidigia non conosce fondo di sazietà, di sufficienza, come si legge nella Genesi che il settimo giorno non ha sera ( cf. Gen 2,2 ). Perciò da questo pozzo sciagurato esce il peccatore pentito. A lui si applicano le parole: "Uscito Giacobbe da Bersabea, si diresse verso Carran". "Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone". E vediamo che cosa significhino i tre nomi: Tiro, Sidone e Carran. Tiro s’interpreta "angustia"; Sidone "caccia della tristezza"; Carran "eccelsa" o "indignazione". Il penitente, uscito dalla cupidigia del mondo, si ritira dalle parti di Tiro, cioè dell’angustia. Osserva che il vero penitente ha una duplice angustia: la prima è quella che sente per il peccato commesso, la seconda è quella che subisce a motivo della triplice tentazione del diavolo, del mondo e della carne. Della prima, dice Giobbe: "Quelle cose che prima la mia anima non voleva toccare, adesso nella mia angustia sono diventate il mio cibo" ( Gb 6,7 ). Per il penitente infatti, a motivo dell’angustia della contrizione, che sente per i peccati, il perdurare nelle veglie, l’abbondanza delle lacrime, i frequenti digiuni, sono come dei cibi prelibati: l’anima, cioè la sua sensualità saziata di cose temporali, prima di tornare alla penitenza, aborriva perfino di toccarli. Per questo dice Salomone: "L’anima sazia calpesta il favo di miele, invece l’anima affamata prende anche l’amaro, come fosse dolce" ( Pr 27,7 ). 6. Della seconda angustia, causata dalla triplice tentazione del giusto, dice Isaia: "Come i turbini vengono dall’africo ( vento del deserto, libeccio ), la devastazione ( vastitas ) viene dal deserto, da una terra spaventosa. Una visione angosciosa mi fu mostrata. Per questo sono pieni di dolore i miei lombi; l’angustia mi ha preso, come l’angustia di una partoriente; mi spaventai all’udire, fui atterrito al vedere. Il mio cuore si strugge, le tenebre mi hanno riempito di angoscia" ( Is 21,1-4 ). Fa’ attenzione a tutte queste parole: nel turbine è indicata la suggestione del diavolo ( cf. Is 21,1 ); nella devastazione la cupidigia del mondo; nella visione angosciosa la tentazione della carne. I turbini che provengono dall’africo sono le suggestioni del diavolo, che turbano e opprimono l’anima del penitente. Si legge in Giobbe: "Improvvisamente un vento impetuoso si abbatté dalla regione del deserto e scosse i quattro angoli della casa, e questa crollando schiacciò i figli di Giobbe ( Gb 1,19 ). Il vento impetuoso, che si abbatte dalla regione del deserto, è l’inattesa suggestione del diavolo, che talvolta irrompe all’improvviso e così violentemente, da scuotere fin dalle fondamenta i quattro angoli della casa, cioè le quattro virtù principali ( cardinali ) dell’anima del giusto, e qualche volta, ahimè, la fa crollare, cioè lo fa cadere nel peccato mortale. Così i figli di Giobbe, cioè le opere buone e i buoni sentimenti del giusto, periscono. 7. La devastazione che viene dal deserto è la cupidigia, che viene dal deserto, cioè dal mondo, pieno di bestie feroci, e brama devastare le ricchezze della povertà dell’uomo santo, che è il penitente contrito. Dice perciò Gioele: "Il fuoco ha divorato la bellezza del deserto, e la fiamma ha bruciato tutte le piante della regione" ( Gl 1,19 ). Il fuoco, cioè la cupidigia, ha mangiato, ha divorato la bellezza del deserto, cioè i prelati e i ministri della chiesa, che sono posti nel deserto di questo mondo e sono costituiti da Dio per la bellezza e il decoro della chiesa stessa. E la fiamma dell’avarizia ha bruciato tutte le piante della regione, cioè tutti i religiosi, che giustamente sono chiamati "piante della regione". "La regione è la religione, nella quale sono come trapiantati dalla regione della dissomiglianza, cioè della vanità del mondo [ dove si distrugge la somiglianza con Dio ], per portare frutti di gloria celeste" ( Bernardo ). 8. La visione angosciosa, annunziata da una terra spaventosa, è la tentazione della carne, che giustamente è detta terra spaventosa, perché è orrida e abominevole per pensieri depravati, per parole false e ostili, per opere perverse, per innumerevoli impurità e nefandezze. E osserva ancora che la tentazione della carne è detta "visione angosciosa" perché consiste principalmente nella visione degli occhi. Dice infatti il Filosofo: "I primi dardi della lussuria sono gli occhi". Infatti lamenta Geremia: "Il mio occhio ha devastato la mia anima" ( Lam 3,51 ), e il beato Agostino: "L’occhio impudico è nunzio di cuore impudico". Per questo, come dice il beato Gregorio, gli occhi si devono mortificare, perché sono come certi predoni, dei quali si parla nel quarto libro dei Re: Dei predoni avevano rapito dalla terra d’Israele una fanciulla, che era a servizio della moglie di Naaman, il lebbroso ( cf. 2 Re 5,2 ). I predoni sono gli occhi, che rapiscono la fanciulla, cioè la pudicizia e la castità, dalla terra d’Israele, vale a dire dalla mente del giusto, che vede Dio, e così la fanno servire ( la mente ) alla moglie, cioè alla fornicazione, che è moglie di Naaman il lebbroso, cioè del diavolo. Da tale moglie il demonio lebbroso genera molte figlie e figli lebbrosi. In altro senso: È detta "visione angosciosa" quella che di solito avviene nel sonno, che è chiamata polluzione carnale, che turba profondamente, e deve turbare, la mente del giusto. Dice infatti Giobbe: "Mi spaventerai – cioè permetterai che io sia spaventato – con i sogni, e mi scuoterai con orrende visioni. Per questo la mia anima preferirebbe sospendersi al cappio e le mie ossa preferirebbero la morte" ( Gb 7,14-15 ). Il giusto, quando si sente terrorizzato dall’orrore della visione ingannatrice, deve subito sorgere e sospendere la sua anima nella contemplazione delle cose celesti e castigare con gemiti e flagelli le ossa del corpo eccitato, che ha avvertito un momentaneo piacere. Osserva anche che questa polluzione avviene, di solito, in quattro modi: o si verifica per l’eccessiva accumulazione di umori, o per la debolezza del corpo, e in questi casi non c’è peccato, o al massimo è peccato veniale; o per eccesso di cibi e di bevande, e se ciò si fa abitualmente è peccato mortale; o per aver contemplato, con il consenso della mente, la bellezza femminile, e allora è certamente peccato mortale. Per questo il penitente che, uscito da Bersabea, si è ritirato dalle parti di Tiro, cioè nell’angustia, dice: Come i turbini, cioè le suggestioni, vengono dall’africo, vale a dire dal diavolo, così la devastazione, cioè la cupidigia che tutto devasta, viene dal deserto, cioè dal mondo; così pure l’angosciosa visione della tentazione mi è stata annunciata da una terra orribile, cioè dalla carne corrotta. Ahimè, ahimè, Signore Dio, in sì grande turbine, in sì grande devastazione, in sì angosciosa visione, dove fuggire? Che cosa fare? Senti che cosa dice ancora il penitente: "Per questo sono ricolmi di dolore i miei lombi, l’angustia mi ha preso, come l’angustia di una partoriente". Al penitente, quando l’angosciosa visione si annuncia dalla terra orribile, i lombi si riempiono di dolore e non di piacere. Quindi dice con il profeta: "Brucia le mie reni, Signore" ( Sal 26,2 ). "E l’angustia mi ha preso". Questo penitente che dice: l’angustia mi ha preso, si è ritirato veramente dalle parti di Tiro. E quale angustia lo ha preso? L’angustia della partoriente. Come non c’è angustia più grande di quella della partoriente, così non c’è angustia maggiore di quella del giusto, sottoposto alla tentazione. Infatti leggiamo nell’Esodo: "Gli egiziani odiavano i figli d’Israele: li tormentavano e li schernivano, e rendevano loro la vita amara" ( Es 1,13-14 ). Gli egiziani sono i demoni, i peccatori impenitenti e i moti carnali. Tutti costoro hanno in odio i figli d’Israele, cioè i giusti: i demoni li tormentano, i peccatori impenitenti li scherniscono, i moti carnali rendono loro la vita amara. 9. "Mi spaventai all’udire, fui turbato al vedere. Venne meno il mio cuore e le tenebre mi riempirono di terrore". Consideriamo il significato delle singole espressioni. Dice il penitente: "All’udire" i turbini provenienti dall’africo, all’istante crollai con la faccia a terra, scongiurando il Signore di non permettere che io fossi travolto da quel turbine. Infatti il giusto, quando avverte le suggestioni del diavolo, deve subito immergersi nella preghiera, perché "questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e con il digiuno" ( Mt 17,20 ). "Mi spaventai" al veder giungere la devastazione della cupidigia mondana. Ben a ragione dice: mi spaventai. Il giusto, quando lo lusinga qualche brama di cose temporali, subito deve avere l’animo e il volto turbato, proprio per non mostrarsi favorevole. "Venne meno il mio cuore" al fluido della lussuria; "le tenebre" della morte eterna "mi riempirono di terrore, quando dalla terra orribile mi fu annunciata l’angosciosa visione". Come chiodo scaccia chiodo, così il terrore della geenna scaccia il piacere della libidine. Quindi giustamente è detto del penitente: "Uscito da Bersabea, si ritirò dalle parti di Tiro, e andò a Carran". E osserva quanto bene si accordino Tiro e Carran, cioè l’angustia e l’eccelso, perché chi vuole arrivare alle cose eccelse, non può farlo senza passare per l’angustia. Il penitente che vuole salire alla pienezza della vita eterna, deve prima passare per Tiro. Infatti dice il Signore: "Non bisognava forse che il Cristo sopportasse queste sofferenze – ecco Tiro –, per entrare nella sua gloria?", ecco Carran ( Lc 24,26 ). Che cosa faremo dunque al penitente che esce dal pozzo della cupidigia mondana e si accinge a salire alle altezze della beatitudine celeste? Il monte è altissimo, la salita è durissima e piena di ostacoli. Perché non venga meno per via gli costruiremo una scala, sulla quale possa salire agevolmente; come è detto nel racconto biblico di questa domenica: "Giacobbe vide in sogno una scala, appoggiata a terra" ( Gen 28,12 ), ecc. 10. Osserva che questa scala ha due braccia [ i montanti ] e sei scalini, sui quali si fa la salita. Questa scala raffigura la santificazione del penitente, della quale l’Apostolo nell’epistola di oggi dice: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, affinché ognuno di voi sappia mantenere il proprio corpo con onore e santità" ( 1 Ts 4,3-4 ). Le braccia di questa scala sono la contrizione e la confessione. I sei scalini sono quelle sei virtù, nelle quali consiste tutta la santificazione dell’anima e del corpo: cioè la mortificazione della propria volontà, il rigore della disciplina, la virtù dell’astinenza, la considerazione della propria fragilità, l’esercizio della vita attiva e la contemplazione della gloria celeste. Di queste sei virtù parla il Signore per bocca di Ezechiele, dicendo: "E tu, figlio dell’uomo, … prenditi del frumento e dell’orzo, delle fave e delle lenticchie, del miglio e della spelta: metti il tutto in un vaso e fatti dei pani" ( Ez 4,1.9 ). Nel frumento, che muore quando viene seminato nella terra, è raffigurata la mortificazione della nostra volontà; nell’orzo, che ha una paglia tenace, è indicato il rigore della disciplina; nella fava, che è il cibo dei digiunatori, è raffigurata la virtù dell’astinenza; nelle lenticchie, che sono piccolissime e di poco valore, è indicata la consapevolezza della nostra fragilità; nel miglio, che ha bisogno di assidua cura, l’esercizio della vita attiva; infine, nella spelta, ossia nell’avena, che tende all’alto, va intesa la contemplazione della gloria celeste. E poiché in queste virtù consiste la nostra santificazione e la nostra purificazione, conquistiamole e mettiamole nel nostro vaso ( nel nostro corpo ), del quale dice l’Apostolo: "Ognuno di voi sappia conservare il suo corpo nell’onore e nella santità". Con queste sei virtù facciamoci dei pani, con i quali rifocillati possiamo ritirarci dalle parti di Tiro e proseguire verso Carran. Infatti è detto: "Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro", ecc. 11. "E di Sidone". Sidone s’interpreta "caccia della tristezza". Osserva che il cacciatore che vuol fare buona caccia deve avere cinque cose: un corno che suoni, un cane veloce e coraggioso, un giavellotto liscio e acuminato, la faretra con le frecce e l’arco. Il corno per suonare, il cane perché catturi la preda, il giavellotto per uccidere, le frecce e l’arco per colpire da lontano le bestie che non ha potuto uccidere da vicino. Il cacciatore è il penitente, al quale il padre, nel racconto biblico di questa domenica, dice: Prendi le tue armi, la faretra e l’arco, e portami della tua cacciagione, perché io ne mangi e la mia anima ti benedica ( cf. Gen 27,3-4 ). Le armi del figlio del penitente sono la faretra e l’arco; le frecce nella faretra sono le trafitture e i dolori della contrizione nel cuore, dei quali dice Giobbe: "Le frecce del Signore sono infisse dentro di me, e l’irritazione da esse prodotta riempie il mio cuore" ( Gb 6,4 ). Le frecce del Signore sono le trafitture del cuore, con le quali il Signore ferisce misericordiosamente il cuore del peccatore, perché, sdegnato contro se stesso per il peccato, annienti lo spirito di superbia, come appunto continua la citazione: "L’irritazione da esse prodotta riempie", consuma, "il mio spirito", cioè la mia superbia. Nell’arco è indicata la confessione. Dice il Signore nella Genesi: "Porrò il mio arco tra le nubi del cielo, e sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra" ( Gen 9,13 ). Tra Dio e la terra, cioè tra Dio e il peccatore – al quale è detto: Sei terra e terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ) –, viene posto l’arco della confessione, che è il segno dell’alleanza, della pace e della riconciliazione. Vedi dunque quanto giustamente l’arco raffiguri la confessione. 12. Osserva che nell’arco ci sono quattro elementi: le due estremità ( cornua ) flessibili, il centro rigido e inflessibile, e la corda elastica, con la quale le estremità stesse vengono tese. Parimenti nella confessione ci devono essere quattro elementi. Le due punte dell’arco rappresentano il dolore dei peccati passati e il timore delle pene eterne; il centro rigido e inflessibile è il fermo proposito che il penitente deve avere, per non ritornare mai più al vomito; la corda elastica è la speranza del perdono, che realmente piega dalla loro rigidità le due punte del dolore e del timore. Da tale arco quindi vengono lanciate "le frecce acute del potente" ( Sal 120,4 ). Inoltre il cacciatore, cioè il penitente, deve avere il corno che suona, il cane e il giavellotto. Nel corno è indicato il grido dell’accusa sincera; nel cane, il latrato della coscienza che rimorde; nel giavellotto il castigo e la propria punizione, ossia l’opera penitenziale riparatrice. Il peccatore quindi, con l’arco della confessione deve avere il corno dell’accusa sincera, il cane della coscienza che rimorde, per non tralasciare nulla del peccato e delle sue circostanze. Deve avere anche il giavellotto della punizione, dell’indignazione e della soddisfazione ( l’opera penitenziale ) per castigare se stesso, contro se stesso sdegnarsi, riparare per i suoi peccati, affinché tanto di se stesso sacrifichi, quanto a se stesso procurò di piacere. Questa è una buona caccia, della quale il padre dice al figlio: "Portami della tua cacciagione, perché io mangi e l’anima mia ti benedica". Perciò di questa caccia si dice anche nel vangelo di oggi: "Gesù, uscito di lì, si ritirò dalle parti di Tiro e Sidone". II. la richiesta della donna cananea per la figlia tormentata dal demonio, ossia la preghiera dell’anima penitente 13. "Ecco che una donna cananea, uscita da quei luoghi, alzò la voce dicendo: Figlio di Davide, abbi pietà di me; mia figlia è malamente tormentata dal demonio" ( Mt 15,22 ). Osserva che la donna cananea si fa avanti e si profonde in richieste per la figlia proprio quando Gesù si ritira dalle parti di Tiro e Sidone. Infatti quando il peccatore esce dalla voragine dell’insaziabile sua carne e del mondo, e si ritira dalle parti di Tiro, cioè nell’angustia che prova nella contrizione, e di Sidone, cioè della caccia che deve fare nella confessione, solo allora la donna cananea, vale a dire la sua anima peccatrice, riconoscendo immediatamente la sua iniquità, incomincia a gridare dicendo: Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide! Questa deve essere la preghiera propria dell’anima pentita, che ritorna alla penitenza sull’esempio di Davide, il quale dopo l’adulterio e l’omicidio fece una vera penitenza. Dice dunque: Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide; come dicesse: O Signore, tu hai voluto discendere dalla famiglia e dalla tribù di Davide, per infondere la grazia e porgere la mano della misericordia ai peccatori che si convertono, che sull’esempio di Davide sperano nella tua misericordia e fanno penitenza. "Abbi dunque misericordia di me, o figlio di Davide!" 14. "Ma egli non le rispose parola" ( Mt 15,23 ). O mistero del divino consiglio! O insondabile profondità della divina sapienza! Il Verbo che era al principio presso il Padre, per il quale tutto è stato fatto ( cf. Gv 1,1.3 ), non risponde una sola parola alla donna cananea, cioè all’anima penitente. Il Verbo che rende eloquente la lingua dei pargoli ( cf. Sap 10,21 ), che dà la bocca e la sapienza ( cf. Lc 21,15 ), non risponde parola! O Verbo del Padre, tu che tutto crei e ricrei, che tutto governi e sostenti, rispondi almeno con una sola parola a me, misera donna, a me, che sono pentita. Io ti provo con la parola del tuo profeta Isaia, che tu devi rispondere. Il Padre infatti, per bocca di Isaia, promette di te ai peccatori: "La mia parola [ il mio Verbo ] che esce dalla mia bocca, non ritornerà a me vuota, ma farà tutto ciò che io voglio, e felicemente compirà quelle cose per le quali l’ho mandata" ( Is 55,11 ). E che cosa vuole il Padre? Appunto, che tu accolga i penitenti, che tu dica loro la parola della misericordia. Non hai detto tu stesso: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato?" ( Gv 4,34 ). Abbi dunque pietà di me, Figlio di Davide, rispondi una parola, o Parola del Padre! E ti provo anche con la parola del tuo profeta Zaccaria, che devi aver pietà e rispondere. Così infatti ha profetato di te: "In quel giorno ci sarà per la casa di Davide una fonte zampillante, per lavare il peccatore e la donna immonda" ( Zc 13,1 ). O fonte della pietà e della misericordia, che sei nato da terra benedetta, cioè dalla Vergine Maria, che proveniva dalla casa e dalla famiglia di Davide, lava le sozzure del peccatore e della donna immonda. Abbi dunque pietà di me, Figlio di Davide: la mia figlia è malamente tormentata dal demonio. Perché la Parola [ il Verbo ] non rispose parola? ( lat. Quare Verbum non respondit verbum? ) Certamente per suscitare nell’anima del penitente una compunzione più grande, un più profondo dolore. Di lui infatti dice la sposa del Cantico dei Cantici: "L’ho cercato ma non l’ho trovato; l’ho chiamato, ma non mi ha risposto" ( Ct 5,6 ). 15. Ma vediamo più chiaramente da quale dolore sia afflitta questa donna cananea. "Mia figlia – dice – è malamente tormentata dal demonio". Di questo tormento c’è un riscontro anche nel racconto biblico di questa domenica, dove si dice: "Dina, figlia di Lia, uscì per vedere le donne di quella regione. Avendola vista Sichem, figlio di Camor l’Eveo, principe di quella terra, se ne innamorò e la rapì. E si unì a lei, facendole violenza perché era vergine. E la sua anima fu indissolubilmente legata a lei" ( Gen 34,1-3 ). Ecco dunque in che modo "mia figlia è malamente tormentata dal demonio". Lia s’interpreta "laboriosa", Dina "causa" o "giudizio". Lia è l’anima del penitente, la quale, perseverando nelle opere di penitenza, si affatica, dicendo con il Profeta: "Mi sono affaticato nel mio lamento" ( Sal 6,7 ). Essa raffigura la donna cananea, che si interpreta "negoziatrice". L’impegno dell’anima penitente è di disprezzare il mondo, mortificare la carne, piangere i peccati passati e non fare più nulla di cui debba poi piangere. La figlia di questa cananea, ossia di Lia, è la mente, la coscienza dell’uomo, che giustamente è chiamata Dina, cioè causa o giudizio, perché deve manifestare e presentare al giudice, cioè al sacerdote, la causa dei suoi peccati, e accettare di buon grado il giudizio e la sentenza che sarà da lui pronunciata. E fa’ attenzione che in questo passo, per mente o per coscienza dell’uomo, altro non intendo che l’anima del penitente stesso. Spesso infatti, nella sacra pagina, persone diverse sono figura di un’unica e stessa cosa, come in questo caso: la donna cananea e la sua figlia raffigurano ambedue, in senso morale, l’anima del penitente. 16. Di quest’anima si dice: "Dina uscì per vedere le donne di quella regione". Le donne della regione raffigurano la bellezza delle cose temporali, l’abbondanza, la vanità e il piacere di questo mondo; e tutte queste cose sono dette "donne" ( mulieres ), perché rammolliscono e infiacchiscono la mente dell’uomo. Infatti è detto nel terzo libro dei Re che "le donne pervertirono il cuore di Salomone" ( 1 Re 11,3 ). La bellezza e l’abbondanza dei beni temporali infatuano il cuore del sapiente. L’anima sventurata esce per vedere queste donne, quando si compiace dell’abbondanza e della bellezza delle cose temporali, e così all’infelice avviene quello che segue: "Avendola veduta Sichem, figlio di Camor l’Eveo, principe di quella terra, se ne innamorò", ecc. Sichem s’interpreta "fatica", Camor "asino", Eveo "feroce" o "pessimo". Sichem è il diavolo che sempre si impegna per operare l’iniquità: "Ho fatto un giro sulla terra – dice – e l’ho percorsa" ( Gb 2,2 ). È detto figlio di Camor l’Eveo, perché a motivo della sua stoltezza, della sua prepotenza e della sua superbia, da angelo è divenuto diavolo, da figlio dell’eccelsa gloria è divenuto figlio della morte eterna. È detto anche principe della terra, cioè di coloro "che sono intenti alle cose della terra" ( Fil 3,19 ). E il Signore dice: "Il principe di questo mondo sarà cacciato fuori" ( Gv 12,31 ). Il diavolo, che vede quest’anima sventurata divagare tra le vanità delle cose temporali, mentre dovrebbe cercare la causa e subire il giudizio dei suoi peccati, le fa quello che abbiamo sentito: "Se ne innamorò e la rapì, si unì ad essa, facendole violenza perché era vergine, e la sua anima si legò a lei ( conglutinata est ) indissolubilmente". Fa’ attenzione alle parole: Il diavolo si innamora di un’anima quando le suggerisce di peccare; ma la rapisce quando essa con la sua mente acconsente alla tentazione; si unisce a lei e vìola la sua verginità quando mette in atto la sua premeditata malizia. La sua anima si lega strettamente a lei quando la tiene schiava e in catene con il laccio delle cattive abitudini. Ecco in che modo la figlia mia è malamente tormentata dal diavolo. "Abbi dunque pietà di me, o Figlio di Davide, perché la figlia mia è malamente tormentata dal demonio", da Sichem, figlio di Camor l’Eveo. E il Signore, avendo misericordia, perché le sue misericordie sono senza numero, liberò in modo meraviglioso quella figlia che era così crudelmente tormentata dal diavolo. III. liberazione della figlia della donna cananea 17. Leggiamo sempre nella Genesi il seguito del racconto: "I due figli di Giacobbe, Simeone e Levi, fratelli di Dina, presero la spada ed entrarono coraggiosamente nella città e uccisero tutti i maschi: uccisero anche Camor e Sichem, e portarono via Dina, loro sorella, dalla casa di Sichem" ( Gen 34,25-26 ). Simeone s’interpreta "che ascolta la tristezza", cioè la contrizione del cuore; Levi s’interpreta "aggiunta", e significa che alla contrizione del cuore deve aggiungersi la confessione, fatta dalla bocca. Questi due figli di Giacobbe, cioè del penitente, e fratelli di Dina, cioè della sua anima, devono afferrare la spada dell’amore e del timore di Dio e uccidere il diavolo e la sua superbia e tutto ciò che lo riguarda, cioè il peccato e le circostanze di esso. E così potranno liberare l’anima, loro sorella, schiava nella casa del diavolo, legata con la catena delle cattive abitudini. Preghiamo dunque, o carissimi, il Signore Gesù Cristo, che per la sua santa misericordia ci conceda di uscire dalla vanità del mondo e di entrare dalle parti di Tiro e Sidone, cioè della contrizione e della confessione, affinché la nostra figlia, la nostra anima, possa essere liberata dal diavolo e dalle sue tentazioni ed essere collocata nella beatitudine del regno celeste. Ce lo conceda colui che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. E ogni uomo risponda: Amen! Domenica III di quaresima Temi del sermone – Vangelo della III domenica di Quaresima: "Gesù stava scacciando un demonio"; il vangelo si divide in cinque parti. – Anzitutto, sermone sull’utilità della predicazione: "Quando lo spirito maligno …" – Parte I: Sermone ai penitenti o ai claustrali: "Giuseppe, mandato dalla valle di Ebron"; natura dell’uccello chiamato calandra (allodola). – Sermone sulla cecità del peccatore: "Subito, appena Giuseppe arrivò", e le caratteristiche del cigno. – Sermone sulla passione di Cristo: "Siate imitatori di Dio". – Parte II: Anzitutto sermone al predicatore: "Il suo arco si appoggiò sul Forte". – Sermone sull’armatura del diavolo e la sua lotta: "Dagli accampamenti dei Filistei uscì un uomo bastardo"; la tela del ragno e le sue proprietà. – Sermone sull’armatura di Cristo e la sua vittoria: "Fu rivestito della giustizia come di un’armatura". – Parte III: Anzitutto sermone contro i superbi: "Vidi un ariete che agitava le corna": posizione delle corna negli animali e loro significato. – Sermone sull’umiltà: "Se invece sopraggiunge uno più forte di lui". – Sermone ai religiosi, come debbano cambiare la vita precedente: "In quel giorno ci saranno in Egitto cinque città". – Parte IV: Anzitutto, sermone sulla solitudine della mente e sulla dolcezza della contemplazione: "Come un giardino di delizie". – Sermone sulla dimora del diavolo: "Dorme sotto l’ombra". – Sermone ai penitenti o ai religiosi: "Nella terra deserta", e sulla natura delle api. – Sermone sulla triplice scopa e il suo significato: "Ritornerò nella mia casa". – Sermone contro i tiepidi: "Gli Amaleciti fecero irruzione". – Sermone ai penitenti e sulla natura delle api: "La trova vuota e adorna"; "Nera sono ma bella". – Parte V: [ Breve sermone in lode della b. V. Maria ]. Beatitudine di Maria, e la sua verginità: "Beato il ventre"; "Il tuo ventre è come un cumulo di grano". – Sermone sulla nascita del suo Figlio: "Cerva amabilissima"; le proprietà della cerva e della palma. – Sermone per qualsiasi festa della Vergine Maria: "Vedevo dinanzi a me una vite". Esordio - utilità della predicazione 1. In quel tempo "Gesù stava scacciando un demonio, che era muto. E quando ebbe scacciato il demonio, il muto parlò e le turbe rimasero ammirate" ( Lc 11,14 ). Si legge nel primo libro dei Re: "Ogni qual volta lo spirito maligno, del Signore, si impadroniva di Saul, Davide prendeva la cetra e la suonava con la sua mano. Saul si riprendeva e si sentiva meglio: infatti lo spirito maligno si ritirava da lui" ( 1 Sam 16,23 ). Lo spirito maligno, del Signore, è il diavolo, che è detto "del Signore" perché anche lui è creatura di Dio; ma è maligno perché a motivo della sua protervia, da lucifero, portatore di luce, si è cambiato in portatore di tenebre, da angelo in diavolo; ed è chiamato diavolo, cioè "che precipità giù" ( greco diabàllo, getto giù ). Questo spirito si impossessa di Saul – nome che s’interpreta "profittatore abusivo" –, cioè del peccatore, al quale, come dice Giobbe, "Dio ha dato tempo per la penitenza, e lui invece ne approfitta nella sua superbia" ( Gb 24,23 ); si impossessa di lui quando lo spinge di peccato in peccato. Ma Davide, e cioè il predicatore, deve prendere la cetra, vale a dire la melodia della predicazione, e suonarla con l’abilità della sua mano; e così la dolcezza della cetra, cioè la forza della predicazione del Signore, mitigherà il furore del peccatore e scaccerà da lui il demonio, del quale appunto è detto nel vangelo di oggi: "Gesù stava scacciando un demonio", ecc. 2. Osserva che in questo vangelo ci sono quattro parti, su ognuna delle quali vogliamo comporre un breve sermone ad onore di Dio e per la maggiore utilità degli ascoltatori. Primo: "Gesù stava scacciando un demonio". Secondo: "Quando un uomo forte, armato". Terzo: "Quando lo spirito immondo esce da un uomo". Quarto: "Una donna di tra la folla, alzando la voce". Parimenti il racconto tratto dalla Genesi, che si legge e si proclama in questa domenica, si divide in quattro parti: la prima tratta della vendita di Giuseppe, la seconda della sua incarcerazione e dell’interpretazione dei sogni del coppiere e del pasticciere; la terza delle sette vacche, delle sette spighe e dei sette anni della fame; la quarta della liberazione di tutto l’Egitto ad opera dello stesso Giuseppe. Nel nome di Cristo incominciamo ad esporre la prima parte di questo vangelo. I. la vendita di Giuseppe 3. "Gesù stava scacciando un demonio". Osserva che in un solo uomo Gesù ha operato quattro miracoli: ha dato la vista al cieco – infatti Matteo ricorda che questo indemoniato era anche cieco –, ha fatto parlare il muto, ha dato l’udito al sordo, e lo ha liberato dal demonio. Ora vedremo come il Signore, nella santa chiesa, operi ogni giorno spiritualmente nei peccatori questi quattro miracoli e quale sia il significato morale di ciascun miracolo. "Gesù stava scacciando un demonio". Fa’ bene attenzione che come questo indemoniato perdette le sue naturali capacità nei tre sensi principali e più nobili degli altri, perdette cioè la capacità di vedere, di parlare e di sentire, così il peccatore che viene posseduto dal diavolo per mezzo del peccato mortale, perde la capacità spirituale nei tre sensi della sua anima, più importanti e più nobili degli altri: perde cioè la capacità di vedere, di parlare e di sentire spiritualmente. E osserva che nella vista è raffigurata la conoscenza, nella lingua la confessione, e nell’udito l’obbedienza. Solo chi riconosce la sua malizia vede con chiarezza; solo chi confessa francamente e totalmente la malizia riconosciuta parla rettamente; solo chi obbedisce volontariamente alla voce del suo confessore sente perfettamente. Su queste tre cose concorda poi la prima parte del racconto biblico di questa domenica, quando dice che Giuseppe, mandato dalla valle dell’Ebron, arrivò a Sichem e da Sichem a Dotan ( cf. Gen 37,14-17 ). Giuseppe s’interpreta "crescente" ( cf. Gen 49,22 ), Ebron "visione", Sichem "fatica", Dotan "indebolito" ( lat. defectus, da deficio, vengo meno ). Giuseppe è il penitente che in tanto cresce al cospetto di Dio, in quanto diminuisce al proprio cospetto. Infatti il Signore dice a Saul: Quando eri piccolo ai tuoi occhi, io ti posi a capo delle tribù d’Israele ( cf. 1 Sam 15,17 ). Nella valle dell’Ebron, cioè della visione, è indicato il riconoscimento del peccato; in Sichem la fatica della confessione; in Dotan il venir meno ( la repressione ) della propria volontà. Quindi il penitente, mandato dalla valle dell’Ebron, viene a Sichem. La valle dell’Ebron, che s’interpreta visione, è il riconoscimento del peccato. Geremia dice: "Vedi le tue vie nella convalle" ( Ger 2,23 ). Nella convalle, cioè nella duplice umiltà, interiore ed esteriore, vedi, cioè riconosci, le tue vie, vale a dire i tuoi peccati, con i quali, come percorrendo certe false vie, procedi verso l’inferno. Dice il Profeta: "Ho scrutato le mie vie e ho rivolto i miei piedi verso i tuoi comandamenti" ( Sal 119,59 ). E di nuovo Geremia: "Sappi e vedi – cioè riconosci – quanto sia cosa cattiva e amara l’aver abbandonato il Signore tuo Dio, e non aver più il timore di me, dice il Signore, Dio degli eserciti" ( Ger 2,19 ). E ancora: "Alza i tuoi occhi nella giusta direzione e guarda dove ora ti sei prostrata" ( Ger 3,2 ). Osserva che dice: nella giusta direzione. Ahimè, quanto pochi sono oggi coloro che guardano nella giusta direzione; quasi tutti guardano nella direzione sbagliata, come fossero strabici. Guarda certamente nella giusta direzione colui che riconosce la sua iniquità, proprio come l’ha commessa, e la confessa subito, a puntino, con esattezza, come è avvenuta. Alza dunque i tuoi occhi nella giusta direzione, e non in quella sbagliata; non vergognarti, non aver timore: sono questi due sentimenti, la vergogna e il timore, che impediscono di solito la giusta direzione degli occhi. Si dice che esista un uccello ( la calandra ) che quando dirige lo sguardo direttamente al volto di un malato, questi viene senz’altro liberato dal suo male; se invece da quell’infermo distoglie il suo sguardo, o lo rivolge in altra direzione, questo è segno di morte. Così il peccatore, se alza il suo sguardo nella direzione giusta e considera i suoi peccati e li riconosce, credi a me, "egli vivrà e non morirà" ( Ez 33,15 ). Se invece guarderà in altra direzione, se dissimulerà e confesserà i suoi peccati velandoli o attenuandoli, questo è segno e indizio di eterna dannazione. "Alza dunque i tuoi occhi nella giusta direzione, e guarda", cioè riconosci, "dove", in quale miseria, "ti sei ridotta", perché "tributaria" del diavolo e del peccato, "ora", tu che prima eri "dominatrice delle genti", cioè dominavi i vizi, e "signora di province" ( Lam 1,1 ), cioè padrona dei tuoi cinque sensi. 4. È bene perciò, fratelli, abitare nella valle dell’Ebron, vedere e riconoscere prima la nostra colpa e la nostra malizia, e poi giungere a Sichem, che s’interpreta fatica, cioè accostarsi alla confessione, il che comporta veramente fatica e dolore. Dice infatti Michea: "Soffri e affànnati molto, figlia di Sion, come una partoriente" ( Mic 4,10 ). O figlia, cioè "o anima", che sei e devi essere "figlia di Sion", cioè della celeste Gerusalemme, soffri nella contrizione, e affànnati ( lat. sàtage, satis age, fa’ quanto è sufficiente ) nella confessione, come una partoriente. Giustamente è detto "come una partoriente". Infatti come una partoriente è in travaglio e soffre, così il peccatore deve essere in travaglio e soffrire nella confessione, per essere come la cerva che partorisce con dolore e travaglio. Dice Giobbe: "Le cerve s’incurvano verso il feto, partoriscono ed emettono come dei muggiti" ( Gb 39,3 ). Le cerve sono figura dei penitenti che devono curvarsi di fronte al sacerdote e umiliarsi, partorire i loro peccati ed emettere amarissimi lamenti ( di pentimento ). Ma ahimè, ahimè, quanti sono oggi coloro che partoriscono non come le cerve, ma come le cavalle. Nella Storia Naturale si legge che le cavalle non soffrono quando partoriscono, e che il fumo di una lucerna che sta spegnendosi le fa abortire. Così ci sono certi peccatori che quando confessano i loro peccati, li partoriscono, per così dire, senza travaglio e dolore. Ma "la donna – dice il Signore – quando partorisce è nell’affanno" ( Gv 16,21 ); e quando in quei peccatori si spegne il lume della grazia, essi abortiscono, cioè partoriscono il peccato al fumo della concupiscenza. Per questo dice Giacomo: "La concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quando è consumato, genera la morte" ( Gc 1,15 ). Ascolta in che modo il santo Giobbe, nome che s’interpreta "dolente", dalla valle dell’Ebron arrivò a Sichem, quando diceva: "Io non terrò chiusa la mia bocca: parlerò nella tribolazione del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza della mia anima" ( Gb 7,11 ). Ecco qui esposta con poche parole una validissima forma di confessione. Non tiene chiusa la sua bocca colui che confessa il peccato e le sue circostanze con franchezza e chiarezza, chi accusa se stesso con cuore contrito e spirito addolorato, ìmputa tutto a se stesso e si condanna; parla con l’amarezza nell’anima colui che non fa alcuna riserva ma che sempre e di nuovo rinnova il suo dolore; mette tutto se stesso nelle mani del confessore e dice con Saulo: "Signore, Signore, che cosa vuoi che io faccia?" ( At 9,6 ). Quindi giustamente il racconto prosegue: "Da Sichem arrivò a Dotan", che s’interpreta "venir meno". Il penitente infatti deve rinunciare a se stesso e obbedire di buon grado gli ordini del suo confessore, del suo superiore, dicendo con Samuele: "Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta" ( 1 Sam 3,10 ). E così hai ormai chiaro ciò che il penitente debba vedere, dire e ascoltare. Ma siccome ciò che si espone, si conosce ancor meglio considerando il suo contrario, vediamo ora quali cose si oppongano a quelle tre di cui abbiamo parlato. 5. "Gesù stava scacciando un demonio …". Questo demonio è quella fiera pessima ( crudelissima ), della quale si parla nel racconto di questa domenica: "Una fiera crudele – disse Giacobbe – ha sbranato Giuseppe; una fiera lo ha divorato" ( Gen 37,33 ). Vediamo in che modo questa fiera crudele abbia divorato Giuseppe. Dicevamo sopra che il demonio aveva cagionato nell’indemoniato tre mali: gli aveva spento la vista, l’aveva privato della parola e gli aveva chiuso l’udito. Così al peccatore, che vive in peccato mortale, il diavolo toglie la vista perché non riconosca i suoi peccati; lo priva della parola, perché non li dichiari nella confessione; gli ottura gli orecchi perché non senta la voce di chi vuole saggiamente consigliarlo ( cf. Sal 58,6 ). Su queste tre cose concorda il racconto della Genesi, che così continua: "Appena dunque Giuseppe giunse presso i fratelli, essi lo spogliarono della sua variopinta tunica talare, lo calarono in una vecchia cisterna, che non aveva acqua. Poi lo estrassero dalla cisterna e lo vendettero a dei mercanti ismaeliti, i quali lo condussero in Egitto" ( Gen 37,23-24.28 ). Considera queste tre azioni: lo spogliarono della sua tunica, lo calarono in una cisterna, lo vendettero. Nella tunica talare e variopinta è indicata l’ammissione del [ proprio ] peccato. Infatti nel vangelo di Giovanni, verso la fine, è detto che Pietro "indossò la tunica, poiché era nudo, e si gettò in mare" ( Gv 21,7 ). In verità Pietro restò nudo, quando alle parole della serva rinnegò Cristo ( cf. Gv 18,17 ), ma poi indossò la tunica quando riconobbe il peccato della sua triplice negazione. E allora fu veramente Pietro, cioè "che riconosce", e così si gettò nel mare, vale a dire si immerse nell’amarezza delle lacrime. Dice Luca: "Pietro si ricordò della parola detta da Gesù: Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte. E uscito fuori, pianse amaramente" ( Lc 22,61-62 ). Così il peccatore deve indossare la tunica, riconoscere cioè la sua iniquità e gettarsi nel mare, vale a dire nell’amarezza della contrizione. Invece oggi ci sono molti che indossano sì la tunica, riconoscono anche la loro colpa, ma poi non vogliono gettarsi nel mare, perché si rifiutano di fare penitenza dei loro peccati. E osserva inoltre che questa tunica è detta "talare" e "variopinta". La tunica della nostra anima, che è la conoscenza del peccato, deve essere talare, cioè "finale". Dovendo noi infatti per tutta la nostra vita riconoscere i nostri peccati, e dopo averli riconosciuti piangerli, alla fine della nostra vita dobbiamo riconoscerli ancora di più, con maggiore diligenza e maggiore esecrazione, e confessarli tutti, sia in generale che singolarmente. Allora [ alla fine della vita ] dobbiamo fare come il cigno, che quando muore, muore cantando; e dicono che questo avviene a motivo di una certa piuma che ha nella gola. Tuttavia quel canto gli provoca grande dolore. Il cigno bianco è il peccatore convertito, reso più bianco della neve. Questi nel momento della sua morte deve cantare devotamente, cioè ripensare ai suoi peccati nell’amarezza della sua anima. La piuma nella gola del cigno raffigura la cognizione del peccato e la confessione di esso nella bocca del giusto, dalla quale deve uscire un canto di dolore, che in quel punto gli sarà di grande giovamento. E così questa tunica talare sarà anche variopinta, cioè ornata con varietà di virtù; tutte le lodi infatti si cantano alla fine. Ma ahimè, ahimè, i demoni spogliano Giuseppe di questa preziosissima tunica, quando accecano gli occhi di quest’anima sventurata e le tolgono la conoscenza della sua iniquità, affinché non veda e non conosca la vergogna e l’infamia della sua nudità. Continua la Scrittura: "Lo calarono in una vecchia cisterna, che non aveva acqua". La vecchia cisterna senz’acqua è la coscienza del peccatore, invecchiata nei giorni del male ( cf. Dn 13,52 ), nella quale non c’è l’acqua della confessione, né la lacrima della compunzione. Il peccatore viene rinchiuso dai demoni nella cisterna dell’ostinazione, perché non possa uscire alla luce della confessione. Si legge infatti nel quarto libro dei Re che Nabucodonosor cavò gli occhi a Sedecia, lo legò con catene e lo condusse a Babilonia ( cf. 2 Re 25,7 ). Così il diavolo, prima strappa al peccatore gli occhi, poi lo lega con le catene delle cattive abitudini e quindi lo chiude nel carcere dell’ostinazione, affinché non possa uscire alla luce della confessione. "Lo vendettero a dei mercanti ismaeliti, i quali lo condussero in Egitto". Il peccatore viene venduto e condotto in Egitto quando si sottrae alla predicazione della chiesa, non accetta i consigli dei buoni e chiude gli orecchi per non sentire la voce di colui che lo richiama alla sapienza. In verità quest’uomo è un indemoniato, posseduto dal diavolo, perché non vede la sua colpa e la sua iniquità, non parla in confessione e non ascolta la dottrina di vita eterna. Ma che cosa ha fatto Gesù benigno e misericordioso? 6. Ce lo dice Luca: "Gesù stava scacciando un demonio …". Gesù scaccia il demonio dai peccatori, quando imprime nel loro cuore il sigillo del suo amore e il segno della sua passione. Dice infatti il beato Paolo nell’epistola di oggi: "Siate imitatori di Dio, come figli carissimi; camminate nel suo amore, come Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi in sacrificio di soave odore" ( Ef 5,1-2 ). In questa espressione ci sono due cose degne di nota: l’amore di Cristo, e la sua passione; queste due cose scacciano i demoni. Per l’immenso amore con il quale ci ha amati, Gesù ha dato se stesso per noi, offrendosi in sacrificio di soave profumo. Il profumo di questo sacrificio vespertino, cioè della passione di Gesù Cristo, scaccia tutti i demoni. Leggiamo infatti nel libro di Tobia, che questi "estrasse dalla sua bisaccia una parte del fiele ( del pesce ) e la pose sopra dei carboni ardenti. Allora l’angelo Raffaele catturò il demonio e lo confinò nel deserto dell’alto Egitto" ( Tb 8,2-3 ). Nel fegato, con il quale amiamo ( sic ), è indicato l’amore di Cristo, e nei carboni ardenti la sua passione. Mettiamo dunque, anche se non tutto, almeno una parte del fegato sopra i carboni ardenti; pensiamo come il Figlio di Dio, nostro amore e, per così dire, nostro fegato, solo per amore fu bruciato per noi sui carboni ardenti, cioè sulla croce e sugli acutissimi chiodi: fu bruciato in sacrificio di soave profumo. Credetemi, fratelli, questo soave profumo, questo ricordo della passione del Signore, scaccia qualsiasi demonio. E se faremo questo, allora Raffaele, che si interpreta "medicina", vale a dire lo stesso Cristo Gesù che è nostra medicina e angelo del Sommo Consiglio, catturerà il diavolo e lo relegherà nel deserto dell’alto Egitto, affinché non possa più farci del male. Giustamente quindi è detto: "Gesù stava scacciando un demonio, e dopo che l’ebbe scacciato, l’indemoniato ci vide, parlò e ci sentì, e le folle rimasero meravigliate". Non fa meraviglia che cessando la causa, cessi anche l’effetto. Scacciato il demonio del peccato mortale dal cuore del peccatore, immediatamente questi incomincia a vedere, cioè a conoscere, a parlare, cioè a confessare ( il suo peccato ), e a sentire, cioè a obbedire. Per questo l’Apostolo, verso la fine dell’epistola di oggi, dice: "Una volta eravate tenebre, adesso invece siete luce nel Signore: camminate da figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità" ( Ef 5,8-9 ). Fa’ attenzione a queste tre parole: "In ogni bontà", ecco il riconoscimento del peccato, senza del quale nessuno può giungere alla bontà, come diceva il vero penitente Davide: Riconosco la mia iniquità ( cf. Sal 51,5 ). "In ogni giustizia", ecco la confessione del peccato; quale giustizia più grande che accusare se stesso? "Il giusto – dice Salomone – è il primo accusatore di se stesso" ( Pr 18,17 ). "In ogni verità": ecco l’obbedienza, che consiste nell’obbedire volontariamente ai precetti della verità, cioè ai precetti di Gesù Cristo e del suo rappresentante. Rendiamo quindi grazie a Gesù Cristo, figlio di Dio, che scacciò il demonio, illuminò il cieco, fece parlare il muto e udire il sordo. E tutti insieme, con la devozione della mente, scongiuriamo Cristo e umilmente domandiamo che scacci il peccato mortale dalla coscienza di ogni cristiano e vi infonda la grazia di Dio, affinché riconosca la sua iniquità, la manifesti nella confessione e obbedisca fedelmente ai consigli e ai comandi del suo confessore. Si degni di concedere tutto questo a noi e a voi, lo stesso Gesù Cristo, al quale è l’onore, la maestà, il dominio, la lode e la gloria per i secoli eterni. E ogni creatura dica: Amen! II. la carcerazione di giuseppe, ossia l’uomo reso schiavo dal diavolo 7. "Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia alla sua casa, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa tutte le armi nelle quali confidava, e ne distribuisce il bottino" ( Lc 11,21-22 ). Verso la fine del libro della Genesi, nella benedizione di Giuseppe è detto: "Il suo arco si appoggiò sul Forte" ( Dio ) ( Gen 49,24 ). Giuseppe s’interpreta "accrescimento", e raffigura il predicatore, che deve ogni giorno far crescere la chiesa con la sua predicazione, per poter dire con Giuseppe: "Dio mi ha fatto crescere nella terra della mia povertà" ( Gen 41,52 ). Dio fa crescere il predicatore nella terra della povertà, cioè nell’esilio di questo misero pellegrinaggio ( terreno ), quando per suo mezzo, e a suo merito, accresce il numero dei fedeli. Il suo arco è la predicazione; e come nell’arco ci sono due elementi, il legno e la corda, così nella predicazione ci deve essere il legno dell’Antico Testamento e la corda del Nuovo. Di questo arco dice Giobbe: "Il mio arco si rinforzerà nella mia mano" ( Gb 29,20 ). L’arco si rinforza nella mano, quando la predicazione è avvalorata dalle opere. Dice il beato Bernardo: "Non è in grado di predicare Dio con frutto, colui che non premette la testimonianza delle opere al suono della lingua". E questo arco deve appoggiarsi al Forte, e non al debole, non sul predicatore ma su Cristo, per attribuire tutto a lui, senza del quale non può fare nulla di buono. Solo Cristo fu il vero forte che legò il forte diavolo. Per questo è detto nel vangelo di oggi: "Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo", ecc. E di questa seconda parte del vangelo esporremo prima il senso allegorico e quindi il senso morale. 8. Il forte armato è il diavolo. Di lui e della sua armatura è detto nel primo libro dei Re: "Uscì dagli accampamenti dei Filistei un uomo spurio di nome Golìa, di Gat: era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a squame; portava alle gambe schinieri di bronzo e uno scudo di bronzo gli copriva le spalle, e l’asta della sua lancia era come il subbio dei tessitori" ( 1 Sam 17,4-7 ). Golìa s’interpreta "trasmigratore" o "che si trasforma", e raffigura il diavolo che passò dalla virtù ai vizi, dalla beatitudine eterna all’eterna pena, e che ogni giorno si trasforma in angelo della luce ( cf. 2 Cor 11,14 ) per ingannare l’uomo. E proviene da Gat, nome che significa "torchio": infatti il diavolo torchia gli uomini sotto il peso delle tribolazioni, come l’uva viene pressata nel torchio, affinché i buoni, come il vino, vengano riposti nelle cantine dell’eterna vita, e invece i cattivi, come le vinacce, vengano gettati nell’immondezzaio dell’eterna dannazione. Costui esce dagli accampamenti dei Filistei, nome che s’interpreta "cadenti per il bere"; i Filistei sono figura dei peccatori che, ubriachi dell’amore del mondo, dalla grazia di Dio cadono nella colpa e quindi dalla colpa rovinano nella geenna. Nei loro accampamenti dimora il diavolo: infatti l’abitazione del diavolo è il cuore dell’uomo iniquo. Per questo la Glossa, commentando il detto di Abacuc "a motivo dell’iniquità ho visto sconvolte le tende dell’Etiopia" ( Ab 3,7 ), dice: Quelli che si affaticano per conquistare ricchezze e onori, diventano abitazione del diavolo, essi che sarebbero dovuti essere il tempio di Dio. Golìa era spurio. È detto spurio colui che è in parte nobile, e in parte spregevole. Così il diavolo è stato nobile nella sua creazione, spregevole invece nei suoi vizi. Quest’uomo si dice fosse alto sei cubiti e un palmo. Si legge in Ezechiele che quell’uomo, che al vedersi era splendente come il bronzo, teneva in mano una canna della misura di sei cubiti e un palmo, e con essa misurò il tempio ( cf. Ez 40,5-6 ). Ecco perciò che, quale era la misura del tempio, tale era anche la misura di Golia. La misura del tempio raffigura i diversi gradi che ci sono nella chiesa, e il diavolo, contro di questi, ha la sua misura. Nei sei cubiti si intendono le opere di misericordia, ossia le opere della vita attiva; nel palmo si intende la vita contemplativa, della quale in questo mondo è possibile solo un assaggio, e quindi giustamente è raffigurata nel palmo. E il diavolo si avventa sia contro gli attivi che contro i contemplativi. "E un elmo di bronzo era sul suo capo". Osserva che tutte le armi di Golia erano di bronzo. Così anche le armi del diavolo. Le armi del diavolo sono coloro che difendono il diavolo, affinché non venga sconfitto ed eliminato nei cattivi. E sono di bronzo, perché quei tali sono potenti nel prendere le sue parti. Infatti è detto in Giobbe: "Le sue ossa sono come canne ( tubi ) di bronzo" ( Gb 40,13 ). Le ossa sostengono la carne. Le ossa del diavolo sono coloro che sostengono gli altri nel male; esse sono come le canne di bronzo, che hanno tanto suono ma nessun sentimento, come le canne. Dicono tante parole, ma non fanno alcuna opera buona; e come il bronzo quando viene percosso risuona, così costoro sotto i colpi della riprensione rispondono imprecando. "Era rivestito di una corazza a squame", così che una piastra era agganciata all’altra. La corazza del diavolo sono i cattivi, a lui inseparabilmente legati. Dice Giobbe: "Il suo corpo è fatto come di scudi saldati insieme, costruito con piastre strettamente agganciate tra loro. Una è congiunta all’altra e tra di esse non c’è la minima fessura; una aderisce all’altra e, serrate come sono, mai saranno separate" ( Gb 41,6-8 ). Le squame del diavolo, vale a dire i suoi difensori, si stringono tra loro, perché uno difende l’altro. "C’è grande solidarietà tra gli impudichi" ( Giovenale ). Sono infatti così strettamente uniti tra loro, che tra di essi non c’è il minimo spiraglio per il quale possa passare la grazia divina o la parola della predicazione del Signore. E come sono complici nel male quaggiù, così saranno tutti insieme associati nell’eterno supplizio. "E aveva schinieri di bronzo alle gambe". Gli schinieri raffigurano le scuse della lussuria. Il lussurioso infatti protegge quasi con degli schinieri i suoi femori quando, a maggiore aggravio della sua condanna, tenta di giustificare il peccato di lussuria. Dice Giobbe: "Le ombre proteggono la sua ombra" ( Gb 40,17 ). Le ombre, cioè i lussuriosi che sono oscuri e neri, proteggono l’ombra del diavolo, scusano cioè la loro lussuria, sotto la quale il diavolo riposa e dorme come sotto un’ombra. "E uno scudo di bronzo proteggeva le sue spalle". Lo scudo del diavolo raffigura coloro che respingono da sé stessi le frecce della predicazione; di essi dice il Signore, per bocca di Ezechiele: "Figlio dell’uomo, io ti mando dai figli d’Israele, popolo di ribelli che si è allontanato da me. Tu riferirai loro le mie parole, nella speranza che le ascoltino e desistano dal male, perché mi hanno provocato all’ira" ( Ez 2,3-7 ). Ma "non vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me" ( Ez 3,7 ). 9. "L’asta della sua lancia era come il subbio dei tessitori". Per mezzo dell'asta si tesse la tela. L’asta raffigura la tentazione al male, per mezzo della quale il diavolo tesse la tela dell’iniquità. Il diavolo infatti tesse la tela come il ragno. Dice la Storia Naturale: Il ragno per prima cosa tira i fili della trama e li fissa ai confini; quindi procede alla tessitura della tela dal centro verso l’esterno, riempiendo tutto lo spazio e prepara il posto adatto alla caccia. E il ragno si mette in agguato al centro della tela, come uno che fa la posta a qualche animaletto. E se cade nella tela qualche mosca o altro insetto simile, subito il ragno si muove, esce dal suo posto di guardia e incomincia a legarla e avvilupparla con i suoi fili fino a che riduce la preda all’immobilità. Quindi la porta nel suo buco, dove deposita ciò che cattura. E quando ha fame succhia i suoi umori: e la sua vita, il suo nutrimento consistono solo in quegli umori. Così fa anche il diavolo: quando vuole catturare un uomo, tira dapprima certi fili di pensieri capziosi e li fissa quasi nei confini, cioè nei sensi del corpo, per mezzo dei quali può astutamente capire a quale vizio quell’uomo sia maggiormente propenso. Quindi incomincia a tessere nel centro, cioè nel cuore, e lì dispone la tela adatta, cioè la tentazione più forte; e nel cuore prepara il posto adatto alla caccia. Ed egli stesso si stabilisce nel centro, come uno che fa la posta a qualche animale. Il diavolo infatti non trova in tutto il corpo dell’uomo nessun membro più adatto del cuore, per dare la caccia, per osservare, per ingannare, perché dal cuore dell’uomo procede la vita. E se vede cadere, col consenso del cuore, nella tela della sua suggestione qualche mosca, vale a dire uno dedito ai piaceri della carne, che in verità deve essere chiamato mosca, immediatamente incomincia a legarlo con altre tentazioni e ad avvolgerlo di tenebre, finché lo porta all’indebolimento e all’infiacchimento della mente; e quindi porta la mosca, cioè il peccatore, nella tana dove depone ciò che ha catturato. La tana propria del diavolo è il compimento dell’opera cattiva: qui ripone ciò che ha catturato con la tela della sua capziosa suggestione, e così succhia il suo umore, cioè la compunzione dell’anima; infatti, fino a che l’anima ha la compunzione, il diavolo non è in grado di nuocerle. Ben a ragione quindi è detto: "L’asta della sua lancia era come il subbio del tessitore". 10. Ora sai di quali armi dispone il diavolo, del quale è detto: "Quando un forte, armato, custodisce la sua casa, è al sicuro tutto ciò che possiede". Prima della venuta di Cristo tutto il mondo era casa del diavolo, e questo non a motivo della creazione, ma per colpa della trasgressione del progenitore. Per la disobbedienza di Adamo, il diavolo, con il permesso di Dio, ebbe potere anche sulla sua posterità. E così teneva tutto al sicuro, perché né Mosè, né Elia o Geremia, né alcun altro dei padri dell’Antico Testamento furono in grado di cacciarlo dalla casa. Venne finalmente "dal trono regale", cioè dal seno del Padre, "il guerriero implacabile" – come è detto nel libro della Sapienza –, "e si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio" ( Sap 18,15 ), che il diavolo aveva sterminato; si lanciò unendo i due piedi della divinità e dell’umanità, "e così liberò – come dice l’Apostolo scrivendo agli Ebrei – coloro che per tutta la vita erano sottoposti alla schiavitù e alla paura della morte" ( Eb 2,15 ). Infatti continua: "Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via tutte le armi nelle quali confidava e ne distribuisce il bottino". Il più forte è Cristo, delle cui armi dice Isaia: "Egli è rivestito di giustizia come di una corazza, e sul suo capo è posto l’elmo della salvezza; ha indossato le vesti della vendetta e si è avvolto di zelo come di un manto" ( Is 59,17 ). La corazza di Gesù Cristo fu la giustizia, per la quale a pieno diritto scacciò il diavolo da quella casa che egli teneva in tutta sicurezza; e poiché il diavolo allungò la mano su Cristo, sul quale non aveva alcun potere, giustamente fu costretto a perdere Adamo e i suoi posteri, sui quali un certo potere era convinto di averlo. A ragione incorre nella perdita di un privilegio, chi del privilegio concessogli abusa. "E sul suo capo l’elmo della salvezza". Il capo è la divinità. "Il capo di Gesù Cristo è Dio", dice l’Apostolo ( 1 Cor 11,3 ). L’elmo è l’umanità. Quindi il capo nascosto sotto l’elmo è la divinità nascosta sotto l’umanità, la quale operò la salvezza nella nostra terra ( cf. Sal 74,12 ). "E ha anche indossato le vesti della vendetta e si è avvolto di zelo come di un manto". Proprio per questo Gesù Cristo ha indossato le vesti della nostra umanità, per fare vendetta del nemico, del diavolo, e liberare dalle sue mani la propria sposa, cioè la nostra anima. Quindi è detto giustamente: "Se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via tutte le armi". Le armi del diavolo erano coloro dei quali abbiamo parlato più sopra. E tutti Cristo glieli ha strappati, quando da figli dell’ira li ha resi figli della grazia. Come Davide sconfisse Golia con la fionda e con la pietra ( cf. 1 Sam 17,49-50 ), così Cristo sconfisse il diavolo con la fionda della sua umanità e la pietra della sua passione. Dice Davide: "Afferra le armi e lo scudo e sorgi in mio aiuto" ( Sal 35,2 ). Afferra le armi, o Figlio di Dio, cioè le umane membra, e lo scudo, cioè la croce, affinché così armato tu possa sconfiggere il diavolo, che teneva legato nel carcere il genere umano. 11. Il nostro Giuseppe è Cristo, il quale come in un carcere, legato mani e piedi, fu confitto in croce con i chiodi, tra due ladroni. L’antico Giuseppe, figlio di Giacobbe, non volle acconsentire al nefando adulterio della meretrice, ma abbandonato nelle sue mani il mantello per il quale essa voleva trattenerlo, fuggì, ed essa quindi lo accusò presso il marito Potifar di aver tentato di oltraggiarla, e Potifar, infuriato, lo gettò in carcere dove erano in catene anche il coppiere e il pasticciere del re d’Egitto. A costoro, secondo un’esatta interpretazione dei loro sogni, fece la previsione certa e sicura di ciò che sarebbe loro accaduto: al coppiere cioè che dal carcere sarebbe ritornato nel palazzo del re, e al panettiere che, uscito dal carcere, sarebbe stato impiccato ( cf. Gen 39,7-20; Gen 40,1-22 ). La stessa cosa fece Gesù Cristo, figlio di Dio, perché non volle acconsentire alla meretrice, cioè alla sinagoga dei giudei, la quale voleva tenerlo legato per il mantello delle osservanze della legge e delle tradizioni degli anziani, i quali se ne ammantavano come di un paludamento, per apparire giusti dinanzi agli uomini. Ma lui, lasciato il mantello, abbandonato cioè il rito dell’osservanza legale, fuggì perché era il padrone della legge, e non il servo di essa. La sinagoga, ritenendosi oltraggiata, lo accusò presso Potifar. Potifar s’interpreta "bocca che fa a pezzi", ed è figura di Pilato che rivolse la sua bocca a "fare a pezzi", cioè a flagellare Gesù: Ve lo consegnerò – disse – dopo averlo flagellato  cf. Mt 27,26; Lc 23,16 ). La meretrice sinagoga accusò presso Pilato il nostro Giuseppe dicendo: "Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo e impediva di pagare i tributi a Cesare. Solleva il popolo insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui" ( Lc 23,2.5 ). Quindi Pilato, d’accordo con le parole della meretrice, stabilì che fosse accolta la sua richiesta e consegnò Gesù perché fosse crocifisso ( cf. Lc 23,24 ). E Gesù fu legato, confitto in croce con i chiodi tra due ladroni, come Giuseppe tra il coppiere e il panettiere. Anzi, a dire il vero, il buon ladrone, oltre a essere un santo confessore perché, mentre Pietro rinnegava Cristo, egli lo riconobbe, fu un vero coppiere: infatti fu come inebriato dal vino della compunzione e porse a Gesù il calice d’oro della fede, della speranza e della carità, dicendo: "Ricordati di me, Signore, quando arriverai nel tuo regno" ( Lc 23,42 ). Per questo meritò di sentirsi rivolgere quelle parole: "In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso" ( Lc 23,43 ). Invece il ladrone cattivo, che bestemmiò Cristo dicendo: "Se sei il Cristo, salva te stesso e noi" ( Lc 23,39 ), fu il panettiere che, secondo la sua professione, impastò il pane, non dico con la farina, ma con la crusca della cattiva volontà e con l’acqua della perfidia, e lo cosse nel forno della sua disperazione: e così dalla croce, come da un carcere, meritò di giungere al patibolo dell’eterna dannazione. 12. "E ne distribuisce il bottino". Il bottino del diavolo erano le anime dei giusti che, a causa della disobbedienza del progenitore, erano trattenute nelle tenebre. Cristo distribuì questo bottino quando spogliò l’inferno, e ad ogni anima accordò la gloria del regno celeste. O anche, il bottino furono gli apostoli e gli altri discepoli di Gesù Cristo, dei quali il Padre dice al Figlio: "Affrèttati, prendi il bottino, fa’ presto a predare" ( Is 8,3 ). O Figlio, affretta l’incarnazione, conquista il bottino con la predicazione, fa’ presto a depredare il diavolo con la tua passione. E questo bottino Cristo lo distribuì, quando diede alla chiesa alcuni come apostoli, altri come evangelisti e altri come dottori e maestri ( cf. Ef 4,11 ). Perciò il Profeta conclude: "Il re degli eserciti sarà soggetto al Dilettissimo, e alla bellezza della casa concederà di dividere il bottino" ( Sal 68,13 ). O fedeli del Diletto, cioè di Gesù Cristo, il "re", cioè il Padre, che è re delle potenze celesti, incaricherà il diletto Figlio suo – del quale ha detto "Questo è il mio Figlio diletto" ( Lc 9,35 ) - di distribuire il bottino, cioè gli apostoli, gli evangelisti e i dottori, alla bellezza della casa, cioè della chiesa, affinché la rendano bella. E della bellezza della sua chiesa renda partecipi anche noi colui che sconfisse il diavolo e ne strappò le armi, Gesù Cristo, che è benedetto, che è Dio sopra tutte le cose, nei secoli dei secoli. Amen. III. lo spirito di superbia 13. "Quando un forte, armato, custodisce la sua casa". Il forte armato è lo spirito di superbia, le cui armi sono le altissime corna con le quali fende l’aria e assale tutto il mondo. Dice Daniele: "Vidi un ariete che agitava le corna contro occidente, contro settentrione e contro mezzogiorno, e nessuna bestia gli poteva resistere e nessuno era in grado di liberarsi dal suo potere; agì secondo la sua volontà e fu esaltato" ( Dn 8,4 ). Questo ariete raffigura lo spirito di superbia che con le corna dell’arroganza e della protervia si avventa a occidente, a settentrione e a mezzogiorno. Per occidente si intendono i poveri e i minori, nei quali manca il calore della forza e del potere; per settentrione si intendono gli uguali: "Porrò la mia sede – dice il diavolo – a settentrione, e sarò simile, cioè uguale, all’Altissimo" ( Is 14,13-14 ); per mezzogiorno si intendono i superiori, nei quali arde il calore della dignità e del potere. L’ariete cornuto, vale a dire lo spirito della cornuta superbia, si avventa a occidente, opprime cioè i poveri e i minori; si avventa a settentrione, perché disprezza gli uguali; si avventa a mezzogiorno perché schernisce e deride i superiori. "E nessuno poteva resistere alla bestia, né venir liberato dal suo potere". O cornuta superbia, chi mai potrà essere liberato dal tuo potere, se hai spinto a sì alto vertice di ambizione perfino Lucifero, sigillo di somiglianza ( modello di perfezione ), coperto di ogni specie di pietra preziosa? ( cf. Ez 28,12.13 ). Sei di provenienza celeste, e per questo fosti solita insinuarti nelle menti dei celesti, nascondendoti sotto la cenere e il cilicio. Il profeta Davide supplicava di essere salvato dalle corna di questa bestia, quando diceva: "Salvami dalla bocca del leone, e dalle corna degli unicorni salva la mia debolezza" ( Sal 22,22 ). Nella superbia dell’unicorno è indicato il singolo, perché il superbo vuole primeggiare da solo; infatti "nessun potente tollera un socio" ( Lucano ). E Davide detesta la superbia, dicendo: "Signore, mio Dio, se ho fatto questo! …" ( Sal 7,4 ): nota che per indicare quanto detestava la superbia, non volle neppure chiamarla con il suo nome. Dio detesta la superbia più di tutti i peccati. Dice Pietro: "Dio resiste ai superbi, mentre dà la sua grazia agli umili" ( 1 Pt 5,5 ). E dell’unicorno è detto in Giobbe: "Forse che il rinoceronte – ossia il monòceros o unicorno – vorrà servirti o starsene nella tua mangiatoia?" ( Gb 39,9 ). E vuole dire: No, di certo! Perché il superbo non può prendere in considerazione la mangiatoia del Signore, cioè il fatto che il Signore sia stato adagiato, per nostro amore, in una mangiatoia. 14. C’è da osservare che alcuni animali hanno le corna ricurve all’indietro, e ciò raffigura coloro, la cui superbia viene distrutta dalla loro lussuria, così che, per quanto arroganti nel loro pensiero, vengono avviliti dalla lussuria della carne. Dice Osea: "L’arroganza d’Israele testimonierà contro di lui" ( Os 5,5 ). Avviene infatti che chi non riconosce la sua occulta superbia, se ne vergogna poi quando la scopre a causa del vizio della lussuria ( Gregorio ). Ci sono poi altri animali che hanno le corna rivolte in avanti, come gli unicorni, e questo raffigura la superbia degli ipocriti, i quali mascherano la loro superbia sotto l’apparenza della religione; di essi dice l’Ecclesiastico: "C’è chi falsamente si umilia, ma il suo interno è pieno d’inganno" ( Sir 19,23 ). E ancora il beato Gregorio: "Preziosa cosa è l’umiltà, con la quale perfino la superbia vuole mascherarsi, per non essere disprezzata". Inoltre ci sono animali che hanno le corna ritorte in se stesse, come la mucca selvatica, e questo raffigura la superbia di alcuni, che si distrugge in se stessa. Dice Isaia: "Il Signore degli eserciti spezzerà nel terrore il piccolo vaso di creta, gli alti di statura saranno troncati e i grandi saranno umiliati" ( Is 10,33 ). Il piccolo vaso di creta è la mente del peccatore superbo, fatta di creta e fragile, piena dell’acqua dell’alterigia; e il Signore lo spezza, quando incute nella mente del superbo stesso il terrore dell’ultimo giudizio. E in quel giudizio gli alti di statura, quelli cioè che ora sembrano vivere senza preoccuparsi di quella sentenza che suona: Andate, maledetti, nel fuoco eterno! ( cf. Mt 25,41 ), saranno stroncati. E i grandi che ora incedono con passo solenne e a testa alta, ammiccando con gli occhi ( cf. Is 3,16 ), saranno umiliati sino all’inferno e al lago profondo ( cf. Is 14,15 ), nel quale però non c’è acqua che possa dar loro refrigerio. Infine ci sono animali che hanno le corna diritte verso l’alto, come il cervo, e questo raffigura coloro la cui superbia è originata solo dalla religione. Questa è la superbia più funesta. Di essa Isaia, rivolto ai timorati di Dio, ai religiosi, i quali più di tutti hanno il dovere di presentarsi come modelli di umiltà, parlando con l’immagine della visione della valle, dice: "Come mai anche tu sei salito sui tetti?" ( Is 22,1 ). Quasi volesse dire: Si può anche comprendere che i secolari desiderino salire in alto, ma voi religiosi, che siete tanto illuminati, come vi è venuto in mente di andare in cerca di onori e dignità? 15. Ma proseguiamo. "Se un forte, armato, custodisce la sua casa". La casa della superbia cornuta è il cuore stesso del superbo, nel quale la superbia ha scelto la sua dimora particolare. Come dal cuore partono le vene e nel cuore risiede l’energia prima che crea il sangue ( Aristotele ), così dalla superbia del cuore procede ogni male. Infatti "il principio, l’origine di ogni peccato è la superbia" ( Sir 10,15 ). Essa presidia l’ingresso del cuore, affinché nessuno dei suoi avversari vi entri per vie traverse e turbi la sua sicurezza, della quale dice il Signore: "Se tu ora avessi compreso ciò che serve alla tua pace" ( Lc 19,42 ); e il Profeta: "Ho invidiato gli iniqui, vedendo la sicurezza dei peccatori" ( Sal 73,3 ). "Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince", ecc. Più forte è l’umiltà, della cui fortezza Davide dice a Saul: "Io, tuo servo, ho abbattuto il leone e l’orso" ( 1 Sam 17,36 ). Davide s’interpreta "di mano forte", e raffigura l’umile che quanto più si umilia tanto più diviene forte. L’umile infatti è come il verme, detto "intestino della terra", che prima si accorcia per poi allungarsi maggiormente; l’umile si accorcia e si fa piccolo per poi estendersi con più energia per raggiungere i beni celesti. Dice l’Ecclesiastico: "Dio lo sollevò dalla sua umiliazione e gli fece alzare la testa" dalla tribolazione; "e molti ne restarono meravigliati" ( Sir 11,13 ). Questo Davide umile e forte dice: "Io, tuo servo!". O fulgida perla, o nardo profumato, o umiltà, cinnamomo olezzante! "Io, tuo servo". L’umile si ritiene servo, si dice schiavo, si mette sotto i piedi di tutti, si abbassa, si valuta molto meno di quanto vale in realtà. Per questo dice Gregorio: "È proprio degli eletti valutare se stessi meno di quanto valgono". Quest’umile servo abbatte il leone della superbia e l’orso della lussuria. E osserva che afferma di aver abbattuto prima il leone e poi l’orso, perché nessuno può sopprimere in se stesso la lussuria se prima non ha faticato a scacciare dall’ingresso del suo cuore lo spirito di superbia. È detto infatti: "Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa tutte le armi nelle quali confidava". Le armi, o i "vasi" – come dice Matteo ( Mt 12,29 ) –, dello spirito di superbia sono i cinque sensi del corpo con i quali, adoperandoli come armi, la superbia assale gli altri, e nei quali, come in vasi, porta il veleno dell’alterigia e lo offre agli altri. Ma ecco che arriva l’umiltà da parte di Gesù Cristo, che è Dio benedetto sopra tutte le cose ( cf. Rm 9,5 ), e che dice: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ). Egli entra nella casa del forte, cioè nel cuore, in cui è insediata la superbia, la abbatte e la scaccia fuori; l’antidoto dell’umiltà espelle il veleno dell’alterigia, e sconfittala, l’umiltà le strappa tutte le armi nelle quali confidava, affinché per l’avvenire più nulla di arrogante, di altero o di vizioso appaia nei sensi del corpo, ma offrano ovunque sublimi esempi di umiltà. 16. "Questo è il cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo" ( Sal 77,11 ), del quale dice Isaia: "In quel giorno ci saranno in Egitto cinque città che parleranno la lingua di Canaan: la prima si chiamerà città del sole" ( Is 19,18 ). Egitto s’interpreta "tenebre" o "tristezza", e raffigura il corpo dell’uomo che sta in una terra di tenebre e di tristezza: di tenebre, perché è oscurata dalla caligine dell’ignoranza e della malizia; di tristezza, perché è piena di dolore e di afflizione. In questa terra d’Egitto ci sono cinque città, cioè i cinque sensi del corpo. i queste cinque città, la prima si chiama città del sole. Città del sole sono gli occhi. Come infatti il sole illumina tutto il mondo, così gli occhi illuminano tutto il corpo ( cf. Mt 6,22; Lc 11,34 ). Quindi in quel giorno, quando arriverà il più forte, cioè l’umiltà, ed entrerà nel cuore dell’uomo e sconfiggerà lo spirito di superbia, ed eliminerà la cecità della mente, allora cinque città nella terra d’Egitto, che prima parlavano la lingua egiziana, cioè la lingua della concupiscenza della carne, parleranno la lingua di Canaan, che s’interpreta "cambiata", poiché dai vizi passeranno alle virtù e dalla superbia all’umiltà. Allora negli occhi appariranno l’umiltà e la semplicità, nella bocca risuoneranno la verità e la benignità, dagli orecchi saranno rimosse la detrazione e l’adulazione, nelle mani ci saranno la purezza e la pietà, nei piedi l’esperienza e la serietà. Fratelli carissimi, preghiamo dunque Gesù Cristo, che con la sua umiltà ha distrutto la superbia del diavolo, perché conceda anche a noi di spezzare con l’umiltà del cuore le corna della superbia e dell’alterigia, e di mostrare sempre nei sensi del nostro corpo l’esempio dell’umiltà, per meritare così di giungere fino alla sua gloria. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. le sette vacche, le sette spighe e i sette anni di fame 17. "Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: ritornerò nella mia casa, donde sono uscito. Tornato, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrano e vi alloggiano, e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della precedente" ( Lc 11,24-25 ). Dice il profeta Gioele: "Come un giardino di delizie è la terra davanti a lui, e dietro di lui la desolazione del deserto" ( Gl 2,3 ). La terra, che deriva il suo nome dal verbo latino tero ( pestare, tritare ), raffigura la mente dell’uomo, pestata, devastata per i peccati. Questa, finché si trova davanti a Dio, è come un giardino di delizie. Da dove mai potrà venire alla mente dell’uomo sì grande delizia, sì grande gaudio, se non dall’essere davanti a colui, con il quale e nel quale tutto ciò che è, è veramente, senza del quale tutto ciò che sembra essere, è nulla, e tutto ciò che abbonda è miseria? La mente dell’uomo è davanti a lui quando si convince che nulla di buono può avere da se stessa, in se stessa e per se stessa, ma attribuisce tutto a lui, che è tutto il bene, il sommo bene, e dal quale, come dal centro, tutte le linee della grazia si dipartono, protendendosi direttamente fino all’estrema circonferenza. Questa terra, finché è davanti a lui, è veramente un giardino di delizie, perché in essa c’è la rosa della carità, la viola dell’umiltà, il giglio della castità. Di questo giardino, la sposa del Cantico dei Cantici dice: "Il mio diletto è disceso nel suo giardino, all’aiuola degli aromi" ( Ct 6,1 ). Il giardino del diletto è la mente del penitente, nella quale sta l’aiuola degli aromi. Aiuola è il diminutivo di aia, e indica l’umiltà della mente, umiltà che produce gli aromi, cioè le virtù. In questo giardino discende il diletto, in questa aiuola si riposa. Ed egli dice: "Su chi volgerò lo sguardo", se non sull’umile e pacifico, "sul povero nello spirito, che trema alla mia parola?" ( Is 66,2 ). Giustamente quindi è detto: "Come un giardino di delizie è la terra davanti a lui". "E dietro di lui la desolazione del deserto". Quando la mente dell’uomo sta davanti al volto di Dio, contemplando la sua beatitudine, gustando la sua dolcezza, allora è veramente un giardino di delizie. Ma quando la sventurata non vuole stare davanti a lui, ma dietro a lui, vuole cioè guardare il suo dorso, allora il giardino di delizie si trasforma nella desolazione del deserto. Il dorso del Signore è figura delle cose di questo mondo, delle quali in Signore stesso dice a Mosè: "Vedrai le mie spalle: ma il mio volto non lo potrai vedere" ( Es 33,23 ). Colui che si diletta di queste cose passeggere, di queste cose temporali, vede soltanto le spalle del Signore e non il suo volto. Infatti disse Agar: "Vidi le spalle di chi mi guardava" ( Gen 16,13 ). Agar s’interpreta "che suscita festa", e raffigura il piacere degli uomini carnali, piacere che si gloria delle gozzoviglie e delle ubriachezze come di una festa. Esso vede il dorso del Signore, perché si diletta in queste cose visibili, che vede solo con il corpo. Per questo dice Gregorio: "La mente degli uomini carnali non è in grado di giudicare buono, se non ciò che vede materialmente". Quindi giustamente è detto: "E dietro di lui la desolazione del deserto". Nella desolazione è raffigurata la sterilità della mente e nel deserto la malizia del diavolo. Il diavolo infatti rende deserta e sterile di buone opere la mente nella quale abita. E così è chiara la concordanza tra il vangelo e ciò che dice il profeta Gioele. Infatti quando dice "la terra davanti a lui è come un giardino di delizie", concorda con la prima parte dell’espressione: "quando uno spirito immondo esce da un uomo"; e quando aggiunge "e dopo di lui la desolazione del deserto", concorda con la seconda parte: "allora va e prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui". Giustamente quindi è detto: "Quando uno spirito immondo esce da un uomo …", ecc. E fa’ attenzione ai quattro punti più importanti di questo passo evangelico: l’uscita del diavolo, la sua tentazione contro i giusti, il tiepido impegno dell’anima negligente, e il ritorno dello spirito immondo con altri sette spiriti. Il primo: "Quando uno spirito immondo esce"; il secondo: "Si aggira per luoghi aridi"; il terzo: "Tornato, la trova spazzata e adorna"; il quarto: "Allora va e prende altri sette spiriti". 18. Primo: "Quando uno spirito immondo esce". Osserva che il diavolo è chiamato "spirito immondo". Dice Gregorio: "Spirito è nome della natura, e Dio lo ha creato mondo, puro e buono; ma per l’immondezza della sua superbia è diventato immondo ed è decaduto dalla purezza della gloria celeste, e come un porco immondo ha scelto come dimora l’immondezza dei peccati e in essi riposa". Di lui dice Giobbe: "Egli dorme nell’ombra, nel nascondiglio del canneto, in luoghi umidi" ( Gb 40,16 ). Con queste parole sono indicati tre vizi: nell’ombra che è fredda e oscura è indicata la superbia, la quale scaccia il calore dell’amore divino e lo splendore della vera luce. Nella canna, che è agitata dal vento, che è bella all’esterno ma vuota dentro, e il cui frutto è solo la lanugine, è raffigurato l’avaro, che è sbattuto qua e là dal vento della cupidigia, mena vanto all’esterno ma è privo della grazia all’interno, e le sue ricchezze, ammassate per la sua rovina, saranno disperse come lanugine dal turbine della morte. Nei luoghi umidi sono raffigurati i lussuriosi che si rotolano nel fango della lussuria e della gola. Ecco in quale abitazione dorme quel porco, riposa quello spirito immondo, del quale è detto: "Quando uno spirito immondo esce dall’uomo". E lo spirito immondo esce dall’uomo solo quando l’uomo riconosce la turpitudine della sua iniquità. Si legge nel secondo libro dei Paralipomeni che "i prìncipi e l’esercito del re degli Assiri fecero prigioniero Manasse e, incatenato e legato ai ceppi, lo deportarono a Babilonia. Egli, ridotto in simile tribolazione, pregò il Signore Dio suo e si pentì profondamente davanti al Dio dei suoi padri, supplicò e scongiurò Dio. E Dio ascoltò la sua preghiera, lo fece ritornare al suo regno in Gerusalemme: e Manasse riconobbe che solo il Signore è Dio" ( 2 Par 33,11-13 ). Manasse s’interpreta "dimenticato", e raffigura il peccatore che, quando le cose vanno bene, si dimentica di Dio e dei suoi comandamenti. Dice infatti la Genesi [ nella storia di Giuseppe ] che "il capo dei coppieri del faraone, tornato in prosperità, si dimenticò del suo interprete" ( Gen 40,23 ) [ di Giuseppe che aveva interpretato favorevolmente il suo sogno ]. Il nostro interprete è Gesù Cristo, che ci parla della vita eterna, della quale ci dimentichiamo quando ci sentiamo sostenuti dalla prosperità delle cose transitorie. Infatti le cose temporali fanno cadere in dimenticanza Dio. Quindi Manasse, cioè il peccatore, dimentico di Dio, viene fatto prigioniero, con il consenso della sua mente, dagli Assiri, nome che significa "dirigenti", cioè i demoni che con l’arco della malizia dirigono la freccia della tentazione contro l’anima per ucciderla; il peccatore dunque è preso e legato con la catena delle cattive abitudini, e così viene deportato a Babilonia, vale a dire nella confusione della mente, resa cieca dal peccato. Ma poiché la misericordia di Dio è più grande di qualsiasi malizia del peccatore, questi deve fare come fece Manasse, del quale appunto si dice: Pregò il Signore Dio suo e si pentì profondamente: lo supplicò e lo scongiurò con tutte le forze. Il peccatore quindi, ai quattro atti esposti sopra, deve contrapporre i quattro seguenti: deve pregare il Signore, perché lo liberi dalle mani dei demoni; deve fare penitenza per rompere le catene del cattivo comportamento; deve supplicarlo affinché spezzi i ceppi delle sue cattive abitudini; deve infine scongiurarlo con tutte le forze affinché lo liberi dalla confusione della mente, resa cieca dal peccato. E Dio misericordioso, la cui misericordia è senza limiti, farà secondo quanto è detto: "Ascoltò la sua preghiera, lo riportò sul suo trono a Gerusalemme, e Manasse riconobbe che solo il Signore è Dio". Il Signore esaudisce la preghiera del peccatore contrito e umiliato e lo riconduce nel suo regno a Gerusalemme. Che cos’è questa Gerusalemme, se non l’infusione della grazia, la remissione dei peccati, la riconciliazione del peccatore con Dio, nella quale c’è la visione della pace, nella quale regna chi è uscito dal carcere e dalle catene per ritornare al regno? ( cf. Qo 4,14 ). E così il peccatore può veramente riconoscere che solo il Signore è Dio, colui che lo ha liberato e ha fatto uscire da lui lo spirito immondo, come dice appunto il vangelo: "Quando uno spirito immondo esce dall’uomo". 19. Secondo: "Si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo". Questo aggirarsi del diavolo altro non è che la sua tentazione. Perciò lo sentiamo rispondere a Dio: "Ho fatto un giro sulla terra e l’ho percorsa" ( Gb 1,7 ). Il diavolo dapprima fa un giro attorno alla terra, cioè alla mente dell’uomo, indaga con molta astuzia a quale vizio sia più incline, e quindi la percorre per tentare ciascuno secondo quanto ha rilevato. Cammina dunque per luoghi senza acqua. I luoghi senz’acqua – ossia aridi, come dice Matteo ( Mt 12,43 ) –, sono i santi, prosciugati dagli umori della gola e della lussuria. Infatti uno di loro dice: "In terra deserta, impraticabile e senz’acqua: così nel santuario mi sono presentato a te, per vedere la tua potenza e la tua gloria" ( Sal 63,2-3 ). Osserva qui le tre virtù che santificano l’uomo e illuminano la mente per renderla atta a contemplare Dio. Nella terra deserta è indicata la povertà, nella terra impraticabile la castità, e in quella senz’acqua l’astinenza. La terra dunque è il corpo o la mente del giusto, che è come un giardino di delizie davanti a Dio, al quale dice: "O Dio, Dio mio, nella terra, ossia nel mio corpo o nella mia mente, deserta per la povertà, impraticabile per la castità – cioè senza quella via della quale dice Salomone: "La donna impudica è come lo sterco nella via" ( Sir 9,10 ), e Isaia: "Hai dato il tuo corpo come terra e come strada per i passanti" ( Is 51,23 ) –, e senza acqua, cioè disseccata con l’astinenza da cibo e da bevanda, così nel santuario, cioè nel comportamento santo, mi sono presentato a te, affinché tu, che siedi sopra i cherubini, ti svelassi a me. E quindi aggiunge: "per vedere", cioè per poter contemplare, "la tua potenza e la tua gloria", cioè Cristo Gesù, figlio tuo. Di lui dice l’Apostolo: Egli è potenza di Dio e sapienza di Dio ( cf. 1 Cor 1,24 ); e Salomone: Gloria del padre è il figlio sapiente ( cf. Pr 13,1 ). Questa è la via per giungere a contemplare la potenza e la gloria di Dio. Chi non avanza per questa via è come un cieco e come uno che cammina tastando con la mano la parete. "Si aggira per luoghi senz’acqua". Il diavolo infatti tenta i santi e i giusti. Leggiamo in Giobbe: "Ha fiducia che il Giordano affluisca nella sua bocca" ( Gb 40,18 ). Giordano s’interpreta "umile discesa", o anche "ruscello del giudizio", e raffigura gli uomini santi che, se commettono qualche peccato, pieni di confusione si abbassano in se stessi e si giudicano nel ruscello della compunzione e della confessione. Il diavolo dunque, aggirandosi per luoghi senz’acqua, ha fiducia che essi affluiscano, entrino nella sua bocca. Ma essi, come dice Giobbe "sono pronti a far alzare il Leviatan" ( Gb 3,8 ). Fanno alzare ( scacciano ) il Leviatan, cioè il diavolo, coloro che, negandogli il consenso della mente, non permettono che esso riposi nella dimora del loro cuore. I santi devono fare come fanno le api le quali, come si dice, si fermano a sorvegliare le aperture dell’alveare e se per caso entra per quelle aperture un insetto estraneo, non tollerano che resti tra loro, ma continuano ad inseguirlo finché riescono a espellerlo dall’alveare. Le api sono così chiamate perché si uniscono tra loro con i piedi, o anche perché sembra che nascano senza piedi ( a privativo, senza; pes, piede ). Sono figura dei giusti che si legano tra loro con i piedi, cioè con i sentimenti della carità, che sono loro largiti non dalla natura ma solo dalla grazia, secondo quanto dice l’Apostolo: Tutti siamo nati figli dell’ira ( cf. Ef 2,3 ). Il loro alveare è il corpo, le cui aperture sono i cinque sensi e, in senso spirituale, gli occhi, che devono custodire con ogni cura affinché non entri per essi alcunché di estraneo, alcunché di diabolico. E se, per disgrazia, entrasse attraverso di essi qualche suggestione diabolica o qualche compiacenza carnale, in nessun modo, per nulla al mondo devono permettere che rimanga dentro di loro, perché l’indugio crea il pericolo e, come dicono alcuni, il pensiero cattivo trattenuto a lungo è peccato mortale. Quando infatti la ragione avverte che il pensiero si rivolge a cose illecite e, per quanto le è possibile, non si sforza di scacciarlo, questo si chiama pensiero cattivo assecondato. Invece le api devono immediatamente intervenire, inseguire quel pensiero con i pungiglioni della contrizione e della preghiera, e scacciarlo dagli alveari del loro corpo. Giustamente quindi è detto che i giusti sono pronti a far alzare e scacciare il Leviatan, affinché non trovi in essi riposo. 20. Terzo: "E non trovando riposo, dice: Tornerò nella mia casa, donde sono uscito. Tornato, la trova spazzata e adorna". Dice Matteo: "La trova vuota, spazzata e adorna" ( Mt 12,44 ). Osserva che esiste una triplice scopa: quella della contrizione, quella della confessione e quella della soddisfazione ( riparazione o penitenza ). Della scopa della contrizione, dice il Profeta: "Scopavo il mio spirito" ( Sal 77,7 ). Scopa il suo spirito colui che con la scopa della contrizione elimina dal volto della sua anima le sozzure dei pensieri cattivi e la polvere delle vanità del mondo. Della scopa della confessione e della scopa della soddisfazione (penitenza), dice il Signore per bocca di Isaia, quando parla di Babilonia: "La scoperò con la scopa della distruzione, dice il Signore, Dio degli eserciti" ( Is 14,23 ). Il Signore scopa Babilonia quando purifica con la confessione l’anima umiliata per i peccati, e con la scopa la quando la colpisce con i flagelli della soddisfazione, cioè della penitenza. Con queste tre scope la casa, cioè l’anima dell’uomo, viene purificata. Di questa purificazione dice il Signore: "Lavatevi, purificatevi, togliete dai miei occhi" con la scopa della contrizione "il male dei vostri pensieri"; e dopo che vi siete purificati con la scopa della confessione "smettete di agire iniquamente"; dopo che vi siete castigati con la scopa della penitenza "imparate a fare il bene" ( Is 1,16-17 ). Ma poiché dalle opere buone nasce di solito una vana sicurezza e anche l’oziosità, che è nemica dell’anima, aggiunge: "La trova vuota e ornata". L’ozio, dice il beato Bernardo, è la sentìna di tutte le tentazioni e di tutti i pensieri cattivi e inutili. Leggiamo infatti nel primo libro dei Re che "gli Amaleciti assalirono Ziklag dal lato di mezzogiorno, la conquistarono e la incendiarono: ne fecero prigioniere le donne, e tutti gli altri dal più piccolo al più grande" ( 1 Sam 30,1-2 ). Amaleciti s’interpreta "che leccano il sangue": essi raffigurano i demoni che bramano leccare e inghiottire il sangue delle anime, cioè le lacrime del pentimento. Essi assalgono Ziklag dal lato di mezzogiorno. Da mezzogiorno spira l’austro, un vento tiepido, del quale dice Giobbe: "Osservate i sentieri di Tema e le strade di Saba" ( Gb 6,19 ). Tema s’interpreta "tiepido austro", e raffigura una condotta di vita superficiale e oziosa, soggetta alle tentazioni del diavolo. Infatti quando lo spirito immondo trova la casa vuota e in balia dell’ozio, vi entra. E poiché Davide, come si narra nel secondo libro dei Re, restò a Gerusalemme e non partì per la guerra, poltrendo nell’ozio, venne punito con una vergognosa caduta ( cf. 2 Sam 11,1 ). Saba s’interpreta "rete" o "prigioniera", e raffigura il legame della colpa, che bene si accoppia con la tiepidezza e l’oziosità. Infatti chi non cammina secondo norme severe, ma con passi indolenti e fiacchi e viene coinvolto in attività licenziose, viene distolto da ciò che riguarda Dio. Quindi Ziklag, che s’interpreta "emissione di voce chiara", e raffigura l’anima che deve proclamare il suo peccato non balbettando ma a chiare parole, viene assalita dagli spiriti maligni dalla parte di mezzogiorno, cioè dalla tiepidezza e dall’oziosità della sua vita, e viene bruciata dal fuoco dell’iniquità; e quanto c’è in lei di virtù e di bene viene portato via, dalle cose più piccole alle più grandi. Giustamente quindi è detto: "La trova vuota e adorna". 21. Si legge nella Storia Naturale che le api piccole sono le più laboriose e hanno le ali sottili, e sono di colore bruno e come bruciate. Invece le api belle appartengono al numero di quelle che non fanno nulla. Le api piccole sono gli uomini penitenti, piccoli ai propri occhi. Essi sono di grande laboriosità, sono sempre occupati in qualche attività, perché il diavolo non trovi la loro casa vuota e in ozio; hanno le ali sottili, che sono il disprezzo del mondo e l’amore del regno celeste: due ali con le quali si sollevano dalle cose terrene e quasi si librano nell’aria, contemplando con maggiore intensità la gloria di Dio. E queste api sono anche di colore bruno e come bruciate. Perciò l’anima del penitente così parla nel Cantico dei Cantici: "Bruna sono ma bella, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar e come le tende di Salomone. Non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbrunata il sole ( Ct 1,4-5 ). O figlie di Gerusalemme, vale a dire schiere angeliche, oppure anime fedeli, io sono bruna all’esterno per la cenere e il cilicio, per i digiuni e le veglie, ma bella all’interno per la purezza della mente e per l’integrità della fede. Sono bruna come le tende di Kedar, nome che s’interpreta "mestizia": dimoro infatti nelle tende, che vengono trasferite di luogo in luogo, dalle quali i soldati assalgono e sono assaliti, perché io non ho quaggiù un città stabile, ma vado in cerca di quella futura ( cf. Eb 13,14 ), e mentre combatto sono anche combattuta; e in tutte queste vicende io non ho che mestizia e sofferenza. Ma sono bella come le tende di Salomone, che erano di seta azzurra e porpora scarlatta. Nelle tende di seta azzurra è indicata la purezza della mente e la contemplazione della gloria celeste; in quelle di porpora scarlatta l’integrità della fede e l’asprezza della sofferenza e del martirio. Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbrunata il sole. Il sole che subisce una eclissi, che viene cioè a mancare, oscura tutte le cose. Così il vero sole, Gesù Cristo, che conobbe il suo tramonto ( cf. Sal 104,19 ) subendo nella croce l’eclissi della morte, deve oscurare tutti i colori, tutte le vanità, tutte le glorie e tutti gli onori fallaci. Dice quindi l’anima del penitente: "Sono bruna, sono fosca, perché mi ha oscurata il sole". Mentre, infatti, con l’occhio della fede io contemplo il mio Dio, il mio sposo, il mio Gesù appeso alla croce, confitto con i chiodi, abbeverato di fiele e aceto, coronato con una corona di spine, ogni dignità, ogni gloria, ogni onore, ogni magnificenza transitoria si cambia in squallore e tutto io reputo un nulla. Così sono le api piccole, brune e come bruciate. Invece le api belle, ornate, sono figura dei religiosi tiepidi e fatui, che si pavoneggiano nella sontuosità delle loro vesti, che ostentano i "filatteri" della loro vita e decantano le frange della loro santità: la loro casa è ornata esternamente, ma all’interno è piena di sporcizia e di ossa di morti. Si avvera quindi per essi ciò che segue: "Allora va e prende con sé altri sette spiriti …", ecc. 22. Ed ecco il quarto punto. Osserva che questi sette spiriti sono le sette vacche, delle quali nella storia di Giuseppe si dice che erano deformi e consumate dalla magrezza, e che divorarono le altre sette, che erano meravigliose per la bellezza e la floridezza del corpo ( cf. Gen 41,1-4 ). Parimenti questi sette spiriti sono le sette spighe colpite dall'uredine ( ruggine che brucia le piante ), che hanno distrutto le altre sette, gonfie e rigogliose ( cf. Gen 41,5-7 ). E sono i sette anni di assoluta carestia, la cui gravità consumò l’abbondanza dei sette anni precedenti. Le sette vacche belle e grasse e le sette spighe rigogliose e ripiene, e i sette anni di grande abbondanza raffigurano i sette doni dello Spirito Santo, dei quali dice Isaia: "E sopra di lui riposerà lo Spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempì lo spirito del timore del Signore" ( Is 11,2-3 ). Questi doni sono detti vacche belle e grasse a motivo dell’onestà dei costumi e dell’abbondanza delle virtù che essi infondono in colui sopra il quale si posano; sono detti spighe rigogliose e ripiene per la pienezza della fede di Gesù Cristo, che fu grano di frumento, e per la pienezza del duplice amore di Dio e del prossimo. Questi sette doni dello Spirito sono detti anche sette anni di grande abbondanza perché nei sette anni di questa peregrinazione ( cioè della nostra vita ), con la grazia dei sette doni lo Spirito fa traboccare di grande fecondità spirituale la mente, lo spirito nel quale prendono dimora. Ma ahimè, ahimè, le sette vacche deformi e macilente, le sette spighe colpite dall'uredine, i sette anni di assoluta carestia, i sette spiriti peggiori del primo spirito immondo entrano nella casa vuota e ripulita, e divorano i sette doni dello Spirito, e così la condizione finale di quell’uomo diviene ancora peggiore della precedente. Proprio per questo vengono detti peggiori: per gli effetti che producono, poiché rendono l’uomo peggiore di quanto non fosse prima. E osserva che questi sette spiriti peggiori vengono chiamati vacche deformi e macilente perché deformano l’immagine e la somiglianza con Dio e perché fanno venir meno la carità, che rappresenta la floridezza dell’anima; vengono chiamati spighe colpite dall'uredine, che è il fetore di una cosa bruciata, per il fetore dei peccati mortali; e infine vengono detti anni di assoluta carestia a motivo della totale carenza di opere buone, anni che apportano a quell’anima sventurata tutti i mali, e la tengono in una spaventosa schiavitù. Giustamente quindi è detto: "La condizione finale di quell’uomo diventa ancora peggiore della precedente". Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, affinché per la potenza della tua grazia lo spirito immondo esca dal cuore dei fedeli, li renda luoghi asciutti e senza l’acqua dei vizi, renda la loro coscienza pura e fervente nel tuo santo servizio e la riempia con la grazia dei sette doni dello Spirito. Si degni di concederci tutto questo, colui al quale è l’onore e la gloria nei secoli dei secoli. Amen. In lode della Beata Vergine Maria 1. In quel tempo: "Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse [ a Gesù ]: Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle dalle quali hai succhiato il latte" ( Lc 11,27 ). Nel Cantico dei Cantici lo sposo dice alla sposa: "Risuoni la tua voce ai miei orecchi, poiché la tua voce è soave" ( Ct 2,14 ). La voce soave è la lode alla Vergine gloriosa, che risuona dolcissima agli orecchi dello sposo, cioè di Gesù Cristo, che della Vergine stessa è figlio. Ognuno singolarmente, e tutti insieme alziamo dunque la voce nella lode alla Vergine Maria, e diciamo al suo Figlio: "Beato il grembo che ti ha portato e le mammelle dalle quali hai succhiato il latte". 2. "Beato" è come dire bene auctus, riccamente fornito. Beato è colui che ha tutto ciò che vuole e non vuol nulla di male. Beato è colui che vede realizzarsi tutti i suoi desideri. Beato quindi il grembo della Vergine gloriosa che meritò di portare per nove mesi tutto il Bene, il sommo Bene, la Beatitudine degli angeli e la Riconciliazione dei peccatori. Dice Agostino: "Riguardo alla carne, siamo stati riconciliati solo per mezzo del Figlio; ma nei riguardi della divinità siamo stati riconciliati non con il solo Figlio. È la Trinità che ci ha riconciliati a sé, perché è essa stessa che ha fatto diventare carne il solo Figlio". Beato dunque il grembo della Vergine gloriosa, della quale sempre sant’Agostino, nel trattato Della natura e della grazia, dice ancora: "Parlando del peccato, non voglio neppure nominare la Vergine Maria, per il sommo rispetto che è dovuto al suo Figlio. Sappiamo bene infatti che, per vincere il peccato in ogni sua manifestazione, è stata conferita una grazia maggiore a colei che meritò di concepire e di generare colui che era senza peccato. E se potessimo riunire tutti i santi e tutte le sante, e domandassimo loro se hanno commesso dei peccati, tutti, ad eccezione della santa Vergine Maria, non potrebbero che rispondere con le parole di Giovanni: "Se dicessimo che non abbiamo peccato, inganneremmo noi stessi e non ci sarebbe in noi la verità" ( 1 Gv 1,8 ). La Vergine gloriosa infatti fu prevenuta e colmata con una grazia singolare, per poter avere come frutto del suo grembo proprio colui che fin dall’inizio credette e adorò quale Signore dell’universo". 3. Beato dunque il grembo, del quale il Figlio, in lode della Madre sua, dice nel Cantico dei Cantici: "Il tuo ventre è come un cumulo di grano circondato di gigli" ( Ct 7,2 ). Il ventre della Vergine gloriosa fu come un cumulo di grano: cumulo, perché in esso sono state accumulate tutte le prerogative di meriti e di premi; di grano, perché in esso, come in un granaio, per opera del vero Giuseppe fu riposto il grano perché non morisse di fame tutto l’Egitto. Il frumento, conservato in un granaio perfettamente mondo, è detto "tritico", perché il suo chicco viene tritato, cioè macinato; è color bruno al di fuori, e bianchissimo all’interno, e raffigura Gesù Cristo che, nascosto per nove mesi nel grembo purissimo della Vergine gloriosa, fu poi, per così dire, "triturato" per noi nella macina della croce; fu candido per l’innocenza della vita, e bruno e rosseggiante per l’effusione del sangue. E il grembo della Madre fu circondato di gigli. Il giglio, così chiamato ( lilium ) perché quasi "latteo", raffigura per il suo candore la verginità di Maria. Il suo grembo fu vallatus, cioè circondato da un vallo, difeso dalla valle dell’umiltà; un vallo fatto di gigli, per la sua duplice verginità, quella dello spirito e quella del corpo. Per questo continua sant’Agostino: "L’Unigenito di Dio nella concezione prese vera carne dalla Vergine e nella nascita conservò alla Madre l’integrità verginale". Beato dunque il ventre che ti ha portato! Veramente beato, perché portò te, Dio e Figlio di Dio, Signore degli angeli, Creatore del cielo e della terra, Redentore del mondo. La Figlia ha portato il Padre, la Vergine poverella ha portato il Figlio. O cherubini e serafini, o angeli e arcangeli, in umile atteggiamento, con il capo inclinato adorate riverenti il tempio del Figlio di Dio, il sacrario dello Spirito Santo, il grembo beato difeso dai gigli, e dite: Beato il grembo che ti ha portato! O uomini, figli di Adamo, ai quali è concessa questa grazia, questa speciale prerogativa, con fede e devozione, con mente compunta, prostràti a terra, adorate il trono del vero Salomone, il trono d’avorio, eccelso e sublime ( cf. 1 Re 10,18-20 ), il soglio del nostro Isaia ( cf. Is 6,1 ), e ripetete: Beato il grembo che ti ha portato! 4. "E il seno dal quale hai preso il latte". Dice Salomone nei Proverbi: "Cerva amabile; cerbiatto grazioso, le sue mammelle ti inebrino sempre, sii tu sempre invaghito del suo amore" ( Pr 5,19 ). La Storia naturale ci informa che la cerva partorisce nella via frequentata, sapendo che il lupo evita la via frequentata a motivo della presenza dell’uomo. La cerva amabile raffigura Maria, che ha partorito il suo nato nella via frequentata, cioè nella stalla: il suo nato è grazioso, perché è stato dato a noi in grazia e nel tempo opportuno. Infatti scrive Luca: "Diede alla luce il suo figlio primogenito e lo avvolse in fasce", perché noi ricevessimo la stola dell’immortalità, "e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo" ( Lc 2,7 ). E aggiunge la Glossa: Non trovò posto nell’albergo perché noi potessimo avere tanti posti in cielo. Le mammelle di questa cerva, amabile a tutto il mondo, ti inebrino in ogni tempo, o cristiano, affinché dimentico, come l’ebbro, di tutte le cose temporali tu tenda a quelle future ( cf. Fil 3,13 ). Ed è molto sorprendente che dica "ti inebrino", giacché nelle mammelle non c’è il vino che inebria, ma latte gustosissimo. E senti perché. Lo sposo suo Figlio, rivolgendole la lode, dice nel Cantico dei Cantici: "Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie. La tua grandezza è paragonata a quella della palma e le tue mammelle sono come i grappoli" ( Ct 7,6-7 ). Quanto sei bella nell’anima, quanto leggiadra nel corpo, o madre mia, o sposa mia, cerbiatta amabilissima, nelle delizie, cioè nel premio della vita eterna! 5. "La tua grandezza è paragonata a quella della palma". Osserva che la palma in basso, nella corteccia, è ruvida e aspra; in alto invece è bella a vedersi e carica di frutti, e, come afferma Isidoro, produce frutto solo quando è centenaria. Così la Vergine Maria fu aspra e ruvida in questo mondo per la corteccia della povertà, ma è bella e gloriosa in cielo perché è regina degli angeli; e ha meritato il frutto centuplicato che viene dato ai vergini, perché è la Vergine delle vergini e vergine sopra tutti. Ben a ragione dunque è detto: "La tua grandezza è paragonata a quella della palma, e i tuoi seni sono come i grappoli". Il grappolo è un genere di infruttescenza in cui tanti frutti sono riuniti insieme, come si vede nei grappoli d’uva, prodotti dalla vite. Nella storia di Giuseppe l’ebreo, dice il coppiere del re: "Vedevo davanti a me una vite con tre tralci crescere a poco a poco, mettere le gemme, quindi i fiori e poi l’uva che maturava" ( Gen 40,9-10 ). Questa espressione contiene sette cose degne di nota: la vite, i tre tralci, le gemme, i fiori e l’uva; e vediamo come queste sette cose convengano mirabilmente alla beata Vergine Maria. La vite, così chiamata per la sua forza ( lat. vitis, vis ) di mettere presto radice o perché si allaccia alle altre viti, è la Vergine Maria che fin dall’inizio fu radicata più profondamente di tutti nell’amore di Dio, e fu allacciata inseparabilmente alla vera vite, cioè al suo Figlio, che disse: "Io sono la vera vite" ( Gv 15,1 ); e nell’Ecclesiastico [ Maria ] aveva detto di sé: "Io come la vite ho prodotto un frutto di soave profumo" ( Sir 24,23 ). Il parto della beata Vergine non ha esempio in alcun’altra donna, ma trova delle somiglianze in natura. Ti domandi in che modo la Vergine ha generato il Salvatore? Come il fiore della vite produce il profumo. Troverai incorrotto il fiore della vite, dopo che ha emanato il suo profumo; similmente devi credere inviolato il candore della Vergine, dopo che ha generato il Salvatore. Che cos’altro è il fiore della verginità se non la soavità del suo profumo? I tre tralci di questa vite furono: il saluto dell’angelo, l’intervento dello Spirito Santo, l’ineffabile concepimento del Figlio di Dio. Prodotta da questi tre tralci, la famiglia dei fedeli si allarga ogni giorno in tutto il mondo e si moltiplica per mezzo della fede. Le gemme della vite sono l’umiltà e la verginità di Maria; i fiori sono la fecondità senza corruzione e il parto senza dolore; i tre grappoli d’uva sono la povertà, la pazienza e la temperanza della beata Vergine. Queste sono le uve mature dalle quali sgorga il vino perfetto e aromatico che inebria, e inebriando rende sobria l’anima dei fedeli. A ragione quindi è detto: "Le sue mammelle ti inebrino in ogni tempo e nel suo amore prendi sempre diletto", perché nel suo amore vieni reso capace di disprezzare i falsi piaceri del mondo e di reprimere la concupiscenza della tua carne. 6. Rifùgiati presso di lei, o peccatore, perché è lei la città del rifugio ( dell’asilo ). Come in antico il Signore – così è scritto nel libro dei Numeri ( cf. Nm 35,11-14 ) – stabilì le città di asilo, nelle quali potesse rifugiarsi chi avesse involontariamente commesso un omicidio, così adesso la misericordia del Signore ci ha dato il Nome di Maria come rifugio di misericordia, anche per chi ha ucciso volontariamente. Una torre inespugnabile è il Nome della Madonna; presso di lei si rifugi il peccatore e sarà salvato. Nome dolce, nome che conforta il peccatore, nome di beata speranza! Signora, il tuo nome è anelito dell’anima! ( cf. Is 26,8 ). E Luca: "Il nome della Vergine era Maria" ( Lc 1,27 ); "Il tuo nome è profumo olezzante" ( Ct 1,2 ). Il nome di Maria è giubilo al cuore, miele alla bocca, melodia all’orecchio ( Bernardo ). Giustamente quindi, a lode della beata Vergine Maria, si proclama: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno dal quale hai succhiato il latte!". Osserva che succhiare è come dire: succhiando agire ( lat. sùgere, sumendo agere ). Cristo, mentre succhiava il latte, operava la nostra salvezza. La nostra salvezza fu la sua passione: sostenne la passione nel corpo, che era stato nutrito dal latte della Vergine. Per questo è detto nel Cantico dei Cantici: "Ho bevuto il mio vino insieme con il mio latte" ( Ct 5,1 ). Perché, Signore Gesù, non hai detto: "Ho bevuto l’aceto con il mio latte"? Sei stato allattato da verginali mammelle, sei stato abbeverato con fiele e aceto. La dolcezza del latte è stata cambiata nell’amarezza del fiele, affinché quell’amarezza procurasse a noi la dolcezza eterna. Succhiò le mammelle colui che sul monte Calvario volle essere trafitto dalla lancia alla mammella, affinché i piccoli invece del latte succhiassero il sangue, come è scritto in Giobbe: "I piccoli dell’aquila succhiano il sangue" ( Gb 39,30 ). 7. Continua il vangelo: "Ma Gesù rispose: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica" ( Lc 11,28 ). È come avesse detto che Maria non solo era degna di lode perché aveva portato in grembo il Figlio di Dio, ma anche era beata perché aveva osservato nel suo agire i comandamenti di Dio. Ti preghiamo dunque, o nostra Signora, o nostra speranza. Tu che sei la stella del mare, brilla su di noi sbattuti dalle tempeste di questo mare del mondo e guidaci al porto. Nel momento del nostro passaggio difendici con la tua presenza consolatrice, affinché senza timore possiamo uscire dal carcere del corpo e meritiamo di salire lieti al gaudio infinito. Ce lo conceda colui che hai portato nel tuo grembo benedetto, che hai allattato alle tue sacre mammelle: a lui sia è onore e gloria nei secoli eterni. Amen. Domenica IV di quaresima Temi del sermone – Vangelo della IV domenica di Quaresima: "Con cinque pani". – Anzitutto sermone per il predicatore: "Getta il tuo pane". – Sermone a riprovazione del peccato: "Giuda, per mezzo di un ragazzo di Adullam, mandò a Tamar un capretto"; i cinque pani, il loro significato. – Sermone sui cinque cubiti dell’albero della mirra: "Con cinque pani"; i cinque fratelli di Giuda e il loro simbolismo. – Sermone sulle quattro cose maledette e sui cinque convegni e il loro significato: "Per tre cose freme la terra". Esordio - sermone per il predicatore 1. "Con cinque pani e due pesci il Signore saziò cinquemila uomini" ( Gv 6,1-15 ). Salomone così parla ai predicatori: "Getta il tuo pane sopra le acque che scorrono e dopo molto tempo lo ritroverai" ( Qo 11,1 ). Le acque che scorrono sono i popoli che corrono verso la morte. Perciò dice la donna di Tekoa: Tutti scorriamo via come l’acqua ( cf. 2 Sam 14,14 ). Dice Isaia: "Questo popolo ha rigettato le acque di Siloe, che scorrono silenziosamente, e ha preferito Rezin e il figlio di Romelia" Facee ( Is 8,6 ). Siloe s’interpreta "inviato". Quindi le acque di Siloe raffigurano la dottrina di Gesù Cristo, inviato dal Padre. Rigettano quest’acqua coloro che si perdono in desideri terreni e preferiscono Rezin, cioè lo spirito della superbia, e Facee, vale a dire l’impurità della lussuria, e perciò scorrono via come l’acqua nel profondo della geenna. O predicatore, getta quindi il tuo pane, il pane della predicazione, sopra le acque che scorrono; quel pane di cui dice il vangelo: "Non di solo pane vive l’uomo" ( Mt 4,4 ); e Isaia: "A lui", al giusto, "è stato dato il pane" ( Is 33,16 ); "e dopo molto tempo", cioè nel giudizio finale, "lo ritroverai", cioè ritroverai la ricompensa per quel pane. Nel nome del Signore io getterò sopra le acque il pane, affidando alla vostra carità un breve sermone sui cinque pani e i due pesci. I cinque pani e i due pesci 2. "Con cinque pani e due pesci", ecc. I cinque pani sono i cinque libri di Mosè, nei quali si trovano i cinque nutrimenti spirituali dell’anima. Il primo pane è la riprovazione del peccato nella contrizione; il secondo è la manifestazione del peccato nella confessione; il terzo è il disprezzo e l’umiliazione di se stessi nella soddisfazione ( penitenza ); il quarto è lo zelo per le anime nella predicazione; il quinto è la dolcezza nella contemplazione della patria celeste. Sul primo pane leggiamo nel primo libro di Mosè, la Genesi, che Giuda mandò un capretto a Tamar per mano di un giovanetto di Adullam ( cf. Gen 38,20 ). Giuda s’interpreta "colui che confessa", e raffigura il penitente, che deve mandare un capretto, cioè la riprovazione del peccato, a Tamar, che s’interpreta "amara, trasformata e palma". Questa è l’anima penitente, e nella triplice interpretazione del nome è indicato il triplice stato dei penitenti: amara si riferisce allo stato degli incipienti, trasformata a quello dei proficienti, e palma allo stato dei perfetti. Adullamite s’interpreta "testimone con l’acqua", e indica il pentimento delle lacrime, con le quali il penitente attesta di riprovare il peccato e di non volerlo più commettere per l’avvenire. E così da questa Tamar, come dice Matteo, Giuda potrà generare Fares e Zara ( cf. Mt 1,3 ). Fares s’interpreta "divisione" e Zara "oriente". Prima infatti il penitente deve staccarsi, dividersi dal peccato e quindi rivolgersi ad oriente, cioè alla luce delle opere buone. Dice il profeta: "Allontànati dal male", ecco Fares; "e fa’ il bene", ecco Zara ( Sal 37,27 ). Sul secondo pane troviamo nel secondo libro di Mosè, l’Esodo, che Mosè, "dopo aver colpito a morte l’egiziano, lo nascose sotto la sabbia" ( Es 2,12 ). Mosè s’interpreta "acquatico" e raffigura il penitente, quasi dissolto nelle acque del pentimento. Egli deve colpire l’egiziano, cioè il peccato mortale, con la contrizione, e nasconderlo sotto la sabbia della confessione. Dice infatti Agostino: "Se tu discopri, Dio copre; ma se tu copri, Dio discopre". Nasconde l’egiziano colui che svela il suo peccato; lo nasconde, intendo, a Dio e lo svela al sacerdote. Si dice nella Genesi che Rachele nascose gli idoli di Làbano ( cf. Gen 31,34 ). Rachele s’interpreta "pecora": questa è l’anima penitente che deve nascondere gli idoli di Làbano, cioè i peccati mortali [ commessi per istigazione ] del diavolo. "Beati coloro, i cui peccati sono stati coperti", perdonati ( Sal 32,1 ). ul terzo pane troviamo nel terzo libro di Mosè, il Levitico, che è comandato ai sacerdoti di gettare la vescichetta della gola [ il gozzo ] e le penne [ degli uccelli sacrificati ] nel luogo delle ceneri, al lato orientale ( cf. Lv 1,16 ). Nella vescichetta della gola è indicato l’ardore e la sete dell’avarizia, di cui dice Giobbe: "S’infiammerà la sete contro di lui", cioè contro l’avaro ( Gb 18,9 ). Nelle penne è raffigurata la vacuità della superbia. "Le penne dello struzzo assomigliano alle penne della cicogna e dello sparviero" ( Gb 39,13 ), cioè dell’uomo contemplativo. Esse vengono gettate nel luogo delle ceneri quando con cuore pentito ripensiamo alla parola della prima maledizione: "Sei cenere e cenere ritornerai" ( Gen 3,19 ). Il lato orientale è la vita eterna, dalla quale siamo decaduti per la colpa dei progenitori. Il penitente quindi si umilia nelle opere di penitenza e scaglia via da sé la vescichetta dell’avarizia e le penne della superbia quando richiama alla mente la sentenza della prima maledizione e piange ogni giorno per essere stato rigettato dallo sguardo degli occhi di Dio. Sul quarto pane abbiamo nel quarto libro di Mosè, i Numeri, che Finees, afferrato un pugnale, colpì i due fornicatori nelle parti genitali ( cf. Nm 25,7-8 ). Finees raffigura il predicatore che, afferrato il pugnale, cioè la parola della predicazione, deve trafiggere i fornicatori nelle parti genitali affinché, messa a nudo e quasi sbattuta ad essi in faccia la loro turpitudine, si vergognino della scelleratezza commessa. Dice il Signore per bocca del Profeta: "Svelerò sotto i tuoi occhi le tue vergogne" ( Na 3,5 ). E Davide: "Riempi di vergogna la loro faccia" ( Sal 83,17 ). E infine sul quinto pane abbiamo il quinto libro di Mosè, il Deuteronomio, dove si dice che Mosè dalla pianura di Moab salì al monte Abarim, e lì morì alla presenza di Dio ( cf. Dt 34,1.5 ). Mosè, cioè il penitente, dalla pianura di Moab, che s’interpreta "dal padre", dalla condotta degli uomini carnali che hanno per padre il diavolo, deve salire sul monte Abarim, che s’interpreta "passaggio", vale a dire la sublimità della contemplazione, "per passare da questo mondo al Padre" ( Gv 13,1 ). Questi dunque sono i cinque pani dei quali si parla nel vangelo di oggi: "Con cinque pani e due pesci", ecc. 3. I cinque pani sono anche i cinque cubiti [ di altezza ] dell’albero della mirra, del quale parla Solino: In Arabia c’è un albero, chiamato mirra, alto da terra cinque cubiti" ( cf. Solino, Polyhistor, 46 ). Arabia s’interpreta "sacra" e raffigura la santa chiesa, nella quale c’è la mirra della penitenza, che solleva l’uomo al di sopra delle cose terrene di cinque cubiti, raffigurati nei cinque pani evangelici. Essi sono anche i cinque fratelli di Giuda, dei quali Giacobbe dice nella Genesi: "Giuda, i tuoi fratelli ti loderanno" ( Gen 49,8 ): essi sono Ruben, Simeone, Levi, Issacar e Zabulon. Ecco il significato dei loro nomi: Ruben, il vedente; Simeone, l’ascolto; Levi, l’aggiunto; Issacar, la ricompensa; Zabulon, l’abitazione della fortezza. Quindi Giuda deve avere il fratello suo Ruben, per vedere nella contrizione con i sette occhi, dei quali dice Zaccaria: "In una pietra" – cioè nel penitente che dev’essere pietra per la costanza e uno per l’unità della fede –, "c’erano sette occhi" ( Zc 3,9 ). Col primo occhio deve vedere il suo passato per piangerlo; con il secondo il futuro per vigilare; col terzo la prosperità per non esaltarsi; col quarto le avversità per non deprimersi; col quinto le cose di lassù per sentirne il gusto; col sesto le cose di quaggiù per sentirne disgusto; col settimo le cose interiori per compiacersene nel Signore. Giuda deve avere il secondo fratello Simeone, nella confessione, affinché il Signore ascolti la sua voce, come dice Mosè nel Deuteronomio: "Ascolta, Signore, la voce di Giuda" ( Dt 33,7 ); di essa si dice nel Cantico dei Cantici: "La tua voce risuoni ai miei orecchi: dolce è la tua voce" ( Ct 2,14 ). A questi due fratelli, cioè alla contrizione e alla confessione dei peccati, si aggiunge il terzo, Levi, con la soddisfazione ( penitenza o riparazione ), affinché la misura della pena corrisponda a quella della colpa: "Fate frutti degni di penitenza" ( Lc 3,8 ). Infatti nel Sinai, che s’interpreta "misura", fu data la legge. La legge della grazia viene data a colui, la cui penitenza è proporzionata alla colpa. Giuda abbia anche un quarto fratello, Issacar, per ricevere la ricompensa della beatitudine eterna con il suo fervente zelo per la salvezza delle anime. Invece l’albero che occupa inutilmente la terra, e lo stolto mondano che toglie spazio alla chiesa, non riceverà la ricompensa dell’eterna vita ma la condanna dell’eterna morte. Ma vi scongiuro, Giuda abbia anche il quinto fratello, Zabulon, perché, dimorando nel luogo della contemplazione insieme con Giacobbe, uomo tranquillo ( cf. Gen 25,27 ), sia fatto degno di provare il gusto della dolcezza celeste. Questi sono i cinque pani, dei quali parla il vangelo di oggi: "Con cinque pani e due pesci", ecc. 4. I due pesci sono l’intelletto e la memoria, con i quali si devono rendere gustosi i cinque libri di Mosè, per comprendere ciò che leggi e per riporre nel tesoro della memoria ciò che hai compreso. O anche, i due pesci che vengono estratti dalla profondità del mare per la mensa del re, raffigurano Mosè e Pietro: Mosè, così chiamato dall’acqua dalla quale è stato salvato ( cf. Es 2,10 ), e Pietro il pescatore, innalzato all’apostolato. Al primo fu affidata la sinagoga, al secondo la chiesa. Esse sono raffigurate in Sara e Agar, delle quali si legge nell’epistola di oggi: "Abramo ebbe due figli, uno da Agar e uno da Sara" ( Gal 4,22 ), ecc. La serva Agar, che s’interpreta "solenne", raffigura la sinagoga che si gloriava delle osservanze della Legge, come di grandi solennità. Sara, che s’interpreta "brace", raffigura la santa chiesa, infiammata dal fuoco dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste. Il figlio di Agar, cioè il popolo dei giudei, combatte contro il figlio di Sara, cioè contro il popolo dei credenti. In altro senso ancora: Sara, che s’interpreta "principessa", è la parte superiore della ragione, che deve comandare come padrona alla serva, cioè alla sensualità, raffigurata in Agar, che s’interpreta anche "avvoltoio". Infatti la sensualità, come l’avvoltoio, va in cerca dei cadaveri dei desideri carnali. Il figlio di Agar, cioè l’impulso carnale, perseguita il figlio di Sara, cioè il dettame della ragione – e questo è appunto ciò che dice l’apostolo: La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne ( cf. Gal 5,17 ) –, per scacciarla insieme col figlio. Infatti è detto: "Scaccia la serva e il suo figlio" ( Gal 4,30 ). La carne, ricolma di beni naturali e ricca di cose temporali, insorge contro la padrona, e così avviene ciò che dice Salomone: "Per tre cose freme la terra e neppure la quarta può sopportare: per uno schiavo che diventi re, per uno stolto quando è rimpinzato di cibo, per una donna odiosa che viene condotta in matrimonio, e per una serva che diventa erede della sua padrona" ( Pr 30,21-23 ). Lo schiavo che regna è il corpo recalcitrante. Lo stolto rimpinzato di cibo è l’animo ubriaco di piaceri. La donna odiosa è l’attività peccaminosa, che viene come condotta in matrimonio quando il peccatore cade nelle catene delle cattive abitudini. E così la serva Agar, cioè la sensualità, diventa erede della sua padrona, cioè della ragione. Ma per far crollare questo funesto potere, "il Signore con cinque pani e due pesci saziò cinquemila uomini". 5. Tutto questo concorda con ciò che leggiamo nell’introito della messa: Rallègrati, Gerusalemme, e fate un’adunanza voi tutti che l’amate ( cf. Is 66,10-11 ). Osserva che, in relazione al numero di cinquemila uomini, anche le adunanze sono cinque: la prima fu celebrata in cielo, la seconda nel paradiso terrestre, la terza sul monte degli Ulivi, la quarta a Gerusalemme e la quinta a Corinto. Nella prima adunanza nacque la discordia. Il primo angelo, dapprima bianco ma poi divenuto monaco nero, perché prima fu lucifero e poi tenebrifero, seminò la zizzania della discordia tra le schiere dei fratelli. Infatti nel coro della concordia incominciò a cantare l’antifona della superbia, non dal basso ma dall’alto: Salirò al cielo, fino all’altezza del Padre, e sarò uguale all’Altissimo ( cf. Is 14,13-14 ), cioè al Figlio. Ma mentre cantava così forte, le vene del cuore [ le coronarie ] gli si gonfiarono, e precipitò irreparabilmente perché il firmamento non fu in grado di sostenere la sua superbia. Nella seconda adunanza del paradiso terrestre nacque la disobbedienza, a causa della quale i nostri progenitori furono sprofondati nella miseria di questo esilio. Nella terza adunanza del monte degli Ulivi è nata la simonia, che consiste nel comprare o vendere le cose spirituali o ciò che vi è annesso. Che cosa infatti è più spirituale, più santo di Cristo? E noi crediamo che Giuda, vendendo Cristo, sia incorso nel peccato di simonia e che perciò, impiccato al cappio, si sia squarciato il suo ventre ( cf. At 1,18 ). Così ogni simoniaco, se non avrà restituito e non si sarà veramente pentito, impiccato al laccio dell’eterna dannazione, si squarcerà nel mezzo. Nella quarta adunanza, a Gerusalemme, venne meno la povertà, quando Anania e Saffira, mentendo allo Spirito Santo, sottrassero per sé una parte del ricavato dalla vendita del campo, e così subirono immediatamente la sentenza di un pubblico castigo ( cf. At 5,1-10 ). Allo stesso modo coloro che hanno rinunciato al proprio e che si sono segnati con il sigillo della santa povertà, se vorranno edificare di nuovo la Gerico distrutta, saranno colpiti dai fulmini dell’eterna maledizione. Nella quinta adunanza, di Corinto, venne meno la castità, come si legge nell’epistola ai Corinzi: Paolo non esitò a colpire con la sentenza di scomunica, per la rovina della sua carne, quel fornicatore che aveva preso con sé la moglie di suo padre ( cf. 1 Cor 5,1-5 ). Voi invece che siete membra della chiesa, cittadini della Gerusalemme celeste, fate le cinque adunanze distruggendo la zizzania della discordia, la frenesia della disobbedienza, la cupidigia della simonia, la lebbra dell’avarizia e l’immondezza della lussuria, per meritare anche voi di essere annoverati tra quei cinquemila che furono saziati con i cinque pani e i due pesci, in quanto giunti alla perfezione, indicata appunto nel numero mille. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Domenica V di quaresima Temi del sermone – Vangelo della domenica quinta di Quaresima: "Chi di voi mi convincerà di peccato?". Questo vangelo si divide in sette parti. – Anzitutto sermone ai predicatori o ai prelati: "Fatevi animo, figli di Beniamino". – Parte I: Sermone sulla passione di Cristo: "Cristo, venuto come sommo sacerdote". – Parte II: Sermone a coloro che ascoltano la parola del Signore, e contro coloro che non vogliono ascoltarla: "Álzati e scendi"; "A chi parla?"; e "Ecco, io apporterò" – Parte III: Sermone sulla vigilanza di Cristo nei nostri riguardi e sulla sua pazienza di fronte alle bestemmie dei giudei: "Che cosa vedi tu, Geremia?"; e "Guai a me, madre mia"! – Parte IV: Sermone sulla gloria e la rovina del progenitore: "Un olivo ubertoso". – Sermone sulla mortificazione del giusto: "Ci furono i giorni della vita". – Parte V: Sermone sulla glorificazione di Cristo: "È il Padre che glorifica". – Parte VI: Sermone sulla natività del Signore: "In quel giorno scaturirà una fonte dalla casa di Davide". – Sermone sulle quattro prerogative del corpo glorificato: "Il terzo giorno ci risusciterà"; le proprietà dell’avvoltoio e della gru. – Parte VII: Sermone contro gli ingrati: "Sono stato io forse un deserto per Israele?" Esordio - sermone ai predicatori o ai prelati 1. "Chi di voi mi convincerà di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?" ( Gv 8,46 ). Ai predicatori dice Geremia: "Fatevi animo, figli di Beniamino, in mezzo a Gerusalemme; e in Tekoa suonate la tromba, e in BetCherem alzate il vessillo" ( Ger 6,1 ). Beniamino s’interpreta "figlio della destra" ( Gen 35,18 ), Gerusalemme "visione di pace", Tekoa "tromba", e BetCherem "casa sterile". Fatevi animo dunque e non temete, o predicatori, figli di Beniamino, figli della destra, cioè della vita eterna, della quale è detto: "Lunghezza di giorni nella sua destra" ( Pr 3,16 ). Fatevi animo, vi dico, in mezzo a Gerusalemme, cioè nella chiesa militante, nella quale c’è la visione di pace, vale a dire la riconciliazione del peccatore. E giustamente dice in mezzo. Il centro della chiesa è la carità, che si estende all’amico e al nemico; e a mantenersi in questo centro il predicatore deve esortare e aiutare i fedeli della chiesa. "E in Tekoa", cioè tra coloro che quando fanno qualcosa suonano la tromba davanti a sé ( cf. Mt 6,2 ), come gli ipocriti, – "che si compiacciono di se stessi tra le folle delle nazioni", come è detto nel libro della Sapienza ( cf. Sap 6,3 ) – "fate squillare la tromba" della predicazione, perché quando la udranno, dicano: "Guai a noi, che abbiamo peccato", o Signore ( Lam 5,16 ). "E in BetCherem", cioè nella casa sterile, nella casa di coloro che sono privi dell’umore della grazia, sterili di buone opere – la cui terra, cioè l’anima, non riceve neppure una goccia del sangue che scorre dal corpo di Cristo ( cf. Lc 22,44 ) – "alzate il vessillo" della croce: predicate la passione del Figlio di Dio, perché ora è il tempo della passione; annunziatela ai morti affinché risorgano nella morte di Gesù Cristo, il quale oggi, con le parole del vangelo, dice alle turbe dei giudei: "Chi di voi mi convincerà di peccato?" 2. Osserva che in questo vangelo ci sono da considerare sette episodi. Primo, l’innocenza di Cristo che dice: Chi di voi potrà convincermi di peccato? Secondo, il diligente ( amoroso ) ascolto della sua parola, quando dice: Chi è da Dio ascolta la mia parola. Terzo, la bestemmia dei giudei: Non diciamo bene noi che sei un samaritano e che hai un demonio? Quarto, la gloria della vita eterna per chi osserva la sua parola: In verità, in verità vi dico: se uno osserverà la mia parola, non gusterà morte in eterno. Quinto, la glorificazione fatta dal Padre: È il Padre mio che mi glorifica. Sesto, l’esultanza di Abramo: Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno. Settimo, la lapidazione tentata dai giudei e Gesù che si nasconde: Presero delle pietre per scagliarle contro di lui. Osserva anche che in questa domenica e nella seguente si legge Geremia e viene cantato il responsorio: Questi sono i giorni, insieme con altri, che voi festeggerete a suo tempo ( cf. Lv 23,4 ), nei quali si omette il "Gloria al Padre". I. l’innocenza di Gesù Cristo 3. L’Agnello innocente, che ha preso su di sé il peccato del mondo ( cf. Gv 1,29 ), "che non commise peccato e nella cui bocca non si trovò inganno" ( 1 Pt 2,22; cf. Is 53,9 ), "che portò il peccato di molti e pregò per i peccatori" ( Is 53,12 ), ben a ragione può dire: "Chi di voi potrà accusarmi o convincermi di peccato?" Certamente nessuno. Come poteva qualcuno accusare di peccato colui che era venuto a rimettere i peccati e dare la vita eterna? Perciò oggi l’Apostolo, nella lettera agli Ebrei dice: "Cristo, venuto ( assistens ) come sommo pontefice dei beni futuri" ( Eb 9,11 ), ecc. Assistens è lo stesso che "aiutante" oppure "obbediente". Cristo fu assistens, fu vicino a noi per aiutarci. Dice il Profeta: "Aiutò il povero nella sua miseria" ( Sal 107,41 ). Il genere umano era povero perché spogliato dei doni gratuiti [ datigli da Dio ] e danneggiato nella sua natura: si trovava in questa condizione senza nessuno che gli prestasse aiuto. Venne Cristo, gli fu vicino, lo aiutò quando gli perdonò i peccati. Fu anche obbediente a Dio Padre, "obbediente fino alla morte e alla morte di croce" ( Fil 2,8 ), nella quale, per la riconciliazione del genere umano, offrì a Dio, suo Padre, non il sangue di capri o di vitelli, ma il proprio sangue, per purificare la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente ( cf. Eb 9,13-14 ). Cristo è chiamato "pontefice dei beni futuri". Pontefice significa "che fa da ponte", "che è via per coloro che lo seguono". C’erano due sponde, una di fronte all’altra, la sponda della mortalità e quella dell’immortalità, tra le quali scorreva un fiume invalicabile, quello delle nostre iniquità e delle nostre miserie, delle quali dice Isaia: "Le vostre iniquità hanno scavato un abisso tra voi e il vostro Dio, e i vostri peccati vi hanno nascosto il suo volto, così che non vi dà più ascolto" ( Is 59,2 ). Venne dunque Cristo, nostro aiuto e pontefice, che fece se stesso ponte dalla sponda della nostra mortalità a quella della sua immortalità, affinché su di esso, come su di un legno posto attraverso, potessimo passare al possesso dei beni futuri. Per questo è detto "pontefice dei beni futuri", e non dei presenti, che non ha mai promesso ai suoi amici; anzi ha detto loro: "Voi avrete tribolazioni nel mondo" ( Gv 16,33 ). Cristo dunque venne per rimetterci i peccati, come pontefice dei beni futuri, cioè per darci i beni eterni. Chi dunque potrà mai accusarlo di peccato? Che cos’è il peccato se non la trasgressione della legge divina e la disobbedienza ai comandamenti di Dio? Chi dunque potrà accusare di peccato colui, la cui legge fu la volontà del Padre? ( cf. Sal 1,2 ). Che obbedì non solo al Padre celeste, ma anche alla Madre sua poverella? "Chi di voi dunque mi potrà accusare di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?". Non credevano alla verità perché erano figli del diavolo ( cf. Gv 8,46 ), "che è menzognero, anzi padre della menzogna" ( Gv 8,44 ), perché ne è l’inventore. II. l’ascolto della parola di Cristo 4. "Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio" ( Gv 8,47 ). Il termine ebraico che indica "Dio" viene tradotto in greco con Theòs, che assomiglia a Déos e che significa timore. È da Dio colui che teme Dio, e chi teme Dio ascolta le sue parole. Infatti Dio, per bocca di Geremia, dice: "àlzati e scendi alla casa del vasaio, e lì ascolterai le mie parole" ( Ger 18,2 ). Si alza colui che, preso da timore, si pente di ciò che ha fatto; e scende alla casa del vasaio quando riconosce di essere fango e teme che il Signore lo spezzi come un vaso di argilla ( cf. Sal 2,9 ); e lì ascolta le parole del Signore, perché è da Dio, e perché teme Dio. Dice Girolamo: "È grande segno di predestinazione ascoltare volentieri le parole di Dio, e ascoltare le notizie della patria celeste, come uno che ascolta volentieri le notizie della patria terrena". Fare il contrario è segno di protervia. Quindi è detto: "Per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio"; come dicesse: Per questo voi non ascoltate Dio, perché non lo temete. Infatti dice Geremia: "A chi parlerò e chi scongiurerò perché mi ascolti? Ecco, le loro orecchie non sono circoncise e non possono ascoltare; ecco, la parola del Signore è per loro oggetto di scherno, e non la accolgono" ( Ger 6,10 ). E di nuovo: "Questo dice il Signore: Ridurrò in marciume la grande superbia di Giuda", cioè dei chierici, "e quella di Gerusalemme", cioè dei religiosi, e "questo popolo malvagio", cioè i laici, "che non vuole ascoltare le mie parole e persiste nella caparbietà del suo cuore" ( Ger 13,9-10 ). E continua: "Si sono ingranditi e arricchiti; sono grassi e pingui: hanno trascurato nel modo peggiore le mie parole. Non hanno difeso la causa della vedova. Forse che io non punirò tali colpe – dice il Signore –, o di gente simile non farà vendetta la mia anima?" ( Ger 5,27-29 ). E parimenti: "Ecco, io mando sopra questo popolo la sventura, il frutto dei loro pensieri, perché non hanno ascoltato le mie parole e hanno rigettato la mia legge. Perché mi offrite l’incenso portato da Saba e la cannella odorosa che proviene da lontano? I vostri olocausti non mi sono graditi, e non mi piacciono i vostri sacrifici, dice il Signore" ( Ger 6,19-20 ). Saba s’interpreta "rete" o "prigioniera". Nell’incenso è indicata la preghiera, nella canna ( o cannella ) la confessione del crimine o la proclamazione della lode. Chi non ascolta le parole di Dio e rigetta la sua legge, che è la carità – nella quale è la pienezza della legge ( cf. Rm 13,10 ) –, costui invano presenta al Signore l’incenso della preghiera da Saba, cioè dalla vanità del mondo, dalla quale è irretito e tenuto prigioniero; e invano offre la cannella odorosa del canto di lode, che esala un soave profumo – aggiungi: se è fatto nella carità ( cf. 1 Cor 16,14 ) –; cannella che proviene da una terra lontana, cioè da una mente impura, che tiene l’uomo lontano da Dio. "I vostri olocausti", cioè i vostri digiuni, "non mi sono graditi; e i vostri sacrifici", cioè i vostri oboli, "non mi piacciono, dice il Signore", perché avete rigettato la carità. In una parola: tutte le nostre opere sono inutili nei riguardi della vita eterna, se non sono profumate con il balsamo della carità. III. la bestemmia dei giudei contro Cristo 5. "I giudei risposero dicendo: Non diciamo noi con ragione che tu sei un samaritano e che hai un demonio? Rispose Gesù: Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. Io non cerco la mia gloria: c’è chi la cerca e giudica" ( Gv 8,48-50 ). I Samaritani, trasferiti dall’Assiria, conservano in parte i riti di Israele e in parte quelli dei pagani ( cf. 2 Re 17,24.33.41 ); con loro i giudei non tenevano relazioni ( cf. Gv 4,9 ) perché li ritenevano impuri. Perciò quando volevano insultare uno lo chiamavano samaritano. Samaritani s’interpreta "custodi", perché erano stati mandati dai babilonesi a custodire, a vigilare sui giudei. Dicono dunque: Non diciamo noi a ragione che sei un samaritano? Gesù, non negando, accetta questa affermazione, perché egli è il custode: non dorme né sonnecchia chi custodisce Israele ( cf. Sal 121,4 ), e vigila sul suo gregge. Infatti dice il Signore a Geremia: "Che cosa vedi, Geremia? Risposi: Vedo una verga vigilante", oppure – secondo un’altra versione – "vedo un ramo di noce, o di nocciolo o di mandorlo. E il Signore a me: Hai visto bene. Io infatti vigilo sulla mia parola per adempierla" ( Ger 1,11-12 ). La verga, così chiamata da "vigore", o da verdore ( viriditas ), o anche perché governa, raffigura Gesù Cristo, che è potenza di Dio ( cf. 1 Cor 1,24 ), che è piantato lungo il corso delle acque ( cf. Sal 1,3 ), cioè nella pienezza della grazia, che è "verde", cioè immune da ogni peccato, e che dice di se stesso: "Se fanno questo con il legno verde, che cosa sarà con quello secco?" ( Lc 23,31 ). E a lui il Padre disse: "Li governerai con verga di ferro" ( Sal 2,9 ), cioè con inflessibile giustizia. Questa verga vigilò sulla sua parola, perché si adempisse, perché ciò che predicò con la parola lo mostrò poi nelle opere. Vigila sulla sua parola colui che traduce nelle opere ciò che predica con la parola. 6. Altra applicazione. Cristo è detto "verga vigilante", perché come il ladro veglia di notte e ruba dalla casa di chi dorme, asportando le cose con una verga nella quale c’è un uncino, così Cristo, con la verga della sua umanità e con l’uncino della sua croce, ha rubato le anime al diavolo. Infatti disse: "Quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me" ( Gv 12,32 ), con l’uncino della santa croce. Anche il giorno del Signore verrà di notte come un ladro ( cf. 1 Ts 5,2 ). E nell’Apocalisse si legge: "Se non sarai vigilante, verrò da te come un ladro" ( Ap 3,3 ). Parimenti, Cristo è detto verga di noce ( o nocciolo ) o di mandorlo. Osserva che il frutto di queste piante ha il nucleo ( gheriglio o mandorla ) dolce, il guscio solido e la buccia ( mallo ) amara. Nel nucleo dolce è raffigurata la divinità di Cristo, nel guscio solido la sua anima, nella buccia amara, la sua carne, il suo corpo, che subì l’amarezza della passione. Cristo vigilò sulla parola del Padre, che chiama "suo" perché con il Padre fu "uno", per adempierla. Dice infatti: "Come il Padre mi ha ordinato, così faccio" ( Gv 14,31 ). Io perciò non ho un demonio, perché eseguo il comando del Padre. Quindi i falsi giudei affermano, bestemmiando, il falso: "Hai un demonio". Della loro bestemmia Geremia, parlando in nome di Cristo, dice: "Guai a me, madre mia! Perché mi hai partorito, uomo di rissa, uomo di discordia in tutta la terra? Mai ho dato a prestito, e mai nessuno ha fatto prestito a me: tutti mi maledicono, dice il Signore" ( Ger 15,10-11 ). Osserva che il "guai" è duplice: c’è quello della colpa e quello della pena. Cristo ebbe quello della pena, ma non quello della colpa. Quindi: "Guai a me, madre mia! perché mi hai generato a sì grande pena, uomo di rissa e uomo di discordia?" La rissa è quella che si accende tra molte persone, perciò ecco il rissoso – così chiamato dal ringhio del cane – perché è sempre pronto a contraddire e litigare. E "discordia" è come dire "cuori diversi" ( diversa corda ): discordare è come aver cuore diverso. Così tra i giudei, a motivo delle parole di Cristo, c’era rissa, perché erano sempre pronti, come cani, ad abbaiare e a contraddire; e avevano cuore diverso: alcuni infatti dicevano: "È buono!" Altri invece replicavano: "No, inganna le folle" ( Gv 7,12 ). "Non ho dato a prestito e nessuno ha fatto prestiti a me". Foenerator ( in lat. ) si chiama sia colui che fa il prestito, come colui che lo riceve ( Isidoro, Etimologie ). Cristo non fu foenerator, perché non trovò tra i giudei nessuno al quale prestare la somma della sua dottrina; non fu foenerator perché nessuno volle moltiplicare con le buone opere il tesoro del suo insegnamento. Anzi tutti scagliavano improperi contro di lui, dicendo: Sei un samaritano e hai un demonio. E Gesù rispose: Io non ho un demonio. Rifiuta la falsa accusa, ma nella sua pazienza non ritorce l’oltraggio, e risponde: "Io onoro il Padre mio", tributandogli il debito onore, attribuendo tutto a lui; "voi invece mi disonorate". Sempre parlando in nome di Cristo, dice Geremia: "Di fronte al mio popolo sono divenuto lo scherno di ogni giorno" ( Lam 3,14 ); e ancora: "Porgerà la guancia a chi lo percuote, sarà saziato di ignominie" ( Lam 3,30 ). "Ma io non cerco la mia gloria", come gli uomini che alle ingiurie rispondono con altre ingiurie; la sua gloria l’attende dal Padre, e quindi soggiunge: "C’è chi la cerca e giudica". E sempre per bocca di Geremia: "Ora, Signore degli eserciti, che giudichi con giustizia e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro" ( Ger 11,20 ). Osserva ancora che il giudizio è duplice: il primo di dannazione, del quale è detto: "Il Padre non giudica alcuno, ma ha affidato ogni giudizio al Figlio" ( Gv 5,22 ); il secondo di dissociazione, del quale il Figlio, nell’introito della messa di oggi dice: "Giudicami, o Dio, e dissocia la mia causa da quella di gente non santa" ( Sal 43,1 ). In questo senso è detto: È il Padre che cerca la mia gloria, e la dissocia dalla vostra, perché voi vi gloriate secondo questo mondo; ma io no: la mia gloria è quella che ho avuto dal Padre, prima che il mondo esistesse, ed è molto diversa dalla millanteria umana. 7. Senso morale. "Hai un demonio". "Demonio" è detto dai greci daimònion, cioè "esperto", conoscitore delle cose. Dàimon in greco significa conoscitore, che sa molto. Quando dunque qualcuno, adulandoti o approvandoti, ti dice: Sei un esperto e sai tante cose, ti dice: "Hai un demonio". Ma tu devi immediatamente rispondere con Cristo: "Io non ho un demonio". Da me stesso non so niente, non ho niente di buono, ma onoro il Padre mio. A lui attribuisco tutto, a lui rendo grazie, da lui viene ogni sapienza, ogni capacità, ogni scienza. Io non cerco la mia gloria e dico con il beato Bernardo: "Verbo della vanagloria, non mi toccare; ogni gloria è dovuta solo a colui al quale si dice: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo". E sempre Bernardo continua: "L’angelo non cerca in cielo la gloria da un altro angelo. E l’uomo vorrà qui in terra essere lodato da un altro uomo?" IV. la gloria eterna di colui che osserva la parola di Cristo 8. "In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno. Dissero allora i giudei: Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto come anche i profeti, e tu dici: Chi osserva la mia parola non vedrà la morte in eterno? Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? E anche i profeti sono morti: chi pretendi di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla" ( Gv 8,51-54 ). "Amen", che significa "in verità", "sinceramente" e "sia fatto", è un termine ebraico, come alleluia. E come Giovanni racconta nell’Apocalisse che in cielo si udirono le parole "amen" e "alleluia" ( cf. Ap 19,1.3-4 ), così queste due parole sono state insegnate dagli apostoli a tutte le genti perché le proclamassero qui in terra. "In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno". La morte ( mors ) deriva il suo nome dal morso del primo uomo, che mordendo il frutto dell’albero proibito, incontrò la morte. Se avesse osservato la parola del Signore: "Mangia pure i frutti di ogni albero del giardino, ma non mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male" ( Gen 2,16-17 ), non sarebbe morto in eterno. Ma poiché non la osservò, andò incontro alla morte, e perì insieme con tutta la sua posterità. Per questo Geremia dice: "Olivo rigoglioso, bello, fecondo, attraente, era il nome con cui il Signore ti chiamò. Ma al suono di una "grande parola", divampò su quella pianta il fuoco e i suoi frutti furono bruciati" ( Ger 11,16 ). La natura umana, prima del peccato, fu nella sua creazione un ulivo, fu creata in un "campo damasceno" [ luogo arido ], ma fu poi piantata, per così dire, in un giardino di delizie; fu rigogliosa e fertile per i doni gratuiti, bella per i doni di natura, fruttifera per la fruizione della beatitudine eterna, attraente nella sua innocenza. Ma ahimè, al suono di quella "parola grande", cioè della suggestione diabolica che prometteva grandi cose – "sarete come dei" ( Gen 3,5 ) – il fuoco della vanagloria e dell’avarizia divampò in essa, e così furono bruciati tutti i suoi frutti, cioè tutta la sua posterità. O figli di Adamo, non vogliate imitare i vostri padri, che non ascoltarono la parola del Signore e perciò andarono in rovina; voi invece ascoltatela: "In verità, in verità vi dico: Se ascolterete la mia parola, non gusterete morte in eterno". È chiaro che qui gustare sta per sperimentare. 9. "Risposero allora i giudei: Adesso sappiamo che hai un demonio". O follia di menti dissennate! O perfidia di gente diabolica. Non vi è bastato di scagliare una volta un sì orribile e infame vituperio contro un innocente, immune da ogni vizio, ma lo ripetete una seconda volta: Adesso sappiamo che hai un demonio! O ciechi, se l’aveste veramente conosciuto, non avreste affermato che egli aveva un demonio, ma avreste creduto ch’egli era il Signore, il Figlio di Dio! "Abramo è morto", non però della morte di cui parlò il Signore, ma solo di morte corporale, della quale è detto nella Genesi: "I giorni della vita di Abramo arrivarono a centosettantacinque anni. Poi venne meno e morì in serena vecchiaia, in età molto avanzata e sazio di giorni. Fu riunito al suo popolo, e i suoi figli Isacco e Ismaele lo seppellirono in una caverna doppia" ( Gen 25,7-9 ). 10. Senso morale. Abramo è figura del giusto, la cui vita deve durare centosettantacinque anni. Nel numero cento, che è numero perfetto, è indicata tutta la perfezione del giusto; nel numero settanta, che è formato dal sette e dal dieci, è indicata l’infusione della grazia dei sette doni dello Spirito e l’adempimento dei dieci comandamenti; nel numero cinque è indicato il retto uso dei cinque sensi. Quindi la vita del giusto dev’essere perfetta per l’infusione della grazia dei sette doni, per l’adempimento del decalogo e per il retto uso dei cinque sensi. E così rifuggirà dall’attaccamento a questo mondo e morirà al peccato, sarà pieno, e non vuoto, di giorni, riunito al suo popolo. Dice il Signore per bocca di Isaia: "I giorni del mio popolo saranno come quelli dell’albero" ( Is 65,22 ), cioè di Gesù Cristo, perché egli vivrà e regnerà in eterno, e con lui anche il suo popolo. Dice infatti nel vangelo: "Io vivo, e anche voi vivrete" ( Gv 14,19 ). "E i suoi figli Isacco e Ismaele lo seppellirono in una caverna doppia". Isacco s’interpreta "gaudio", Ismaele "ascolto di Dio". Il gaudio della speranza del cielo e l’ascolto dei divini precetti seppelliscono il giusto nella duplice spelonca della vita attiva e contemplativa, perché sia protetto al riparo del volto di Dio, nascosto agli intrighi degli uomini e lontano delle lingue che contraddicono ( cf. Sal 31,21 ). E della loro contraddizione è detto: "Chi pretendi di essere?". Secondo loro pretendeva, era solo una pretesa il fatto di dichiararsi Figlio di Dio, uguale a lui, come non lo fosse. Ma Cristo non lo pretendeva: lo era in realtà. Infatti l’Apostolo afferma: "Non stimò un furto il proclamarsi uguale a Dio" ( Fil 2,6 ). Essi invece non domandano "chi sei?", ma "chi preendi di essere?", per chi vuoi farti passare? Ed egli: "Se io glorifico me stesso, la mia gloria è niente". Contro ciò che dicono: "Chi pretendi di essere?", rimette la sua gloria al Padre, al quale deve l’essere egli stesso Dio. V. Cristo sarà glorificato dal Padre 11. "Chi mi glorifica è il Padre, che voi dite essere il vostro Dio, e non lo conoscete. Io invece lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei come voi un mentitore. Ma lo conosco e ascolto la sua parola" ( Gv 8,54-55 ). Osserva che il Padre glorificò il Figlio suo nella natività, quando lo fece nascere da una Vergine; nel fiume Giordano e nel monte, quando disse: "Questi è il mio Figlio diletto" ( Mt 3,17; Mt 17,5 ); lo glorificò anche nella risurrezione di Lazzaro, e nella sua risurrezione e ascensione. Perciò Gesù disse: "Padre, glorifica il tuo nome. Venne allora una voce dal cielo: L’ho glorificato" nella risurrezione di Lazzaro, "e di nuovo lo glorificherò" ( Gv 12,28 ) nella sua risurrezione e ascensione. È il Padre dunque che mi glorifica, e voi dite di lui che è il vostro Dio. Qui hai una chiara testimonianza contro gli eretici, i quali sostengono che la legge è stata data a Mosè dal Dio delle tenebre. Ma il Dio dei giudei, che ha dato la legge a Mosè, è il Padre di Gesù Cristo: quindi è il Padre di Gesù Cristo che ha dato la legge a Mosè. "E voi non lo conoscete" spiritualmente, finché servite alle cose terrene. "Io invece lo conosco" perché sono "uno" con lui. "E se dicessi che non lo conosco", mentre lo conosco, "sarei un mentitore come voi", che dite di conoscerlo, mentre non lo conoscete. "Ma io lo conosco e osservo la sua parola". Egli, come Figlio, diceva la parola del Padre, ed egli stesso era la Parola ( Verbo ) del Padre, che parlava agli uomini. Quindi conserva ( serbat ) se stesso, cioè conserva in se stesso la divinità. VI. l’esultanza di Abramo 12. "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno: lo vide e se ne rallegrò. Dissero allora i giudei: Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo? E Gesù rispose: In verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono" ( Gv 8,56-58 ). Fate attenzione a queste tre parole: esultò, vide, se ne rallegrò. E nota anche che tre sono i giorni del Signore: la natività, la passione, la risurrezione. Del primo giorno dice Gioele: "In quel giorno scaturirà una fonte dalla casa di Davide e irrigherà il torrente delle spine" ( Gl 4,18 ). Nel giorno della natività, una fonte, cioè Cristo, scaturirà dalla casa di Davide, cioè dal seno della beata Vergine, e irrigherà il torrente delle spine, vale dire ci solleverà dal cumulo delle nostre miserie, dalle quali ogni giorno siamo punti e feriti [ come da tante spine ]. Del secondo giorno dice Isaia: "Nella fermezza del suo spirito ha preso delle risoluzioni per il giorno dell’ardore" ( Is 27,8 ). Nel giorno della passione, nella quale il Signore sopportò l’ardore dei tormenti e della fatica, nella fermezza del suo spirito, mentre pendeva dalla croce, stabilì in quale modo avrebbe mandato in rovina il diavolo e strappato dalla sua mano il genere umano. Del terzo giorno dice Osea: "Il terzo giorno ci risusciterà e noi vivremo alla sua presenza; comprenderemo e seguiremo il Signore per conoscerlo" ( Os 6,3 ). Il terzo giorno Cristo, risorgendo dai morti, risuscitò anche noi con sé, cioè con una risurrezione conforme alla sua, poiché come egli è risorto, anche noi crediamo che saremo risuscitati nella risurrezione generale. E allora vivremo, comprenderemo e lo seguiremo per conoscere. In questi quattro termini vediamo indicate le quattro proprietà del corpo glorificato: vivremo, ecco l’immortalità; comprenderemo, ecco la sottigliezza ( dell’intelligenza ); seguiremo, ecco l’agilità; per conoscere il Signore, ecco la luminosità. Abramo dunque, cioè il giusto, nel giorno della natività esulta per il Verbo incarnato, con l’occhio della fede lo vede pendere dal patibolo della croce, e sa che con lui godrà immortale nel regno dei cieli. Allora i giudei, considerando in lui solo l’età del corpo, e non la natura divina, gli dissero: "Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?". Forse il Signore a trentuno o trentadue anni, per l’eccessiva fatica e per la continua predicazione, mostrava una età superiore. E quindi disse loro: "Prima che Abramo fosse ( fieret ), io sono". Non disse esset, ma fieret ( fosse fatto ), perché Abramo era una creatura; di sé non disse factus, ma sum ( sono ) perché è il creatore. I giudei vogliono lapidare Gesù, ma egli si nasconde 13. "Allora presero delle pietre per scagliargliele contro. Ma Gesù si nascose e uscì dal tempio" ( Gv 8,59 ). I giudei ricorrono alle pietre, per lapidare la pietra angolare, colui che riunì in se stesso le due pareti, cioè il popolo giudaico e il popolo dei pagani, due popoli che si avversavano. I giudei, i cui padri avevano lapidato in Egitto il profeta Geremia, imitando la loro cattiveria, volevano lapidare il Signore dei profeti ( cf. Eb 11,37 ). Perciò di loro dice il Signore: "Siete figli di coloro che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei vostri padri" ( Mt 23,31-32 ). 14. Senso morale. I falsi cristiani, figli estranei, cioè del diavolo, che hanno mentito al Signore violando il patto del battesimo, per quanto sta in loro lapidano ogni giorno, con le dure pietre dei loro peccati, il loro padre e signore Gesù Cristo, dal quale hanno preso il nome di cristiani; e tentano di ucciderlo, di uccidere cioè la fede in lui. Questi cristiani sono come il figli dell’avvoltoio, che lasciano morire di fame il loro padre. Non sono come i figli della gru, che espongono se stessi alla morte per salvare il padre, quando il falco lo insegue; e quando il padre è vecchio e non è più in grado di cacciare, lo nutrono essi stessi. Il nostro Padre, come un povero affamato, bussa alla porta perché gli apriamo e gli diamo, se non proprio la cena, almeno un boccone. "Io – dice nell’Apocalisse – sto alla porta e busso: se uno mi aprirà, entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me" ( Ap 3,20 ). Ma noi, figli degeneri, lasciamo morire di fame il nostro padre, come fanno i nati dell’avvoltoio. Perciò egli si lamenta di noi per bocca di Geremia: "Sono forse divenuto un deserto per Israele, o una terra senza sole? Perché il mio popolo mi ha detto: Ce ne siamo andati via e non verremo più da te? Si dimentica forse una vergine dei suoi ornamenti, e la sposa della fascia del suo petto? Eppure il mio popolo si è dimenticato di me per giorni e giorni" ( Ger 2,31-32 ). Il Signore non è un deserto o una terra senza sole, dove nessun frutto, o solo pochi frutti vengono prodotti; al contrario, è il giardino del Padre, è la terra benedetta, dove qualunque cosa seminiamo, ricaveremo il centuplo. Perché dunque noi, miserabili, ci allontaniamo da lui e ci dimentichiamo di lui per sì lungo tempo? Ma l’anima, sposa di Cristo, vergine per la fede e la carità, non può dimenticarsi del suo ornamento, cioè dell’amore divino del quale è come adorna, e della fascia del suo petto, cioè della coscienza pura, con la quale si sente tranquilla. Fratelli carissimi, siamo, ve ne prego, come i figli della gru, per essere pronti, se è necessario, ad esporci alla morte per il nostro padre, cioè per la fede nel nostro padre, e in questo mondo ormai invecchiato e presto in rovina, ristoriamolo con le buone opere, proprio perché non accada anche a noi quello che dice il vangelo: "Allora Gesù si nascose e uscì dal tempio". È per questo che dalla domenica presente, chiamata "domenica di Passione", non si recita nei responsori il "Gloria al Padre"; tuttavia non si tralascia completamente ( si recita alla fine dei salmi ), giacché il Signore non è ancora stato consegnato nelle mani dei carnefici. Preghiamo dunque, e con le lacrime imploriamo il Signore di non nasconderci il suo volto e di non uscire dal tempio del nostro cuore. Nel suo giudizio non ci accusi e non ci convinca di peccato, ma infonda in noi la grazia di ascoltare con la massima devozione la sua parola. Ci dia la pazienza per sopportare le ingiurie, ci liberi dalla morte eterna; ci glorifichi nel suo regno, affinché meritiamo di vedere il giorno della sua eternità con Abramo, Isacco e Giacobbe. Ci conceda tutto questo colui al quale è onore, potestà, splendore e dominio nei secoli eterni. E tutta la chiesa risponda: Amen! Domenica delle palme Temi del sermone – Vangelo delle Palme: "Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù …"; vangelo che si divide in quattro parti. – Anzitutto sermone sulla passione di Cristo, rivolto all’anima del peccatore: "Sali a Galaad". – Parte I: Sermone in lode della beata Vergine: "Avvicinandosi Gesù"; lo struzzo e il suo simbolismo. – Sermone morale ai peccatori convertiti: "Gesù, sei giorni prima della Pasqua". – Sermone sulla triplice luce del monte degli Ulivi e suo significato. – Parte II: Sermone contro i religiosi e i chierici ( clero ), raffigurati nell’asino e nel suo puledro: "Allora mandò due discepoli". – Parte III: Sermone sull’umiltà, la povertà e la passione di Cristo: "Dite alla figlia di Sion". – Sermone contro i prelati superbi: "Disperderò la quadriga di Efraim". – Sermone al vescovo: "Il re seduto su di un’asina". – Parte IV: Sermone sull’imitazione degli esempi dei santi: "Vi prenderete i frutti dell’albero". Esordio - sermone sulla passione di Cristo 1. In quel tempo: "Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù, arrivato a Betfage presso il monte degli Ulivi" ( Mt 21,1 ), ecc. Geremia così parla all’anima peccatrice: "Sali a Galaad e prendi della resina, o vergine figlia dell’Egitto" ( Ger 46,11 ). La figlia dell’Egitto è l’anima accecata dai piaceri di questo mondo: Egitto s’interpreta "tenebre". Infatti Geremia continua: "Come mai il Signore, nella sua ira, ha coperto", cioè ha permesso che forse coperta, "di caligine la figlia di Sion?" ( Lam 2,1 ), cioè l’anima, che dev’essere figlia di Sion? Essa è detta vergine perché sterile di buone opere. E di nuovo Geremia: "Il Signore ha pigiato il torchio alla vergine figlia di Sion" ( Lam 1,15 ), cioè l’ha condannata alla pena eterna, perché restò sterile della prole delle buone opere. E le dice: "Sali", con i piedi dell’amore, con i passi della devozione, "a Galaad", che s’interpreta "cumulo di testimonianze"; sali cioè sulla croce di Gesù Cristo, sulla quale sono accumulate innumerevoli testimonianze della nostra redenzione, vale a dire i chiodi, la lancia, il fiele, l’aceto e la corona di spine; e da lì "prendi la resina". La resina è una lacrima, una goccia, che stilla da un albero. La resina migliore di tutte è quella del terebinto ( la trementina ). Essa raffigura la goccia del sangue preziosissimo che fluì dall’albero, piantato nel giardino delle delizie ( cf. Gen 2,8 ), "lungo il corso delle acque" ( Sal 1,3 ), per la riconciliazione del genere umano. Prendi dunque, o anima, questa resina e ungi le tue ferite, perché essa è il medicamento più potente ed efficace per risanarle, per ottenere il perdono e per infondere la grazia. Sali quindi a Galaad, sali cioè con Gesù a Gerusalemme, perché anche lui vi è salito nel giorno di festa ( cf. Gv 7,8 ). Infatti dice il vangelo di oggi: "Avviatosi Gesù a Gerusalemme", ecc. 2. In questo vangelo si devono osservare quattro momenti. Primo: Gesù che si avvicina a Gerusalemme: "Mentre si avvicinava", ecc. Secondo: l’invio dei due discepoli al villaggio: "Allora mandò due dei suoi discepoli", ecc. Terzo: l’assidersi del re mansueto, povero e umile, su di un’asina e il suo puledro: "Ecco il tuo re viene, seduto su un’asina", ecc. Quarto: l’entusiasmo e le acclamazioni della folla: Osanna al Figlio di Davide", e "Una folla grandissima", ecc. I. Gesù si avvicina a Gerusalemme 3. "Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù …", ecc. Osserva che il Signore, quando andò a Gerusalemme, fece questo percorso: dapprima arrivò a Betania, da Betania si recò a Betfage, da Betfage al monte degli Ulivi, e dal monte degli Ulivi arrivò a Gerusalemme. Vedremo che cosa significhi tutto questo: prima il significato allegorico e poi quello morale. Betania, che s’interpreta "casa dell’obbedienza", o "casa del dono di Dio", o anche "casa gradita al Signore", raffigura la Vergine Maria, che obbedì alla voce dell’angelo, e quindi meritò di accogliere il dono celeste, il Figlio di Dio, e così fu gradita al Signore più di ogni altra creatura. Infatti è detto di lei nei Proverbi: "Molte figlie hanno radunato ricchezze, ma tu le hai superate tutte" ( Pr 31,29 ). Nessun santo ha accumulato nella sua anima tanta ricchezza di virtù quanto la Vergine Maria, la quale per la sua straordinaria umiltà, per il fiore incontaminato della verginità, meritò di concepire e di partorire il Figlio di Dio, "che è al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli" ( Rm 9,5 ). E da questa Betania Gesù si recò a Betfage, che s’interpreta "casa della bocca". Essa raffigura la predicazione di Gesù. Per questo arrivò prima a Betania, cioè assunse umana carne dalla Vergine, per poi dedicarsi alla predicazione. Egli stesso dice: "Andiamo nei villaggi vicini e nelle città, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto" ( Mc 1,38 ). E da Betfage si recò al monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Èleos ( termine greco che assomiglia al latino òlea, olivo ) s’interpreta "misericordia". Il monte degli Ulivi sta a indicare la grandezza dei miracoli che Gesù misericordioso e benigno operò a favore dei ciechi, dei lebbrosi, dei posseduti dal demonio e dei morti. E tutti questi miracolati dicono per bocca di Isaia: "Tu, Signore, sei il nostro padre, il nostro salvatore: questo è il tuo nome dall’eternità" ( Is 63,16 ). Nostro padre per la creazione, nostro salvatore per i miracoli operati; questo è il tuo nome dall’eternità perché sei benedetto nei secoli. E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme, per compiere l’opera della nostra salvezza, per la quale era venuto; per riscattare col suo sangue dalle mani del diavolo il genere umano, schiavo nel carcere dell’inferno da oltre cinquemila anni. Quindi Cristo in questo modo ci ha liberati, come quell’uccello, che si chiama struzzo, libera il suo nato. Si racconta che il sapientissimo re Salomone possedeva una specie di uccello, appunto uno struzzo, il cui nato aveva chiuso in un vaso di vetro: la madre lo guardava piena di dolore, ma non poteva averlo. Finalmente, per lo straordinario amore che nutriva per il figlio, andò nel deserto dove trovò un verme; lo portò via e lo lacerò sopra il vaso di vetro. Il potere del sangue del verme spezzò il vetro e così lo struzzo liberò il suo nato. Vediamo che significato abbiano l’uccello, il nato, il vaso di vetro, il deserto, il verme e il suo sangue. Questo uccello simboleggia la divinità; il suo nato raffigura Adamo e la sua discendenza, il vaso di vetro il carcere dell’inferno, il deserto il grembo verginale, il verme l’umanità di Cristo, il sangue la sua passione. Dio, per liberare il genere umano dal carcere dell’inferno e dalla mano del diavolo, venne nel deserto, cioè nel grembo della Vergine, dalla quale assunse il "verme", cioè l’umanità. Egli stesso ha detto: "Io sono un verme e non un uomo" soltanto ( Sal 22,7 ), perché era Dio e uomo. Lacerò questo verme sul patibolo della croce e dal suo fianco uscì il sangue, il cui potere spezzò le porte dell’inferno e liberò il genere umano dalla mano del diavolo. 4. Vedremo anche quale significato morale abbiano Betania, Betfage, il monte degli Ulivi e Gerusalemme. Dice Giovanni nel suo vangelo: "Gesù, sei giorni prima della Pasqua", cioè il sabato che precede la domenica delle Palme, "arrivò a Betania, dov’era morto Lazzaro, che poi egli aveva risuscitato. Gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali, insieme con Gesù. Maria allora prese una libbra di puro ( pisticus ) nardo prezioso e ne cosparse i piedi di Gesù" ( Gv 12,1-3 ). Invece Matteo e Marco dicono che versò il nardo profumato sopra il capo di Gesù, adagiato a mensa ( cf. Mt 26,7; Mc 14,3 ). Betania s’interpreta "casa dell’afflizione". E questa è la contrizione del cuore, della quale parla il Profeta: "Sono afflitto e umiliato all’estremo: ruggisco per il fremito del mio cuore" ( Sal 38,9 ). Il questa casa è stato risuscitato Lazzaro, il cui nome s’interpreta "aiutato". Infatti nella casa della contrizione il peccatore viene risuscitato, viene aiutato con la grazia divina, e quindi dice con il Profeta: "In lui ha sperato il mio cuore e sono stato aiutato" ( Sal 28,7 ). Quando il cuore spera, la grazia viene in aiuto. E il cuore può sperare nell’indulgenza e nel perdono, quando lo tormenta il dolore della contrizione per il peccato commesso. "Allora gli fecero una cena e Marta serviva". Le due sorelle del peccatore risuscitato dalla morte del peccato, Marta, il cui significato è "che provoca" o "che irrita", e Maria, che s’interpreta "stella del mare", sono il timore della pena e l’amore della gloria. Il timore della pena provoca il peccatore al pianto, e lo stimola quasi come un segugio a ricercare il peccato e a confessarlo con tutte le sue circostanze. L’amore della gloria illumina, il timore sprona, l’amore conforta. "Marta", dice, "serviva". Il timore che cosa serve? Certamente il pane del dolore e il vino della compunzione. Questa è la cena di Gesù, e di essa dice Matteo: "Mentre cenavano, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli … E prendendo il calice, rese le grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti" ( Mt 26,26-27 ). "Lazzaro poi era uno dei commensali, insieme con Gesù". Perché non sembrasse un fantasma, ma fosse evidente la sua risurrezione, egli mangia e beve. Che grande grazia! Il peccatore, che prima era disteso nella tomba, ora è adagiato a mensa e banchetta con Gesù e i suoi discepoli; egli che prima bramava di riempirsi il ventre, cioè la mente, delle carrube dei porci, cioè delle sozzure dei demoni, e nessuno gliene dava ( cf. Lc 15,16 ). "Maria allora prese una libbra di vero nardo prezioso". La libbra consta di dodici once: e qui abbiamo una specie di peso perfetto, perché consta di tante once quanti sono i mesi dell’anno. La libbra poi è così chiamata perché è "libera" e perché comprende in se stessa tutti i pesi. Nardo vero ( genuino ) è detto in latino pisticus, cioè autentico, senza contraffazioni, e deriva dal greco pistis, che vuol dire fede. La libbra, composta di dodici once, è la fede dei dodici apostoli, libera e perfetta. Maria dunque, cioè l’amore della gloria celeste, unge il capo della divinità e i piedi dell’umanità con una libbra di nardo genuino, riconoscendo che Cristo è Dio e uomo, che nacque e subì la passione. E così la casa, cioè la coscienza del penitente, viene riempita del profumo dell’unguento ( cf. Gv 12,3 ), dicendo con la sposa del Cantico dei Cantici: O Signore Gesù, con la fune del tuo amore trascinami dietro a te, perché io corra nel profumo dei tuoi unguenti ( cf. Ct 1,3 ), perché io da Betania arrivi a Betfage. 5. Betfage s’interpreta "casa della bocca", e sta ad indicare la confessione, nella quale dobbiamo essere come residenti, non come ospiti di una notte che è passata ( cf. Sap 5,15 ), affinché non ci avvenga ciò che dice Geremia: "Così dice il Signore di questo popolo: gli è piaciuto tenere in movimento i piedi e non si è fermato: per questo non gli è gradito; ora egli ricorda le loro iniquità e visiterà ( punirà ) i loro peccati" ( Ger 14,10 ). "E da Betfage andò al monte degli Ulivi". Ricorda che il monte degli Ulivi era detto il "monte delle tre luci" perché era illuminato dal sole, da se stesso e dal tempio: dal sole perché, rivolto a oriente, ne riceveva i raggi; da se stesso per l’abbondanza dell’olio che produceva; dal tempio, a motivo dele lampade che di notte vi ardevano e illuminavano anche il monte. Il monte degli Ulivi raffigura l’importanza della soddisfazione ( penitenza ) alla quale deve arrivare il penitente dalla casa della confessione. E giustamente la soddisfazione è detta "monte delle tre luci". Infatti l’uomo, sostando nell’opera di penitenza, viene illuminato dal sole di giustizia Cristo Gesù, che dice di se stesso: "Io sono la luce del mondo" ( Gv 8,12 ); viene illuminato da se stesso, perché deve essere fornito di olio abbondante, cioè di misericordia, verso se stesso e verso il prossimo; infatti dice Giobbe: "Visitando i tuoi simili non peccherai" ( Gb 5,24 ). Disse un santo: "Mai l’anima potrà meglio vedere al di sopra di sé i suoi simili per mezzo della verità, come quando la carne si piega al di sotto di sé, verso il suo simile, per mezzo della carità". Sarà illuminato anche dal tempio, cioè dalla comunità dei fedeli, ai quali dice l’Apostolo: "Santo è il tempio di Dio, che siete voi" ( 1 Cor 3,17 ). E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme. Infatti queste tre cose, la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di penitenza, che soddisfa il debito del peccato, conducono alla luce, alla Gerusalemme celeste, alla beatitudine eterna. Quindi giustamente è detto: "Gesù, essendosi avvicinato a Gerusalemme…", ecc. II. l’invio dei due discepoli al villaggio 6. "Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: "Andate nel villaggio ( castellum ) che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa il suo puledro: scioglieteli e conduceteli a me" ( Mt 21,1-2 ). Vedremo che cosa rappresentino in senso morale i due discepoli, il villaggio, l’asina e il suo puledro. Il discepolo è così chiamato perché impara ( discit ) la disciplina. Il villaggio ( castellum ) è costituito da una muraglia che circonda tutt’all’intorno una torre, situata al centro. L’asino, o asina, è così chiamato perché, diciamo, "lascia le cose alte" ( lat. alta sinens ); puledro ( pullus ) è come pollutus, impuro, macchiato, perché nato da poco. Quindi i due discepoli del giusto, che imparano la disciplina della pace, sono il disprezzo del mondo e l’umiltà del cuore. Questi due discepoli sono Mosè e Aronne che fanno uscire gli ebrei dall’Egitto, sono le due stanghe che servivano per trasportare l’arca della testimonianza, sono i due cherubini che guardano il "propiziatorio" ( il coperchio d’oro dell’arca ), rivolti uno verso l’altro ( cf. Es 25,17-18 ). In Mosè che, come dice l’Apostolo, "stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori dell’Egitto" ( Eb 11,26 ), è raffigurato il disprezzo del mondo. In Aronne che spense il fuoco e placò l’ira di Dio perché non infierisse su tutto il popolo ( cf. Nm 16,16-19 ), è indicata l’umiltà del cuore che spegne il fuoco della suggestione diabolica e placa l’ira della punizione divina. Questi due discepoli, come due stanghe inflessibili, portano l’arca del testamento, cioè la dottrina di Gesù Cristo, oppure l’obbedienza al prelato. Guardano verso il propiziatorio, cioè verso lo stesso Gesù Cristo, che è "propiziazione" per i nostri peccati ( cf. 1 Gv 4,10 ); guardano, dirò ancora, a Cristo adagiato nella mangiatoia, inchiodato sulla croce, deposto nel sepolcro. Il giusto manda questi due discepoli, dicendo: "Andate nel villaggio ( castello ) che sta di fronte a voi". Il castello ( villaggio ) è costituito, come abbiamo già detto, di un muro perimetrale e di una torre: nel muro è indicata l’abbondanza delle cose temporali, nella torre la superbia del diavolo. Come nel muro si sovrappone pietra a pietra, e le pietre si saldano tra loro con il cemento, così nell’abbondanza delle cose temporali il denaro si aggiunge al denaro, si unisce casa a casa, si aggiunge campo a campo ( cf. Is 5,8 ), e tutto si attacca tenacemente con il cemento della cupidigia. Di questo muro dice Isaia: "Il mio ventre suonerà a Moab come una cetra, e le mie viscere al muro di mattoni cotti ( al fuoco )" ( Is 16,11 ). E Geremia, quasi con le stesse parole: "Il mio cuore suonerà a Moab come i flauti, il mio cuore darà un suono di flauti per gli uomini del muro di mattone cotto" ( Ger 48,36 ). Nel ventre è designata la mente, nella cetra o nel flauto la melodia della predicazione. Con cuore e mente compunti e con la melodia della predicazione, Isaia e Geremia, cioè ogni predicatore, deve suonare a Moab, che s’interpreta "dal padre", cioè al peccatore, che proviene da quel padre che è il diavolo, che costruisce il muro di cotto e di mattoni di argilla, cioè l’abbondanza dei beni temporali: cotto, perché indurito al fuoco della cupidigia, di argilla perché destinato a crollare. Parimenti nella torre è indicata la superbia del diavolo. Questa è la torre di Babele, cioè della confusione, la torre di Siloe che, come si legge nel vangelo di Luca, crollando uccise diciotto uomini ( cf. Lc 13,4 ). Il giusto manda contro questo castello ( villaggio ) due suoi discepoli, cioè il disprezzo del mondo, perché faccia crollare il muro dell’abbondanza transitoria, e l’umiltà del cuore perché abbatta la torre della superbia. 7. E dice giustamente: "che sta di fronte ( lat. contra ) a voi". L’abbondanza di questo mondo è sempre contraria alla povertà, e la superbia contraria all’umiltà. In questo castello si trova un’asina legata e con essa il suo puledro ( l’asinello ). L’asina, che lascia le cose alte e cammina in piano, rappresenta la vita dei chierici e dei religiosi che, abbandonata l’altezza della contemplazione, procede pigra e fatua tra le bassezze del piacere carnale. Ahimè, con quante catene di piaceri, con quante funi di peccati viene tenuta legata quest’asina! "E insieme ad essa un puledro ( asinello ). Questo puledro di asina raffigura il chierico o il religioso, che giustamente è detto puledro ( pullus ), perché è macchiato ( pollutus ) da molti vizi. È trovato insieme con l’asina, attaccato alle sue mammelle, della gola e della lussuria, succhiando da tergo. Di entrambi si lamenta il Signore, con le parole di Geremia: "Io li ho saziati ed essi hanno fornicato, e nella casa della meretrice si sono dati alla lussuria" ( Ger 5,7 ). E più avanti dice che la cintura di Geremia era marcita nel fiume Eufrate, di modo che non serviva più a nulla ( cf. Ger 13,7 ). "La cintura di castità" di tanti chierici e di tanti religiosi imputridisce nel fiume Eufrate, che s’interpreta "fertile", e indica l’abbondanza di beni temporali – dalla pinguedine infatti proviene l’iniquità –, di modo che essi a nient’altro sono buoni, se non ad essere gettati nel letamaio dell’inferno. "Scioglieteli e portateli da me". O Signore Gesù, cos’è quello che dici? Chi mai potrà sciogliere le catene dei chierici e dei falsi religiosi, le ricchezze, gli onori e i piaceri con i quali sono tenuti legati, abbattere la loro superbia e condurli a te? "Tutti, dice Geremia, sono come un cavallo che corre impetuosamente" ( Ger 8,6 ); "La loro corsa è verso il male e la loro forza è diversa" ( Ger 23,10 ) dall’immagine, a somiglianza della quale li ho creati ( cf. Gen 1,26 ); o anche è diversa perché non da un vizio solo, ma da diversi vizi sono contaminati. Perciò continua Geremia: "Sia il profeta che il sacerdote sono immondi, e nella mia casa ho trovato la loro malvagità. Tutti sono diventati per me come gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Per questo dice il Signore: Io li ciberò di assenzio", cioè dell’amarezza della morte eterna, "e li abbevererò di fiele", cioè con l’amarezza del rimorso di coscienza. "Perché dai profeti di Gerusalemme", cioè dai chierici e dai religiosi, "è uscita l’empietà su tutta la terra" ( Gen 23,11.14-15 ). "Scioglieteli, dice Gesù, e portateli a me!" Il disprezzo del mondo e l’umiltà dell’animo sciolgono tutti i legami e portano al Signore l’asina e il suo puledro. III. Gesù Cristo, re seduto sull’asina e il suo puledro 8. "Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta", cioè da Zaccaria: "Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, assiso su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma" ( Mt 21,4-5 ). E queste sono, alla lettera, le parole di Zaccaria: "Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme: Ecco, a te viene il tuo re; egli è giusto e salvatore. Egli è povero e siede su di un’asina, su un puledro figlio di asina. Disperderò le quadrighe da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, e l’arco di guerra sarà spezzato" ( Zc 9,9-10 ). Sion e Gerusalemme sono la medesima città, perché Sion è la torre di Gerusalemme, e raffigura la Gerusalemme celeste, nella quale c’è l’eterna contemplazione e la visione della pace assoluta. La figlia di Sion è la santa chiesa alla quale, o predicatori, dovete dire: "Esulta grandemente nella fatica, giubila nel tuo animo". Il giubilo infatti nasce nel cuore con sì grande letizia, quanta non è in grado di esprimerne l’efficacia della parola. "Ecco il tuo re", del quale dice Geremia: "Non c’è nessuno come te, Signore: tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle nazioni?" ( Ger 10,6-7 ). Egli, leggiamo nell’Apocalisse, "nel suo manto e nel suo femore porta scritto: Re dei re e Signore dei signori" ( Ap 19,16 ). Il manto rappresenta le sue fasce e il femore è la sua carne. A Nazaret infatti fu incoronato di carne umana, come di un diadema; in Betlemme fu avvolto in fasce, come di porpora. E queste furono le prime insegne del suo regno. Su entrambe le cose infierirono i giudei, come se avessero voluto privarlo del suo regno: Cristo infatti nella passione fu da essi spogliato delle sue vesti e la sua carne fu confitta in croce con i chiodi. Ma lì il suo regno si è perfettamente affermato: infatti, dopo la corona e la porpora, non gli mancava che lo scettro. Ricevette anche questo quando, "portando la sua croce", come dice Giovanni, "s’incamminò verso il Calvario" ( Gv 19,17 ). E Isaia: "Sulle sue spalle è posto il segno della sua sovranità" ( Is 9,6 ); e l’Apostolo nella lettera agli Ebrei: "Abbiamo visto Gesù coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto" ( Eb 2,9 ). 9. "Ecco il tuo re, che viene a te", cioè per la tua utilità, "che viene mite", per essere amato, e non viene con la potenza per essere temuto, "seduto su di un’asina". Dice Zaccaria: "Giusto e Salvatore, eppure povero, seduto su un’asina". Le virtù proprie di un re sono due: la giustizia e la pietà. Così il tuo re è giusto perché, in fatto di giustizia, rende a ciascuno secondo le sue opere; è mansueto e redentore, in fatto di pietà; ed è anche povero: infatti nell’epistola di oggi è detto: "Annientò se stesso, assumendo la condizione di servo" ( Fil 2,7 ). Poiché Adamo nel paradiso terrestre non volle servire il Signore, il Signore assunse la condizione di servo per servire il servo, affinché in futuro il servo non si vergognasse di servire il Padrone. "Divenuto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto come uomo" ( Fil 2,7 ). Perciò dice Baruc: "Per questo è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini" ( Bar 3,38 ). Quel "come" ( lat. ut ) esprime la verità, la realtà, e non la somiglianza. "Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" ( Fil 2,8 ). Dice in merito Agostino: "Il nostro Redentore appostò al nostro tiranno ( predatore ) la "trappola" della sua croce e vi collocò come esca il suo sangue. Egli versò il suo sangue, che però non era sangue di debitore, e per questo fu separato dai debitori" ( cf. Eb 2,14; Eb 7,26 ). E il beato Bernardo dice di Cristo: "Ebbe in sì grande stima l’obbedienza che preferì perdere la vita piuttosto che l’obbedienza, fatto obbediente al Padre fino alla morte", e alla morte di croce. Egli che non ebbe dove posare il capo ( cf. Mt 8,20; Lc 9,58 ), se non sulla croce, dove "reclinato il capo, rese lo spirito" ( Gv 19,30 ). 10. "Egli fu povero". Dice infatti Geremia: "O aspettazione d’Israele, suo salvatore nel tempo della tribolazione, perché sarai in terra come un colono, e come un viandante che rinuncia a fermarsi? Perché sarai come un uomo errante, e come un forte incapace di salvare?" ( Ger 14,8-9 ). Il nostro Dio, il Figlio di Dio, colui che aspettavamo, è arrivato, e nel tempo della tribolazione, cioè della persecuzione diabolica, ci ha salvati, e come un colono, uno straniero, un pellegrino ha abitato la nostra terra e l’ha irrigata con l’acqua della sua predicazione. Egli fu come un viaggiatore senza bagaglio ( levis ), cioè immune dal peccato; compì il suo cammino perché "esultò come un gigante che percorre la via" ( Sal 19,6 ); reclinò quindi il capo sulla croce quando disse: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" ( Lc 23,46 ), e poi restò chiuso nel sepolcro tre giorni e tre notti. Qui è detto "uomo errante", in base alla valutazione dei giudei che lo reputavano girovago e incostante. Per questo, quando disse: "Ho il potere di offrire la mia vita e di riprenderla di nuovo" ( Gv 10,18 ), "molti di loro dicevano: Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?" ( Gv 10,20 ). A motivo della condizione di servo, che aveva assunto, sembrava loro privo del potere di salvare. Ma egli fu "l’uomo forte" che, con le mani trafitte dai chiodi, vinse il diavolo. "Ecco, dunque, a te viene il tuo re, mite, seduto su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma", cioè della stessa asina domata con il basto. Oh, volessero i chierici e i religiosi accogliere un sì grande re, un sì nobile "cavaliere", e portarlo devotamente come fecero quei miti animali, per essere degni di entrare con lui nella superna Gerusalemme. Ma siccome sono figli di Belial, cioè "senza giogo" e, come dice Geremia, "sono andati dietro a ciò che è vano e sono divenuti essi stessi vanità; e non hanno domandato: Dov’è il Signore?" ( Ger 2,5-6 ), hanno spezzato il giogo e strappate le corde e hanno detto: "Non serviremo!": per tutto questo il Signore, per bocca di Zaccaria, dice di essi: "Disperderò le quadrighe da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, e sarà spezzato l’arco di guerra". La quadriga, che gira su quattro ruote, rappresenta l’abbondanza nella quale vivono i chierici; abbondanza che consiste in quattro cose: nell’estensione delle proprietà, nell’accumulo delle prebende e dei redditi, nella sontuosità dei cibi e nel lusso delle vesti. Il Signore disperderà questa quadriga e scaglierà nel mare dell’inferno chi vi è sopra ( cf. Es 15,1 ); sterminerà il cavallo, cioè la superbia schiumosa e sfrenata dei religiosi i quali, sotto l’abito della religione, sotto il pretesto della santità, si ritengono grandi. Ma il Signore grande e potente, che guarda gli umili e abbatte i grandi ( cf. Sal 138,6 ), scaccerà questo cavallo dalla Gerusalemme celeste, nella quale nessuno entrerà, se non chi si sarà umiliato come un bambino ( cf. Mt 18,4 ), come lui che si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce. 11. Senso morale. Il re che siede sull’asina e sul suo puledro raffigura il giusto che mortifica la sua carne e frena i suoi stimoli. Dice Geremia: "Vergine d’Israele, ti ornerai nuovamente dei tuoi timpani e uscirai nel coro dei festanti" ( Ger 31,4 ). Nel timpano, che è la pelle di un animale morto, tesa su di un cerchio di legno, è indicata la mortificazione della carne; nel coro, in cui le voci sono in accordo, è raffigurata la concordia dell’unità. Quindi l’anima è ornata con i timpani ed esce nel coro dei festanti, quando è come adorna della mortificazione della carne e della concordia dell’unità. Dice il profeta: "Con il timpano e con il coro lodate il Signore" ( Sal 150,4 ). Altro significato. Il re che siede sull’asina è il vescovo, che governa il popolo che gli è affidato, del quale dice Salomone: "Beata la terra", cioè la chiesa, "il cui re è nobile e i cui prìncipi", cioè i prelati, "si nutrono al tempo giusto, per rifocillarsi e non per gozzovigliare" ( Qo 10,17 ). "Mangiano solo per vivere, e non vivono per mangiare" ( Glossa ); "si nutrono al tempo giusto", perché non cercano quaggiù la ricompensa, ma guardano a quella futura. Questo re dev’essere – come abbiamo detto sopra – mansueto, giusto, salvatore e povero. Mansueto verso i sudditi; giusto con i superbi, versando vino e olio; salvatore nei riguardi dei poveri; povero, pur tra le ricchezze. O anche: mansueto se riceve un’ingiuria; giusto esercitando la giustizia verso chiunque; salvatore con la predicazione e con l’orazione; povero per l’umiltà del cuore e il disprezzo di sé. Beata l’asina ( sic ), beata la chiesa, che ha un simile reggitore ( sessore ). Al contrario, il vescovo di questo nostro tempo è come Balaam, seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo ( cf. Nm 22,21-30 ). Balaam s’interpreta "che demolisce la fraternità", oppure "che turba la gente", o anche "che divora il popolo". Un vescovo scandaloso è un albero inutile: con il suo cattivo esempio demolisce la fraternità dei fedeli e la precipita prima nel peccato e poi nell’inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi assicuro che vede il diavolo, pronto a precipitarlo all’inferno. Invece il popolo semplice, che ha una fede retta e che vive onestamente, vede l’angelo del Sommo Consiglio, riconosce e ama il Figlio di Dio. IV. l’entusiasmo e le acclamazioni della folla a Cristo 12. "La folla numerosissima stese le sue vesti per terra: alcuni tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via; le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano dicendo: Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" ( Mt 21,8-9 ). Fa’ attenzione a questi tre fatti: stesero le proprie vesti, tagliavano i rami, e gridavano: Osanna! Le vesti raffigurano le membra del nostro corpo, con le quali si veste l’anima: di esse dice Salomone: "In ogni tempo siano candide le tue vesti" ( Qo 9,8 ). Dobbiamo stenderle sulla via, vale a dire essere pronti ad esporle alla passione e alla morte per il nome di Gesù, per meritare di riaverle gloriose e immortali nella risurrezione finale, quando questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale si vestirà di immortalità ( cf. 1 Cor 15,53 ). I rami sono gli esempi dei santi padri, dei quali dice il Signore: "Vi prenderete i frutti dell’albero più bello, spate di palma, rami di alberi dalle dense fronde e salici di torrente e gioirete davanti al vostro Dio" ( Lv 23,40 ). L’albero più bello è la gloriosa Vergine Maria, i cui frutti furono l’umiltà e la povertà. Le palme furono gli apostoli, che riportarono vittoria su questo mondo. Le spate sono i frutti delle palme, prima di aprirsi: in esse vediamo la fede, la speranza e la carità degli apostoli. L’albero dalle dense fronde è la croce di Cristo, che ha allargato le dense fronde della fede in tutto il mondo. I rami di quest’albero furono le quattro estremità della croce, alle quali furono inchiodati i piedi e le mani di Cristo. In queste quattro estremità ci furono quattro pietre preziose: la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza. Nell’estremità superiore ci fu la misericordia, in quella destra l’obbedienza, in quella sinistra la pazienza, e in quella inferiore la perseveranza. I salici del torrente, che restano sempre verdi, raffigurano tutti i santi, che nel torrente di questa vita mortale e passeggera sono rimasti sempre verdi nell’operare il bene. Prendiamoci dunque i frutti dell’albero più bello, vale a dire la povertà e l’umiltà della Vergine Maria, le spate delle palme, cioè la fede, la speranza e la carità degli apostoli, i rami dell’albero di dense fronde, cioè la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza della passione di Gesù Cristo, i salici del torrente, vale a dire le rigogliose opere di tutti i santi, ed esultiamo davanti al Signore, nostro Dio, Gesù Cristo, gridando con le turbe e con i fanciulli degli ebrei: "Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!" ( Mt 21,9 ). Osanna s’interpreta "salvezza", oppure "salva, ti scongiuro!". Osanna dunque, cioè la salvezza appartiene al Figlio di Davide, o viene dal Figlio di Davide o per mezzo del Figlio. Benedetto, cioè immune dal peccato: quindi sei benedetto in modo particolare tu, o Cristo, che vieni nel nome del Signore, cioè in onore del Padre, oppure "che vieni", cioè che verrai. Infatti tu che dapprima sei apparso nella condizione di servo, verrai alla fine quale glorioso Signore. Osanna nell’alto dei cieli, cioè "salva nell’alto dei cieli"; quasi a dire: Tu che hai salvato in terra con la redenzione, salva, te ne scongiuriamo, dandoci un posto nei cieli. Ti scongiuriamo, dunque, o Gesù benedetto: fa’ che anche noi ci avviciniamo a Gerusalemme con il tuo timore e con il tuo amore. Riportaci a te dal villaggio di questa peregrinazione terrena; riposati, tu, nostro re, nell’anima nostra, affinché insieme con i fanciulli che hai scelto da questo mondo, cioè con gli apostoli, siamo fatti degni di glorificarti, di lodarti, di benedirti nella città santa, nell’eterna beatitudine. Accordacelo tu, cui è onore e gloria per i secoli eterni. Amen. E ogni anima fedele risponda: Amen! La cena del Signore ( Giovedì santo ) 1. "Gesù si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Quindi versò dell’acqua in un catino e incominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto" ( Gv 13,4-5 ). Esordio la cena del signore paragonata alla cena di Abramo 2. Leggiamo un fatto analogo nella Genesi: "Porterò un po’ d’acqua – disse Abramo –, vengano lavati i vostri piedi, e riposate sotto l’albero. Porterò un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore" ( Gen 18,4-5 ). Ciò che Abramo fece ai tre messaggeri, Cristo lo fece ai santi apostoli, messaggeri della verità, che avrebbero predicato in tutto il mondo la fede nella Trinità; si inchinò ai loro piedi come un servo e, così piegato, lavò loro i piedi. O inconcepibile umiltà! O indicibile degnazione! Colui che nei cieli è adorato dagli angeli, si piega ai piedi dei pescatori; quel capo che fa tremare gli angeli si piega sotto i piedi dei poveri. Per questo Pietro si spaventò e disse: "Non mi laverai i piedi in eterno!" ( Gv 13,8 ), cioè mai. Preso dallo spavento, non poté tollerare che un Dio si umiliasse ai suoi piedi. Ma il Signore replicò: "Se non ti laverò", cioè se ti rifiuterai di essere lavato da me, "non avrai parte con me" ( Gv 13,8 ). Commenta la Glossa: Chi non è lavato per mezzo del battesimo e con la confessione e la penitenza, non ha parte con Gesù. Dopo aver lavato loro i piedi ( cf. Gv 13,12 ), li fece riposare sotto l’albero che era egli stesso. "Mi sono seduto all’ombra di colui che desideravo, e il suo frutto – cioè il suo corpo e il suo sangue – è dolce alla mia gola ( Ct 2,3 ). Questo è il boccone di pane che pose davanti a loro, con il quale rinfrancò il loro cuore per sopportare le fatiche. "Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane, lo benedisse e lo spezzò" ( Mt 26,26 ). Lo spezzò per indicare che "la frazione" del suo corpo non sarebbe avvenuta senza il suo volere. Prima lo benedisse, perché, insieme con il Padre e lo Spirito Santo, riempì con la grazia della potenza divina la natura che aveva assunto. "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo" ( Mt 26,26 ). Intendi così: "Lo benedisse, sottinteso "dicendo": Questo è il mio corpo". Quindi lo spezzò, lo diede loro e disse: "Mangiate!", e ripeté: "Questo è il mio corpo". I. sermone allegorico 3. Vedremo il significato allegorico della cena, delle vesti e dell’asciugatoio; nonché dell’acqua, del catino e dei piedi dei discepoli. La cena è la gloria del Padre; la deposizione delle vesti raffigura l’annientamento della maestà; l’asciugatoio indica la carne innocente; l’acqua rappresenta l’effusione del sangue o anche l’infusione della grazia; il catino il cuore dei discepoli, i piedi i loro sentimenti. Si alzò quindi dalla mensa, alla quale si trovava con Dio Padre: "Un uomo fece una grande cena, alla quale invitò molti" ( Lc 14,16 ). Una grande cena, perché splendida e traboccante della gloria della divina maestà, delle ricchezze della beatitudine angelica, delle delizie della duplice glorificazione. A questa cena molti sono chiamati, ma pochi vanno, perché "infinito è il numero degli stolti" ( Qo 1,15 ), i quali disdegnano "la cena della vita" per lo sterco delle cose terrene. Il maiale dorme più volentieri nel fango che in un bel letto. Cristo si alza dalla felicità della sua cena, per far alzare costoro dalla miseria del loro sterco. "Depose le sue vesti". Osserva che Cristo depose quattro volte le sue vesti. Nella cena le depose e poi le riprese; alla colonna fu denudato e poi rivestito; durante le irrisioni dei soldati fu pure denudato e rivestito; però non si legge che sia stato spogliato da Erode; sulla croce fu denudato e non più rivestito. La prima deposizione si riferisce agli apostoli, che egli abbandonò, ma poi richiamò a sé dopo breve tempo. La seconda si riferisce a quelli che furono accolti nella chiesa nel giorno della Pentecoste e a quelli che vi vengono accolti un po’ alla volta. La terza a coloro che verranno accolti alla fine dei tempi. La quarta si riferisce alla perversa mediocrità del nostro tempo, che mai sarà accolta. La seconda e la quarta spoliazione vengono oggi commemorate in alcune chiese, quando vengono spogliati gli altari, che poi vengono aspersi di acqua e vino e frustati con ramoscelli a modo di flagelli. Deporre le vesti significa annientare se stesso; dopo il lavaggio Gesù le riprese perché, eseguita l’obbedienza, ritornò al Padre dal quale era partito. Nella Passione del beato Sebastiano si legge che un re aveva un anello d’oro, ornato di una gemma preziosa. L’anello, che gli era molto caro, gli si sfilò dal dito e cadde in una cloaca, per cui ne ebbe un grande dispiacere. Non trovando nessuno che fosse in grado di ricuperare l’anello, deposte le vesti della sua regale dignità, vestito di sacco si calò nella cloaca, cercò a lungo l’anello, e finalmente lo trovò: trovatolo, pieno di gioia lo riportò con sé nella reggia. Quel re è figura del Figlio di Dio; l’anello rappresenta il genere umano; la gemma preziosa incastonata nell’anello è l’anima dell’uomo. Questi dal gaudio del paradiso terrestre, quasi sfilandosi dal dito di Dio, cadde nella cloaca dell’inferno; il Figlio di Dio ebbe grande dispiacere di questa perdita. Egli cercò tra gli angeli e tra gli uomini qualcuno che ricuperasse l’anello, ma non trovò nessuno, perché nessuno era in grado di farlo. Allora depose le sue vesti, annientò se stesso, indossò il sacco della nostra miseria, cercò l’anello per trentatré anni, e alla fine discese agli inferi e lì trovò Adamo con tutta la sua posterità: pieno di letizia prese tutti con sé e li riportò all’eterna felicità. 4. "E avendo preso un asciugatoio, se ne cinse". Infatti dalla carne purissima della Vergine Maria prese l’asciugatoio della nostra umanità. E su questo concorda ciò che è detto in Ezechiele: "Disse il Signore all’uomo che era rivestito di lino: Entra in mezzo alle ruote che sono sotto i cherubini" ( Ez 10,2 ). La ruota, che ritorna allo stesso punto dal quale è partita, è la natura umana, alla quale fu detto: Sei terra e in terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Si dice "in mezzo" rispetto ai due estremi: cioè al principio e alla fine. Osserva che la natura umana è caratterizzata da tre fatti: l’impurità della concezione, la miseria del pellegrinaggio, l’incenerimento ( distruzione ) della morte. L’uomo vestito di lino è Gesù Cristo, che dalla beata Vergine ricevette una veste di lino: egli non entrò nel mondo iniziando con un concepimento impuro, perché fu concepito dalla Vergine purissima per opera dello Spirito Santo; non ebbe come fine l’umano incenerimento perché "non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione" ( Sal 16,10 ); ma venne "in mezzo" al nostro pellegrinaggio, povero, esule e pellegrino, e in tutto il mondo ebbe a mala pena una dimora. Dice Neemia: "Non c’era neppure lo spazio per cui potesse passare il giumento sul quale sedevo" ( Ne 2,14 ). Neemia, che s’interpreta "consolazione del Signore", è figura di Cristo, nostra consolazione nel tempo della desolazione. Dice infatti Isaia: "Sei stato fortezza al povero, sostegno al misero nella sua angoscia, speranza nel turbine, ombra nell’ardore del sole" ( Is 25,4 ). Fra i triboli delle avversità umane, nel turbine della suggestione diabolica, nell’ardore della lussuria e della vanagloria, egli è la nostra consolazione; il suo giumento è l’umanità, sulla quale sedeva la divinità. Questo giumento, sul quale collocò il ferito, cioè il genere umano, in tutto il mondo non ebbe una dimora, perché "non ebbe dove reclinare il capo" ( Mt 8,20; Lc 9,58 ); ebbe solo la croce, sulla quale, "chinato il capo, rese lo spirito" ( Gv 19,30 ). Entrò quindi in mezzo alle ruote che stanno sotto i cherubini, perché fu reso di poco inferiore agli angeli ( cf. Eb 2,7 ), quando prese l’asciugatoio, di cui si cinse. In quella carne infatti si cinse di umiltà, perché fu necessario che l’umiltà fosse tanto grande nel Redentore, quanto fu grande la superbia nel traditore. 5. "Quindi versò dell’acqua nel catino". Commenta la Glossa: Sparse il sangue in terra, per purificare le impronte dei credenti, lordate dai peccati terreni. Osserva che il catino è un vaso concavo, risonante, e ha il labbro aperto. Così era anche il cuore degli apostoli, e magari fosse così anche il nostro cuore: concavo per l’umiltà, risonante di devozione, con il labbro aperto ad accusare se stesso. Il catino è chiamato in latino pelvis, perché in esso si lavano i piedi ( pedes ). Il giorno di Pentecoste il Signore mandò l’acqua della grazia nel cuore degli apostoli; e la manda ogni giorno nel cuore dei fedeli, affinché i loro piedi, cioè i loro affetti, vengano purificati da ogni impurità. È ciò che dice Giobbe: "Lavavo i miei piedi nel latte" ( Gb 29,6 ): nel grasso del latte è indicata la devozione dell’anima, con la quale Giobbe, cioè "colui che si duole" dei suoi peccati, purifica gli affetti, i pensieri della sua mente. "E li deterse con l’asciugatoio del quale era cinto", perché tutta la sofferenza e la passione del corpo del Signore è la nostra purificazione. Con questo asciugatoio dobbiamo detergere il sudore della nostra fatica, il sangue della nostra passione, prendendo in ogni nostra tribolazione l’esempio della sua pazienza, per poter godere con lui nella sua gloria. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. II. sermone allegorico 6. Così dice Isaia: "Il Signore, Dio degli eserciti, preparerà su questo monte un banchetto di carni grasse per tutti i popoli, un banchetto di vendemmia, di carni grasse piene di midollo, di vini purificati dalla feccia ( raffinati )" ( Is 25,6 ). E Matteo dello stesso convito dice: "Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: Questo è il mio corpo. E preso il calice, rese grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti: Questo è il mio sangue ( sottinteso: a conferma ) della nuova alleanza" ( Mt 26,26-28 ). Vedi che Cristo ha compiuto oggi quattro azioni: ha lavato i piedi agli apostoli, ha dato loro il suo corpo e il suo sangue, ha fatto un lungo e prezioso discorso, ha pregato il Padre per loro e per tutti quelli che avrebbero creduto in lui. Questo fu il sontuoso banchetto. Egli è proprio il "Signore degli eserciti", cioè degli angeli, dei quali in quella notte disse a Pietro: "Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, il quale mi manderebbe subito più di dodici legioni di angeli?" ( Mt 26,53 ). Come per dire: Non ho bisogno dell’aiuto di dodici apostoli, io che posso avere dodici legioni di angeli, vale a dire settantaduemila angeli. "In questo monte", cioè a Gerusalemme, in quel cenacolo spazioso e bene arredato ( cf. Mc 14,15 ), nel quale gli apostoli ricevettero anche lo Spirito Santo il giorno di Pentecoste, "egli fece oggi per tutti i popoli" che credevano in lui "un banchetto di carni grasse". Il banchetto di questo giorno è veramente un banchetto di carni grasse, perché vi era servito il vitello ingrassato che il Padre sacrificò per la riconciliazione del genere umano. Leggiamo infatti in Luca: "Portate il vitello ingrassato e uccidetelo, e mangiamo e banchettiamo: perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato. E incominciarono tutti a banchettare" ( Lc 15,23-24 ). Commenta la Glossa: Predicate la nascita di Cristo, inculcate il ricordo della sua morte, affinché l’uomo creda nel suo cuore, imitando colui che è stato ucciso, e con la bocca riceva il sacramento della passione per la propria purificazione. È ciò che fa oggi la chiesa universale, alla quale Cristo ha allestito sul monte Sion un banchetto splendido e sontuoso, di una duplice ricchezza, interiore ed esteriore, e abbondante; diede il suo vero corpo, ricco di ogni potenza spirituale, ingrassato con la carità interna ed esterna, e comandò che fosse dato anche a tutti quelli che avrebbero creduto in lui. Perciò si deve credere fermamente e confessare con la bocca che quel corpo che la Vergine partorì, che fu inchiodato sulla croce, che giacque nel sepolcro, che risuscitò il terzo giorno, che salì alla destra del Padre, egli oggi realmente lo diede agli apostoli, e la chiesa ogni giorno lo "confeziona" e lo distribuisce ai suoi fedeli. Infatti, al suono delle parole "Questo è il mio corpo", il pane si trasforma, si transostanzia, diventa il corpo di Cristo, che conferisce l’unzione di una duplice ricchezza a colui che lo riceve degnamente, perché attenua le tentazioni e suscita la devozione. Per questo è detto: Terra dove scorrono latte e miele ( cf. Dt 31,20 ), perché addolcisce le amarezze e incrementa la devozione. Sventurato colui che osa entrare a questo banchetto senza la veste nuziale ( cf. Mt 22,11 ) della carità, o della penitenza, perché chi se ne ciba indegnamente, mangia la sua condanna ( cf. 1 Cor 11,29 ). Quale rapporto ci può essere tra la luce e le tenebre? ( cf. 2 Cor 6,14-15 ), tra il traditore Giuda e il Salvatore? "La mano di colui che mi tradisce è insieme alla mia sulla mensa" ( Lc 22,21 ). Sta scritto nell’Esodo: "Ogni animale", quindi anche l’uomo che si è reso simile all’animale, "che toccherà il monte", cioè il corpo di Cristo, "sarà lapidato" ( Eb 12,20 ), cioè sarà dannato ( cf. Es 19,12-13 ). 7. "Un banchetto di vini senza feccia", cioè purificati da ogni impurità e raffinati. Dice anche Mosè nel suo cantico: "E bevano sangue di uva, purissimo" ( Dt 32,14 ). L’uva è l’umanità di Cristo che, spremuta nel torchio della croce, sparse da ogni parte il sangue, che oggi diede da bere agli apostoli: Questo è il mio sangue, che per voi e per molti sarà versato in remissione dei peccati ( cf. Mt 26,28 ). Fu dunque necessario che quel sangue fosse come un vino raffinato e purissimo, per essere versato in remissione di tanti peccati! O carità del Diletto! O amore dello sposo per la sua sposa, la chiesa! Quel sangue che il giorno dopo avrebbe dovuto versare per lei, per mano degli infedeli, glielo offrì oggi egli stesso con le sue mani santissime. E perciò essa esclama nel Cantico dei Cantici: "Il mio diletto è per me come un sacchetto di mirra, collocato tra le mie mammelle. Il mio diletto è come un grappolo di ( uva di ) Cipro, dei vigneti di Engaddi" ( Ct 1,12-13 ). Entra la sposa, la chiesa, ossia l’anima, nel folto delle sofferenze e dei dolori del suo sposo, e raccoglie piamente e unisce insieme e lega con i legami dell’amore ora gli insulti, ora gli schiaffi e gli sputi, qui le derisioni e i flagelli, qua e là la croce, i chiodi e la lancia; di tutto fa per sé un mazzetto di mirra, un mazzetto di dolori e di amarezze, e lo colloca tra le sue mammelle, dov’è il cuore, dov’è l’amore. Il Diletto che domani sarà per la sua sposa il mazzetto di mirra, è oggi per lei il grappolo di Cipro. "Il mio calice che inebria", ecco il grappolo di Cipro, "quanto è eccellente!" ( Sal 23,5 ): ecco l’uva sceltissima e il suo purissimo sangue. E dove si trova? E da dove si ricava? "Dalle vigne di Engaddi", che s’interpreta "fonte del capretto", animale che dà un cattivo odore. Le vigne di Engaddi raffigurano le ferite del nostro Diletto, nelle quali è la viva sorgente, l’acqua che lava ogni sozzura ed elimina ogni cattivo odore. A questa sorgente il ladrone lavò i suoi delitti, quando confessò e implorò: "Ricòrdati di me, quando sarai nel tuo regno" ( Lc 23,42 ). Di questa sorgente dice Zaccaria: "In quel giorno" – cioè domani – "vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante, per lavare il peccatore e la donna nel suo ciclo" ( Zc 13,1 ). Ecco, la sorgente zampilla ed è offerta a tutti. Venite dunque e attingete, e lavate le macchie nascoste e quelle manifeste, indicate appunto nel ciclo mensile. 8. Ecco che ora il nostro Diletto, il grappolo di Cipro, il mazzetto di mirra, celebrato quel ricco e raffinato banchetto, dopo aver cantato l’inno, esce con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi ( cf. Mt 26,38-39 ); passa senza dormire tutta questa notte, preoccupato di compiere l’opera della nostra salvezza; si allontana dagli apostoli, incomincia ad essere triste fino alla morte, piega le ginocchia davanti al Padre, domanda che, se è possibile, passi da lui quest’ora, ma sottomette la sua volontà a quella del Padre; ridotto in agonia, emana sudore di sangue. Dopo tutto questo, viene tradito da un discepolo con un bacio, viene legato e portato via come un malfattore; la sua faccia viene velata, poi coperta di sputi, la sua barba strappata; è percosso al capo con la canna e schiaffeggiato; viene flagellato alla colonna, coronato di spine, condannato a morte; gli viene caricato sulle spalle il legno della croce, si avvia al Calvario, è spogliato delle vesti, viene crocifisso nudo tra i ladroni, viene abbeverato di fiele e aceto, viene insultato e bestemmiato dai passanti. In una parola: La vita muore per i morti. O occhi del nostro Diletto chiusi nella morte! O volto, nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ), chino ed esangue! O labbra, favo di miele stillante parole di vita eterna, divenute livide! O capo, tremendo agli angeli, che pende reclinato! Quelle mani, al cui tocco scomparve la lebbra, fu restituita la vista perduta, fuggì il demonio, si moltiplicò il pane: quelle mani, ahimè, sono trafitte dai chiodi, sono bagnate di sangue! ( cf. racconto della passione dei quattro evangelisti ). Carissimi fratelli, raccogliamo tutte queste sofferenze e facciamone un mazzo di mirra e poniamolo tra le nostre mammelle, portiamolo cioè nel cuore, soprattutto in questa notte e domani, per poter risorgere con lui il terzo giorno. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. III. sermone anagogico ( mistico ) 9. "Il Signore degli eserciti", ecc. Vedremo il significato mistico di queste cinque cose: il monte, il banchetto, la grassezza, il midollo e l’uva scelta. Il monte è la patria celeste, della quale dice Isaia: "Voi innalzerete un cantico come quello delle celebrazioni solenni, e avrete la letizia nel cuore come chi parte al suono del flauto per recarsi al monte del Signore, al Forte di Israele" ( Is 30,29 ). Fa’ attenzione a tre cose: il cantico, la letizia e il flauto. Il cantico è la lode fatta con la voce; lode che, come dice Cassiodoro, sarà proclamata nella patria: "Nei secoli dei secoli ti loderanno" ( Sal 84,5 ). Nella letizia è indicato il giubilo del cuore, nel flauto la melodia concorde della carne e dello spirito, che avremo in grado perfetto nella risurrezione finale: con essa saliremo giubilando e cantando al monte della patria celeste, al Forte, che è Gesù Cristo, che dalla mano del potente ha liberato Israele, cioè i suoi fedeli, ai quali in questo monte celeste ha preparato un banchetto. E dice nel vangelo di Luca: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel regno dei cieli" ( Lc 22,29-30 ). La mensa preparata per tutti i santi perché ne godano, è la gloria della vita celeste, nella quale ci saranno tre banchetti: della sontuosità ( pinguedo ), della squisitezza ( medullae ) e della raffinatezza ( uvae defecatae ). In questi tre banchetti è indicato il triplice gaudio dei beati. Nella sontuosità del banchetto è indicato quel gaudio di cui i santi fruiranno nella visione di tutta la Trinità; nella sua squisitezza quello che avranno dalla propria felicità e dallo splendore interiore della coscienza. Per queste due pregava Davide dicendo: "Sia ricolma la mia anima di adipe e di pinguedine", cioè di quel duplice gaudio, " e allora la mia bocca ti loderà con labbra esultanti" ( Sal 63,6 ). Nel vino purificato dalla feccia è raffigurato il gaudio di tutta la chiesa trionfante, che allora sarà veramente purificata, perché questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità e questo corpo corruttibile sarà rivestito di incorruttibilità ( cf. 1 Cor 15,53 ). Si degni di concedercela colui che è benedetto nei secoli. Amen. La Pasqua del Signore ( 1 ) Temi del sermone – Vangelo di Pasqua: "Maria Maddalena"; questo vangelo si divide in quattro parti. – Anzitutto sermone al predicatore: come da tutte le specie di virtù debba confezionare un estratto ( un tonico ) per l’anima: "Lo speziale farà le miscele". – Parte I: Sermone sull’umiltà: "Maria Maddalena". – Sermone sul disprezzo del mondo e come si deve ricevere il corpo di Cristo: "Gettate via il lievito vecchio". – Sermone sulla pace: "Di tre cose si è compiaciuto il mio spirito"; natura delle api. – Sermone ai religiosi: "Prendi gli aromi". – Sermone morale sulla tranquillità del cuore: "Di buon mattino". – Parte II: Sermone per coloro che vogliono entrare in un ordine religioso: "Chi ci rotolerà via il masso?" – Parte III: Sermone ai contemplativi: "Ed entrando nel sepolcro". – Parte IV: Sermone sulle dieci apparizioni del Signore e sul loro significato: "Voi cercate Gesù". – Sermone sulla risurrezione finale e sulle quattro prerogative del corpo glorificato, che sono indicate nei quattro fiumi del paradiso terrestre: "La luce della luna sarà come la luce del sole". – Sermone al predicatore, o al prelato della chiesa: "Prendi la verga". – Sermone ai penitenti: "Undici teli di lana di capra"; e "Dio onnipotente mi apparve a Luz". – Sermone sulla misericordia verso i poveri: "Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco". Esordio - sermone al predicatore 1. In quel tempo: "Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comprarono gli aromi per andare ad imbalsamare Gesù", ecc. ( Mc 16,1 ). Dice l’Ecclesiastico: "Lo speziale fa pigmenti soavi e prepara unguenti salutari" ( Sir 38,7 ). Sono detti pigmenti – si potrebbero chiamare piligmenti – perché vengono lavorati nella pila ( mortaio ) con il pilum ( pestello ). I pigmenti sono quelle spezie delle quali l’anima penitente dice: "Come mirra scelta ho emanato profumo soave: come storace, gàlbano, onice ( unghia ) e gutta ( essenza gommosa )" ( Sir 24,20-21 ). Queste essenze, come dice la Glossa, sono per i medici pigmenti preziosi, e raffigurano le varie virtù che i veri medici, cioè i medici dello spirito, usano per curare gli uomini. Nella mirra è indicata la penitenza; ma non c’è vera penitenza se ad essa non sono mescolate queste quattro essenze: lo storace, il gàlbano, l’onice e la gutta. Lo storace è un’essenza di profumo gradevolissimo; stilla da una pianta che lo emana come un liquido mielato; il gàlbano è una spezie ( resina ) che con il suo odore mette in fuga i serpenti; l’onice, nominato anche nell’Esodo ( Es 35,27 ), è una pietra preziosa così chiamata con la parola greca onyx, in lat. ungula, unghia, perché assomiglia all’unghia dell’uomo; la gutta è un’essenza che cura ogni indurimento e attenua i gonfiori. Ecco dunque che nello storace è indicata la compunzione delle lacrime, le quali mandano profumo al cospetto di Dio, e all’anima penitente sono più dolci del miele e del favo di miele ( cf. Sal 19,11 ); nel gàlbano è indicata la confessione che mette in fuga i serpenti, cioè i demoni; nella gutta è indicata l’umiltà nel compiere l’opera di penitenza, che cura la durezza della mente e reprime l’impudenza del corpo. Ma poiché non è detto beato chi incomincia, ma chi persevera sino alla fine ( cf. Mt 10,22; Mt 24,13 ), a queste tre essenze si deve aggiungere l’onice, l’unghia, che è la parte estrema del corpo, e quindi raffigura la perseveranza finale. Lo speziale dunque, cioè il predicatore, deve pestare queste spezie nel mortaio, cioè nel cuore del peccatore, deve agire con il pestello della predicazione e mescolare il balsamo grezzo alla misericordia divina, perché abbia un gusto più gradito all’anima del penitente. "E prepara unguenti salutari". L’unzione ( l’unguento ) in grado di istruire l’uomo su tutte quelle cose che gli sono necessarie, è composta di due elementi: il vino e l’olio; il vino che fluì dalla vera vite, pressata nel torchio della croce; l’olio con il quale fu unta la chiesa primitiva nel giorno della Pentecoste: cioè il sangue di Cristo e la grazia dello Spirito Santo. Lo speziale deve fare gli unguenti con queste due sostanze per poter ungere, insieme alle tre donne, le membra di Cristo, cioè i fedeli della chiesa. Leggiamo infatti nel vangelo di oggi: "Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per ungere il corpo di Gesù". 2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza quattro fatti. Primo, la devozione delle pie donne e la compera degli aromi, quando è detto: Maria Maddalena, ecc. comperarono gli aromi; secondo: la rimozione della pietra, quando aggiunge: E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà la pietra?; terzo: la visione degli angeli, dove dice: Entrate nel sepolcro, videro, ecc.; quarto: la risurrezione di Cristo: "Egli disse loro: Non spaventatevi! …" I. la devozione delle pie donne e la compera degli aromi 3. "Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi". In queste tre donne sono indicate tre virtù della nostra anima, e cioè l’umiltà della mente, il disprezzo del mondo, la giocondità della pace. Nella Maddalena, così chiamata dal villaggio di Magdala, che s’interpreta "torre", è indicata l’umiltà della mente; in Maria di Giacomo, che s’interpreta "soppiantatrice", madre di Giacomo il minore ( cf. Mc 15,40 ), è indicato il disprezzo del mondo; in Salome, che vuol dire "pacifica", madre di Giacomo e di Giovanni l’evangelista, è raffigurata la giocondità della pace. Queste tre donne vengono chiamate con un solo nome: Maria, che s’interpreta "illuminazione", perché le tre virtù che rappresentano illuminano la mente nella quale dimorano. Diciamo qualcosa di ciascuna di esse. Maria Maddalena è l’umiltà della mente, che mentre reputa se stessa un nulla, si protende verso l’alto come una torre. Perciò dice Giacomo: "Il fratello umile si rallegri nella sua esaltazione" ( Gc 1,9 ), perché da dove viene l’umiliazione di lì viene anche l’esaltazione. Di questa torre è detto nella Genesi che Giacobbe "piantò una tenda al di là della torre del gregge" ( Gen 35,21 ). Nella torre è indicata l’umiltà, nel gregge la vera semplicità. Giacobbe, cioè il giusto, fissa la tenda della sua vita, tenda nella quale milita – giacché la vita del giusto sopra la terra è una milizia ( cf. Gb 7,1 ) –, al di là della torre del gregge, perché si mantiene costantemente nell’umiltà, che è la madre della vera semplicità. E osserva che è detto "al di là della torre" e non nella torre, perché il giusto, finché vive quaggiù, ha di se stesso un concetto molto più modesto di quanto non sia in realtà. Della Maddalena dice Giovanni: "Maria stava fuori del sepolcro piangendo. Mentre piangeva si chinò e guardò dentro al sepolcro. E vide due angeli biancovestiti che sedevano uno al capo e uno ai piedi del luogo dove il corpo di Gesù era stato posto" ( Gv 20,11-12 ). Fa’ attenzione alle singole parole. Il sepolcro, detto in latino monumentum, monumento, perché ammonisce la mente a ricordarsi del defunto, sta a significare il pensiero della nostra morte, il pensiero della nostra sepoltura: e questi pensieri ci esortano a dolerci nella nostra mente e a persistere nelle opere di penitenza. "Maria stava al di fuori del sepolcro", perché l’umile è assiduo nel pensiero della sua morte, affinché, quando essa verrà, lo trovi vigilante. E come stava al sepolcro? Fuori, piangendo. Fuori, non dentro. Fuori non c’è altro che "pianto e grande lamento". Rachele" – nome che significa "pecora" –, cioè l’anima semplice del penitente, "piange i suoi figli", cioè le sue opere che, a causa del peccato erano morte, "e non vuole essere consolata perché non sono più" ( Mt 2,18 ) così vive come lo erano prima di essere uccise dal peccato. Ahimè, quanto facile è la discesa, e quanto difficile invece è la salita! Si distrugge in breve, ciò che si è costruito in lungo tempo! ( Catone ). "Mentre continuava a piangere, si chinò e guardò nel sepolcro". Ecco la vera umiltà del penitente. Fa’ attenzione a queste tre parole: piangeva, si chinò, guardò. Piangeva, ecco la contrizione; si chinò, ecco la confessione; guardò, ecco la soddisfazione ( l’opera penitenziale ), alla quale si impegna seriamente, quando volge l’occhio al monumento, quando cioè pensa alla sua morte. "E vide due angeli". Questi due angeli – angelo significa "nunzio" – raffigurano in senso morale il nostro miserevole ingresso alla vita e la nostra amara dipartita. Noi, che siamo il corpo di Cristo, procuriamo di avere questi due angeli, uno alla testa e uno ai piedi della nostra vita, mentre meditiamo sulla nostra miserevole entrata e uscita da essa. Giustamente sono detti angeli, perché ci annunziano la caducità del nostro corpo e la vanità di questo mondo. Questi sono i due angeli che, come è detto nella Genesi, "fecero uscire Lot da Sodoma, e gli dissero: Salva la tua vita; non voltarti indietro e non fermarti in nessun posto all’intorno. Sàlvati sul monte, per non perire con tutti gli altri" ( Gen 19,17 ). Chiunque meditasse attentamente sulla sua entrata e sulla sua uscita da questa vita, uscirebbe subito da Sodoma, cioè dal fetore del mondo e del peccato, e salverebbe la sua anima; non si volterebbe indietro, cioè non ritornerebbe ai peccati passati; e non si fermerebbe in nessun luogo all’intorno: si ferma all’intorno colui che dopo aver abbandonato il peccato, non si cura di fuggire anche le occasioni e le fantasie di peccato; ma si salverebbe sul monte, cioè in una vita perfetta. Ecco quindi che giustamente nella Maddalena è indicata l’umiltà. 4. Alla Maddalena è felicemente accompagnata Maria di Giacomo, il cui nome s’interpreta "soppiantatrice". Essa rappresenta il disprezzo del mondo, per cui uno calpesta sotto i piedi, come fango, tutte le cose transitorie e getta via il lievito della precedente [ cattiva ] condotta. L’Apostolo infatti nell’epistola di oggi dice: "Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete azzimi ( puri ). Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato" ( 1 Cor 5,7 ). Lievito, in latino fermentum, deriva da fervore, o bollore. Dopo la prima ora non è più possibile frenarlo, perché crescendo trabocca e oltrepassa ogni misura; in greco si chiama zyma ( da cui àzimo, senza lievito, e quindi puro ). Nella "sequenza" composta da Adamo di San Vittore, è detto: "Sia espurgato il vecchio fermento, affinché sia annunziata con cuore sincero la nuova risurrezione". Il lievito, o fermento, raffigura la cupidigia delle cose terrene e la concupiscenza dei desideri carnali che, quando incominciano a ribollire, eccedono ogni misura: infatti l’avaro non è mai sazio di denaro, né il lussurioso è mai pago del piacere dei sensi. Dice infatti Isaia: "Gli empi, cioè gli avari e i lussuriosi, sono come un mare agitato che non può placarsi e i cui flutti portano in superficie sudiciume e fango. Non c’è pace per gli empi, dice il Signore" ( Is 57,20-21 ). I flutti del mare ribollente e tempestoso raffigurano i desideri dell’uomo perverso, che avviliscono la sua anima e la riducono miseramente a sudiciume e fango, in cui i porci, cioè i demoni, volentieri si insediano. Gettate via dunque il vecchio lievito! Per questo il Signore comanda: "Per sette giorni non si troverà lievito nelle vostre case; e chiunque mangerà qualcosa di lievitato, perirà la sua anima dalla terra d’Israele" ( Es 12,19 ). Per sette giorni, cioè per tutto il tempo della nostra vita, che si evolve quasi nel giro di sette giorni, non si trovi nelle vostre case, cioè nei vostri cuori, nulla di fermentato, cioè ardente di mondana e carnale concupiscenza. Diversamente, l’anima di colui che ne avrà mangiato perirà dalla terra d’Israele, cioè dalla vita eterna, nella quale vedremo Dio faccia a faccia ( cf. 1 Cor 13,12 ). "Gettate via dunque il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete puri". Leggiamo nell’Esodo: "Il popolo prese la farina impastata, prima che fosse lievitata: avvoltala nei mantelli, la gente se la pose sulle spalle" ( Es 12,34 ). E poco dopo: "Cossero la farina che avevano portata dall’Egitto già impastata e ne fecero dei pani azzimi, cotti sotto la cenere" ( Es 12,39 ). In questa citazione ci sono tre cose da notare: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. La farina, detta così da farro ( grano ) che è il cibo degli infermi, raffigura la penitenza che è il cibo dei peccatori: dobbiamo impastarla con l’acqua della contrizione e chiuderla nei mantelli, cioè nella nostra coscienza, con il vincolo della confessione e portarla sulle nostre spalle con le opere penitenziali della soddisfazione. Questa farina, perché non fermenti, dobbiamo cuocerla con il fuoco, cioè con l’amore dello Spirito Santo, e farne come dei pani cotti sotto la cenere, viatico della nostra condizione mortale, pani azzimi della sincerità e della verità ( cf. 1 Cor 5,8 ), vivendo nella sincerità nei nostri riguardi, e nella verità nei riguardi di Dio e del prossimo. 5. "Cristo nostra Pasqua è stato immolato". Secondo Agostino, pasqua deriva il suo nome non da "passione", ma da "passaggio", perché in quel giorno passò attraverso l’Egitto l’angelo sterminatore, figura del Signore che venne a liberare il suo popolo. Con lo stesso nome ( pasqua ) indicavano l’Agnello, che in questo giorno sarebbe passato da questo mondo al Padre. E osserva che è detto pasqua l’agnello e anche l’ora della sera nella quale l’agnello veniva ucciso, cioè la decimaquarta luna del mese; e si dice anche "giorni degli azzimi", che andavano dalla decimaquinta luna al giorno ventunesimo dello stesso mese. Ma gli evangelisti scrivono indifferentemente giorni degli azzimi per pasqua, e pasqua per giorni degli azzimi. Infatti Luca scrive: "Si avvicinava il giorno di festa degli azzimi, che è chiamato pasqua" ( Lc 22,1 ). "Cristo, nostra Pasqua, dunque, è immolato". Mangiamo perciò, in questa solennità pasquale, questo Agnello "bruciato" per noi sulla croce, immolato al Padre per la riconciliazione del genere umano; mangiamolo con le erbe selvatiche, come fu ordinato ai figli d’Israele, vale a dire con il dolore e la contrizione del cuore. Disse il Signore: "Vi cingerete i fianchi, calzerete i sandali ai piedi, terrete in mano il bastone e mangerete l’agnello in fretta: è infatti la pasqua, cioè il passaggio del Signore" ( Es 12,11 ). Fa’ attenzione a queste tre parole: i fianchi, i sandali, il bastone. I fianchi, in lat. renes; i reni sono così chiamati perché da essi nascono quasi dei ruscelli ( lat. rivi ) di liquido ripugnante. Infatti le vene e le viscere secernono nei reni un umore leggero che, liberato poi dai reni stessi, scende eccitando i sensi. La secrezione dei reni è calda, e i reni sono circondati da molto grasso: quindi giustamente dice il Signore: Cingerete i vostri reni ( le reni, i fianchi ), reprimerete cioè con la mortificazione della carne l’ardore della lussuria. I sandali raffigurano gli esempi dei santi, con i quali dobbiamo proteggere i piedi, cioè gli affetti della mente, per essere in grado di camminare in tutta sicurezza sui serpenti, cioè le suggestioni del diavolo, e sugli scorpioni, vale a dire sulle false promesse del mondo. Il bastone nelle mani rappresenta le parole della predicazione, tradotte nella pratica delle opere. Quindi, chi vuole ricevere degnamente il corpo del Signore, si cinga i fianchi con la cintura della castità, fortifichi gli affetti della mente con gli esempi dei santi, e traduca le parole in opere: così con i veri Israeliti celebri la vera pasqua, per passare da questo mondo al Padre ( cf. Gv 13,1 ). Di questo passaggio disse un filosofo: Il mondo è come un ponte: pàssaci sopra senza fermarti. E un altro: Il mondo è un ponte malsicuro, il suo ingresso è il grembo della madre, e la sua uscita sarà la morte. Ottima cosa è dunque edificare la torre dell’umiltà con Maria Maddalena, e soppiantare, cioè disprezzare il mondo, insieme con Maria di Giacomo. 6. A queste due Marie si aggiunge la terza, cioè Salome, che è "l’abbondanza della pace". Di essa dice Salomone: "Di tre cose mi sono compiaciuto nel mio spirito, tre cose gradite a Dio e agli uomini: la concordia dei fratelli, l’amore tra i vicini, e marito e moglie che vanno d’accordo tra loro" ( Sir 25,1-2 ). Da questa triplice pace nasce il gaudio di Dio e dei suoi angeli, e la gioia per gli uomini. "Ecco – dice il profeta – quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme" ( Sal 133,1 ). "Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù". Scrive Luca: "Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, guardarono attentamente il sepolcro e come era stato deposto il suo corpo. Ritornarono indietro e prepararono gli aromi e gli unguenti; e il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il precetto" ( Lc 23,55-56 ). La Glossa, commentando Matteo ( Mt 28,1 ), dice: Era comandato che il silenzio del sabato fosse osservato da vespro a vespro; quindi le pie donne, sepolto il Signore, mentre era ancora permesso il lavoro – e cioè il giorno della parasceve ( venerdì ) fino al tramonto del sole – si occuparono nella preparazione dei vari unguenti.  poiché, per il poco tempo a disposizione, non riuscirono a completare i preparativi, passato il sabato, cioè al tramonto del sole, quando di nuovo era permesso il lavoro, subito si affrettarono a comperare gli aromi, per essere pronte al mattino seguente per andare a imbalsamare il corpo di Gesù. Queste pie donne si affrettavano: si affaticavano a preparare unguenti come si affaticano le api nel produrre il miele e la cera. Dice la Storia Naturale che le varie attività delle api sono ben distinte tra loro, giacché alcune producono la cera e altre il miele; alcune portano acqua, altre radunano il miele e altre ancora lo pressano; alcune escono per il lavoro allo spuntar del giorno e altre riposano finché una le sveglia. Quindi tutte insieme volano fuori a lavorare. In quest’ape che sveglia le altre che stanno dormendo, io vedo raffigurata la beata Maddalena, la quale, poiché ardeva di grande amore, sollecitava vivamente le altre a preparare gli unguenti. Invece la Vergine Maria, dopo che il figlio suo Gesù fu deposto nel sepolcro, mai se ne allontanò, come affermano alcuni, ma restò sempre lì a vegliare in lacrime, finché per prima lo vide risorgere: per questo i fedeli festeggiano in suo onore il giorno di sabato. 7. Sul loro esempio, le anime fedeli, illuminate dallo splendore dell’umiltà, della povertà e della pace, comprino, con il denaro della buona volontà, segnato con l’immagine dell’imperatore ( cf. Mt 22,19-21 ), quegli aromi dei quali dice Mosè: "Procùrati aromi: mirra scelta e vergine, cinnamomo, canna odorosa, cassia e olio d’oliva: ne farai l’unguento per l’unzione sacra, confezionato con l’arte del profumiere. Ungerai con esso la tenda della testimonianza e l’arca dell’alleanza, la mensa con i suoi vasi, il candelabro con i suoi accessori, l’altare dell’incenso e l’altare dell’olocausto" ( Es 30,23-28 ). Nella mirra vergine e scelta è indicata la devozione della mente, alla quale dobbiamo tendere più che a tutto il resto; nel cinnamomo, che è color cenere, è indicato il pensiero della morte; nella canna odorosa la melodia della confessione; nella cassia, che ha il suo habitat in luoghi umidi e cresce molto alta, è indicata la fede, che si nutre nelle acque del battesimo e si spinge verso l’alto per mezzo dell’amore; nell’olio d’oliva è indicata la misericordia del cuore. Con questi cinque elementi dobbiamo preparare l’unguento sacro che ci santifica, confezionato con l’arte del profumiere, cioè dello Spirito Santo. Con questo unguento devono essere unte queste cinque cose: la tenda della testimonianza, cioè i poveri di Cristo, i quali, segnati con il carattere della sua povertà, finché sono in questo mondo, sono come in esilio, lontani dal Signore; l’arca dell’alleanza, cioè coloro che portano l’arca dell’obbedienza sul carro nuovo, vale a dire in un cuore e in un corpo rinnovati con la penitenza; la mensa con i suoi vasi, cioè coloro che porgono a tutti i dodici pani, che è la dottrina dei dodici apostoli, con un pugno d’incenso, che è l’umiltà e la devozione della mente, e la patena d’oro, vale a dire la luce dell’amore fraterno; il candelabro e i suoi accessori, cioè tutti i santi prelati della chiesa, che non nascondono il candelabro della loro dignità sotto il moggio, cioè sotto il guadagno materiale, ma lo mettono sopra il monte di una vita veramente santa, affinché illumini e mostri la strada a tutti coloro che sono nella casa ( cf. Mt 5,15 ), cioè nella chiesa; e questo valga non solo per il candelabro ma anche per i suoi accessori, vale a dire per tutti gli altri che hanno dignità minori; e finalmente i due altari dell’olocausto e dell’incenso. Nell’altare dell’olocausto sono indicati gli attivi, coloro che si dedicano totalmente alle necessità del prossimo; mentre nell’altare dell’incenso sono indicati i contemplativi, che sperimentano la soavità delle dolcezze celesti. Quindi con questo unguento, confezionato per opera dello Spirito Santo, devono essere unti tutti coloro che abbiamo nominato, che sono le membra di Gesù Cristo, crocifisse sulla croce della penitenza, morte al mondo, lontane dall’agitazione degli uomini perché rinchiuse nel sepolcro della frequentazione delle cose celesti. 8. "Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome comperarono gli aromi, per andare ad imbalsamare il corpo di Gesù. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, andarono al sepolcro, appena sorto il sole" ( Mc 16,1-2 ). Matteo scrive così: "La sera del sabato, in cui ha inizio il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena e l’altra Maria andarono a vedere il sepolcro" ( Mt 28,1 ). E Luca: "Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparato" ( Lc 24,1 ). E Giovanni: "Il primo giorno dopo il sabato, Maria Maddalena si recò al sepolcro al mattino, quando ancora era buio" ( Gv 20,1 ). Dunque Marco dice: "di buon mattino", e in questo non si discosta da Luca e da Giovanni. Matteo invece, parlando della prima parte della notte, cioè della sera, vuole indicare la notte, alla fine della quale [ vale a dire al mattino ] si recarono al sepolcro. Devi quindi intendere le sue parole in questo modo: Andarono al sepolcro alla sera, cioè nella notte che incomincia quando finisce la luce, poiché il crepuscolo non è la prima ma l’ultima parte della notte. Quindi la sera del sabato, cioè all’inizio della notte dopo il sabato; certamente incominciarono ad avviarsi alla sera, a preparare gli aromi, ma arrivarono ai primi albori del giorno: ciò che Matteo, per motivi di brevità, dice in modo poco chiaro, gli altri invece lo dicono esplicitamente. Ed ecco il senso morale. "Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato". Al mattino, cioè agli inizi della grazia, senza la quale nell’anima c’è la notte. Dice il profeta: "Al mattino starò davanti a te" ( Sal 5,5 ), ritto ed eretto, come ritto ed eretto tu mi hai fatto. Il primo giorno dopo il sabato le anime sante vanno al sepolcro, perché se l’animo non desiste dal preoccuparsi delle cose temporali, non si avvicina a Dio. Dice il Signore per bocca di Geremia: "Custodite le vostre anime, e non vogliate portare pesi il giorno di sabato, e non introduceteli per le porte di Gerusalemme" ( Ger 17,21 ). Sabato s’interpreta "riposo"; Gerusalemme è l’anima e le porte sono i cinque sensi del corpo. Quindi portano pesi nel giorno di sabato e li introducono per le porte di Gerusalemme coloro che, implicati negli affanni delle cose temporali, attraverso le porte dei cinque sensi introducono nell’anima il peso dei peccati, il bagaglio delle preoccupazioni di questo mondo, e quindi non custodiscono l’anima dal peccato. Invece le anime fedeli, evitato ogni ronzio delle mosche dell’Egitto ( cf. Is 7,18 ), "il primo giorno dopo il sabato si recano al sepolcro". II. rimozione della pietra dalla porta del sepolcro 9. "E dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via la pietra dalla porta del sepolcro? E guardando, videro la pietra già rimossa: era una pietra molto grande!" ( Mc 16,3-4 ). Senso allegorico. La rimozione della pietra ci ricorda la rivelazione dei sacri misteri di Cristo, che erano coperti dal velo della lettera della legge. La legge infatti era scritta nella pietra e, rimossa la sua copertura, fu manifestata la gloria della risurrezione, e incominciò ad essere proclamata in tutto il mondo l’abolizione della morte antica e la vita senza fine, nella quale ci era dato di sperare. Senso morale. La pietra viene rimossa quando per mezzo della grazia viene tolto il peso del peccato. Quando questo avvenga, e come debba comportarsi l’uomo perché questo si realizzi in lui, è detto nella Genesi: Era uso che, quando tutte le pecore erano radunate, fosse rimossa la pietra dalla bocca del pozzo ( cf. Gen 29,3 ). Quindi se vuoi che venga rimossa la pietra del peccato, che ti impedisce di rialzarti, raduna attorno a Cristo le pecore, vale a dire i buoni pensieri. E continua la Genesi: "Ed ecco arrivò Rachele con le pecore di suo padre, giacché essa pascolava il gregge" ( Gen 29,9 ). Rachele, che s’interpreta "pecora", pasce le pecore, perché l’uomo semplice si ferma su pensieri onesti. Così pure, in senso morale, va al sepolcro colui che si propone di fare penitenza in qualche monastero o in un ordine religioso. Ma, considerando la grandezza e il peso della pietra, vale a dire le difficoltà della vita religiosa, dice tra sé: Chi mi rimuoverà la pietra dalla porta del sepolcro? Grande e pesante è la pietra, difficile è l’ingresso, difficili le lunghe veglie, i frequenti digiuni, la scarsità del cibo, la ruvidezza della veste, la severa disciplina, la povertà volontaria, l’obbedienza pronta: e chi mi rimuoverà questa pietra dalla porta del sepolcro? O menti femminee, avvicinatevi e guardate, non siate diffidenti e vedrete che la pietra è già rimossa. "Un angelo – dice Matteo – discese dal cielo e rimosse la pietra: e ora stava seduto su di essa" ( Mt 28,2 ). L’angelo è la grazia dello Spirito Santo che rimuove la pietra dalla porta del sepolcro, sostiene la nostra fragilità, mitiga ogni asprezza e addolcisce con il balsamo del suo amore ogni amarezza. Il cavallo – cioè la buona volontà –, viene preparato per la battaglia, ma è il Signore che dà la salvezza ( cf. Pr 21,31 ). "Nulla è difficile per chi ama" ( Bernardo ). III. la visione dell’angelo 10. "Entrate nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra, vestito di una stola candida, e furono molto stupite" ( Mc 16,5 ). Senso morale. Il sepolcro raffigura la vita contemplativa nella quale l’uomo, morto al mondo, si seppellisce nel nascondimento. Dice Giobbe: "Entrerai nel sepolcro nell’abbondanza, come si raccoglie il mucchio di grano a suo tempo" ( Gb 5,26 ). Il giusto, soffiata via la pula delle cose temporali, uscendo dal mondo, nell’abbondanza della grazia divina entra nel sepolcro della vita contemplativa, nella quale viene messo in serbo come un cumulo di grano, giacché la sua anima si raccoglie con celeste dolcezza nella contemplazione. Egli, entrando nel sepolcro, vede un giovane seduto dalla parte destra, coperto di una veste candida. Il "giovane", così chiamato perché pronto a "giovare" ( aiutare ), è il Figlio di Dio, che come un giovane ci aiuta ed è sempre pronto ad aiutare. Giustamente è detto: "Sedeva dalla parte destra". Si dice destra, come per dire "dando fuori" ( lat. dextera, dans extra ). Egli ci aiutò in modo meraviglioso quando diede a noi la divinità e assunse la nostra umanità, affinché noi, che eravamo fuori, fossimo dentro; perché noi entrassimo, egli uscì e si coprì della veste candida, cioè della carne umana, ma senza alcuna macchia. Dice il beato Bernardo: "Dopo tutti i benefici, volle essere trafitto alla parte destra, per mostrarci che solo dalla destra volle prepararci un posto a destra". Il giusto che esce dal mondo ed entra nel sepolcro, deve vedere, deve contemplare questo "giovane", nel modo indicato dal beato Bernardo: "Come l’animale che viene iniziato al lavoro, così il giovane apprendista di Cristo deve essere istruito sul modo di avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui. Dev’essere esortato a rivolgersi, con la massima purezza di cuore possibile, a colui al quale presenta l’offerta della sua preghiera. Quanto più vede e comprende colui al quale fa la sua offerta, tanto più arderà di amore per lui, e la comprensione stessa si trasformerà in amore; e quanto più sarà di lui innamorato, tanto più capirà se ciò che gli offre è veramente degno di Dio e se in lui ne avrà giovamento. Tuttavia a colui che prega o medita in questo modo, sarà meglio e più sicuro proporre l’immagine dell’umanità del Signore, della sua natività, della sua passione e risurrezione, affinché lo spirito debole, che non sa pensare se non alla materia e a cose materiali, trovi qualcosa su cui fissarsi con sguardo di pietà e a cui attaccarsi, secondo le sue disposizioni. Ciò che si legge in Giobbe, che l’uomo, se si ferma a considerare la sua natura, non peccherà ( cf. Gb 5,24 ), è detto certamente in riferimento al Mediatore Cristo, e significa: quando l’uomo rivolge a lui lo sguardo della sua intelligenza, considerando in Dio la natura umana, non si allontani mai dalla verità, e mentre per mezzo della fede non separa Dio dall’uomo, impara alla fine a riconoscere nell’uomo il suo Dio. Con tutto ciò, nell’animo dei poveri nello spirito e dei figli di Dio più semplici, il sentimento è, di solito, tanto più soave, quanto più si avvicina alla natura umana. In un secondo momento però, quando la fede si trasforma in affetto, accogliendo nel centro del loro cuore, con il dolce abbraccio dell’amore, Cristo Gesù, uomo perfetto assunto per l’uomo, e vero Dio in quanto Dio che assume, incominciano a conoscerlo non più secondo la carne, per quanto non possano ancora pensarlo pienamente Dio secondo Dio, e benedicendolo nel loro cuore, amano offrirgli i loro voti" ( Guigo Certosino, Epistole ) e i loro aromi, insieme con le sante donne, delle quali appunto è detto: "Entrando nel sepolcro, videro un giovane seduto a destra", ecc. IV. la risurrezione di Gesù Cristo 11. "Il giovane disse loro: Non abbiate timore! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’hanno deposto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precederà in Galilea; ivi lo vedrete, come egli vi ha detto" ( Mc 16,6-7 ). "È scomparsa l’amara radice della croce, è sbocciato il fiore della vita con i suoi frutti". "Chi giaceva nella morte, è risorto nella gloria". "Al mattino è risorto, chi alla sera era stato sepolto", affinché si adempisse la parola del salmo: "Alla sera perdura il pianto, ma al mattino ecco la gioia!" ( Sal 30,6 ). Gesù quindi fu sepolto il sesto giorno della settimana, che si chiama parasceve; verso il tramonto, prima che incominciasse il sabato; la notte seguente, il giorno di sabato con la notte seguente restò deposto nel sepolcro; il terzo giorno, cioè il mattino del primo giorno dopo il sabato, risuscitò. Restò nel sepolcro esattamente un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte. Noi infatti eravamo schiavi della morte dell’anima [ vita naturale ] e dello spirito [ vita spirituale ]. Egli subì per noi un’unica morte, quella della carne, e così ci liberò dalla nostra duplice morte. Unì la sua unica morte alla nostra duplice morte, e morendo le distrusse entrambe. Leggiamo nel vangelo che il Signore, dopo la risurrezione, apparve ai suoi discepoli ben dieci volte, di cui le prime cinque il giorno stesso della risurrezione. La prima volta apparve a Maria Maddalena, la seconda alle donne che tornavano dal sepolcro, la terza a Pietro, secondo quanto afferma Luca: "Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone" ( Lc 24,34 ); la quarta volta è apparso ai due discepoli diretti a Emmaus; la quinta ai dieci apostoli nel cenacolo a porte chiuse, in assenza di Tommaso. La sesta volta riapparve ai discepoli, otto giorni dopo, presente anche Tommaso; la settima volta apparve a sette discepoli che stavano pescando; l’ottava fu sul monte Tabor, dove il Signore aveva stabilito che tutti si riunissero ad attenderlo: e così prima della sua ascensione apparve otto volte; e nel giorno dell’ascensione apparve altre due volte, e cioè mentre gli undici stavano mangiando nel cenacolo, per cui dice Luca: "Mentre mangiava insieme ad essi, comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme" ( At 1,4 ). Poi si mostrò di nuovo dopo la refezione: gli undici apostoli e altri discepoli, la Vergine Maria con altre donne si recarono al monte degli Ulivi, dove apparve loro il Signore e "mentre essi stavano guardando, egli si sollevò verso l’alto, e una nube lo nascose ai loro occhi" ( At 1,9 ). Vediamo quale sia il significato morale di queste dieci apparizioni. 12. 1. Apparve a Maria Maddalena. Infatti all’anima penitente appare la grazia di Dio, prima che agli altri. È detto nell’Esodo: "Apparve nel deserto la manna, una cosa minuta, come pestata nel mortaio, simile alla brina che si posa sulla terra" ( Es 16,14 ). Nel deserto, cioè in colui che fa penitenza, appare la manna della grazia divina, frantumata nella contrizione, pestata nel mortaio della confessione, simile alla brina nell’opera penitenziale della soddisfazione. 2. Apparve alle donne che tornavano dalla visita al sepolcro. Il Signore infatti appare a coloro che ritornano dal sepolcro, cioè escono dalla loro miseranda morte spirituale e considerano il lacrimevole ingresso della loro nascita. Leggiamo nella Genesi: "Il Signore apparve ad Abramo nella valle di Mamre, mentre era seduto all’ingresso della sua tenda nell’ora più calda del giorno" ( Gen 18,1 ). Abramo è il giusto, la valle è la duplice umiltà; Mamre s’interpreta "splendore"; la tenda raffigura il corpo, l’ingresso della tenda l’ingresso e l’uscita dalla vita; l’ora più calda del giorno raffigura il pentimento dell’anima. Il Signore appare quindi al giusto che si mantiene nella duplice umiltà del cuore e del corpo, la quale conduce allo splendore della gloria celeste; al giusto che sta seduto all’ingresso della sua tenda, che medita cioè sulla nascita del suo corpo e sulla sua morte: e deve meditare tutto questo nel fervore del pentimento. 3. Apparve a Pietro. Scrive Geremia: "Il Signore mi apparve [ e mi disse ]: Io ti ho amato di amore eterno; perciò ti ho attirato a me con misericordia; di nuovo ti edificherò" ( Ger 31,3-4 ). Dice Pietro: Il Signore risorto da morte è apparso a me, a me penitente, a me amaramente piangente! E risponde il Signore: "Ti ho amato di amore eterno". Infatti "il Signore, voltatosi, guardò Pietro" ( Lc 22,61 ). Lo guardò perché lo amava; quindi con la fune dell’amore "ti ho attirato a me con misericordia". Dice Agostino: Non vuole vendicarsi dei peccatori, colui che brama concedere il perdono a coloro che si pentono. "E di nuovo ti edificherò", ti riporterò alla dignità dell’apostolato: "Andate, e dite ai suoi discepoli e a Pietro". Commenta Gregorio: "Pietro viene chiamato per nome, perché non si disperi per la sua triplice negazione. Se l’angelo infatti non lo avesse indicato per nome, lui che era giunto a rinnegare il Maestro, non avrebbe più osato ritornare tra i discepoli". 4. Apparve ai due discepoli diretti a Emmaus. Emmaus s’interpreta "desiderio di consiglio", del consiglio dato dal Signore che disse: "Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri" ( Mt 19,21 ). I due discepoli rappresentano i due comandamenti della carità: l’amore di Dio e del prossimo. A colui che ha la carità e che desidera essere povero come Cristo, appare il Signore. Si legge nella Genesi che Isacco salì a Bersabea, dove gli apparve il Signore ( cf. Gen 26,23-24 ). Bersabea s’interpreta "pozzo che sazia" e sono in esso raffigurate la carità e la povertà che saziano l’anima: chi ha queste due virtù "non avrà sete in eterno" ( Gv 4,13 ). 5. Apparve ai dieci discepoli, radunati insieme [ nel cenacolo ] a porte chiuse. Quando i discepoli, cioè i sentimenti della ragione, sono radunati insieme per uno scopo, e le porte dei cinque sensi sono chiuse alle vanità, allora di certo appare alla mente la grazia dello Spirito Santo. Si legge in Luca: A Zaccaria "entrato nel tempio del Signore, apparve l’angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso" ( Lc 1,9.11 ). Quando Zaccaria, che si interpreta "memoria del Signore" – vale a dire uomo giusto, perché ha riposto il Signore nel tesoro della sua memoria –, quando Zaccaria entra nel tempio del Signore, cioè nella sua coscienza nella quale il Signore dimora, allora l’angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, gli appare, lo illumina, stando alla destra dell’altare dell’incenso. L’altare dell’incenso rappresenta la compunzione della mente; la destra è la retta intenzione. Quindi la grazia del Signore sta alla destra dell’altare dell’incenso, perché approva quella compunzione, loda e gradisce quell’incenso che il giusto fa salire dalla retta intenzione della mente. 13. 6. Otto giorni dopo la risurrezione, apparve ai discepoli mentre c’era con loro anche Tommaso, dal cui cuore estirpò ogni dubbio. Quando infatti saremo nel giorno ottavo della risurrezione finale, il Signore eliminerà da noi ogni ruga di dubbio e ogni macchia di mortalità e di infermità. Dice Isaia: "La luce della luna sarà come la luce del sole, e la luce del sole sarà sette volte più intensa, come la luce di sette giorni, nel giorno in cui il Signore curerà la ferita del suo popolo e risanerà il livido della sua piaga" ( Is 30,26 ). Fa’ attenzione a queste due parole: ferita e piaga. La ferita si riferisce all’anima, la piaga al corpo. Nella ferita è raffigurato il pensiero impuro dell’anima, nella piaga la morte del corpo. Ma nel giorno della risurrezione finale, quando il sole e la luna – come dice Isidoro nel Libro delle creature – riceveranno la ricompensa della loro fatica, perché il sole sfolgorerà e arderà immobile ad oriente sette volte più di adesso, in modo da straziare coloro che sono nell’inferno, e la luna, ferma ad occidente, avrà lo splendore che ha oggi il sole, allora, veramente, il Signore curerà la ferita della nostra anima, perché, come dice il Profeta, nessuna bestia, cioè nessun cattivo pensiero, passerà per Gerusalemme ( cf. Is 35,9 ). Anzi, come dice Giovanni nell’Apocalisse, "la città" – vale a dire la nostra anima –, "sarà come oro purissimo simile a terso cristallo" ( Ap 21,18 ). Che cosa c’è di più brillante dell’oro, di più luminoso del cristallo? E io vi domando: nella risurrezione finale che cosa ci sarà di più brillante e di più luminoso dell’anima dell’uomo glorificato? Allora il Signore risanerà il livido della nostra piaga – dalla quale siamo stati colpiti per la disobbedienza dei nostri progenitori –, e questo corpo mortale indosserà l’immortalità e questo corpo corruttibile sarà rivestito di incorruttibilità ( cf. 1 Cor 15,53-54 ). Nella risurrezione finale il "giardino del Signore", cioè il nostro corpo glorificato, sarà irrigato da quattro fiumi, il Pison, il Ghicon, il Tigri e l’Eufrate; sarà cioè dotato di quattro prerogative: la luminosità, la sottigliezza, l’agilità e l’immortalità. Pison s’interpreta "cambiamento di aspetto", Ghicon "petto", Tigri "freccia", Eufrate "fertile ( cf. Gen 2,10-14 ). Nel Pison è indicato lo splendore della risurrezione: dalla nostra grande bruttura e oscurità saremo trasformati come in un sole. È detto infatti: "I giusti risplenderanno come il sole …" ( Mt 13,43 ). Nel Ghicon è indicata la sottigliezza; infatti, come il petto dell’uomo non si squarcia, non viene leso, non si apre né ha alcuna sofferenza quando escono dal cuore i pensieri ( cf. Mt 15,19 ), così il corpo glorificato sarà dotato di sì grande sottigliezza che nessuna cosa sarà per esso impenetrabile; e tuttavia sarà inviolabile, inscindibile, compatto e solido, come lo fu il corpo glorificato di Cristo, che entrò dagli apostoli [ nel cenacolo ] a porte chiuse ( cf. Gv 20,26 ). Nel Tigri è indicata l’agilità, che è efficacemente raffigurata dalla velocità della freccia. Nell’Eufrate è indicata l’immortalità, nella quale saremo inebriati dall’abbondanza della casa di Dio ( cf. Sal 36,9 ): piantati in essa come l’albero della vita nel centro del paradiso terrestre, daremo frutto. Saranno i frutti dell’eterna sazietà, per cui non sentiremo più fame in eterno. 14. 7. Apparve quindi ai sette discepoli che stavano pescando. La pésca raffigura la predicazione, e a coloro che vi si dedicano certamente appare il Signore. Sta scritto infatti nel libro dei Numeri che "apparve la gloria del Signore su Mosè ed Aronne. E il Signore parlò a Mosè dicendo: Prendi il bastone e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, e parlate alla roccia davanti a loro, e la roccia lascerà scaturire le acque. E quando avrai fatto uscire l’acqua dalla roccia, berrà tutta la moltitudine e il suo bestiame" ( Nm 20,6-8 ). In questo passo Mosè raffigura il predicatore. Aronne s’interpreta "forte monte", nel quale sono indicate due cose: la santità della vita e la costanza della fortezza. Senza questo fratello Mosè non deve mai muoversi. Il Signore gli disse: Prendi il bastone della predicazione e raduna il popolo, tu e Aronne tuo fratello, senza del quale il popolo non viene mai radunato con profitto, perché quando si disprezza la condotta di una persona, si disprezza anche la sua predicazione; e parlate alla roccia, cioè al cuore indurito del peccatore, e quella roccia farà scaturire le acque della compunzione. E giustamente è detto "parlate", e non "parla". Infatti se parla soltanto la bocca, e la vita è muta, non potrà mai far uscire acqua dalla roccia. Il Signore maledisse il fico nel quale non trovò frutti ma solo foglie ( cf. Mt 21,19; Mc 11,13-14 ): di foglie furono rivestiti i progenitori scacciati dal paradiso terrestre ( cf. Gen 3,7 ). Parlino dunque Mosè ed Aronne, e scaturirà l’acqua, e berranno la moltitudine del popolo e tutto il bestiame: sia i chierici che i laici, sia gli spirituali che i viziosi si sazieranno dell’acqua della compunzione. Questa è la moltitudine della quale Giovanni dice: "Gettarono la rete e non riuscivano più a tirarla a riva per la grande quantità [ moltitudine ] di pesce catturato" ( Gv 21,6 ). 15. 8. Apparve poi agli undici su un monte della Galilea ( cf. Mt 28,16-17 ). Galilea s’interpreta "trasmigrazione", e indica la penitenza, con la quale si effettua una trasmigrazione, quando l’uomo dalla riva del peccato mortale, attraverso il ponte della confessione, passa alla riva dell’opera penitenziale della soddisfazione. Quindi il Signore appare su un monte della Galilea, cioè nella perfetta penitenza; appare agli undici discepoli, cioè ai penitenti che giustamente sono in numero di undici, perché undici furono i teli di lana di capra con i quali fu coperto il tetto della tenda della testimonianza, come è scritto nell’Esodo ( cf. Es 26,7 ). Nei teli di lana di capra sono indicate due cose: il rigore della penitenza e il fetore del peccato, del quale i penitenti confessano di essere stati schiavi. Con questi teli è coperto il tetto della tenda, cioè della chiesa militante: essi trattengono l’ardore del sole, portano il peso della giornata e del caldo ( cf. Mt 20,12 ); proteggono le cortine intessute di lino, di seta, di porpora e di scarlatto tinto due volte; queste cortine raffigurano i fedeli della chiesa, ornati del lino della castità, della seta della contemplazione, della porpora della passione del Signore, dello scarlatto tinto due volte, vale a dire decorato con il duplice comandamento della carità. E gli undici teli li proteggono dall’inondazione delle piogge, cioè dalla protervia degli eretici; dal turbine, che è la suggestione diabolica; dalla sporcizia della polvere, vale a dire dalla vanità del mondo. Ecco dunque come il Signore apparve agli undici discepoli. Giacobbe parla così nella Genesi: "Dio onnipotente mi apparve in Luz, che si trova nella terra di Canaan" ( Gen 48,3 ). Luz s’interpreta "mandorlo", e indica la penitenza, nella quale, come nella mandorla, ci sono tre elementi: la corteccia amara, il guscio solido, il seme dolce. Nella corteccia amara è indicata l’amarezza della penitenza, nel guscio solido la costanza della perseveranza e nel seme dolce la speranza del perdono. Apparve dunque il Signore a Luz, che si trova nella terra di Canaan e s’interpreta "mutamento". La vera penitenza infatti è quella per la quale l’uomo passa da sinistra a destra, e con gli undici discepoli trasmigra nel monte della Galilea, dove appare il Signore. 9. Apparve ancora il Signore agli undici mentre stavano a tavola – come racconta Marco ( cf. Mc 16,14 ) –, il giorno stesso della sua ascensione al cielo, quando, mentre mangiava con loro, precisa Luca, ordinò che non si allontanassero da Gerusalemme ( cf. At 1,4 ). Il Signore dunque appare a quelli che, nel cenacolo della loro mente, si liberano delle preoccupazioni di questo mondo, si nutrono del pane delle lacrime nel ricordo dei loro peccati e dell’esperienza della dolcezza celeste. Dice la Genesi: "Il Signore apparve ad Isacco e gli disse: Non discendere in Egitto, ma fermati nella terra che io ti indicherò e sii pellegrino in essa: io sarò con te e ti benedirò" ( Gen 26,2-3 ). Tre cose il Signore comanda al giusto: di non scendere in Egitto, cioè di non immergersi nell’affanno delle cose del mondo, dove si fabbricano i mattoni con il fango della lussuria, con l’acqua dell’avarizia e con la paglia della superbia; di fermarsi a riposare nella terra della sua coscienza; e in tutti i giorni della sua vita, che sono come un continuo combattimento ( cf. Gb 14,14 ), si reputi solo un pellegrino. E così il Signore sarà con lui e lo benedirà con la benedizione della sua destra. 16. 10. E finalmente apparve di nuovo agli undici, come racconta Luca, quando "li condusse fuori città verso Betania, cioè al monte degli Ulivi, e alzate le mani li benedisse ( Lc 24,50 ); "sotto i loro occhi fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro sguardi" ( At 1,9 ). Il Signore appare a coloro che stanno sul monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Infatti è detto nell’Esodo: "Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto; e vedeva che il roveto bruciava ma non si consumava" ( Es 3,2 ). A Mosè, cioè all’uomo misericordioso, appare il Signore nella fiamma del fuoco, vale a dire mentre partecipa alle sofferenze degli altri. Ma da dove scaturisce questa fiamma? Dal centro del roveto, cioè del povero, spinoso, tribolato, affamato, nudo, sofferente; e il giusto trafitto dalle spine di quella povertà, arde di compassione per poi usargli misericordia. E così potrà constatare che il roveto, cioè il povero, arderà di maggiore devozione e non si consumerà nella sua povertà. Orsù dunque, carissimi fratelli, che siete qui riuniti per festeggiare la Pasqua di Risurrezione, io vi supplico di comperare con il denaro della buona volontà, insieme alle pie donne, gli aromi delle virtù, con i quali possiate ungere le membra di Cristo con l’amabilità della parola e con il profumo del buon esempio; vi supplico, pensando alla vostra morte, di venire e di entrare nel sepolcro della celeste contemplazione, nella quale vedrete l’angelo dell’Eterno Consiglio, il Figlio di Dio, assiso alla destra del Padre. Egli nella risurrezione finale, quando verrà a giudicare il mondo nel fuoco, si svelerà a voi, non dico dieci volte, ma per sempre: in eterno e nei secoli dei secoli lo vedrete come egli è, con lui godrete, con lui regnerete. Si degni di concederci tutto questo colui che è risorto da morte: a lui sia onore e gloria, dominio e potestà nei cieli e sulla terra per i secoli eterni. E ogni fedele, in questo giorno di letizia pasquale, esclami: Amen, alleluia! La risurrezione del Signore ( 2 ) 1. "Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero" ( Qo 12,5 ). Esordio - nella risurrezione l’umanità di cristo fiorì come la verga di Aronne. 2. Leggiamo nel libro dei Numeri che la verga di Aronne germogliò e fiorì e, sviluppatesi le foglie, produsse delle mandorle ( cf. Nm 17,8 ). Aronne, sommo pontefice, è figura di Cristo, il quale, entrò nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue ( cf. Eb 9,12 ); questo è il pontefice che "fece di sé un ponte", affinché attraverso di lui potessimo passare dalla riva della mortalità a quella dell’immortalità: oggi la sua verga è fiorita. La verga è la sua umanità, della quale è detto: "La verga del tuo potere stende il Signore da Sion" ( Sal 110,2 ): infatti l’umanità di Cristo, per mezzo della quale la divinità esercitava la sua potenza, ebbe origine da Sion, cioè dal popolo giudaico, "perché – come è detto nel vangelo – la salvezza, cioè il Salvatore, viene dai giudei" ( Gv 4,22 ). Questa verga giacque quasi arida nel sepolcro per tre giorni e tre notti; ma poi fiorì e produsse frutto, perché risuscitò e portò a noi il frutto dell’immortalità. I. sermone allegorico 3. "Fiorirà il mandorlo". Dice Gregorio che il mandorlo è il primo tra tutte le piante a mettere i fiori; e dice l’Apostolo che Cristo è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti ( cf. Col 1,18 ), perché è risorto per primo. Osserva che la pena inflitta all’uomo era duplice: la morte dell’anima e quella del corpo: "In qualunque giorno mangerai – disse il Signore –, morirai di morte" ( Gen 2,17 ), della morte dell’anima: e non potrai sottrarti alla legge della morte. Infatti un’altra traduzione dice con maggior precisione: "diventerai mortale". Venne il nostro Samaritano, Gesù Cristo, e sopra questa duplice ferita versò vino e olio ( cf. Lc 10,34 ), perché con l’effusione del suo sangue distrusse la morte dell’anima nostra. Dice infatti Osea: "Io li libererò dalla mano della morte, li riscatterò dalla morte. O morte, io sarò la tua morte! Io sarò il tuo morso, o inferno!" ( Os 13,14 ). Dall’inferno prese una parte e una parte la lasciò, alla maniera di colui che morde, e con la sua risurrezione abolì la legge della morte, poiché diede la speranza di risorgere: "E non ci sarà più la morte" ( Ap 21,4 ). La risurrezione di Cristo è raffigurata nell’olio, che galleggia sopra tutti i liquidi. Il gaudio provato dagli apostoli alla risurrezione di Cristo superò ogni altro gaudio da loro sperimentato, quando egli era ancora con loro nel suo corpo mortale. E anche la glorificazione dei corpi supererà ogni altro gaudio: "I discepoli gioirono nel vedere il Signore" ( Gv 20,20 ). 4. "E la locusta s’ingrasserà". Nella locusta è raffigurata la chiesa primitiva, che con il fiore della risurrezione del Signore si ingrandì e fu riempita di meravigliosa letizia. Infatti Luca scrive: "Poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: Avete qui qualche cosa da mangiare? Allora essi gli offrirono una porzione di pesce arrostito e un favo di miele" ( Lc 24,41-42 ). Il pesce arrostito è figura del nostro Mediatore che subì la passione, fu preso con il laccio della morte nelle acque del genere umano, e arrostito, per così dire, nel tempo della passione; egli è per noi anche il favo di miele, a motivo della risurrezione, che oggi celebriamo. Il favo presenta il miele nella cera, e ciò raffigura la divinità rivestita dell’umanità. E in questa mescolanza di cera e di miele si indica che Cristo accoglie nell’eterna quiete, nel suo corpo, coloro che quando soffrono tribolazioni per Iddio, non vengono meno nell’amore dell’eterna dolcezza. Quelli che quaggiù vengono, per così dire, arrostiti dalla tribolazione, saranno saziati lassù della vera dolcezza. Osserva che "oggi il Signore è apparso cinque volte": prima a Maria Maddalena, quindi di nuovo a lei mentre era insieme con altri, quando correva a dare l’annuncio ai discepoli; poi a Pietro; poi a Cleofa e al suo compagno [ mentre andavano a Emmaus ] ( cf. Lc 24,14-31; Gv 20,19-23 ), e infine ai discepoli, a porte chiuse, dopo il ritorno dei due discepoli da Emmaus. Ecco dunque in che modo la locusta fu ingrassata con il fiore del mandorlo, vale a dire in che modo la chiesa primitiva fu allietata dalla risurrezione del Signore. La locusta, quando il sole brucia, fa salti e voli; così la chiesa primitiva, quando nel giorno della Pentecoste lo Spirito Santo la infiammò, fece in tutto il mondo i salti e i voli della predicazione. "In tutta la terra si è diffuso il suono della loro voce" ( Sal 19,5 ). Ingranditasi in questo modo la chiesa, "fu dissipato il cappero", che è una pianticella che s’attacca alla pietra, e raffigura la sinagoga, alla quale è stata data la legge scritta sulla pietra, per mostrare la sua durezza, alla quale sempre restò attaccata. "Questo è un popolo dalla dura cervice" ( Es 34,9 ). Quanto più la chiesa s’ingrandiva, tanto più la sinagoga si disgregava. Concorda con questo ciò che si legge nel secondo libro dei Re: "Vi fu una lunga lotta tra la casa di Saul e la casa di Davide. La casa di Davide cresceva e diveniva sempre più forte, mentre la casa di Saul s’indeboliva di giorno in giorno" ( 2 Sam 3,1 ). La casa di Davide è la chiesa; la casa di Saul, che s’interpreta "colui che abusa", raffigura la sinagoga, la quale, avendo abusato dei doni speciali di Dio, ricevette il libello del ripudio e abbandonò il talamo dello sposo legittimo. Quanto sia stato lungo il dissidio tra la chiesa e la sinagoga, lo dimostrano gli Atti degli Apostoli. La chiesa si ingrandiva perché "ogni giorno il Signore aggiungeva ad essa quelli che erano salvati" ( At 2,47 ). Invece la sinagoga ogni giorno diminuiva: "Chiama il suo nome "non mio popolo", perché voi non siete il mio popolo e io non sarò il vostro Dio"; e ancora: "Io mi dimenticherò totalmente di loro; invece avrò misericordia della casa di Giuda" ( Os 1,9.6-7 ), cioè della chiesa. A Gesù Cristo onore e gloria nei secoli. Amen. II. sermone morale 5. Ora vedremo che cosa significhino in senso morale: il mandorlo, la locusta e il cappero. In queste tre entità sono raffigurate: l’elargizione dell’elemosina, la consolazione del povero, la distruzione dell’avarizia. Elargizione dell’elemosina. "Fiorirà il mandorlo", cioè l’elemosiniere. A lui dice Isaia: "Al mattino fiorirà la tua semente" ( Is 17,11 ). La semente è l’elemosina, la quale al mattino, cioè tempestivamente, deve fiorire nella mano del cristiano prima di ogni altra attività materiale, come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante. Osserva che nel fiore ci trono tre elementi: il colore, il profumo e la promessa del frutto. Con il colore si allieta la vista, con il profumo si delizia l’olfatto, con il frutto si soddisfa il gusto. Così è dell’elemosina: nel suo colore si ristora, per così dire, la vista del povero, che ha l’occhio rivolto alla mano di chi porge. Infatti Pietro, insieme a Giovanni, disse allo storpio: "Guarda verso di noi! Allora egli li guardò, nella speranza di ricevere da essi qualche cosa" ( At 3,4-5 ). E qui, non senza rincrescimento, dobbiamo denunciare ciò che fanno i prelati della chiesa e i grandi di questo mondo: essi fanno aspettare a lungo alla loro porta i poveri di Cristo, che implorano e chiedono l’elemosina con voce lacrimosa, e finalmente, solo dopo che essi si sono ben rimpinzati e non di rado ubriacati, ordinano che venga loro dato qualche avanzo della loro mensa e le sciacquature della cucina. Certo non si comportava così Giobbe, mandorlo che fioriva per tempo, il quale dice: "Mai ho negato ai poveri ciò che mi domandavano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato un boccone da solo, senza che ne mangiasse anche l’orfano. Poiché dalla mia infanzia sono cresciute con me la pietà e la misericordia" ( Gb 31,16-18 ). E questo lo diceva parlando del cibo. Senti che cosa dice del vestito: "Mai ho disprezzato un pellegrino perché non aveva indumenti, e un povero che non aveva di che coprirsi: mi hanno benedetto i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato" ( Gb 31,19-20 ). Parimenti il profumo dell’elemosina edifica il prossimo, perché ne riceve buon esempio e glorifica Dio, mentre l’animo di colui che dà si consola nella speranza di riceverne il frutto nella vita eterna. 6. Consolazione del povero. "Si ingrasserà la locusta". Dice Naum che "le locuste nel tempo del freddo si rifugiano nelle siepi" ( Na 3,17 ). Così i poveri nel rigore della povertà che li angustia, si rifugiano letteralmente presso le siepi, chiedendo l’elemosina ai passanti, come dei lebbrosi, respinti dagli uomini. O anche: le siepi, nelle quali ci sono rami appuntiti e spine, raffigurano le trafitture, i dolori e le malattie dei poveri. Ecco quanta sofferenza! E perciò quanto è necessaria la consolazione! La locusta si ingrassa con il fiore, il povero viene consolato con l’elemosina. Per questo Giobbe dice: "Veniva su di me la benedizione di colui che stava per perire; io portai conforto al cuore della vedova" ( Gb 29,13 ). E il Signore per bocca di Isaia: "Questo è il mio riposo: Fate riposare chi è stanco; e questo è il mio sollievo. Ma non hanno voluto ascoltarmi" ( Is 28,12 ). E quindi anch’essi, quando grideranno: "Signore, Signore, àprici!" ( Mt 25,11 ), non saranno ascoltati. Adesso il Signore, nella persona dei suoi poveri, sta alla porta e bussa ( cf. Ap 3,20 ): gli si apre quando il povero viene ristorato. Ristoro del povero, riposo di Cristo. Ciò che avrete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me ( cf. Mt 25,40 ). E osserva che dice "s’ingrasserà" ( impinguabitur, si impinguerà ). La pinguedine ha qualcosa in comune con l’aria e il fuoco: per questo galleggia sopra l’acqua, perché l’aria che c’è in essa la sorregge. Parimenti la consolazione del povero partecipa dell’aria della devozione nei riguardi di se stesso, che riceve; e del fuoco della carità nei riguardi di te, che dài. La devozione lo innalza affinché preghi per te. È detto infatti: Riponi l’elemosina nel seno del povero ed essa pregherà per te ( cf. Sir 29,15 ), affinché ti siano rimessi i peccati, perché la tua mente sia illuminata dalla grazia e ti venga data la vita eterna. 7. Distruzione dell’avarizia. "Il cappero sarà disperso". La radice del cappero si attacca alla pietra, nella quale è raffigurata la durezza dell’avaro, che non si intenerisce di fronte alle miserie dei poveri. L’avaro è come Nabal, del quale è detto nel primo libro dei Re che era "un uomo duro e molto cattivo". I messaggeri di Davide gli dissero: "Siamo giunti da te in un giorno lieto: qualunque cosa troverà la tua mano, dalla ai tuoi servi e al tuo figlio Davide. Egli rispose loro: Chi è Davide, e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono aumentati i servi che fuggono dai loro padroni. Dovrò forse prendere i miei pani e le carni delle pecore che ho ucciso per i miei tosatori, e darle a uomini che non so di dove vengano?" ( 1 Sam 25,3-11 ). Questa è anche la risposta dell’avaro ai poveri di Cristo, che chiedono l’elemosina: egli non dà loro niente, anzi bestemmia e li svergogna. Perciò gli succede quello che segue: "Il cuore gli si tramortì nel petto ed egli restò come un pietra" ( 1 Sam 25,37 ). È ciò che capita all’avaro quando gli viene sottratta la grazia ed è privo di viscere di misericordia. Fortunato invece colui che toglie da sé il cuore di pietra e prende un cuore di carne ( cf. Ez 11,19 ), che, colpito dalle miserie dei poveri, soffre con loro affinché la sua compassione diventi il loro sollievo e il loro sollievo segni la distruzione della sua avarizia. Se uno avesse nel suo frutteto una pianta sterile, forse che non la sradicherebbe e al suo posto non ne pianterebbe un’altra in grado di dare frutto? L’avarizia è la pianta sterile! Perché occupa la terra? Tàgliala! ( cf. Lc 13,7 ), sràdicala, e al suo posto pianta l’elemosina, che ti possa dare frutto per la vita eterna. e lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen III. sermone morale 8. "Il mandorlo fiorirà". Qui sono indicate tre cose: l’onestà della vita, la dolcezza della contemplazione e l’estinzione della libidine. L’onestà della vita. Leggiamo nel libro di Daniele: "Io, Nabucodonosor, ero tranquillo nella mia casa e prospero nel mio palazzo" ( Dn 4,1 ). Che cosa dobbiamo intendere per "casa" se non la coscienza? E che cosa per "palazzo" se non la sicurezza della coscienza e la fiducia che proviene dalla sicurezza? Infatti anche il palazzo è una casa, ma non tutte le case possono dirsi palazzo. Il palazzo è una specie di casa solida, alta, regale. Se nella casa dobbiamo veder raffigurata la coscienza, giustamente per palazzo dobbiamo intendere la sicurezza della coscienza. Siede dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la coscienza non rimorde. Una congrua riparazione e penitenza dei peccati passati e una vigile attenzione per evitarli in futuro, rendono la coscienza tranquilla. Se ne sta dunque tranquillo nella sua casa, colui al quale la coscienza non rimorde né per le colpe passate né per quelle presenti. Se ne stava veramente tranquillo nella sua casa colui che diceva con sincerità: "Il mio cuore nulla mi rimprovera in tutta la mia vita" ( Gb 27,6 ). Tranquillo se ne stava nella sua casa, colui che poté dire con sincerità: "Non sono consapevole di colpa alcuna" ( 1 Cor 4,4 ). In quel tempo era veramente tranquillo in casa, e prosperava nel suo palazzo, quando diceva: "Questa è la nostra gloria ( vanto ), la testimonianza della nostra coscienza" ( 2 Cor 1,12 ). E poiché nel fiore c’è la speranza del frutto, giustamente nel fiore è raffigurata l’attesa sicura dei beni futuri. E poiché il fiore è in qualche modo l’inizio dei frutti futuri, per fiore s’intende quanto meno un cambiamento e un rinnovamento nell’impegno di progredire. Quindi nel fiore è raffigurata la sicura attesa dei beni futuri, o anche un rinnovato impegno nell’acquistare meriti. Perciò prospera veramente nel suo palazzo colui che, nella testimonianza della sua buona coscienza, attende con certezza la corona di gloria, e nel frattempo con il salto e con il volo della contemplazione, ne pregusta la dolcezza. 9. La dolcezza della contemplazione: "Si ingrasserà la locusta", la quale, quando il sole scotta, è solita spiccare dei salti e volare nell’aria, direi quasi con una certa allegria. Così, senza dubbio, anche l’anima santa, quando viene eccitata in se stessa da un certo plauso interiore della sua gioia, quando viene spinta a superare se stessa con l’elevazione della mente, quando è totalmente assorbita dalle cose celesti, quando è totalmente immersa nelle visioni angeliche, sembra proprio che abbia superato i confini delle sue possibilità naturali. Per questo dice il Profeta: "I monti saltellarono come arieti e le colline come agnelli di un gregge" ( Sal 114,4 ). Chi non vede che è oltre la natura, anzi contro natura, che i monti o i colli, a somiglianza di arieti o di agnelli che giocano, spicchino dei salti verso l’alto, e che la terra si stacchi dalla terra e si libri nel vuoto? Ma non si tiene forse sospesa terra su terra, quando un uomo vuole mettersi al di sopra di un altro uomo, mentre invece la voce del Signore lo ammonisce dicendogli: "Sei terra e in terra ritornerai"? ( Gen 3,19 ). Quando dunque l’anima s’innalza con l’elevazione della mente, viene saziata dalla dolcezza della contemplazione. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: "Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?" ( Ct 8,5 ). Dal deserto l’anima sale alla contemplazione, quando abbandona tutte le cose inferiori e, penetrando fino al cielo, con la devozione si immerge totalmente in quelle divine; e viene veramente ricolmata di delizie, quando si allieta nella pienezza del gaudio spirituale e si rinvigorisce nell’abbondanza delle delizie interiori datele dal cielo e in lei copiosamente infuse. L’anima si appoggia al suo diletto quando nulla presume dalle sue forze, nulla attribuisce ai suoi meriti, ma tutto alla grazia del suo diletto: "In realtà è lui che ci ha fatti, e non noi" ( Sal 100,3 ). E Isaia: "Tutte le nostre opere tu hai operato in noi" ( Is 26,12 ). E quale sia l’utilità di questo "ingrassamento" della locusta, lo dice espressamente ciò che segue. 10. Estinzione della libidine: "Il cappero sarà disperso". Questo si riferisce ai reni; e poiché nella zona dei reni ha sede la libidine, nel cappero è indicata la libidine, la quale viene distrutta quando l’anima viene riempita della dolcezza [ della contemplazione ] sopra descritta. Daniele infatti dice: "Io, rimasto solo, vidi questa grande visione; e non rimase in me alcuna forza; e anche il mio aspetto cambiò, e venni meno, e vennero meno tutte le mie forze" ( Dn 10,8 ). E Giobbe: "La mia anima scelse il cappio e le mie ossa la morte. Sono senza speranza, io non vivrò più" ( Gb 7,15-16 ). Ecco in che modo viene distrutto il cappero. "Daniele, l’uomo dei desideri" ( Dn 10,11 ) raffigura il contemplativo, che rimane solo quando disprezza tutte le cose esteriori e con la fune dell’amore si lega alla dolcezza della contemplazione, e allora, con la mente illuminata, vede la grande visione, che però non può ancora comprendere, giacché quaggiù viene contemplata attraverso uno specchio, come in enigma, non ancora faccia a faccia ( cf. 1 Cor 13,12 ). Quando l’anima viene illuminata ed elevata in questo modo, viene meno la forza del corpo, il volto diventa pallido, la carne è prostrata e non fa più conto dei piaceri del corpo e del tempo presente, nei quali non vuole assolutamente più vivere, come faceva prima, perché ormai non è più lei che vive, ma vive in lei la vita di Cristo ( cf. Gal 2,20 ), che è benedetto nei secoli. Amen. IV. sermone anagogico ( mistico ) 11. "Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero". In queste tre similitudini sono misticamente indicate la risurrezione del corpo, la glorificazione dell’anima e la distruzione della morte. Trattiamone singolarmente con brevi parole. La risurrezione del corpo: "Fiorirà il mandorlo". Troviamo in Giobbe: "Nell’albero c’è la speranza: se viene tagliato, di nuovo ributta e i suoi rami crescono. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell’acqua germoglia [ di nuovo ] e farà la chioma quasi come quando fu piantato la prima volta" ( Gb 14,7-9 ). Benché l’albero, cioè il corpo dell’uomo, venga tagliato dalla scure della morte, sia invecchiato, decomposto nella terra e ridotto in polvere, tuttavia l’uomo deve avere la speranza ch’esso rifiorirà, cioè risorgerà, e che le sue membra ricresceranno e che, al sentore dell’acqua, cioè per la munificenza della sapienza divina, germoglierà di nuovo, ritornerà al suo splendore, ricostituirà la sua chioma per quanto riguarda l’immortalità, quasi come quando fu piantato la prima volta nel paradiso terrestre. Infatti la primitiva condizione dell’uomo nel paradiso terrestre fu la possibilità di non morire: ma a causa del peccato gli fu comminata la pena di non poter non morire; ora nell’eterna felicità gli rimane il terzo modo di essere: non poter più morire. Il mandorlo dunque fiorirà. Dice il salmo: "Rifiorì la mia carne, e con tutte le mie forze canterò le sue lodi" ( Sal 28,7 ). Ricorda che la carne dell’uomo fiorì nel paradiso terrestre prima del peccato, sfiorì dopo il peccato, rifiorì però nella risurrezione di Cristo, "superfiorirà", cioè fiorirà perfettamente, nella risurrezione finale. 12. E allora "s’ingrasserà la locusta", vale a dire l’anima sarà glorificata. "Sarò saziato quando apparirà la tua gloria" ( Sal 17,15 ). E ancora: "Li nutrì con fiore di frumento e li saziò con miele di roccia" ( Sal 81,17 ). Il frumento e la roccia sono figura di Cristo, Dio e uomo: nella miseria del pellegrinaggio terreno è per noi frumento, perché ristora; è roccia perché accoglie coloro che si rifugiano in lui e li difende: "La roccia è un rifugio per gli iraci" ( Sal 104,18 ), cioè per i peccatori convertiti; nella gloria della patria sarà per noi fior di frumento e miele di roccia, perché ci nutrirà con lo splendore della sua umanità e ci sazierà con la dolcezza della sua divinità. Infatti dice Isaia: "Vedrete e gioirà il vostro cuore", ecco l’ingrassamento della locusta; e "le vostre ossa germoglieranno come erba fresca" ( Is 66,14 ), ecco il fiore del mandorlo: "Vedrete" lo splendore dell’umanità, "e il vostro cuore gioirà" della dolcezza della divinità. 13. E allora "sarà disperso il cappero". Dice l’Apostolo: "Quando questo corpo corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità, allora si compirà la parola della Scrittura – nei succitati passi di Isaia e di Osea –: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il punngiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano dunque rese grazie a Dio che ci ha dato la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo" ( 1 Cor 15,54-57 ). Egli è benedetto nei secoli. Amen. Domenica dell'ottava di Pasqua Temi del sermone – Vangelo dell’Ottava di Pasqua: "La sera di quello stesso giorno"; vangelo che si divide in cinque parti. – Anzitutto sermone sul predicatore e a chi deve predicare: "Mi trovavo nella città di Joppe ( Giaffa )". – Parte I: Sermone contro la prosperità del mondo: "Non bramai il giorno dell’uomo". – Sermone ai peccatori convertiti: "La sera di quello stesso giorno", e "Tutto il monte Sinai fumava". – Sermone sulle porte, che sono i cinque sensi dell’uomo: "E le porte erano chiuse". – Parte II: Sermone sulla triplice pace, sulla carità e sulla natura degli elefanti: "Venne Gesù …" – Parte III: Sermone sull’assoluzione di Dio e del sacerdote, con quale procedimento uno venga risuscitato dalla morte dell’anima alla penitenza: "Ricevete lo Spirito Santo", e "Non possiedo né oro né argento". – Parte IV: Sermone per la risurrezione del Signore: "In quel giorno rialzerò la tenda di Davide". – Parte V: Sermone sul latte della misericordia divina: "Come bambini appena nati", e sulla castità degli elefanti. Esordio - il predicatore, e a chi deve predicare 1. In quel tempo: "Venuta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, ed essendo chiuse le porte [ della casa ] dove i discepoli si erano radunati per paura dei giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a Voi!" ( Gv 20,19 ). Negli Atti degli Apostoli, Pietro racconta: "Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa, ed ebbi in estasi una visione: una specie di involto, simile a una grande tovaglia, scendeva come calato dal cielo, sorretto per i quattro capi, e giunse fino a me. Guardandolo lo esaminavo attentamente, e vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli del cielo. Quindi sentii una voce che mi diceva: Àlzati, Pietro, uccidi e mangia!" ( At 11,5-7 ). In Pietro è raffigurato il predicatore, che deve sostare in preghiera nella città di Joppe, che s’interpreta "bellezza", cioè in unione con la chiesa, nella quale c’è la bellezza delle virtù e fuori della quale c’è solo la lebbra dell’infedeltà [ mancanza della fede ]. Il predicatore deve fare prima di tutto questa cosa: attendere alla preghiera. Alla preghiera segue l’estasi, cioè l’elevazione sopra le cose della terra; e nell’estasi vede "un involto, come una grande tovaglia …", ecc. Nel grande involto di lino è indicata la grazia della predicazione, che giustamente è detta "vaso", perché inebria le menti dei fedeli con il vino della compunzione; è detta anche "grande tovaglia di lino" perché deterge i sudori delle fatiche e ridona vigore per affrontare gli attacchi delle passioni. I "quattro capi" sono gli insegnamenti dei quattro evangelisti; "scendeva calata dal cielo", perché "ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto" ( Gc 1,17 ). "E giunse fino a me". In questo fatto è indicato in modo particolare il privilegio del predicatore, al quale proprio dal cielo viene affidato il compito della predicazione. E in questo vaso, in questo involto misterioso, ci sono "i quadrupedi della terra", cioè i golosi e i lussuriosi, e "le bestie", nome che suona come vastiae ( devastatrici ), cioè i traditori e gli omicidi; e "i rettili", cioè gli avari e gli usurai; e "i volatili del cielo", cioè i superbi e tutti coloro che s’innalzano con le penne della vanagloria. Questo vaso è come la rete calata nel mare, che cattura ogni genere di pesci ( cf. Mt 13,47 ); e al predicatore viene detto: "Àlzati, uccidi e mangia". Àlzati ad evangelizzare; uccidi al mondo; mortifica e immola, per offrire sacrifici a Dio, affinché spogliati della vecchiezza arrivino alla novità; e mangia, vale a dire accogli nell’unità e nella comunità del corpo della chiesa. Di questa unità e comunità è detto appunto nel vangelo di oggi: "Giunta la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato, … i discepoli erano radunati", ecc. 2. In questo vangelo sono posti in evidenza cinque momenti: Primo: la riunione dei discepoli, quando incomincia con le parole "Venuta la sera", ecc. Secondo: il triplice saluto di pace, quando aggiunge: "Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi". Terzo: il potere concesso agli apostoli di legare e di sciogliere: "E dicendo questo, alitò su di loro", ecc. Quarto: l’incredulità di Tommaso: "Tommaso, uno dei dodici, non era con loro", ecc. Quinto: la professione di fede di Tommaso e la conferma della nostra fede: "Otto giorni dopo", ecc. Osserva ancora che in questa domenica si legge l’epistola del beato Giovanni: "Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo" ( 1 Gv 5,4 ). Nella notte, secondo l’uso della chiesa romana, si leggono gli Atti degli Apostoli. Vogliamo accennare brevemente a cinque episodi narrati dagli Atti e metterli a confronto con le cinque parti del vangelo sopra riportate. I cinque episodi sono: Primo, la riunione degli apostoli a Gerusalemme: "Quindi dal monte degli Ulivi fecero ritorno a Gerusalemme". Secondo, dove dice: "In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli", ecc. Terzo, lo storpio dal seno della madre, al quale Pietro disse: "Non possiedo né oro né argento", ecc. Quarto, la conversione di Saulo. Quinto, l’eunuco e il centurione Cornelio. I. la riunione dei discepoli 3. "Giunta la sera di quel giorno". In questa prima parte si deve fare attenzione a cinque momenti: la sera, quel giorno, primo dopo il sabato, le porte chiuse, i discepoli riuniti per paura dei giudei. Il giorno ( lat. dies, dal sanscrito dian, luminosità ) sta a indicare lo splendore ( la gloria ) delle vanità del mondo. Di essa dice il Signore: "Io non ricevo gloria dagli uomini" ( Gv 5,41 ); e Geremia: "Non ho desiderato il giorno degli uomini, tu lo sai" ( Ger 17,16 ); e Luca: "E ora in questo tuo giorno" e non mio, se tu conoscessi "ciò che è utile per la tua pace" ( Lc 19,42 ), e non per la mia; e negli Atti degli Apostoli: "Il giorno seguente, Agrippa e Berenice arrivarono con molto sfarzo" ( At 25,23 ) ( lat. ambitione ), cioè con una grande folla che li attorniava. Per ambitione c’è in greco – lo dice la Glossa – il termine phantasia ( ostentazione ). Agrippa s’interpreta "urgente accumulo", e Berenice "figlia eccitata dall’eleganza". Agrippa raffigura il ricco di questo mondo, che si affretta ad accumulare ricchezze con l’usura e i giuramenti falsi: "ma le ricchezze che ha divorato – dice Giobbe – le vomiterà e il Signore gliele strapperà dalle viscere" ( Gb 20,15 ). Berenice raffigura la lussuria della carne, figlia del diavolo, che si eccita con l’eleganza esteriore e fa eccitare gli altri. Quindi Agrippa e Berenice, cioè i ricchi e i lussuriosi, nel giorno del fasto mondano procedono con grande ambizione, che è solo deludente fantasia, giacché produce l’impressione di essere qualcosa, quando poi in realtà è un nulla, e quando si crede di afferrare qualcosa, tutto si dilegua e svanisce. "Giunta la sera di quel giorno". La sera di tale giorno è la penitenza, nella quale il sole dello splendore mondano si cambia in tenebre e la luna della concupiscenza carnale si tramuta in sangue. Negli Atti degli Apostoli Pietro, servendosi delle parole del Signore, riportate da Gioele, dice: "Farò prodigi in alto nel cielo e segni in basso sulla terra, sangue, fuoco e vapore di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue" ( At 2,19-20; Gl 2,10-11 ). Senso allegorico. Il Signore fece prodigi in cielo e sulla terra, quando discese in terra per mezzo del sangue sparso sulla croce; nel fuoco, quando mandò lo Spirito Santo sugli apostoli; e così salì in alto il fumo della compunzione. È detto infatti negli Atti: "Si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? E Pietro: Pentitevi, – disse – e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo" ( At 2,37-38 ). Senso morale. Nel sangue è indicata la macerazione della carne, nel fuoco l’ardore della carità e nel vapore del fumo la compunzione del cuore. Questi prodigi fa il Signore nel cielo, cioè nel giusto, e sulla terra, vale a dire nel peccatore. 4. E con questi tre elementi concorda anche ciò che leggiamo nell’epistola di oggi: "Tre sono quelli che danno testimonianza sulla terra: lo spirito, l’acqua e il sangue" ( 1 Gv 5,8 ). Senso allegorico. Lo Spirito è l’anima umana, che Cristo esalò nella passione; l’acqua e il sangue sgorgarono dal suo fianco, ciò che non sarebbe potuto avvenire se non avesse avuto la vera natura della carne ( dell’uomo ). Senso morale. Lo spirito è la carità, l’acqua la compunzione e il sangue la macerazione della carne. Su questo concordano anche le parole dell’Esodo: "Tutto il monte Sinai fumava, perché su di esso era disceso il Signore nel fuoco, e da esso saliva il fumo come da una fornace: e il monte incuteva a tutti spavento. E il suono della tromba a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante" ( Es 19,18-19 ). Il monte Sinai raffigura la mente del penitente nella quale, quando discende il Signore nel fuoco della carità – del quale egli stesso ha detto: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra" ( Lc 12,49 ) –, tutto il monte fuma, e da esso sale il fumo della compunzione come da una fornace, cioè dall’ardore della mente. E così tutto il monte incute spavento a motivo della macerazione della carne, oppure incute spavento agli spiriti immondi. Infatti leggiamo in Giobbe: "Nessuno gli diceva una parola: vedevano infatti che la sua sofferenza era terribile!" ( Gb 2,13 ). "E il suono della tromba", cioè della confessione, "a poco a poco diventava più forte e si faceva più penetrante", perché il penitente quando si confessa deve incominciare dai pensieri illeciti, quindi passare alle parole e poi alle opere cattive. "Il sole si cambierà in tenebra e la luna in sangue". Il sole si cambia in tenebra quando il lusso mondano viene oscurato dal sacco della penitenza; e la luna si cambia in sangue quando la concupiscenza della carne viene repressa con le macerazioni, con le veglie e le astinenze. Giustamente quindi è detto: "Quando venne la sera di quel giorno, il primo dopo il sabato". E il Signore dice nell’Esodo: "Ricordati di santificare il sabato" ( Es 28,8 ). 5. Santifica il giorno del sabato colui che dimora nella quiete dello spirito e si astiene dalle opere proibite. "E le porte erano chiuse". Le porte sono i cinque sensi del corpo, che dobbiamo chiudere con le serrature dell’amore e del timore di Dio, perché non ci accada ciò che dice Paolo negli Atti degli Apostoli: "So che dopo la mia dipartita sorgeranno tra voi dei lupi rapaci che non risparmieranno il gregge" ( At 20,29 ). Paolo s’interpreta "umile". Quando l’umiltà scompare dal cuore, i lupi rapaci, cioè i desideri carnali, entrano per le porte dei cinque sensi e divorano il gregge dei buoni pensieri. "Dov’erano riuniti i discepoli per timore dei giudei". I discepoli sono i giudizi della ragione, che devono riunirsi insieme per timore dei giudei, cioè dei demoni, per fare in modo che questi non possano nuocere. È detto infatti nel Cantico dei Cantici: Sei bella e leggiadra, figlia di Gerusalemme, terribile come un esercito schierato in battaglia ( cf. Ct 6,3 ). L’anima è la figlia della Gerusalemme celeste, bella per la fede e leggiadra per la carità; essa sarà anche terribile per gli spiriti immondi se schiererà i giudizi della ragione e i pensieri della mente, come un esercito di soldati viene schierato per combattere contro i nemici. E su questa riunione [ dei discepoli ] concorda anche quanto è detto in altra parte degli Atti: "Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso nel sabato. E entrati nel cenacolo, salirono [ al piano superiore ] dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti costoro erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con le donne, con Maria Madre di Gesù e con i fratelli di lui" ( At 1,12-14 ). Il monte degli Ulivi dista da Gerusalemme un miglio, il cammino permesso di sabato, cioè mille passi: di sabato non era lecito ai giudei camminare di più. Il cenacolo è chiamato dalla Glossa "terzo tetto", ed è figura della carità, della fede rinsaldata e della speranza. Dobbiamo salire a questo cenacolo, restarvi con i discepoli e perseverare unanimi nell’orazione, nella contemplazione e nella effusione delle lacrime, per essere degni di ricevere la grazia dello Spirito Santo. Per questo il Signore dice: "Restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto" ( Lc 24,49 ). Se dunque il giorno della gloria mondana sarà al declino e tramonterà nella sera della penitenza nella quale, come di sabato, l’uomo deve desistere dalle opere cattive, e le porte dei cinque sensi saranno chiuse, e tutti i discepoli di Cristo, ossia i sentimenti del giusto saranno riuniti insieme, allora il Signore farà ciò che dice il vangelo proseguendo nel racconto. II. Il triplice saluto di pace 6. "Venne Gesù, si fermò in mezzo ai discepoli e disse: Pace a voi. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. I discepoli gioirono nel vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi" ( Gv 20,19-21 ). Da notare anzitutto che in questo vangelo per ben tre volte è detto "Pace a voi", a motivo della triplice pace che il Signore ha ristabilito: tra Dio e l’uomo, riconciliando quest’ultimo al Padre per mezzo del suo sangue; tra l’angelo e l’uomo, assumendo la natura umana ed elevandola al di sopra dei cori degli angeli; tra uomo e uomo, riunendo in se stesso, pietra angolare, il popolo dei giudei e quello dei gentili ( pagani ). Osserva poi che nella parola pace, pax, ci sono tre lettere che formano una sola sillaba: in questo viene raffigurata l’Unità e la Trinità di Dio. Nella P è indicato il Padre; nella A, che è la prima delle vocali, è indicato il Figlio, che è la voce del Padre; nella X, che è una consonante doppia, è indicato lo Spirito Santo, che procede da entrambi [ dal Padre e dal Figlio ]. Quando dunque disse: Pace a voi, ci raccomandò la fede nell’Unità e nella Trinità. "Venne Gesù e si fermò nel mezzo". Il centro è il posto che compete a Gesù: in cielo, nel grembo della Vergine, nella mangiatoia del gregge e sul patibolo della croce. In cielo: "L’Agnello che sta in mezzo al trono", cioè nel seno del Padre, "li guiderà e li condurrà alle fonti delle acque della vita" ( Ap 7,17 ), cioè alla sazietà del gaudio celeste. Nel grembo della Vergine: "Esultate e cantate lodi, abitanti di Sion, perché grande è in mezzo a voi il Santo d’Israele" ( Is 12,6 ). O beata Maria, che sei figura degli abitanti di Sion, cioè della chiesa, che nell’incarnazione del Figlio tuo ha posto il fondamento dell’edificio della sua fede, esulta con tutto il cuore, canta con la bocca la sua lode: "L’anima mia magnifica il Signore!" ( Lc 1,46 ), perché il grande, il piccolo e l’umile, il santo e il santificatore di Israele sta in mezzo a te, cioè nel tuo grembo. Nella mangiatoia del gregge: "Sarai conosciuto in mezzo a due animali" ( Ab 3,2 - Trad. dei LXX ). "Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone ( Is 1,3 ). Sul patibolo della croce: "Crocifissero insieme con lui altri due, da una parte e dall’altra, e Gesù nel mezzo" ( Gv 19,18 ). Venne dunque Gesù e si fermò nel mezzo. "Io sto in mezzo a voi – ci dice in Luca – come colui che serve" ( Lc 22,27 ). Sta al centro di ogni cuore; sta al centro perché da lui, come dal centro, tutti i raggi della grazia si irradino verso di noi che camminiamo all’intorno e ci agitiamo alla periferia. 7. Con tutto ciò concordano le parole degli Atti degli Apostoli: "In quei giorni Pietro, alzatosi in mezzo ai fratelli ( c’era riunito un gruppo di quasi centoventi uomini ), disse: Fratelli …" ( At 1,15-16 ), ecc., e tutto ciò che avvenne per l’elezione di Mattia. Cristo, risorto dai morti, si fermò in mezzo ai discepoli; e Pietro, che per primo era caduto rinnegandolo, si alzò in mezzo ai fratelli, indicando con questo a noi che, rialzandoci dal peccato, ci fermiamo in mezzo ai fratelli, perché al centro c’è la carità che si estende sia all’amico che al nemico. "Venne dunque Gesù e si fermò in mezzo ai discepoli, e disse: "Pace a voi". Ricorda che esiste una triplice pace. Primo: la pace del tempo, della quale è scritto nel terzo libro dei Re che "Salomone ebbe pace tutt’all’intorno ( con i confinanti ). Secondo: la pace del cuore, della quale è detto: "In pace mi corico e subito mi addormento" ( Sal 4,9 ); e ancora: "La chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, ricolma del conforto dello Spirito Santo" ( At 9,31 ). Giudea s’interpreta "confessione", Galilea "passaggio", e Samaria "custodia". Quindi la chiesa, cioè l’anima fedele, trova la pace in questi tre atti: nella confessione, nel passaggio dai vizi alle virtù, nella custodia del precetto divino e della grazia ricevuta. E in questo modo cresce e cammina di virtù in virtù nel timore del Signore: non un timore servile ma un affettuoso timore filiale; e in ogni tribolazione è ricolma della consolazione dello Spirito Santo. Terzo: la pace dell’eternità, della quale dice il salmo: "Egli ha messo pace nei tuoi confini" ( Sal 147,14 ). La prima pace devi averla con il prossimo, la seconda con te stesso, e così, nell’ottava della risurrezione, avrai anche la terza pace, con Dio nel cielo. Férmati dunque nel mezzo e avrai la pace con il prossimo. Se non starai nel mezzo non potrai avere la pace. Infatti nelle "circonferenze" non c’è né pace né tranquillità, ma piuttosto movimento e volubilità. Si dice degli elefanti che quando devono affrontare un combattimento, hanno una cura particolare dei feriti: infatti li chiudono al centro del gruppo insieme con i più deboli. Così anche tu accogli nel centro della carità il prossimo debole e ferito. Come fece quel custode del carcere, del quale si parla negli Atti degli Apostoli, che presi in disparte Paolo e Sila in quella stessa ora della notte, lavò loro le ferite, li condusse nella sua casa, preparò loro la mensa e fu ricolmo di gioia insieme con tutta la sua famiglia per aver creduto in Dio ( cf. At 16,33-34 ). 8. "Gesù si fermò in mezzo ai discepoli e disse loro: Pace a voi. Detto questo mostrò loro le mani e il costato". Luca scrive che Gesù disse: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!" ( Lc 24,39 ). A mio parere, il Signore mostrò agli apostoli le mani, il costato e i piedi per quattro motivi. Primo, per dimostrare che era veramente risorto e toglierci così ogni dubbio. Secondo, perché la colomba, cioè la chiesa, o anche l’anima fedele, facesse il nido nelle sue piaghe, quasi come in profonde aperture, e così potesse nascondersi dalla vista dello sparviero che trama insidie per rapirla. Terzo, per imprimere nei nostri cuori i segni distintivi della sua passione. Quarto, li mostrò perché anche noi, partecipando alla sua passione, non lo inchiodiamo più alla croce con i chiodi dei peccati. Ci mostrò quindi le mani e il costato dicendo: Ecco le mani che vi hanno plasmato, come sono state trafitte dai chiodi; ecco il costato, dal quale voi fedeli, mia chiesa, siete stati generati, come Eva fu procreata dal fianco di Adamo; ecco come è stato aperto dalla lancia per aprirvi la porta del paradiso, sbarrata dalla spada fiammeggiante del cherubino. La virtù del sangue sgorgato dal costato di Cristo, ha allontanato l’angelo e ha reso innocua la sua spada, e l’acqua ha spento il fuoco. Non vogliate dunque crocifiggermi di nuovo e profanare il sangue dell’alleanza, nel quale siete stati santificati, e fare oltraggio allo Spirito della grazia. Se farai bene attenzione a queste cose e le ascolterai, avrai pace con te stesso, o uomo. Quindi il Signore, dopo aver mostrato loro le mani e il costato, disse di nuovo: "Pace a voi. Come il Padre ha mandato me" alla passione, nonostante l’amore che ha per me, così anch’io con lo stesso amore "mando voi" incontro a quelle sofferenze, alle quali il Padre ha mandato me. III. Il potere dato agli apostoli di legare e di sciogliere 9. "Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. Coloro ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi; coloro ai quali non li rimetterete, resteranno non rimessi" ( Gv 20,22-23 ). L’alitare di Cristo indicò che lo Spirito Santo non era solo Spirito del Padre ma anche suo. Dice Gregorio: "Lo Spirito viene mandato sulla terra perché sia amato il prossimo; viene mandato dal cielo perché sia amato Dio". Disse: "Ricevete lo Spirito Santo: coloro ai quali rimetterete i peccati …", cioè coloro che giudicherete degni di remissione, con le due chiavi del potere e del giudizio, vale a dire con l’applicazione del potere e del giudizio; s’intende: osservando le modalità e l’ordine nel potere di legare e di sciogliere. Vediamo dunque in che modo il sacerdote rimetta i peccati e assolva il peccatore. Uno pecca mortalmente: subito si rende degno della geenna, legato con la catena della morte eterna. Ma poi si pente e, veramente contrito, promette di confessarsi. Subito il Signore lo libera dalla colpa e dalla morte eterna, che in forza della contrizione si tramuta nella pena del purgatorio. E la contrizione potrebbe essere così grande, come nella Maddalena e nel buon ladrone, che se quel peccatore morisse, volerebbe subito in cielo. Va dal sacerdote e si confessa; il sacerdote gli impone una penitenza temporanea, in virtù della quale anche la pena del purgatorio può essere espiata in questa vita: e se l’avrà compiuta a dovere, se ne volerà nella gloria. In questo modo Dio e il sacerdote perdonano e assolvono. E con questo concorda ciò che leggiamo negli Atti degli Apostoli, dove Pietro dice [ allo storpio ]: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina. E presolo per la mano destra, lo sollevò: subito i suoi piedi e le sue caviglie si rinvigorirono. E balzato in piedi, camminava. Ed entrò con loro nel tempio di Gerusalemme " ( At 3,6-8 ). Il beato Bernardo, scrivendo al papa Eugenio, dice: "Medita sull’eredità che ti hanno lasciato i tuoi padri: gli scritti del testatore non stabiliscono nulla di tutti questi beni. Ascolta la voce del tuo predecessore che dice: Non possiedo né argento né oro. È vero – dice la Glossa – che la prima tenda [ dell’alleanza ] aveva le prescrizioni dei terreni ( l’ordinamento delle colture ), e che il santuario secolare ( il tempio di Salomone ) era rinomato per l’oro e l’argento. Ma il sangue del vangelo splende più prezioso dei metalli della legge, perché il popolo, che giaceva infermo davanti alle porte dorate, solo nel nome di Cristo crocifisso entra nel tempio celeste". E Girolamo: "Se vuoi richiamare oro e argento nella chiesa, richiama anche il sangue versato, che agli antichi era lecito avere, perché venivano promesse loro queste cose. Ora invece il Cristo povero santificò la povertà nel suo corpo, e ai suoi promise non beni temporali, ma i beni celesti". "Nel nome di Gesù Cristo …". Ecco il cammino verso la perfezione: primo, colui che giaceva si alza; secondo, intraprende la via della virtù, e così con gli apostoli entra per la porta del regno. Fa’ attenzione alle parole: "àlzati" per mezzo della contrizione; "cammina" per mezzo della confessione; e così "presolo per la mano destra lo sollevò", cioè lo assolse e lo rimandò in pace. Anche qui concordano le parole degli Atti degli Apostoli, dove si legge che Pietro "trovò a Lidda un uomo di nome Enea, che giaceva nel letto da otto anni, ed era paralitico. E Pietro gli disse: Enea, Gesù Cristo ti guarisce! Àlzati e rifatti il letto. E subito si alzò" ( At 9,33-34 ). Enea s’interpreta "povero" o "misero", e raffigura il peccatore che si trova in peccato mortale, povero di virtù e in miseria perché schiavo del diavolo. Costui, come un paralitico, giace nel letto della concupiscenza carnale, devastato in tutte le sue membra: a lui il rappresentante di Pietro deve dire: "Enea", povero e misero, "ti guarisca Gesù Cristo! Àlzati", con la contrizione, e "rifatti il letto" con la confessione. "Tu, non un altro, rifatti il letto". "E subito si alzò", liberato da ogni legame di peccato. Altra concordanza: "Pietro disse: Tabità, àlzati! Ed essa aprì gli occhi. Egli le diede la mano e la sollevò" ( At 9,40-41 ). Tabità s’interpreta "gazzella" ( cf. At 9,36 ), e l’animale è chiamato così perché fugge di mano ( in lat. dammula, de manu ), è pavido e pauroso, una specie di capra selvatica. Raffigura l’anima del peccatore, paurosa e pigra, che fugge dalla mano del Padre celeste. A lei viene detto: Àlzati con la contrizione; e allora apre gli occhi con la confessione, e si ferma, umiliandosi con la penitenza, e quindi si alza in piedi in virtù dell’assoluzione di tutti i suoi peccati. Ci elargisca questa assoluzione il vero sacerdote e sommo pontefice Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. L’incredulità di Tommaso 10. "Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo ( gemello ), non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore. Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani la trafittura dei chiodi, e non metto le mie dita nel posto dei chiodi, e non metto le mie mani nel suo costato, non crederò" ( Gv 20,24-25 ). Tommaso s’interpreta "abisso", perché dubitando conseguì una conoscenza più profonda e così si sentì più sicuro. Dìdimo è termine greco che significa "doppio", quindi dubbio, dubbioso ( scettico ). Non per un caso, ma per un disegno divino, Tommaso era assente e non volle credere a quello che sentiva raccontare. O disegno divino! O santo dubbio del discepolo! "Se non vedrò nelle sue mani …" Desiderava vedere riedificata la tenda di Davide, che era crollata, e della quale il Signore, per bocca di Amos, dice: "In quel giorno io rialzerò la tenda di Davide che è crollata, e riedificherò le aperture delle sue mura" ( Am 9,11 ). In Davide, che s’interpreta "di mano forte", dobbiamo vedere la divinità; nella tenda il corpo dello stesso Cristo nel quale, quasi in una tenda, abitò la divinità: tenda che crollò con la passione e con la morte. Per aperture delle mura s’intendono le ferite delle mani, dei piedi e del costato: il Signore le riedificò nella sua risurrezione. Di queste dice Tommaso: "Se non vedrò nelle sue mani le trafitture …" Il Signore misericordioso non volle abbandonare nel suo onesto dubbio quel discepolo, che sarebbe diventato un vaso di elezione: gli tolse misericordiosamente ogni caligine, ogni ombra di dubbio, come in seguito avrebbe tolto a Saulo la cecità dell’infedeltà. Ed ecco appunto la concordanza negli Atti degli Apostoli. Dice Anania: "Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia ricolmo di Spirito Santo. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista. Si rialzò e fu battezzato. Preso del cibo si sentì rinfrancato" ( At 9,17-19 ). Si avverò così la profezia di Isaia ( Is 65,25 ): "Il lupo pascolerà insieme con l’agnello", cioè Saulo con Anania, nome, quest’ultimo, che s’interpreta appunto "agnello". Il corpo del serpente si copre di squame. I Giudei sono serpenti e razza di vipere ( Mt 23,33 ). Saulo, imitando la perfidia dei Giudei, aveva come ricoperto di pelle di serpente gli occhi del cuore, ma poi, cadute le squame sotto la mano di Anania, manifesta nel volto la luce che ha ricevuto nella mente. Così sotto la mano di Anania, cioè di Gesù Cristo, che fu condotto al sacrificio come un agnello ( cf. Is 53,7 ), caddero le squame del dubbio dagli occhi di Tommaso e egli ricuperò la vista della fede. V. Professione di fede di Tommaso e conferma della nostra fede 11. "Otto giorno dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi!" ( Gv 20,26 ). Non voglio qui spiegare di nuovo ciò che è già stato spiegato. "Disse poi a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente. Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati quelli che, pur non avendo visto, hanno creduto" ( Gv 20,27-29 ). Dice il Signore per bocca di Isaia: "Io ti ho disegnato nelle mie mani" ( Is 49,16 ). Osserva che per scrivere sono necessarie tre cose: carta, inchiostro e penna. Le mani di Cristo furono la carta, il suo sangue l’inchiostro e i chiodi la penna. Cristo dunque ci disegnò nelle sue mani per tre ragioni. Primo, per mostrare al Padre le cicatrici delle piaghe che aveva subìto per noi, e indurlo così alla misericordia. Secondo, per non dimenticarsi mai di noi, e perciò egli stesso dice per bocca di Isaia: "Può forse una donna dimenticare il suo bambino, e non aver più pietà del figlio del suo grembo? Ma anche se essa si dimenticherà, io non mi dimenticherò di te. Ecco, io ti ho disegnato nelle mie mani" ( Is 49,15-16 ). Terzo, scrisse nelle sue mani come noi dobbiamo essere e che cosa dobbiamo credere. Non essere dunque incredulo, o Tommaso, o cristiano, ma credente! "Esclamò Tommaso: Mio Signore e mio Dio!", ecc. " Rispondendogli, il Signore non disse: Perché hai toccato, ma "perché hai veduto", perché la vista è in qualche modo un senso generale, che di solito è di aiuto agli altri quattro. Dice la Glossa: Forse non osò toccare, ma guardò solamente, o forse anche guardò toccando. Vedeva e toccava un uomo, e al di là di questo, eliminato ogni dubbio, credette che era Dio, professando così ciò che non vedeva. "Tommaso, hai veduto me" uomo, "e hai creduto" me Dio. 12. "Beati coloro che pur senza aver visto, hanno creduto". Con queste parole loda la fede dei gentili ( pagani ); ma usa il tempo passato perché nella sua prescienza vedeva come già avvenuto ciò che sarebbe accaduto in futuro. Ne troviamo conferma negli Atti degli Apostoli, quando Filippo interrogò l’eunuco di Candàce, regina di Etiopia: "Credi con tutto il tuo cuore? Rispose: Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio. E lo battezzò" ( At 8,37.38 ); così pure dove si parla del centurione Cornelio, che Pietro battezzò insieme con tutta la sua famiglia, nel nome di Gesù Cristo. Questi due, che credettero in Cristo, prefiguravano la chiesa dei gentili, che sarebbe stata rigenerata nel sacramento del battesimo e avrebbe creduto nel nome di Gesù Cristo. A costoro Pietro parla oggi con le parole dell’introito della messa, e dice: "Come bambini appena nati bramate il latte, ragionevoli, senza inganno" ( 1 Pt 2,2 ). Il bambino ( in lat. infans ) è così chiamato perché non sa parlare ( lat. in fans, non parlante ). I fedeli della chiesa, generati dall’acqua e dallo Spirito Santo, devono essere infanti, non parlanti ( non fantes ), che non parlano cioè la lingua dell’Egitto, della quale dice Isaia: "Il Signore rifiuterà la lingua del mare dell’Egitto" ( Is 11,15 ). Nella lingua è indicata l’eloquenza, nel mare la sapienza filosofica e nell’Egitto il mondo. Il Signore dunque rifiuta la lingua del mare dell’Egitto, quando per mezzo dei semplici e dei non eruditi dimostra che la sapienza del mondo è arida e insipida. "Ragionevoli, senza inganno". Ragionevole è ciò che si fa con la ragione. La ragione è lo sguardo dell’anima, con il quale il vero viene contemplato per se stesso e non attraverso il corpo; oppure è anche la stessa contemplazione del vero, non per mezzo del corpo; oppure è anche lo stesso vero che viene contemplato. Ragionevoli quindi nei riguardi di Dio e di noi stessi; senza inganno nei riguardi del prossimo. "Bramate il latte". Quel latte del quale parla Agostino: "Il pane degli angeli è diventato latte dei piccoli". Il latte ( lat. lac ) è così chiamato dal suo colore: è infatti un liquido bianco. Bianco in greco si dice leukòs, in latino albus. La sua sostanza è prodotta dal sangue. Infatti dopo il parto, se una parte del sangue non è stata ancora consumata per il nutrimento avvenuto nell’utero, per vie naturali sale alle mammelle e, diventando bianco per opera di queste, assume la natura e la sostanza del latte. E da quel momento diventa cibo di ogni neonato, poiché la sostanza per la quale avviene la generazione è la stessa con la quale avviene la nutrizione: il latte infatti è come sangue bollito, digerito, non corrotto ( Aristotele ). Nel sangue, che al vederlo fa ribrezzo, è raffigurata l’ira di Dio; nel latte invece, che è di sapore gradevole e di piacevolissimo colore, è raffigurata la misericordia di Dio. Il sangue dell’ira fu tramutato nel latte della misericordia nella mammella, cioè nell’umanità di Gesù Cristo. Infatti dice il Profeta: "Cambiò i fulmini in pioggia" ( Sal 135,7 ). I fulmini dell’ira divina furono tramutati in pioggia di misericordia, quando il Verbo si fece carne ( cf. Gv 1,14 ). 13. Senso morale. L’eunuco etiope e il centurione Cornelio sono figura dei peccatori convertiti. Cornelio s’interpreta "che capisce la circoncisione". Giustamente Cornelio e l’eunuco vengono accomunati: i penitenti infatti si rendono eunuchi per il regno dei cieli ( cf. Mt 19,12 ), vale a dire circoncidono, eliminano da se stessi i desideri carnali e, credendo nel nome di Gesù Cristo, si lavano alla fonte viva della compunzione e si rinnovano con il battesimo della penitenza. Fanno quindi come gli elefanti, dei quali dice Solino: Le femmine prima dei dieci anni ignorano il sesso, e i maschi prima dei quindici. Per un biennio hanno rapporti non di più di cinque giorni all’anno, e non ritornano tra i compagni del branco senza prima essersi lavati in acque sorgive. Così i penitenti e i giusti, se sono caduti in qualche peccato, si vergognano di rientrare nel numero dei fedeli se prima non si sono purificati nelle acque sorgive delle lacrime e della penitenza. Preghiamo dunque, fratelli carissimi, e supplichiamo la misericordia di Gesù Cristo perché venga e si fermi in mezzo a noi, ci conceda la pace, ci liberi dai peccati, estirpi dal nostro cuore ogni dubbio e imprima nella nostra anima la fede nella sua passione e risurrezione, affinché con gli apostoli e con i fedeli della chiesa possiamo conseguire la vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: Amen. Alleluia Domenica II dopo Pasqua Temi del sermone – Vangelo della seconda domenica dopo Pasqua: "Io sono il buon pastore"; vangelo che si divide in quattro parti. – Anzitutto sermone al predicatore: "Mi fu data una canna"; le tre qualità della verga e il loro significato. – Parte I: Sermone sulla cura che Cristo ha di noi, che siamo il suo popolo e le pecore del suo pascolo: "Io sono il buon pastore". – Sermone allegorico e morale su Cristo e sul prelato della chiesa: "Sentii dietro di me una grande voce". – Sermone sulle sette qualità che sono necessarie a un prelato: "Vidi sette candelabri d’oro". – Sermone contro coloro che trascurano la teologia e si dedicano a scienze lucrative: "Cantate al Signore un canto nuovo". – Sermone sul beato Paolo: "Legherai forse il rinoceronte?". – Parte II: Sermone sui quattro cavalli [ dell’Apocalisse ] e il loro simbolismo; natura del mirto, della saliunca e dell’ortica e il loro significato: "Guardai, ed ecco un cavallo bianco". – Sermone contro il prelato iniquo: "O pastore e idolo", e "Eli era adagiato nel suo luogo", e "Canaan ha nelle sue mani una statera". – Natura del lupo e chi raffigura: "Il mercenario, al quale non appartengono le pecore". – Parte III: Sermone sui dodici patriarchi e loro significato: "Sentii il numero degli eletti". – Sermone sulla passione di Cristo, che dev’essere impressa sulla fronte dell’anima nostra: "Passa in mezzo alla città", e "Saremo sciolti dal giuramento", e "Il mazzetto di issopo". – Parte IV: Sermone allegorico e morale sulla santa chiesa e sull’anima fedele: "Una donna vestita di sole". – Sermone all’assemblea dei religiosi: "Distendi il tuo mantello col quale ti copri". – Sermone per esortare alla mortificazione della carne: "E la luna sotto i suoi piedi". – Sermone sulle dodici stelle e il loro significato: "E sul suo capo una corona di dodici stelle". Esordio - sermone al predicatore 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Io sono il buon pastore …" ( Gv 10,11 ). Dice Giovanni nell’Apocalisse: "Mi fu data una canna simile a una verga" ( Ap 11,1 ). La canna è la predicazione del vangelo. Come infatti la canna scrive le parole nella pelle ( pergamena ), così la predicazione deve scrivere la fede e i buoni costumi nel cuore dell’ascoltatore. La canna e la penna sono gli strumenti dello scrivano. La canna è così chiamata ( lat. càlamus ) perché depone un liquido: perciò i naviganti dicono calare per deporre. Ma poiché da càlamo viene calamità, e al vuoto segue l’infelicità, la predicazione viene paragonata alla verga, nella quale si possono vedere simboleggiate tre qualità: la solidità, la rettitudine e la correzione. La predicazione dev’essere solida, vale a dire comprovata dalla consistenza delle opere buone; e deve presentare parole vere, non false, non ridicole, non frivole o lusinghiere, ma parole che muovano alla commozione e al pianto. Per questo dice Salomone: "Le parole dei saggi sono come pungoli e come chiodi piantati profondamente" ( Qo 12,11 ). Infatti come il pungolo, quando punge, fa uscire il sangue, e il chiodo, se si impianta nella mano, produce un grande dolore, così le parole dei saggi devono pungolare il cuore del peccatore e farne uscire il sangue delle lacrime – le quali, come dice Agostino, sono il sangue dell’anima –, e suscitare il dolore dei peccati passati e il timore delle pene della geenna. La predicazione dev’essere retta ( coerente ), in modo che il predicatore non contraddica con le sue opere ciò che dice con le parole. L’autorità della parola viene annullata, quando la parola non è sorretta dalle opere. La predicazione dev’essere anche correttoria, affinché gli ascoltatori, dopo aver assistito alla predicazione, correggano, emendino la loro vita. Con simile verga il buon pastore, il degno prelato della chiesa, e anche il predicatore, corregga e pascoli il gregge delle sue pecore, come le correggeva e le pascolava quel buon pastore che nel vangelo della messa di oggi dice: "Io sono il Buon Pastore". 2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza quattro punti. Primo, la cura premurosa del buon pastore verso le pecore, e la disponibilità a dare la vita per esse, se necessario, dove dice: "Io sono il buon pastore". Secondo, la fuga del mercenario e la rapina del lupo, quando aggiunge: "Il mercenario invece, che non è pastore, al quale non appartengono le pecore …" Terzo, la reciproca conoscenza tra il pastore e le pecore: "Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". Quarto, la chiesa cattolica che sarà formata dall’unione dei due popoli ( cf. Ef 2,14 ), il giudaico e il gentile ( pagano ), dove dice: "Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile". In questa domenica e nella prossima si canta e si legge un brano dell’Apocalisse, che vogliamo dividere in sette parti. La prima parte parla delle sette Chiese, la seconda dei quattro cavalli, la terza degli eletti delle dodici tribù, la quarta della donna vestita di sole. Queste prime quattro parti le confronteremo con le quattro parti di questo vangelo. La quinta parte del brano dell’Apocalisse parla dei sette angeli che portano le fiale ripiene dell’ira di Dio; la sesta parte parla della dannazione della grande meretrice, cioè della vanità mondana; infine la settima parte parla del fiume di acqua viva, cioè della perennità della vita eterna. E queste tre parti – Dio volendo – le confronteremo con le tre parti del vangelo della domenica prossima. Inoltre, sempre in questa domenica, all’introito della messa si canta: "La terra è piena della misericordia di Dio" ( Sal 33,5 ), e si legge la lettera del beato Pietro apostolo: "Cristo patì per noi" ( 1 Pt 2,21 ). I. Cura premurosa del buon pastore verso le pecore 3. "Io sono il buon pastore". A buon diritto Cristo può dire: "Io sono", perché per lui nulla è passato, nulla è futuro, ma tutto è presente. Infatti dice nell’Apocalisse: "Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, dice il Signore Dio, che è, che era e che verrà, l’Onnipotente" ( Ap 1,8 ); e nell’Esodo: "Io sono. Così dirai ai figli d’Israele: "Io sono" mi manda a voi" ( Es 3,14 ). Giustamente quindi dice: "Io sono il buon pastore". Pastore deriva da pasco ( pascolare, pascere, nutrire ), e Cristo ci nutre ogni giorno con la sua carne e il suo sangue nel sacramento dell’altare. Dice Isai ( Iesse, padre di Davide ) nel primo libro dei Re: "C’è ancora il più piccolo, che sta pascolando le pecore" ( 1 Sam 16,11 ). Il nostro Davide, piccolo e umile, pascola come un buon pastore. Egli è il nostro Abele che, come si legge nella Genesi, fu pastore di pecore ( cf. Gen 4,2 ): il fratricida Caino, cioè il popolo giudaico, lo uccise per odio. Di questo pastore il Padre dice: "Susciterò un pastore che pascerà il mio gregge, Davide mio servo", cioè il figlio mio Gesù; "egli le pascerà, egli sarà il loro pastore" ( Ez 34,23 ). E ancora: "Come un pastore pascerà il suo gregge: con il suo braccio radunerà gli agnelli e li solleverà al suo petto; egli stesso porterà le pecore gravide" ( Is 40,11 ). Parla da buon pastore colui che, quando conduce il suo gregge al pascolo e lo fa rientrare, raduna con il suo braccio gli agnelli piccoli che non possono camminare, e solleva al suo petto le pecore gravide ( lat. fetas ) e quelle stanche, e le porta lui stesso. Il termine latino fetus ( fecondato ) talvolta significa "pieno", talvolta "liberato". Così Gesù Cristo ci pasce ogni giorno con gli insegnamenti evangelici e con i sacramenti della chiesa; ci ha radunati con il suo braccio, disteso sulla croce. Dice Giovanni: "Per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi" ( Gv 11,52 ). "E li solleverà al suo petto"; ci solleverà al seno della sua misericordia, come fa la madre con il figlio. Dice infatti: "Io feci da balia ( nutritius ) a Efraim, lo portai sulle mie braccia" ( Os 11,3 ). Egli ci nutre con il suo sangue, come con latte. Nella mammella, o sotto la mammella, fu ferito per noi dalla lancia sul monte Calvario, per offrirci il suo sangue, come la madre offre al figlio il latte; e ci ha portati sulle sue braccia, distese sulla croce. 4. Perciò nell’epistola di oggi Pietro dice: "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, morti ai peccati, viviamo per la giustizia: con le sue piaghe siamo stati guariti" ( 1 Pt 2,24 ). "Ed egli porta quelle gravide", cioè le anime gravide dei penitenti, eredi della vita eterna. Dice infatti nell’Esodo: "Voi stessi avete visto ciò che ho fatto agli Egiziani, e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti arrivare fino a me" ( Es 19,4 ). Egli affonda gli Egiziani, cioè i demoni e i peccati mortali, nel Mare Rosso, vale a dire nell’amarezza della penitenza, delle lacrime e della sofferenza bagnata e arrossata dal sangue; porta poi i penitenti su ali di aquila, quando, disprezzate le cose terrene, li solleva a quelle celesti perché con occhi limpidi contemplino il sole di giustizia. Giustamente quindi dice: "Io sono il buon pastore". E Davide: "Buono tu sei, e nella tua bontà istruisci me" ( Sal 119,68 ), pecora errabonda. "Sono andata errando, come pecora avviata alla rovina" ( Sal 119,176 ). E nel libro della Sapienza: "O quanto è benigno e soave, Signore, il tuo spirito, in tutte le cose!" ( Sap 12,1 ). "Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore" ( Gv 10,11 ). Mette in evidenza ciò che è proprio ed esclusivo del buon pastore, dare la vita per le sue pecore: ciò che fece Cristo. Dice Pietro nell’epistola di oggi: "Cristo patì per noi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme" ( 1 Pt 2,21 ). Commenta la Glossa: Gioisci, perché Cristo è morto per te. Fa’ però attenzione a ciò che segue: "Lasciandovi un esempio" di oltraggi, di tribolazioni, di croce e di morte. "Il Buon Pastore, dunque, dà la vita per le sue pecore". E di queste dice sempre Pietro alla fine dell’epistola: "Eravate come pecore erranti, ma ora siete tornati al pastore e guardiano ( lat. episcopus ) delle vostre anime" ( 1 Pt 2,25 ). Quale immensa misericordia! Lo proclama l’introito della messa di oggi: "Della misericordia del Signore è piena la terra!". "Dalla parola del Signore ebbero stabilità i cieli" ( Sal 33,5-6 ), cioè dal Figlio di Dio ebbero stabilità gli apostoli e gli uomini apostolici, per non essere come pecore erranti, ma si tenessero sempre sotto la verga del pastore e del guardiano delle anime. 5. Le pecore, per le quali il buon pastore Gesù Cristo diede la sua vita, raffigurano quelle sette chiese, delle quali parla il brano dell’Apocalisse: "Udii dietro di me – dice Giovanni – una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea. Mi voltai per riconoscere la voce che mi parlava: e vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai sette candelabri d’oro vidi uno simile a figlio d’uomo, vestito d’abito talare, e cinto al petto ( alle mammelle ) con una fascia d’oro. Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve, e i suoi occhi erano come fiamma di fuoco. I suoi piedi erano simili a lucido splendente, quando è nella fornace ardente; la sua voce come la voce di molte acque. E aveva nella sua destra sette stelle, dalla sua bocca usciva una spada affilata sui due lati: il suo volto splendeva come il sole in tutto il suo fulgore" ( Ap 1,10-16 ). Spiegheremo questo brano dapprima in senso allegorico, applicandolo a Cristo, e poi in senso morale applicandolo al prelato della chiesa. Senso allegorico. Efeso s’interpreta "mia volontà" o "mio consiglio"; Smirne "il loro canto"; Pergamo "che divide le corna" o "che dissecca la valle"; Tiatira "illuminata"; Sardi "principio della bellezza"; Filadelfia "che preserva" o "che salva chi si attacca al Signore"; e infine, Laodicea, che vuol dire "tribù amabile". "I sette candelabri d’oro" raffigurano tutte le chiese, ardenti e illuminate dalla sapienza del divin Verbo. Come l’oro raffinato col fuoco e battuto viene trasformato in un candelabro, così la chiesa, purificata dalle tribolazioni e percossa dai colpi delle persecuzioni, si perfeziona e si diffonde fino ai paesi più lontani. "E in mezzo ai sette candelabri d’oro", cioè nella comunità di tutte le chiese – poiché in tutte le chiese Dio è presente ed è sempre pronto a venire in soccorso –, "vidi uno simile a figlio d’uomo", cioè un angelo nella persona di Cristo, che non è più figlio dell’uomo, ma solo simile, perché ormai più non muore; oppure simile a figlio di uomo, perché non fu soggetto al peccato, ma prese solo la somiglianza della carne di peccato. "Vestito di tunica talare", sacerdotale, cioè della veste della carne, nella quale si offrì e ogni giorno si offre, presentando se stesso al Padre. "E cinto al petto di una fascia d’oro", cioè la fascia della carità, in virtù della quale si consegnò per noi alla morte. "Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve". Il capo è la divinità. Dice l’Apostolo: "Capo di Cristo è Dio" ( 1 Cor 11,3 ). Il capo raffigura anche lo stesso Cristo, che è capo della chiesa ( cf. Ef 5,23 ): in lui c’è tutto quello che è necessarieoal governo della chiesa stessa. I capelli raffigurano i fedeli, che allo stesso capo sono saldamente uniti. Quindi il capo e i capelli, cioè Cristo e i suoi cristiani, sono candidi come lana, bianca per la semplicità e la purezza, e come la neve, per il candore dell’immortalità, poiché come egli vive, anche noi vivremo con lui ( cf. Gv 14,19 ). "E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco". Gli occhi indicano lo sguardo della grazia di Gesù Cristo, che scioglie il cuore agghiacciato del peccatore, come la fiamma del fuoco dissolve il ghiaccio. Così il Signore guardò Pietro con gli occhi della misericordia, e Pietro pianse amaramente ( cf. Lc 22,61-62 ) perché il gelo del suo cuore si sciolse in lacrime di compunzione. "E i suoi piedi", cioè i predicatori che lo portano in tutto il mondo, erano "simili al bronzo splendente ( oricalco )", non un oricalco qualsiasi, ma quello purificato "nella fornace ardente". L’oricalco è così chiamato perché ha somiglianza sia con l’oro che con il bronzo: il bronzo infatti si chiama in greco chalkòs. Nell’oro è indicato lo splendore della sapienza, nel bronzo la sonorità dell’eloquenza. I piedi di Gesù Cristo sono simili all’oricalco perché i predicatori devono risplendere del fulgore della sapienza e della sonorità dell’eloquenza. "E la sua voce era come la voce di molte acque". La predicazione di Cristo possiede la virtù dell’acqua, perché lava. Infatti agli apostoli egli disse: "Voi siete mondi in virtù della parola che vi ho annunciato" ( Gv 15,3 ). Sono ormai molti i popoli che accolgono la voce di Gesù Cristo, e sono paragonati alle acque a motivo del fluire della vita e della morte. Oppure anche, "la sua voce, come la voce di molte acque", che fa sgorgare cioè molte acque, che dà tante grazie. Perciò continua: "E aveva nella sua destra sette stelle", cioè le sette grazie, i sette doni dello Spirito Santo, che tiene nella sua destra, così chiamata perché dà fuori ( dat extra ): infatti dal tesoro della sua munificenza dà le grazie a chi vuole, quando vuole e come vuole. Oppure, le stelle raffigurano i vescovi, che debbono risplendere di fronte a tutti con la parola e con l’esempio: e il Signore li tiene nella sua destra, cioè li considera i suoi doni più grandi, raffigurati appunto dalla mano destra. "E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutte e due le parti". Dalla sua bocca, cioè dal suo comendo, è uscita la predicazione, che taglia da entrambe le parti: nell’Antico Testamento le opere carnali, nel Nuovo le varie concupiscenze. "E il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza". Il volto di Cristo sono i degni prelati della chiesa e tutti i santi, per mezzo dei quali, come per mezzo del volto, conosciamo Cristo. Costoro splendono come il sole in tutta la sua forza, cioè nel mezzogiorno, senza nubi; oppure, quando il sole sarà fermo nell’eternità essi risplenderanno così, vale a dire diverranno simili al vero sole, Gesù Cristo. 6. Senso morale. "Io sono il buon pastore". Beato quel prelato della chiesa che può dire in tutta sincerità: Io sono il buon pastore. Egli, per essere buono, è necessario che sia simile al Figlio dell’uomo, e sia in mezzo a sette candelabri d’oro. Di essi dice Giovanni: "Vidi sette candelabri d’oro": in essi sono indicate le sette qualità necessarie al prelato della chiesa: innocenza di vita, scienza della sacra Scrittura, eloquenza di parola, assiduità nella preghiera, misericordia verso i poveri, disciplina nei riguardi dei sudditi, cura premurosa per il popolo che gli è affidato. Questi sette candelabri trovano rispondenza nel significato delle sette chiese. Efeso s’interpreta "mia volontà", o "mio consiglio". Qui è indicata l’innocenza di vita, della quale dice l’Apostolo: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo nel decoro e nella santità" ( 1 Ts 4,3-4 ). E Isaia: "Indìci un consiglio, prendi una decisione" ( Is 16,3 ). Indìci un consiglio per vivere nell’innocenza nei riguardi dell’anima; prendi una decisione, cioè frena i cinque sensi per vivere nella castità, per quanto riguarda il corpo. Smirne s’interpreta "il loro canto". E qui è indicata la scienza, la conoscenza delle sacre Scritture. Dice il Profeta: "Cantate al Signore un canto nuovo" ( Sal 96,1 ). Tutte le scienze mondane e lucrative sono il canto vecchio, il canto di Babilonia. Solo la teologia è il canto nuovo, che risuona soavemente agli orecchi di Dio e rinnova lo spirito. Essa dev’essere il canto dei prelati. Se non c’è in Israele un fabbro ferraio – dice il primo libro dei Re –, non deve far meraviglia se i figli d’Israele vanno dai filistei a farsi affilare l’aratro, la zappa, la scure e il sarchiello ( cf. 1 Sam 13,19-20 ). Ma, grazie a Dio, in Israele, cioè nella chiesa, c’è non dico un fabbro solo, ma ci sono molti fabbri, cioè molti teologi che sanno affilare molto bene il vomere, la zappa, la scure e il sarchiello e ripararli perfettamente. Il vomere è chiamato così perché scava la terra, o anche perché vomita terra; la zappa ( lat. ligo ) perché solleva la terra; la scure ( lat. securis ) perché taglia ( lat. succidit ) gli alberi; il sarchiello è un arnese di ferro munito di manico, strumento necessario alla coltivazione dei campi. Con questi arnesi da lavoro viene indicata la pratica della predicazione, che scava l’humus della cupidigia e la terra dell’iniquità, convince la mente a disprezzare le attrattive di questi vizi, taglia i rami secchi dell’albero infruttuoso e coltiva il campo della chiesa militante. Perché dunque i figli d’Israele, cioè i prelati della chiesa, vanno dai filistei, nome che s’interpreta "caduti ubriachi fradici", si danno cioè alle scienze lucrative? E ricorrono ad esse per inebriarsi con la bevanda di una dignità effimera, della gola e della lussuria, con l’ambizione della vanagloria e del denaro, e così ubriachi, cadono nel profondo dell’inferno. A costoro dice Bernardo: "O ambizione veramente malaugurata, che non sa aspirare alle grandi cose: amano infatti i primi posti, ma c’è da temere per loro che cadranno come i fichi che non maturano. Si guardino bene coloro che bramano i primi posti, di non perdere anche i secondi, e finiscano poi per precipitare vergognosamente all’ultimo posto dell’inferno". Pergamo s’interpreta "che spezza i corni" ( l’arroganza ), oppure "che dissecca la valle". Qui è raffigurata l’eloquenza della lingua erudita, che spezza i corni dei superbi e dissecca la valle dei carnali. Dice il Signore per bocca del profeta: "Io spezzerò tutti i corni l’arroganza dei peccatori" ( Sal 75,11 ). E Giobbe: "Potrai forse legare con la briglia il rinoceronte per farlo arare, o perché rompa le zolle delle valli dietro a te?" ( Gb 39,10 ). Il rinoceronte è un animale tozzo, somigliante a un caprone ( sic ), che sopra le narici ha un corno oltremodo appuntito: raffigura il beato Paolo, che fremente minacce e strage, mentre andava a Damasco, fu legato con la briglia della potenza divina per arare, cioè per predicare. Infatti il Signore disse ad Anania: "Questi è per me un vaso di elezione [ strumento eletto ] per portare il mio nome davanti ai gentili ( pagani ), ai re e ai figli d’Israele" ( At 9,15 ). Egli spezzò le zolle delle valli, vale a dire le menti dei carnali e degli infedeli, con l’aratro della predicazione. Tiatira s’interpreta "illuminata". Simboleggia l’assiduità nella preghiera, che illumina la mente. Leggiamo nell’Apocalisse: "Lo splendore di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello" ( Ap 21,23 ). Nell’agnello sono raffigurate l’innocenza e la semplicità, due virtù necessarie in modo particolare a chi prega: esse come splendore e lampada illuminano la mente di chi è assiduo nell’orazione. Sardi vuol dire "principio della bellezza". E questa è la misericordia verso i poveri, che scaccia la lebbra dell’avarizia e rende bella l’anima. Infatti è detto: "Date in elemosina …, ed ecco, tutto per voi sarà mondo" ( Lc 11,41 ). Filadelfia s’interpreta "che preserva o salva chi aderisce al Signore". Qui è raffigurata la correzione nei riguardi dei sudditi, la quale preserva chi aderisce al Signore nel suo servizio, e salva dal pericolo della morte. A questo proposito dice l’Apostolo: "Ogni correzione sul momento non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a coloro che con essa sono stati guidati" ( Eb 12,11 ). Laodicea s’interpreta "tribù amabile" per il Signore. E qui è raffigurata la chiesa cattolica del popolo cristiano, sulla quale il prelato deve vigilare con cura assidua. Dell’amore verso di essa, dice Giovanni: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" ( Gv 13,1 ), vale a dire li amò così tanto, che l’amore lo condusse fino alla morte. Questi sono i sette candelabri che illuminano tutte le chiese, riunite dallo Spirito della settiforme grazia, in mezzo alle quali il prelato, simile a Figlio d’uomo, cioè a Gesù Cristo, deve camminare nella povertà, nell’umiltà, nell’obbedienza, vestito del camice bianco. Il camice è la tunica talare, quella tunica di lino che indossava Aronne, e sta a significare la castità del corpo, alla quale dev’essere unita la purezza del cuore. 7. "Era cinto al petto di una fascia d’oro". Daniele vide il personaggio cinto alle reni, ai fianchi, perché nell’Antico Testamento vengono condannate le opere carnali; Giovanni lo vide cinto al petto ( alle mammelle ), perché nel Nuovo Testamento vengono giudicati anche i pensieri. Quindi con una fascia d’oro, cioè con l’amore verso Dio, viene stretto il petto ( vengono strette le mammelle ), vale a dire viene represso il flusso dei cattivi pensieri. Quindi continua: "Il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come la neve". Il capo è così chiamato in quanto comprende tutti i sensi, e sta ad indicare la mente che è come il capo dell’anima; e i capelli raffigurano i pensieri. Nella mente di solito risiede l’impurità e il fomite del peccato. Quindi la mente e i pensieri devono essere candidi come la lana bianca contro l’immondezza del peccato, e come la neve contro il suo fomite. "E i suoi occhi erano come fiamma di fuoco". Gli occhi del prelato raffigurano la contemplazione di Dio e la compassione verso il prossimo, che devono essere come una fiamma di fuoco: devono cioè irradiare fiducia nei riguardi di Dio e innocenza nei riguardi del prossimo. "E i suoi piedi erano simili all’oricalco". I piedi raffigurano gli affetti della mente e gli effetti delle opere. Di questi due piedi restò storpio Mifiboset – nome che s’interpreta "uomo di confusione" –, cadendo dalle braccia della nutrice, come si racconta nel secondo libro dei Re ( cf. 2 Sam 4,4 ). In lui vediamo raffigurato il peccatore, uomo della confusione eterna, che a motivo del peccato mortale cade dalle braccia della nutrice, cioè esce dalla grazia dello Spirito Santo, e diventa storpio di entrambi i piedi. Invece i piedi del buon prelato devono essere simili all’oricalco. L’oricalco, come si è detto, ha il colore dell’oro e del bronzo: nell’oro è simboleggiato l’affetto della mente, nel bronzo la risonanza ( l’esempio ) delle buone opere. L’oricalco viene spesso arroventato e così migliora il suo colore; così il buon prelato: quanto più viene bruciato dal fuoco della tribolazione, tanto più diviene luminoso. "E la sua voce era come la voce di molte acque". Come molte acque che scorrono impetuosamente travolgono ogni ostacolo, così la voce della predicazione del prelato deve travolgere ogni ostacolo di vizi e ogni impedimento che si frappone alla salvezza delle anime. "E aveva nella sua destra sette stelle". Le sette stelle sono le sette glorificazioni del corpo e dell’anima. Quelle dell’anima sono: la sapienza, l’amicizia e la concordia; quelle del corpo sono: la luminosità, l’agilità, la sottigliezza ( la compenetrazione ) e l’immortalità. Il prelato deve avere queste qualità nella destra, affinché tutto quello che pensa, tutto quello che fa, tutto sia destro, cioè retto, e affinché possa avere nella destra della vita eterna le sette stelle, sia cioè posto alla destra con le sue pecore. "E dalla sua bocca usciva una spada affilata da tutti e due i lati". La spada è la confessione, che dev’essere affilata da entrambe le parti per poter tagliare i vizi spirituali che sono la superbia e la vanagloria, e i vizi carnali che sono l’avarizia, la gola e la lussuria. "E il suo volto era come il sole quando splende in tutto il suo fulgore". Il volto del prelato sono le sue opere, per mezzo delle quali, come dal volto, egli viene riconosciuto. "Li riconoscerete dai loro frutti" ( Mt 7,16 ). Se i frutti sono buoni, splenderanno come il sole in tutto il suo fulgore. Dice infatti il Signore: "Splenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli" ( Mt 5,16 ). Se così sarà il prelato, in coscienza potrà dire: "Io sono il buon pastore". Fratelli carissimi, preghiamo il Signore nostro Gesù Cristo che al pastore della sua chiesa conceda la grazia di pascolare come si conviene il gregge dei fedeli e meriti alla fine di giungere a lui, che è l’eterno pascolo dei santi. Lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La fuga del mercenario e la rapina del lupo 8. "Il mercenario invece, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Il mercenario fugge perché è mercenario e non gliene importa delle pecore" ( Gv 10,12-13 ). Poco sopra il Signore aveva detto: "In verità, in verità vi dico: chi non entra nell’ovile delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante" ( Gv 10,1 ). Qui sono poste in evidenza quattro persone: il buon pastore, il ladro e brigante, il mercenario e il lupo. E raffigurano i quattro cavalli che troviamo nella citazione dell’Apocalisse. Scrive Giovanni: "Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco: e gli fu data una corona e uscì vincitore per vincere ancora. Uscì poi un altro cavallo, rosso fuoco, e a colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché [ gli uomini ] si uccidessero a vicenda: e gli fu data una grande spada. Ed ecco ancora un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii una voce gridare in mezzo ai quattro esseri viventi: Due libbre di grano per un denaro, e sei libbre di orzo per un denaro, e non sprecate olio e vino. Ed ecco infine un cavallo verdastro: colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra per sterminare con la spada, con la fame ( privazione ) e la peste e le fiere della terra" ( Ap 6,2-8 ). Senso allegorico. "Vidi, ed ecco un cavallo bianco". Il cavallo bianco simboleggia l’umanità del buon pastore Gesù Cristo, che giustamente è raffigurato nel cavallo bianco perché fu immune da ogni macchia di peccato. Di questo cavallo dice il profeta Zaccaria: "Io ebbi una visione nella notte, ed ecco un uomo in groppa ad una cavallo rosso, che stava in un mirteto, in una valle profonda" ( Zc 1,8 ). La notte nella quale avviene la visione simboleggia il mistero che avvolge i fenomeni mistici. L’uomo assiso sul cavallo rosso è il Salvatore le cui vesti, vale a dire la sua carne e le sue membra, sono rosse per il sangue versato nella passione: perciò si mostra su di un cavallo rosso al popolo che è ancora tenuto in schiavitù. Nell’Apocalisse di Giovanni invece si mostra su di un cavallo bianco al popolo già liberato. Egli sta tra i mirti, cioè tra le schiere angeliche, che lo servono anche mentre si trova in una valle profonda, cioè nell’umana carne. Dice infatti Matteo: "Gli si avvicinarono gli angeli, e lo servivano" ( Mt 4,11 ). Oppure: "In un mirteto". Il mirteto è un luogo dove crescono i mirti. Il mirto è una specie di pianta dal profumo gradevole, che ha il potere di alleviare il dolore; deriva il suo nome dal mare, per il fatto che è una pianta che preferisce i litorali. Il mirto simboleggia la purezza del giusto, che è di gradevole profumo nei riguardi del prossimo e favorisce la temperanza nei riguardi di sé; e si trova di preferenza nel litorale, cioè nella compunzione del cuore. Dice in proposito Isaia: "Invece della saliunca, crescerà l’abete, e invece dell’ortica il mirto" ( Is 55,13 ). La saliunca è un’erba salsa, una specie di arbusto o di salice. L’abete è così chiamato perché si innalza al di sopra degli altri alberi ( lat. abies, da abeo, vado lontano ). La saliunca raffigura l’avarizia, amara e sterile, al cui posto, quando Dio infonde nella mente la grazia, s’innalza l’abete della celeste contemplazione. L’ortica, così chiamata perché il suo tocco fa come bruciare ( lat. uro ) il corpo – è infatti di natura ignea –, simboleggia la lussuria della carne, al posto della quale il Signore fa crescere il mirto della continenza. Quindi il Signore dimora nel mirteto, cioè in coloro che, per la virtù della purezza e il profumo della buona fama, servono Dio nella valle profonda dell’umiltà. "Vidi, ed ecco un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco". Chi cavalca il cavallo è la divinità, che come un cavaliere cavalca l’umanità. L’arco, composto di corda e di legno, simboleggia la misericordia e la giustizia di Dio. Infatti come la corda piega il legno, così la misericordia piega la giustizia. Dice Giacomo: "La misericordia trionfa sul giudizio" ( Gc 2,13 ). Nella sua prima venuta Cristo portò con sé la corda flessibile della misericordia per conquistare i peccatori; ma nella seconda venuta colpirà con il legno della giustizia, e renderà a ciascuno secondo le sue opere ( cf. Mt 16,27 ). "E gli fu data una corona". A Cristo, Dio e uomo, fu data una corona riguardo all’umanità, con la quale lo incoronò la Madre sua nel giorno del suo sposalizio ( cf. Ct 3,11 ). Oppure: gli fu data una corona di spine dalla sua matrigna, la sinagoga. "E uscì vittorioso per vincere ancora". "Uscì verso quello che era chiamato il luogo del Calvario – come dice Giovanni –, portando la sua croce" ( Gv 19,17 ), vittorioso sul mondo, per vincere anche il diavolo. 9. Senso morale. Vidi, ed ecco un "cavallo bianco". Il cavallo bianco raffigura il corpo del buon pastore e quello del prelato della chiesa. Questo cavallo dev’essere bianco, della bianchezza della castità. Il cavaliere di questo cavallo è lo spirito, che deve dominarlo con il freno dell’astinenza e incitare con gli sproni dell’amore e del timore di Dio per conseguire il premio della vita eterna. "Non nuoce usare lo sprone con il cavallo in corsa" ( Ovidio ). L’arco raffigura la sacra Scrittura: nel legno e indicato l’Antico Testamento, nella corda, che piega la durezza, il Nuovo, e nella freccia la comprensione, che ferisce e penetra i cuori. Quest’arco il buon pastore deve averlo nella mano, cioè nel suo agire. Dice Giobbe: "Il mio arco si rinforzerà nella mia mano" ( Gb 29,20 ): l’arco si rinforza nella mano, quando la predicazione è avvalorata dalle opere. "E gli fu data una corona". La corona sul capo è la retta intenzione nella mente, della quale dice Geremia: "È caduta la corona dal nostro capo: guai a noi che abbiamo peccato!" ( Lam 5,16 ). La corona cade dal capo quando l’uomo non ha più la retta intenzione e perciò: Guai a lui! "E uscì vincitore, per vincere ancora". Uscì dalla cupidigia del mondo, vincendo la lussuria della carne, e per vincere la superbia del diavolo. Se il prelato sarà come questo cavallo bianco, a buon diritto potrà dire: Io sono il buon pastore. "E uscì un altro cavallo, rosso fuoco". Il cavallo rossofuoco è il ladro e brigante "che non entra per la porta nell’ovile delle pecore" ( Gv 10,1 ). La porta è Cristo ( cf. Gv 10,9 ): non entra per Cristo colui che cerca quello che è suo e non quello che è di Cristo ( cf. Fil 2,21 ). Il termine brigante ( lat. latro ) deriva da "nascondere" ( lat. latère ); e ladro ( lat. fur ) da furvus, nero. Il brigante è colui che si nasconde per spogliare e uccidere gli incauti, gli imprudenti. Il ladro è colui che nella notte oscura porta via le cose degli altri. Brigante e ladro è colui che per ambizione e con intrighi si arroga l’onore, senza essere chiamato da Dio come Aronne ( cf. Eb 5,4 ). Colui che ottiene una prelatura con la simonia è ladro, perché usurpa per mezzo del denaro l’ufficio di pastore, e quasi nella notte oscura fa suo ciò che appartiene ad altri: fa sue le pecore di Dio, che ha rubato al Signore. Brigante è colui che si nasconde sotto l’apparenza della santità: si presenta come pecora, mentre è un lupo, e come sparviero mentre è uno struzzo; e in questo modo spoglia delle loro virtù gli incauti, e li uccide nell’anima. A ragione quindi è chiamato cavallo rosso fuoco. Chi cavalca questo cavallo è lo spirito dell’ambizione e della gloria mondana, che toglie la pace dalla terra, cioè dalla mente dello stesso ladro e brigante. Infatti lo spirito di ambizione non permette allo sciagurato di avere la quiete della mente, perché è come un cacciatore che insegue le prede che gli sfuggono e si precipita da ogni parte alla ricerca delle cose temporali. Di lui dice il beato Bernardo: "Tu moltiplichi le prebende, sali all’arcidiaconato, aspiri all’episcopato, ti innalzi a poco a poco, ma ad un tratto e inopinatamente precipiti all’inferno". E ancora: "Va intorno solerte l’esploratore, simula e dissimula, si accoda e ossequia, si arrampica mani e piedi, per intrufolarsi in qualche modo nel patrimonio del Crocifisso". Altro senso: "Toglie la pace dalla terra", quando mediante questo figlio della perdizione semina la discordia nella chiesa. Perciò continua: "Perché si uccidessero a vicenda". I ladri e i briganti, cioè i prelati simoniaci, si uccidono a vicenda con la spada della discordia e dell’invidia, quando si denigrano, quando mormorano, quando abbaiano uno contro l’altro. Dice Isaia: "Vi danzeranno i satiri" ( Is 13,21 ); e ancora: "I satiri si chiameranno l’un l’altro" ( Is 34,14 ). Oggi i satiri, cioè i simoniaci danarosi, ballano e si divertono nella chiesa; e un simoniaco accusa l’altro; sono occupati tutto il giorno in processi, intrighi, estorsioni, in urla e in aspre diatribe. Quindi conclude: "E gli fu data una grande spada". La spada acuminata e affilata è la gloria temporale, per la quale e con la quale gli infelici feriscono e uccidono se stessi. 10. "Ed ecco il cavallo nero: e chi lo cavalcava teneva in mano una bilancia". È detto nero ( lat. niger ), quasi a dire nubiger ( che porta nubi ), perché non è sereno ma coperto di foschia. Il cavallo nero è il mercenario, del quale il Signore dice: "Il mercenario e colui che non è pastore, al quale non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo …". Il mercenario, così chiamato perché è ingaggiato "a mercede", cioè a pagamento, sta ad indicare il prelato che serve la chiesa unicamente per la mercede temporale. Di un simile individuo dice il profeta: "Ti confesserà, ti loderà, quando lo avrai beneficato" ( Sal 49,19 ). E dice ancora il Signore: "In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto i miracoli, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati" ( Gv 6,26 ). Quando il ventre è pieno, canta volentieri il miserere. Questo mercenario non è un pastore ma un simulacro ( lat. idolum ). Per questo dice Zaccaria: "Guai al pastore e simulatore ( idolum ) che abbandona il gregge! Una spada sta sul suo braccio e sul suo occhio destro: il suo braccio sarà inaridito e il suo occhio destro ottenebrandosi si oscurerà" ( Zc 11,17 ). Nel braccio è raffigurata la capacità di agire e nell’occhio il lume della ragione. Dice dunque: "Pastore e simulatore", e lo dice a modo di rettifica, come dicesse: "Non pastore, ma simulatore". Sei tanto scellerato da essere definito non adoratore di idoli, ma tu stesso idolo ( finzione ). L’idolo usurpa il nome di Dio, ma non è Dio. E così è il falso pastore che abbandona il gregge, perché le pecore non gli appartengono. E perciò la spada, cioè l’ira divina, sarà sopra il suo braccio e sopra il suo occhio destro, affinché la sua forza e l’ostentazione della sua forza si secchi, si inaridisca per il venir meno della grazia e delle opere buone, e il lume della ragione si oscuri per le tenebre terrene, poiché per il giusto giudizio di Dio sarà reso incapace di operare e accecato nel suo discernimento. Infatti nel primo libro dei Re sta scritto : "Il sommo sacerdote Eli era adagiato nel luogo consueto: i suoi occhi si erano annebbiati e non poteva vedere la lampada del Signore prima che si spegnesse" ( 1 Sam 3,2-3 ). Eli s’interpreta "estraneo", e sta ad indicare il prelato ingaggiato per lo stipendio, estraneo quindi al regno di Dio. Costui è adagiato nel suo posto, cioè nel pantano della carne, dissoluto; i suoi occhi, cioè il lume della ragione e dell’intelletto, sono oscurati dalla caligine, cioè dall’amore delle cose terrene; e così non può vedere la lampada, vale a dire la grazia di Dio, prima che si estingua: cioè non avverte e non riconosce di essere privo della luce della grazia, se non quando questa luce si è in lui già spenta. Molti infatti sono così accecati, da non riconoscere di aver perduto la grazia di Dio, se non quando dallo stato di grazia sono caduti nella cecità del peccato mortale. Giustamente quindi è detto nell’Apocalisse: Ecco il cavallo nero, cioè il mercenario, avvolto non dal sereno della grazia ma dall’ombra oscura della colpa. "E colui che lo cavalcava teneva in mano una bilancia". Il cavaliere del cavallo nero, cioè il mercenario, è l’animo ( lo spirito ) degli affari. Il mercenario, stimolato da questi sproni, come un mercante vende a un dato prezzo la colomba, cioè la grazia di Dio, che dev’essere data gratis, e così della casa di Dio fa una casa di mercato ( cf. Gv 2,16 ). Il mercenario tiene in mano una bilancia truccata, della quale dice Osea: "Canaan, con in mano una bilancia truccata, ha amato la frode" ( Os 12,7 ). Canaan s’interpreta "mercante" e raffigura il mercenario della chiesa che, implicato negli affari di questo mondo, non ha cura delle pecore di Dio. Dice Girolamo: Ciò che è l’usura nel laico, lo sono gli affari nel chierico. Nella sua mano tiene una bilancia truccata, perché predica in un modo, ma vive in un altro; agisce in un modo, ma ne ostenta un altro; predica la povertà e invece è avaro, la castità e invece è lussurioso, il digiuno e l’astinenza e invece è ingordo e goloso; carica sulle spalle della gente pesi opprimenti e insostenibili, ma lui non li tocca neppure con un dito ( cf. Mt 23,4 ). Questa è la bilancia truccata, tutto all’opposto di ciò che dice il Signore: Abbi pesi giusti e misure giuste ( cf. Lv 19,36 ). La bilancia è così chiamata perché pende in equilibrio con un’asticella al centro di due piatti ( bilancia, dal lat. lanx, piatto ). I due piatti sono il disprezzo del mondo e il desiderio del regno dei cieli. L’asticella al centro è l’amore di Dio e del prossimo. Questa è la vera bilancia che pesa esattamente, dando ad ognuno quanto gli spetta di diritto: al mondo il disprezzo, a Dio l’adorazione, al prossimo l’amore. Ma nella mano di Canaan, cioè del mercenario affarista, non c’è questa bilancia, ma c’è quella falsa. "Ha agito con inganno – dice il profeta – e così la sua iniquità è divenuta odiosa" ( Sal 36,3 ), perché ha amato la calunnia ( la frode ). La calunnia deriva dal lat. calvor, ingannare, imbrogliare. Questo mercenario affarista confeziona cuscini da mettere sotto ogni braccio, e fa guanciali da mettere sotto il capo [ di persone ] di qualunque età ( cf. Ez 13,18 ), perché a motivo di lucro asseconda i vizi, blandisce le colpe e non impone penitenze adeguate; e nascondendo la sua avarizia sotto l’apparenza della misericordia e della compassione, dice: Pace, pace!, ma non c’è la pace ( cf. Ez 13,10 ), facendo vivere le anime che non dovevano vivere ( cf. Ez 13,19 ), e così inganna i fedeli di Gesù Cristo. A questo si riferiscono le parole che seguono: "Due libbre ( lat. bilibris ) di grano per un denaro …", ecc. È chiamato "bilibre" il vaso che contiene due "sestari" ( circa un litro ). Nel grano è raffigurata la fede, nell’unico denaro il sangue di Gesù Cristo. Il bilibre ( due libbre ) di grano rappresenta la chiesa dei fedeli, formata da due popoli e riscattata con il sangue di Gesù Cristo. "E tre bilibre di orzo per un denaro". Questi sono i fedeli della stessa chiesa, di grado inferiore, che perseverano nella fede della santa Trinità: anche questi vengono riscattati con l’unico denaro del sangue di Gesù Cristo. Altra interpretazione. Nel grano sono raffigurati i religiosi e nell’orzo i laici. Il bilibre di grano è la vita dei religiosi che, come il grano, dev’essere candida all’interno per la purezza della mente, rosseggiante all’esterno per la macerazione del corpo. Questa vita deve contenere in se stessa due sestari. Nei due sestari è designato il duplice precetto della carità: l’amore di Dio e l’amore del prossimo, che conducono ogni uomo alla perfezione. L’orzo, così chiamato perché è il primo fra tutti i cereali che si secca ( lat. hordeum, aridum ), sta ad indicare i laici i quali, spuntato il sole della persecuzione, subito inaridiscono, perché "credono per un certo tempo, ma nel tempo della tentazione vengono meno" ( Lc 8,13 ). Quindi "i tre bilibri di orzo" sono tutti i fedeli laici, che hanno almeno la fede nella santa Trinità; tanto i religiosi che i laici vengono riscattati con l’unico denaro, contrassegnato dall’immagine del re e dalla sua iscrizione, cioè dal precetto dell’obbedienza, proprio come il primo uomo, che non perdette l’immagine e la somiglianza di Dio, finché obbedì al suo comando. "E non sprecate il vino e l’olio". Nel vino, che dà ebbrezza, è raffigurata la vita contemplativa, la quale inebria le menti in modo che dimentichino tutte le cose temporali. Nell’olio, che galleggia sopra ogni liquido, e versato nell’acqua rende più chiare ( visibili ) le cose nascoste nel profondo, è indicata la vita attiva che è attenta a tutte le necessità e le infermità del prossimo e con le opere di misericordia porta un po’ di luce nel buio della povertà. E poiché la chiesa è composta di religiosi e di laici, di attivi e di contemplativi, a quel mercenario viene ordinato di non danneggiarli con il suo cattivo esempio. Afferma Gregorio: "Il prelato merita tante morti, quanti sono i cattivi esempi da lui lasciati ai posteri". 11. Questo "mercenario, poiché le pecore non gli appartengono, quando vede venire il lupo, fugge". Il lupo è così chiamato perché, quasi come il leone, ha nei piedi una forza, per la quale ogni cosa che calpesta, cessa di vivere. Tende agguati alle pecore, le assalta alla gola per strangolarle rapidamente. Di struttura corporea piuttosto rigida, sì da non poter piegare tanto facilmente la testa, si muove con una certa irruenza e quindi spesso si vede beffato. Si dice che quando scorge per primo qualcuno, per una qualche forza di natura gli tolga la voce; ma se si vede scoperto perde l’audacia e la ferocia. Quando ha fame e non trova qualcosa da rubare con facilità, si nutre di terra, poi sale su un monte e con le fauci spalancate si riempie di vento le viscere bramose. Ha grande terrore di due cose: del fuoco e della strada frequentata. Il lupo è figura del diavolo e del tiranno di questo mondo sul quale il diavolo cavalca. E questo è il quarto cavallo, del quale l’Apocalisse dice: "Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte". Come il soldato si serve del cavallo, così il diavolo, il cui nome è Morte perché per mezzo suo la morte è entrata nel mondo ( cf. Sap 2,24 ), si serve del crudele tiranno di questo mondo per turbare e rovinare la chiesa di Cristo. E il mercenario, quando lo vede arrivare, "abbandona le pecore e fugge, e il lupo rapisce e disperde le pecore". Quello abbandona e questo rapisce, quello fugge e questo disperde. Il diavolo, come un lupo, uccide tutto ciò che schiaccia con il piede della superbia. Perciò Davide, nel timore di essere schiacciato da quel piede, pregava dicendo: "Non venga su di me il piede della superbia" ( Sal 36,12 ). Come infatti tutte le membra poggiano sui piedi, così tutti i vizi fanno capo alla superbia, perché essa è il principio di ogni peccato ( cf. Sir 10,15 ). Il diavolo tende agguati alle pecore, cioè ai fedeli della chiesa, e li azzanna alla gola per impedire loro di confessare i peccati. E ha una così grande superbia da non poter piegare la testa all’umiltà. Attacca all’improvviso, irrompendo con la tentazione, ma viene beffato dai santi, che non ignorano certo le sue astuzie. Ma se vede un uomo imprudente, lo rende muto affinché non confessi i suoi crimini e non canti la lode del Creatore. Se invece l’uomo vigila su se stesso e previene la sua tentazione, il diavolo si vergogna di essere scoperto e così perde tutta la forza della tentazione. Quando poi non trova nei santi nulla da mangiare, si nutre di terra, cioè degli avari e dei lussuriosi. Poi sale sul monte, va cioè da coloro che occupano posti e cariche elevate, e lì si ristora con il vento della loro vanagloria e del loro sfarzo mondano. Il diavolo ha terrore soprattutto di due cose: del fuoco della carità e della via calpestata dell’umiltà. Se il mercenario fosse dotato di queste due qualità, certo non fuggirebbe, ma proprio per questo fugge, perché è mercenario e non gliene importa nulla delle pecore. Il mercenario e il diavolo sono legati da una certa amicizia e vincolati da un patto. Il diavolo dice al prelato ciò che disse il re di Sodoma ad Abramo: "Dammi le anime, il resto – cioè la lana, la carne, il latte – prendilo per te" ( Gen 14,21 ). Il diavolo e il tiranno di questo mondo agiscono con i prelati del nostro tempo come i lupi con i pescatori della palude meotide ( dalle parti del mar d’Azov ). Si racconta che i lupi si avvicinano al luogo dove si trovano i pescatori: se i pescatori danno loro del pesce, non fanno danni; ma se non gliene danno, strappano le reti quando i pescatori le stendono per terra per asciugarle. Così i prelati della chiesa danno al diavolo i pesci, cioè le anime che vivono nell’acqua del battesimo, e cedono i beni della chiesa al tiranno del mondo perché non strappi le reti dei loro affari, degli intrighi temporali e non guastino le relazioni che hanno con la loro parentela. Quindi giustamente è detto: "Ed ecco un cavallo verdastro, e colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e l’inferno lo seguiva", vale a dire che gli insaziabili di cose terrene lo imitano. "E gli fu dato potere sulle quattro parti della terra", cioè su tutti i cattivi che dimorano ovunque; "di uccidere con la spada" delle cattive suggestioni, "con la privazione" della parola divina, con "la morte" del peccato mortale e con "le fiere della terra", vale a dire con gli impulsi e gli istinti della carne corrotta. III. La reciproca conoscenza tra il pastore e le pecore 12. "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore ed esse conoscono me. Come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e do la mia anima ( vita ) per le mie pecore" ( Gv 10,14-15 ). All’iniquità del pastore falso, oppone il comportamento del pastore vero. Io sono il pastore buono, a differenza del ladro e del mercenario; e conosco le mie pecore, che sono contrassegnate dal mio carattere. Queste pecore hanno "il nome del pastore e il nome del Padre suo scritto sulla loro fronte" ( Ap 14,1 ). Ed ecco come concordano con questo le parole dell’Apocalisse: "Poi udii il numero di coloro che sono stati segnati: centoquarantaquattromila da ogni tribù dei figli d’Israele. Dalla tribù di Giuda dodicimila, dalla tribù di Ruben dodicimila, dalla tribù di Gad dodicimila, dalla tribù di Aser dodicimila, dalla tribù di Neftali dodicimila, dalla tribù di Manasse dodicimila, dalla tribù di Simeone dodicimila, dalla tribù di Levi dodicimila, dalla tribù di Issacar dodicimila, dalla tribù di Zabulon dodicimila, dalla tribù di Giuseppe dodicimila, dalla tribù di Beniamino dodicimila" ( Ap 7,4-8 ). "Udii il numero dei segnati", cioè capii quali dovevano essere segnati: "centoquarantaquattromila", numero che rappresenta la perfezione. Mette un numero "finito" perché Dio con un numero determinato comprende la totalità. "Da tutte le tribù dei figli d’Israele" ( dodici ), cioè da tutte le genti che imitano la fede di Giacobbe. Nel numero dodici intendiamo coloro che, nelle quattro parti del mondo, sono segnati dalla fede nella Trinità; e per dimostrare che questi sono perfetti, moltiplichiamo dodici per quattro, e otteniamo quarantotto. E affinché questa perfezione si riferisca alla Trinità, triplichiamo il quarantotto e otteniamo centoquarantaquattro. "Dalla tribù di Giuda", ecc. Si racconta nella Genesi che "Giacobbe maledisse tre figli, cioè Ruben, Simeone e Levi, i quali in ordine di nascita erano i primi ( cf. Gen 49,3-7 ). Questo ci fa capire che nessuno dei tre ebbe il diritto di primogenitura. Il quarto fu Giuda, che Giacobbe lodò e benedisse dicendo: "Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli" ( Gen 49,8 ). Ecco il significato dei dodici nomi: Giuda, "che confessa"; Ruben, "figlio della visione"; Gad, "che è cinto"; Aser, "beato"; Neftali, "larghezza"; Manasse, "dimenticato"; Simeone, "ascolto ( esaudimento ) della tristezza"; Levi, "aggiunto" o "innalzato"; Issacar, "mercede"; Zabulon, "abitazione della fortezza"; Giuseppe, "accrescimento"; Beniamino, "figlio della destra" ( Gen 35,18 ). Giuda è il penitente, che deve aver con sé gli undici fratelli per avere nella sua confessione una visione chiara; nella tribolazione deve cingersi di sapienza; deve temere Dio, perché "beato è l’uomo che teme il Signore" ( Sal 112,1 ); deve dilatarsi nella carità; dimentico del passato, deve protendersi verso il futuro ( cf. Fil 3,13 ); deve dolersi dei peccati affinché Dio lo ascolti, e deve aggiungere dolore a dolore per poter essere innalzato dal dolore alla gioia; in questo modo conseguirà la mercede della vita eterna, nella quale abiterà con fortezza e fiducia ( cf. Dt 33,28 ) perché non ci sarà chi lo spaventi ( cf. Gb 11,19 ); aggiunto al numero degli angeli, ricolmo delle vere ricchezze, con la benedizione della destra, cioè posto a destra, sarà benedetto nei secoli dei secoli. 13. Nell’interpretazione di questi dodici nomi è indicata ogni perfezione di grazia e di gloria. Chiunque voglia ad essa arrivare, è necessario che venga segnato nella fronte con un tau ( T ). Leggiamo in Ezechiele: "Disse il Signore all’uomo che era vestito di lino: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che gemono e soffrono per tutti gli abomini che si compiono in mezzo ad essa" ( Ez 9,2-4 ). L’uomo vestito di lino è Gesù Cristo, rivestito del lino della nostra carne: il Padre gli ha comandato di imprimere un tau, cioè il segno della sua croce e la memoria della sua passione, sulla fronte, vale a dire nella mente dei penitenti, che gemono nella contrizione, e piangono nella confessione, per tutti gli abomini che hanno commesso o che vengono commessi dagli altri. Di questo segno dissero gli esploratori a Raab: "Saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto fare, se quando entreremo in questa città non ci sarà come segno questa funicella rossa e non l’avrai legata alla finestra" ( Gs 2,17-18 ). La cordicella rossa alla finestra è il ricordo della passione nelle nostre membra: se non l’avremo, andremo alla rovina eterna con i dannati. Perciò dobbiamo fare come ha comandato il Signore: "Intingete il mazzetto di issopo nel sangue che è sulla soglia, e con esso aspergete l’architrave ed entrambi gli stipiti" ( Es 12,22 ). L’issopo è un’erba in grado di purificare i polmoni: spunta tra le pietre, con le radici aderisce al sasso; è figura della fede in Gesù Cristo, della quale dice l’Apostolo: "Ha purificato i cuori con la fede" ( At 15,9 ). Questa fede è radicata e fondata in Cristo stesso, che è pietra angolare. Voi dunque, o fedeli, prendete il mazzetto della fede e intingetelo nel sangue di Gesù Cristo, aspergete con esso l’architrave ed entrambi gli stipiti. L’architrave è l’intelletto; i due stipiti sono il volere e l’operare, che devono agire nel ricordo della passione di Gesù Cristo. Dice infatti la sposa del Cantico dei Cantici: "Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio" ( Ct 8,6 ). Nel cuore è indicata la volontà e nel braccio l’azione: entrambi devono essere segnati con il sigillo della passione di Gesù Cristo. Tutti coloro che saranno contrassegnati con questo sigillo, il Signore li riconoscerà ed essi riconosceranno il Signore. Per questo dice: "Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; come il Padre conosce me e io conosco il Padre". Il Figlio conosce il Padre per se stesso, noi lo conosciamo per mezzo del Figlio. Dice infatti: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" ( Mt 11,27 ). "E do la mia anima per le mie pecore". Questa è la prova dell’amore nei riguardi del Padre e nei riguardi delle pecore. Così anche Pietro, avendo protestato per la terza volta il suo amore, riceve il comando di pascolare le pecore e di essere pronto a morire per esse. Perciò il Signore gli dice tre volte "pasci … pasci … pasci! …", e non "tosa, tosa, tosa!". Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di segnarci col segno del sangue della tua passione; dégnati di collocarci tra le pecore destinate a stare alla tua destra. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. La chiesa sarà formata da entrambi i popoli: l’ebraico e il pagano 14. "E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre: ascolteranno la mia voce e ci sarà un solo ovile e un solo pastore" ( Gv 10,16 ). La pecora, un animale soffice nel corpo e nella lana, è chiamata in latino ovis, da oblazione ( offerta ), perché all’inizio non si offrivano in sacrificio tori ma pecore. Le pecore sono i fedeli della chiesa di Cristo, che ogni giorno, sull’altare della passione del Signore e nel sacrificio del cuore contrito, offrono se stessi quale ostia pura, santa e a Dio gradita ( cf. Rm 12,1 ). "Ho altre pecore", cioè i gentili ( i pagani ) "che non sono di questo ovile", non sono del popolo di Israele; "anche queste io debbo condurre" per mezzo degli apostoli, "e ci sarà un solo ovile e un solo pastore". E questa è la chiesa, riunita e formata da entrambi i popoli. E questa è la donna di cui parla l’Apocalisse: "Apparve nel cielo un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto" ( Ap 12,1-2 ). Senso allegorico. Questa donna raffigura la chiesa, che a buon diritto è chiamata "donna", perché feconda di molti figli, che ha generato dall’acqua e dallo Spirito Santo. Questa è la donna vestita di sole. Il sole è così chiamato perché compare da solo, dopo aver oscurato con il suo fulgore tutte le altre stelle. Il sole è Gesù Cristo, che abita una luce inaccessibile ( cf. 1 Tm 6,16 ), e il cui splendore vela ed oscura i deboli raggi di tutti i santi, se vengono a lui paragonati, perché "non c’è santo come il Signore" ( 1 Sam 2,2 ). Dice Giobbe: "Se anche mi lavassi con le acque della neve, e le mie mani brillassero nitidissime, ugualmente tu mi tufferesti nel sudiciume e le stesse mie vesti mi avrebbero in orrore" ( Gb 9,30-31 ). Nelle acque della neve è raffigurata la compunzione delle lacrime e nelle mani nitidissime la perfezione nell’agire. Dice quindi: Se anche mi lavassi con le acque della neve, cioè della compunzione, e se le mie mani risplendessero nitidissime per lo splendore di una condotta perfetta, tuttavia mi tufferesti nel sudiciume, cioè mi faresti vedere che sono ancora sporco, e avrebbero orrore di me, cioè mi renderebbero abominevole le mie vesti, vale a dire le mie qualità o le membra del mio corpo, se tu – aggiungi con me – volessi trattarmi con rigore. E anche Isaia: "Tutti noi siamo diventati come un essere immondo", cioè come un lebbroso; "tutte le nostre giustizie come panno di donna mestruata; tutti siamo caduti come le foglie e le nostre iniquità ci hanno portati via come il vento" ( Is 64,6 ). Quindi il solo buono, il solo giusto e santo è quel sole, della cui fede e della cui grazia la chiesa è vestita. "E con la luna sotto i suoi piedi". La luna, a motivo delle variazioni del suo aspetto, sta ad indicare l’instabilità della nostra misera condizione. Di qui il detto: Il gioco della fortuna cambia come l’aspetto della luna. Cresce e cala e non può mai restare la stessa. Perciò dice l’Ecclesiastico: "Lo stolto cambia come la luna" ( Sir 27,12 ). Lo stolto, cioè il seguace di questo mondo, passa dai corni ( forma della luna al primo e all’ultimo quarto ) della superbia alla rotondità della concupiscenza carnale e viceversa. Questa incostante prosperità delle cose caduche dev’essere posta sotto i piedi della chiesa. I piedi della chiesa sono tutti i prelati che devono reggerla come i piedi reggono e sostengono il corpo. E sotto questi piedi devono essere calpestate, come sterco, tutte le cose temporali. Leggiamo infatti negli Atti: "Quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli ( At 4,34-35 ), perché consideravano come sterco tutte quelle cose. "E sul suo capo una corona di dodici stelle". Le dodici stelle sono i dodici apostoli, che illuminano la notte di questo mondo. "Voi – dice il Signore – siete la luce del mondo" ( Mt 5,14 ). La corona, così chiamata perché è quasi una ruota intorno al capo ( lat. corona, capitis rota ) di dodici stelle, è la fede dei dodici apostoli; ed è corona perché non ammette aggiunta o diminuzione, come ogni cerchio: e questo perché è completa e perfetta. La chiesa ha figli, concepiti con il seme della parola di Dio; essa grida per le doglie nei penitenti, e soffre nel parto per gli sforzi di convertire i peccatori. Quindi essa, con le parole di Baruc, dice: "Sono stata lasciata sola; mi sono spogliata della stola della pace, mi sono vestita del sacco della supplica e griderò all’Altissimo per tutti i miei giorni. Fatevi animo, figli, gridate al Signore, e il Signore vi strapperà dalle mani e dal potere dei nemici. Vi ha fatti partire nel lutto e nel pianto, ma vi ricondurrà a me il Signore nel gaudio e nell’esultanza" ( Bar 4,19-23 ). E questo avviene nel giorno delle Sacre Ceneri, quando i penitenti vengono mandati fuori dalla chiesa, e nel giorno della Cena del Signore, quando vi vengono fatti rientrare. 15. Senso morale. "Una donna vestita di sole". È l’anima fedele della quale Salomone dice: "Chi troverà una donna forte? Il suo valore è come quello delle cose portate da lontano e dall’estremità della terra" ( Pr 31,10 ). Beata quell’anima che, rivestita di forza dall’alto, resiste impavida nell’avversità e nella prosperità, e sconfigge con coraggio le potenze dell’aria. Il valore ( il prezzo ) di questa donna fu Gesù Cristo che per la sua redenzione venne da lontano: dal seno del Padre, nella sua divinità, e dall’estremità della terra, vale a dire da parenti poverissimi, nella sua umanità. O anche: per prezzo prendi le virtù: con questo prezzo si viene riscattati, redenti. Dice Salomone: Il riscatto dell’uomo sono le sue ricchezze ( cf. Pr 13,8 ), cioè le virtù. Le virtù vengono da lontano, cioè dall’alto; i vizi invece sono nostri familiari, perché provengono da noi stessi. Questa donna è vestita di sole. Osserva che nel sole ci sono tre prerogative: il candore, lo splendore e il calore. Nel candore è raffigurata la castità, nello splendore l’umiltà e nel calore la carità. Con queste tre virtù si confeziona il manto dell’anima fedele, della sposa del celeste sposo. Di questo manto dice Booz a Rut: "Allarga il manto con il quale sei coperta e tienilo con tutte e due le mani. Essa lo stese e lo tenne sollevato, ed egli le versò sei misure di orzo e glielo caricò sulle spalle" ( Rt 3,15 ). Booz si interpreta "forte", Rut "che vede e si affretta". Vediamo quale significato abbiano l’estensione del manto, le due mani e le sei misure di orzo. Rut è l’anima che, vedendo la miseria di questo mondo, la falsità del diavolo, la concupiscenza della carne, si affretta verso la gloria della vita eterna. Allarga questo manto quando attribuisce non a sé ma a Dio la sua castità, l’umiltà e la carità, e mostra queste virtù unicamente per l’edificazione del prossimo; e per non perderle, le tiene con tutte e due le mani, cioè con il timore e con l’amore di Dio. La mano ( manus ) deriva il suo nome dal fatto che difende e fortifica ( lat. munio ) l’uomo, o anche perché è servizio e dono ( lat. munus ) di tutto il corpo. La mano infatti somministra il cibo alla bocca e compie tutte le altre funzioni. Così il timore e l’amore di Dio difendono e fortificano l’uomo perché non cada, e infondono il dono della grazia perché sia perseverante. Se l’anima allargherà e terrà con le mani il manto, Booz, cioè Gesù Cristo, il forte e il potente, le verserà sei misure di orzo. L’orzo raffigura il rigore e l’asprezza della penitenza, che consiste in sei cose: la contrizione, la confessione, il digiuno, l’orazione, le elemosine e la perseveranza finale. "E con la luna sotto i suoi piedi". Osserva che nella luna ci sono tre prerogative, contrarie a quelle indicate sopra [ per il sole ]: la macchia, l’oscurità, la freddezza. La luna raffigura il corpo dell’uomo che con il succedersi degli anni cresce e diminuisce. Ritornerà al punto dal quale ha avuto inizio, perché terra sei, e in terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ); ha la macchia, perché concepito nel peccato ( il peccato originale ); è oscuro per le infermità, freddo per la corruzione alla quale è destinato. O anche: ha la macchia perché è macchiato dalla lussuria, è accecato dall’oscurità della superbia e viene reso freddo dal gelo del rancore e dell’odio. La donna deve tenere questa luna sotto i piedi, cioè sotto gli affetti della mente, affinché la carne serva allo spirito e la sensualità sia sottomessa alla ragione. Si racconta nel primo libro dei Re che Abigail montò su di un asino e andò da Davide ( cf. 1 Sam 25,42 ). Abigail s’interpreta "esultanza del padre mio" e raffigura l’anima ritornata alla penitenza, per cui ci sarà più gioia tra gli angeli in cielo … ( cf. Lc 15,10 ), ecc. L’anima sale sull’asino quando castiga il corpo e lo costringe a servire alla ragione, e così si avvicina a Davide, cioè a Gesù Cristo. Concordano con questo le parole del profeta Naum: Entra nel fango, pestalo e impasta dei mattoni ( cf. Na 3,14 ). Entra nel fango, consìderati cioè fango e addirittura letame, affinché con Giobbe sofferente, sieda anche tu addolorato sul letamaio, e con un coccio, cioè con l’asprezza della penitenza, raschi il marcio della colpa ( cf. Gb 2,8 ); e tenendo nella mano, invece del profumo, il fetore della carne, impasta mattoni, cioè castiga la carne. Il mattone si solidifica con il fuoco, e con l’acqua si disgrega. Così la carne, come cotta dalle afflizioni, si rafforza, mentre nei piaceri si svigorisce. Dice Geremia: "Fino a quando ti logorerai nelle dissolutezze, o figlia vagabonda?" ( Ger 31,22 ). E Osea: "Come una giovenca in calore si è sviato Israele" ( Os 4,16 ). La giovenca in calore corre qua e là con l’occhio sbarrato, non prende cibo, sottostà al toro e non lo guarda, e mentre è oppressa dal suo peso è presa dal godimento della libidine. Così la carne, quando è circondata di delizie, vaga per i campi della licenziosità, non prende il cibo dell’anima; sottostà al diavolo e non lo vede, e il diavolo la schiaccia sotto il peso del peccato mentre essa si accende di libidine. "E sul suo capo una corona di dodici stelle". Le stelle sono così chiamate da stare, perché sono sempre fisse nello stesso punto del cielo e insieme con il cielo vengono portate nel loro perpetuo movimento. E quando si vede una stella cadere, non si tratta di stelle ma di piccoli fuochi caduti dall’aria, che si formano quando il vento, raggiungendo i punti più alti, trae con sé il fuoco etereo ( Aether era la sfera del fuoco ). Nel capo, cioè nella mente dell’anima, dev’esserci una corona di dodici stelle, cioè di dodici virtù. Tre nella fronte: la fede, la speranza e la carità; tre nel lato destro: la temperanza, la prudenza e la fortezza; tre nella parte posteriore: il pensiero della morte, il giorno amaro del giudizio e la pena eterna dell’inferno; tre nel lato sinistro: la pazienza, l’obbedienza e la perseveranza finale. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, tu che sei il buon pastore, di custodire noi, tue pecore, di difenderci dal mercenario e dal lupo, e di incoronarci nel tuo regno con la corona dell’eterna vita. Dégnati di concedercelo tu che sei benedetto, glorioso e degno di lode per i secoli dei secoli. Ogni pecorella, ogni anima fedele dica: Amen. Alleluia! Domenica III dopo Pasqua Temi del Sermone – Vangelo della terza domenica dopo Pasqua: "Ancora un poco e non mi vedrete"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone agli ascoltatori della parola di Dio, e che cosa comunichi loro: "Va’ e prendi il libro". – Parte I: Sermone sulla brevità della gloria temporale: "La speranza dell’empio è come lanugine". – Sermone sui sette vizi per i quali saranno puniti con sette castighi coloro che ne sono invischiati: "Udii una grande voce". – Parte II: Sermone sul pianto dei giusti e sul gaudio dei carnali: "In verità, in verità vi dico: voi piangerete"; e "Il Signore chiamerà al pianto". – Sermone contro gli adoratori di questo secolo, contro i carnali e i fornicatori: "Vidi una donna seduta sopra un bestia scarlatta"; i tre nomi del diavolo, le dieci corna e le sette teste della bestia, e il loro significato. – Sermone sulla tristezza dei santi: "Il mondo godrà". – Parte III: Sermone sul fatto che Dio ci vede ( ci guarda ) in tre modi: "Vi vedrò di nuovo"; e sermone sul cuore. – Sermone sulla gloria della beatitudine eterna e sullo splendore della Gerusalemme celeste: "L’angelo mi mostrò un fiume di acqua viva". – Esposizione morale del vangelo: "Quando partorisce la donna è afflitta"; nel prologo si parla della natura dei piccoli corvi e dell’anima penitente: "Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, il Signore ti ha richiamata". – Si dice anche in che modo l’uomo è concepito nell’utero della madre e le vicende che seguono, e come si debbano comprendere in senso morale. – Sermone sulla confessione, nella quale l’anima deve faticare, come la donna nel parto: "Spàsima e gemi!". Esordio - Sermone agli ascoltatori della parola di Dio 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Ancora un poco e non mi vedrete; e un altro poco e mi vedrete, perché io vado al Padre" ( Gv 16,16 ). Nell’Apocalisse, l’angelo dice a Giovanni: "Va’ e prendi dalla mano dell’angelo il libro e divoralo: ti riempirà di amarezza il ventre, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele" ( Ap 10,8-9 ). Il libro, ( in lat. liber, quasi come uber, cioè fecondo di lettere ) raffigura l’abbondanza della predicazione. È quel pozzo che Isacco nella Genesi chiamò "abbondanza" ( cf. Gen 26,33 ); è quel fiume, il cui corso vigoroso rallegra la città di Dio ( cf. Sal 46,5 ), cioè l’anima nella quale Dio abita. O uomo, "afferra", cioè impadronisciti di questo libro per eliminare con la sua fecondità la tua sterilità, con la sua abbondanza la tua miseria. "E divoralo!". Divora il libro chi ascolta con avidità la parola di Dio. Infatti nel secondo libro di Esdra si dice che "gli orecchi di tutto il popolo erano tesi all’ascolto del libro" ( Ne 8,3 ). Tende gli orecchi al libro colui che ascolta la parola di Dio con attenzione. "E riempirà di amarezza il tuo ventre". Il ventre è quella parte del corpo che digerisce i cibi che riceve, ed è così chiamato perché distribuisce per tutto il corpo il nutrimento vitale: raffigura la mente dell’uomo, la quale deve accogliere la parola di Dio, ascòltala deve quasi digerirla con la meditazione, e dopo averla bene meditata deve metterla in pratica nell’esercizio delle varie virtù. La parola di Dio riempie di amarezza il ventre perché, come dice Isaia, "amara è la bevanda per coloro che la bevono" ( Is 24,9 ); e Ezechiele: "Me ne andai amareggiato nel mio spirito" ( Ez 3,14 ). Non deve far meraviglia che la parola di Dio amareggi la mente, giacché annuncia la distruzione di tutte le cose temporali, la brevità della vita presente, l’amarezza della morte, l’asprezza delle pene dell’inferno. "Ma nella tua bocca sarà dolce come il miele", perché tutto ciò che è difficile come comando, amaro nelle parole della predicazione, diviene leggero e dolce per colui che ama; o anche: è amaro in questa vita perché stimola alla penitenza, ma sarà dolce nella patria perché condurrà alla gloria. Perciò su queste due cose il Signore dice nel vangelo di oggi: Ancora un poco e non mi vedrete. 2. In questo vangelo si devono poi osservare tre verità. Primo, la breve durata della nostra vita, dove si dice: "Ancora un poco e non mi vedrete". Secondo, la vana felicità della cose mondane: "In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete". Terzo, la gloria eterna: "Io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà". Confronteremo le tre parti di questo brano evangelico con le tre ultime dell’Apocalisse. La prima parte tratta dei sette angeli che recano le sette coppe dell’ira di Dio; la seconda parla della dannazione della grande meretrice, cioè della vanità mondana; la terza parla del fiume di acqua viva, cioè dell’eternità della vita futura. Nell’introito della messa si canta: "Innalzate a Dio da tutta la terra inni di giubilo". Si legge poi l’epistola del beato Pietro: "Io vi esorto, come stranieri e pellegrini". I. La breve durata della nostra vita 3. "Ancora un poco e non mi vedrete", come dicesse: Poco, cioè breve tempo mi resta, fino a quando dovrò subire la passione e sarò rinchiuso nel sepolcro; e poi ancora un po’ di tempo, fino a quando mi vedrete risuscitato. Oppure anche: Sarà breve il tempo, cioè tre giorni, nel quale non sarò veduto, perché rinchiuso [ nel sepolcro ]; e di nuovo sarà breve il tempo, cioè quaranta giorni, nel quale mi vedranno risorto. "Perché vado al Padre", vale a dire, perché è ormai giunto il tempo che io, deposta la mia condizione mortale, introduca in cielo la natura umana. Senso morale. Osserva che in questo brano evangelico per ben sette volte è ripetuta la parola "un poco", ad indicare che la nostra vita, che si evolve nel giro di sette giorni, è breve e misurata. Dice infatti Giacomo: "Che cos’è mai la nostra vita? È come vapore che appare un istante e poi scompare" ( Gc 4,15 ). E Giobbe: "Passano nel benessere i loro giorni, e in un istante scendono nel sepolcro" ( Gb 21,13 ). E di nuovo: "La gloria degli empi è breve e la felicità dell’ipocrita è come un punto" ( Gb 20,5 ). Punto deriva da pungere, ed è brevissimo perché non ha durata e perché, a motivo della sua incalcolabile brevità, non può essere diviso in parti. Il punto raffigura la vita del peccatore: in essa c’è la puntura, la trafittura della coscienza e la brevità della vita. Leggiamo nel libro della Sapienza: "La speranza dell’empio è come lanugine spazzata via dal vento, e come una schiuma leggera dispersa dalla tempesta, e come il fumo sparpagliato dal vento, e come il ricordo dell’ospite di un sol giorno, che si dilegua" ( Sap 5,15 ). Il piacere che si spera di trarre dall’abbondanza delle cose terrene è labile come la lanugine. La lanugine è la peluria di certi frutti; è anche il frutto della canna, vuoto e superfluo come la schiuma, della quale dice Osea: "Samaria fece passare il suo re come la schiuma sulla superficie dell’acqua" ( Os 10,7 ). Samaria raffigura la dignità, l’autorità che fa passare il suo re, cioè il prelato, come la schiuma, nella quale è indicata la superbia, che subito è spazzata via dalla tempesta della fragilità. Anche il piacere è come un fumo della mente, che disturba gli occhi; si lascia dietro escrementi, cioè le immondezze del peccato, come un ospite di passaggio. Concorda con questi paragoni ciò che dice Osea: "Saranno come una nuvola del mattino, come rugiada che all’alba svanisce, come la polvere che il turbine alza dall’aia, e come il fumo che esce dal camino" ( Os 13,3 ). La nuvola e la rugiada vengono disperse e consumate dal sole che sorge. La polvere è portata via dal vento e il fumo viene sparpagliato in leggere volute. Così, quando arriva la vampa della morte, viene meno e si dissolve l’abbondanza delle cose temporali, svanisce la concupiscenza della carne e ogni vanagloria. Guai dunque a coloro che per la fallace abbondanza di questa vita, per un misero piacere momentaneo, perdono la vita eterna: nei sette giorni di questo infelice esilio sono invischiati nei sette vizi [ capitali ], e quindi saranno condannati a bere dalle sette coppe dell’ira di Dio. 4. Ed ecco la concordanza con l’Apocalisse: "Udii dal cielo una grande voce che diceva ai sette angeli: Andate e versate sopra la terra le sette coppe dell’ira di Dio. Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra. Il secondo versò la sua coppa nel mare. Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque. Il quarto versò la sua coppa sul sole. Il quinto versò la sua coppa sul seggio della bestia e il suo regno divenne tenebroso. Il sesto versò la sua coppa nel grande fiume Eufrate. Il settimo versò la sua coppa nell’aria" ( Ap 16,1-17 ). Nella terra sono indicati gli avari e gli usurai; nel mare i superbi e i boriosi ( cf. Is 51,9-10 ); nei fiumi e nelle sorgenti d’acqua i lussuriosi; nel sole i vanagloriosi; nel seggio della bestia gli invidiosi e gli accidiosi; nel fiume Eufrate, che s’interpreta "abbondanza", i beoni e i golosi; infine nell’aria i falsi religiosi. Della terra dell’avarizia, il Signore dice al serpente: "Mangerai terra tutti i giorni della tua vita" ( Gen 3,14 ), perché l’avaro è il cibo del diavolo. Del mare della superbia dice Giobbe: "Il mare dice: non è con me" ( Gb 28,14 ) la sapienza, perché "Dio resiste ai superbi" ( Gc 4,6; 1 Pt 5,5 ). Del fiume della lussuria è detto nell’Esodo che il faraone diede a tutto il popolo quest’ordine: "Ogni figlio maschio che nascerà, lo getterete nel fiume" ( Es 1,22 ). Faraone s’interpreta "che distrugge" o "che spoglia", e raffigura il diavolo che, dopo aver distrutto l’edificio delle virtù, spoglia e denuda l’uomo sventurato della veste della grazia di Dio. Il diavolo vuole distruggere nel fiume della lussuria ogni opera virile, virtuosa e perfetta, e preservare invece le femmine, cioè le menti effeminate, delle quali si serve per fare il male. Del sole della vanagloria, parlando della semente del seminatore, il Signore dice: "Spuntato il sole restò bruciata, e poiché non aveva radici si seccò" ( Mt 13,6 ). La semente rappresenta le opere buone le quali, quando arde il sole della vanagloria, si seccano. Infatti, tutto ciò che fai per vanagloria, lo perdi. In proposito dice Bernardo: Da dove la gloria a te, che sei cenere e polvere? Dalla santità della vita? Ma è lo Spirito che santifica: non il tuo, ma quello di Dio. Oppure ti lusinga il favore popolare, perché sai esporre con eleganza la buona parola? Ma è Dio che dà la bocca e la sapienza. Che cos’è la tua lingua, se non la penna dello scriba che scrive velocemente? ( cf. Sal 45,2 ). Dice il Filosofo che "per via breve giungono alla gloria coloro che si sforzano di essere realmente ciò che vogliono apparire" ( Cicerone, De officiis ). Del seggio dell’invidia, sul quale siede la bestia, cioè il diavolo, dice l’Apocalisse: "So dove abiti, dove è la sede di satana" ( Ap 2,13 ). Gli invidiosi sono la dimora del diavolo. Dice Giobbe: "La bestia entrerà nel suo nascondiglio, e dimorerà nel suo antro" ( Gb 37,8 ). Il nascondiglio e l’antro sono figura del cuore degli invidiosi, che è ottenebrato dalla fuliggine dell’invidia. "Antro" infatti suona quasi come "atro", cioè nero, oscuro. Dell’Eufrate della gola è detto in Geremia che la cintura era imputridita nel fiume Eufrate ( cf. Ger 13,7 ). La cintura della castità imputridisce negli eccessi della gola e dell’ebbrezza. Dice il Filosofo: "Mangia e bevi per vivere bene; non vivere solo per mangiare e bere" ( Socrate ). Dell’aria della falsa religione è detto nell’Apocalisse che "fu oscurata l’aria dal fumo che saliva dal pozzo" ( Ap 9,2 ). Il pozzo è la cupidigia, il cui fumo ha ormai affumicato quasi tutti i religiosi. Tutti coloro che si saranno invischiati in questi sette vizi durante i sette giorni di questa vita, saranno ubriacati con le sette coppe, saranno colpiti dalle sette piaghe, vale a dire dalle sette sentenze di condanna, nell’inferno. Saranno eternamente puniti nel corpo e nell’anima, con cui hanno peccato. Fratelli carissimi, preghiamo dunque Gesù Cristo, che in questi sette brevi giorni della nostra vita ci preservi, ci protegga e ci custodisca da questi sette vizi, affinché, liberati dalle sette pene dell’inferno, meritiamo di arrivare al regno infinito della sua gloria. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La vana allegria dei mondani 5. "In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete: il mondo invece godrà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha partorito il bambino, non si ricorda più delle doglie, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" ( Gv 16,20-21 ). Nelle tribolazioni di questo mondo tutti i buoni piangono, mentre gli estimatori e gli amanti del mondo godono. In proposito dice Isaia: "Il Signore degli eserciti chiamò al lamento e al pianto, a radersi il capo e a vestirsi di sacco. Invece si gode e si sta allegri, si uccidono vitelli e si scannano arieti, si mangiano carni e si beve vino: Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo" ( Is 22,12-13 ). Tutti i giusti sono chiamati dalla grazia di Dio al pianto della contrizione e al lamento della confessione; a radersi il capo, cioè alla rinuncia delle cose temporali, a vestirsi di sacco, cioè all’asprezza della penitenza. Invece gli amatori del mondo vivono nei piaceri del mondo, nell’allegria del peccato, ubriachi di gola e di lussuria. 6. E questa è la Babilonia alla quale si riferiscono le parole dell’Apocalisse: "Vidi una donna – dice giovanni – seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. E la donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, con in mano una coppa d’oro colma degli abomini e delle immondezze della sua fornicazione" ( Ap 17,3-4 ). La donna ( in lat. mulier da mollities, effeminatezza ) raffigura quegli effeminati che uniformano la loro vita a quella di Eva, dalla quale ha avuto inizio il peccato. Di questa donna dice Salomone: "La prostituta è come lo sterco sulla strada" ( Sir 9,10 ). Lo sterco deriva il suo nome dal fatto che viene sparso ( lat. sterno, spargo ) sui campi. Nella prostituta sono raffigurati tutti i mondani, che vengono calpestati dai demoni come lo sterco dai passanti. Di questa meretrice il Signore si lamenta con le parole di Geremia: "Da tempo hai infranto il mio giogo, hai spezzato i miei legami e hai detto: Non ti servirò! Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero frondoso ti sei prostituita" ( Ger 2,20 ). I figli di questo secolo, generazione depravata, adultera e perversa; i figli spuri, compagni dei ladri, cioè dei demoni, hanno spezzato il giogo dell’obbedienza, hanno infranto i legami dei comandamenti di Dio e hanno detto: Non serviremo! Infatti dice Giobbe: "Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo servirgli? E che giovamento ne avremo se lo adoreremo?" ( Gb 21,15 ). Sopra ogni colle elevato della superbia e sotto ogni albero frondoso della lussuria – giacché la lussuria cerca i luoghi frondosi e oscuri – come una meretrice si prosternano davanti al diavolo! Giustamente quindi dice Giovanni: "Vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta". La bestia, quasi vastia, devastatrice, è il diavolo che devasta le potenze dell’anima: il diavolo è sanguinario verso se stesso e verso i suoi. Su di lui siedono i mondani; essendo il loro fondamento, essi a lui si appoggiano. Ma chi si appoggia al diavolo, che precipita dal cielo, con lui necessariamente precipiterà. Dice Giobbe: "Precipiterà sotto gli occhi di tutti" ( Gb 40,28 ): tanto lui quanto i reprobi, dei quali lui è il capo. "Ricoperta di nomi blasfemi". Il diavolo, come dice l’Apocalisse, ha tre nomi: in ebraico "Abdo", in greco "Apollyon", in latino "Exterminans". Abdo significa schiavo. Apollyon ha lo stesso significato di Exterminans, cioè sterminio, distruzione ( cf. Ap 9,11 ). Il termine greco Apollyon può significare anche dannoso ( apothéis pòlin, che scaccia dalla città ) e infernale. Questi sono i nomi blasfemi, con i quali il diavolo e i suoi seguaci bestemmiano Dio. Sono infatti schiavi del peccato, dannosi e infernali sterminatori, che mettono cioè se stessi e gli altri extra terminum, fuori dei confini della vita eterna. "[ La bestia ] ha sette teste e dieci corna". Le sette teste sono i sette vizi di cui parla il profeta: "Vidi nella città l’ingiustizia e la discordia. Giorno e notte si aggirano sulle sue mura l’iniquità, e in mezzo ad essa affanno e ingiustizia; e dalle sue piazze mai si allontanano l’usura e la frode" ( Sal 55,10-12 ). Città del sangue, tutta piena di menzogna, nella quale il Signore non entra; vi è riunita una moltitudine di carnali e in essa c’è l’ingiustizia contro Dio, ricordata qui due volte, perché in due modi si pecca contro Dio: eseguendo l’opera cattiva e omettendo l’opera buona. La discordia si riferisce al prelato, l’affanno e l’ingiustizia a te stesso, l’usura e la frode al prossimo. Delle dieci corna parla l’apostolo: "Sono ricolmi di ogni iniquità, malizia, fornicazione, avarizia, perversità, invidia, omicidi, contese, inganno, malignità" ( Rm 1,29 ). Oppure, le sette teste e le dieci corna sono quelle di cui parla la Sapienza: "Tutto è in grande confusione: sangue e omicidio, furto e inganno, corruzione e infedeltà, disordine e spergiuro, confusione tra i buoni, dimenticanza di Dio, corruzione delle anime, perversione sessuale, infedeltà matrimoniali, dissolutezze, concubinaggio e impudicizia, culto di idoli abominevoli" ( Sap 14,25-27 ). 7. "E la donna era ammantata di porpora e di scarlatto …" Nella porpora è indicata la brama delle dignità; nello scarlatto, che è color sangue, la crudeltà della mente; nell’oro la sapienza mondana; nelle pietre preziose e nelle perle l’abbondanza delle ricchezze. Di tutte queste cose si ammanta e si orna la donna meretrice, cioè la grande Babilonia, la sinagoga di Satana, la turba dei carnali. "E tiene in mano una coppa d’oro". La coppa, o calice d’oro, in mano a Babilonia è la gloria del mondo, dorata di fuori, ma dentro ricolma di ogni lordura e abominio. Dice infatti Salomone: "Fallace è la grazia e vana è la bellezza"  ( Pr 31,30 ). Con questo calice si ubriacano i re di questo mondo, i prelati della chiesa, le religiose e i religiosi. Perciò dice Giovanni: "Con essa hanno fornicato i re della terra, e quelli che l’abitano si sono ubriacati del vino della sua prostituzione" ( Ap 17,2 ). Di questa ubriachezza dice Isaia: "Il Signore ha mandato in mezzo all’Egitto uno spirito di vertigine, e lo ha fatto andare errando in ogni sua impresa, come va barcollando l’ubriaco che vomita" ( Is 19,14 ). Il vortice, in senso proprio, si forma quando si alza il vento e fa girare vorticosamente la polvere; invece la vertigine è un disturbo della testa. In mezzo all’Egitto, cioè tra i mondani, il Signore ha mandato, ha permesso cioè che andasse, lo spirito della vertigine, cioè la passione e la cupidigia, sotto il cui impeto quei miseri sono presi dal vortice, quasi come da un vento, e così vanno errando come l’ubriaco, per il quale nessuna via è abbastanza larga. E come l’ubriaco mentre viene trascinato o percosso non sente nulla, così anche i mondani diventano insensibili. Per questo dicono: Mi bastonarono e non sentii dolore, mi trascinarono ma non me ne accorsi" ( Pr 23,35 ), perché il disgraziato peccatore non sente dolore quando è bastonato dai demoni, e quando dagli stessi è trascinato di peccato in peccato, non se ne rende conto. Concordano con tutto questo le parole di Geremia: "Godi ed esulta, figlia di Edom, che abiti nella terra di Uz: anche a te arriverà il calice, ti inebrierai e sarai denudata" ( Lam 4,21 ). Edom s’interpreta "sangue". La figlia di Edom raffigura l’impudica voluttà dei carnali. Il profeta le dice ironicamente: "Godi ed esulta!". Essa gode nell’abbondanza del mondo ed esulta nella lussuria della carne. Essa abita nella terra di Uz, nome che s’interpreta "consiglio", del quale dice Isaia: "I sapienti consiglieri del faraone gli diedero un consiglio stolto" ( Is 19,11 ). I sapienti di questo mondo danno un consiglio stolto, di cercare cioè le cose temporali, di rincorrere le cose transitorie, di credere alle false promesse del mondo. La figlia di Edom, ingannata dal consiglio di questo mondo, si ubriaca al calice d’oro della gloria mondana e poi viene denudata. Infatti gli amatori di questo secolo, dopo l’ubriachezza delle cose temporali, saranno denudati di tutti i beni, e così denudati saranno condannati alle pene eterne. Continua quindi Giovanni nell’Apocalisse: "Un angelo potente sollevò una pietra, quasi una grande mola, e la gettò nel mare gridando: Con la stessa violenza sarà precipitata Babilonia, la grande città, e mai più sarà ritrovata" ( Ap 18,21 ). L’angelo potente è Cristo che sbaraglia le potestà dell’aria. "Sollevò una pietra", perché solleva i cattivi e coloro che hanno il cuore indurito, per punirli più gravemente; "quasi una grande mola", perché sono travolti dalle cose mondane, o anche perché schiacciano gli altri; "e la lanciò nel mare", cioè nell’amarezza dell’inferno, affinché nella misura in cui Babilonia si insuperbì e si abbandonò ai piaceri, nella stessa misura sia sprofondata nei tormenti ( cf. Ap 18,7 ). 8. Giustamente quindi nel vangelo di oggi il Signore dice: "Il mondo godrà mentre voi sarete nella tristezza: ma la vostra tristezza si cambierà in gaudio", e il godimento del mondo si cambierà in tristezza. E dice il Signore in altra parte del vangelo: "Ogni uomo presenta dapprima il vino buono e poi il meno buono" ( Gv 2,10 ). In questo mondo bevono il vino dell’allegria, ma nell’altro berranno l’aceto della geenna. Dice infatti Geremia: "Ecco, coloro ai quali nessun tribunale aveva imposto di bere il calice, lo dovranno bere: e tu credi forse di restare impunito? Non sarai considerato innocente, e anche tu dovrai berlo! Ho giurato infatti per me stesso – dice il Signore – che Bozra diventerà un deserto, un obbrobrio, uno scherno e una maledizione" ( Ger 49,12-13 ). I santi, ai quali nessun tribunale ha imposto di bere il calice della tristezza di questo mondo, lo berranno con l’amarezza del cuore, lo berranno con la sofferenza del corpo; infatti soffrono e piangono per tutti gli abomini che si commettono sulla terra. E tu, Babilonia, madre di fornicazioni, sarai considerata innocente? No, non sarai trattata come innocente, ma dopo aver bevuto in questo mondo il vino del piacere, berrai nell’altro l’aceto dell’inferno. E dice Gregorio: "Se così grande è la miseria di questa vita mortale, che neppure i giusti, che pur un giorno abiteranno nel cielo, possono trascorrere quaggiù la vita senza travagli, data la vastità dell’umana miseria, quanto più coloro che saranno privati della gloria celeste dovranno aspettarsi come sicura conclusione l’eterna dannazione". E ancora: "Ogni volta che medito sulla pazienza di Giobbe e richiamo alla mente la morte di Giovanni Battista, dico a te, peccatore, cerca di comprendere che cosa dovranno patire quelli che Dio condanna, se soffrono in questo modo coloro che vengono encomiati dalla testimonianza del giudice stesso". Che cosa sarà dell’arbusto del deserto, se perfino il cedro del paradiso sarà scosso dal terrore? "Ho giurato per me stesso, dice il Signore", – perché non c’è nessuno al di sopra di me ( cf. Eb 6,13 ) sul quale giurare – "che Bozra", nome che significa "fortificata", cioè la perfida sinagoga dei mondani che si fortifica contro il Signore con i bastioni dei peccati e con i giavellotti delle difese, "diventerà un deserto", perché resterà isolata senza la compagnia della grazia, "un obbrobrio" perché spogliata di tutti i beni temporali, "uno scherno" perché schernita e ingannata dai demoni, "e una maledizione", quella che dice: "Andate, maledetti, nel fuoco eterno!" ( Mt 25,41 ). "La donna, quando giunge il tempo del parto, è nella tristezza". Triste suona quasi come trito, dal lat. tero, teris, battere. I santi nel pellegrinaggio di questo mondo sono triti, pestati, battuti, afflitti e angustiati: di essi il mondo non è degno ( cf. Eb 11,37-38 ). Ad essi parla oggi Pietro con le parole della sua lettera: "Carissimi, vi scongiuro, come forestieri e pellegrini, di astenervi dai desideri carnali, che lottano contro l’anima" ( 1 Pt 2,11 ). Il forestiero è detto in lat. advena, da advenio, arrivo da un altro luogo. Il pellegrino è colui che va lontano dalla sua patria. Tutti siamo forestieri, perché veniamo da un altro luogo: dal gaudio del paradiso [ terrestre ] siamo arrivati alla misera condizione di questo esilio; siamo anche pellegrini perché, cacciati dal volto e dagli occhi di Dio, ce ne andiamo mendicando, lontani dalla patria del cielo. Asteniamoci dunque dai desideri della carne, sull’esempio di Nabot, il cui nome significa "eccelso": come lui preferì morire – così si racconta nel terzo libro dei Re ( cf. 1 Re 21,11 ) – piuttosto che vendere la sua eredità, così noi dobbiamo essere disposti a soffire qualunque pena, piuttosto che barattare la gloria eterna con i piaceri della carne. E se faremo questo la nostra tristezza si cambierà in gioia. E con tutto questo si accordano le parole dell’introito della messa di oggi: "Innalzate a Dio da tutta la terra inni di giubilo; cantate un salmo al suo nome, dategli la gloria e la lode ( Sal 66,1-2 ). Ci esorta a fare tre cose: Giubilate con il cuore; cantate un salmo con la bocca; dategli la gloria con le opere buone, per meritare di giungere alla gloria dell’eterno gaudio. III. La gloria eterna 9. "Ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore godrà e nessuno potrà togliervi il vostro gaudio" ( Gv 16,22 ). Osserva che il Signore ci vede ( ci guarda ) in tre modi. Primo, infondendoci la grazia. Egli disse a Natanaele: "Quando eri sotto il fico, io ti vidi" ( Gv 1,48 ). I progenitori, esuli dal paradiso terrestre, ricevettero delle vesti fatte di foglie di fico, foglie che sulla pelle fanno prurito. Sta sotto il fico colui che si ferma all’ombra di una condotta svogliata e si lascia prendere dal prurito della libidine della carne. Dio vede costui, lo guarda, quando gli conferisce la grazia. Secondo, lo vede, quando gli mantiene la grazia che gli ha dato. Leggiamo nella Genesi: "Vide il Signore tutte le cose che aveva fatto, ed erano tutte molto buone" ( Gen 1,31 ). Tutte le cose che il Signore opera in noi quando ci infonde la grazia sono buone; ma quando vede, cioè quando mantiene in noi ciò che ha operato, allora sono molto buone, cioè perfette. Terzo, ci vedrà quando ci prenderà con sé. Dice infatti: "Vi vedrò di nuovo, e godrà il vostro cuore". Il cuore è la fonte del calore e il principio del sangue, ed è anche il principio dei moti delle cose piacevoli e di quelle dannose; e in generale i moti di tutti i sensi hanno inizio dal cuore e ad esso ritornano. E l’energia dello spirito rimane nel cuore fino all’ultimo istante; e avviene la consunzione di tutte le membra prima di quella del cuore: esso per primo incomincia a pulsare e per ultimo si arresta. Poiché dunque il cuore è l’organo più nobile degli altri, dice di esso il Signore: "Godrà il vostro cuore", perché come da esso procede la vita, così ne proceda anche il gaudio. 10. "E nessuno potrà togliervi il vostro gaudio". Con questo concorda l’ultima parte dell’Apocalisse: "L’angelo mi mostrò un fiume di acqua viva, splendido come il cristallo, che procedeva dal trono di Dio e dell’Agnello, in mezzo alla piazza della città" ( Ap 22,1-2 ). Nel fiume è indicata l’eternità, nell’acqua viva la sazietà, nello splendore del cristallo la luminosità, e nel trono di Dio e dell’Agnello, che è Dio e Uomo, è indicata l’umanità glorificata. Ecco il vostro gaudio, che nessuno potrà togliervi. Del fiume dell’eternità dice il Signore con le parole di Isaia: "Se tu avessi dato ascolto ai miei comandi, la tua pace sarebbe stata come un fiume" ( Is 48,18 ). Il fiume ha l’acqua perenne. O uomo, se tu presti ascolto ai comandi di Dio, godrai sicuro nella pace dell’eternità. Sulla sazietà ( procurata ) dall’acqua viva è detto nel salmo: "È in te la sorgente della vita" ( Sal 36,10 ): sorgente perenne, sorgente che tutti appaga: chi da essa berrà, non avrà più sete in eterno ( cf. Gv 4,13 ). Sulla luminosità dice sempre l’Apocalisse: "La città non ha bisogno di sole, né di luna; infatti la illumina la luce di Dio e la sua lampada è l’Agnello" ( Ap 21,23 ), cioè il Figlio di Dio. Dal suo trono, cioè dall’umanità nella quale la divinità si è umiliata, procedono la luce dell’eternità, l’acqua viva dell’eterno appagamento, lo splendore cristallino dell’eterno fulgore, e si allargano al centro, cioè nella comunità, della piazza della città, della Gerusalemme celeste, perché Dio sarà tutto in tutti ( cf. 1 Cor 15,28 ), tutti riceveranno un solo denaro, tutti insieme parteciperanno alla ricompensa, rendendo grazie al Verbo incarnato, perché per mezzo di lui sono diventati eterni, appagati, splendenti e beati. Anche noi, o Signore Gesù, ti preghiamo che nei sette giorni di questa breve esistenza tu ci conceda di concepire lo spirito della salvezza, e di partorire nella tristezza del cuore l’erede della vita eterna, e così meritiamo di bere al fiume dell’acqua viva nella celeste Gerusalemme e godere per sempre con te. Concedi a noi tutto questo tu che sei benedetto, glorioso, degno di lode e di amore, benigno e immortale per i secoli eterni. E ogni creatura risponda: Amen. Alleluia. IV. L’anima che soffre e partorisce l’opera buona 11. "La donna quando partorisce è nella tristezza". Dice Isaia: "Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, Dio ti ha chiamata" ( Is 54,6 ). Il Signore con l’ispirazione della sua grazia e con la predicazione della chiesa chiama alla penitenza la donna, cioè l’anima peccatrice, fiacca ed effeminata: abbandonata dal diavolo ma accolta da Dio. Per questo essa dice: "Mio padre", cioè il diavolo, "e mia madre", cioè la concupiscenza carnale, "mi hanno abbandonata: il Signore invece mi ha accolta" ( Sal 27,10 ). Coloro che sono abbandonati dal diavolo, vengono accolti da Cristo. Si racconta che il corvo non nutre i suoi piccoli se prima non vede in essi le penne crescere nere; perciò nel frattempo i piccoli corvi vivono così: sulla bava che esce dalla bocca dei piccoli corvi si radunano tante mosche; allora essi risucchiano la bava insieme con le mosche e in questo modo così singolare si sostentano. Dice Giobbe: "Chi preparò al corvo il nutrimento, quando i suoi piccoli gridano verso Dio, e vanno qua e là perché non hanno cibo?" ( Gb 38,41 ). E nel salmo: "Egli dà il loro cibo ai giumenti e ai piccoli del corvo che gridano a lui" ( Sal 147,9 ). Però il corvo, se vede nei suoi piccoli le penne crescere bianche, li abbandona e li getta fuori del nido. Il corvo raffigura il diavolo. I figli del corvo sono i peccatori che vivono in peccato mortale, prendendo così il colore nero del padre. Perciò dice di essi il profeta Naum: "La loro faccia è come il nero della pentola" ( Na 2,10 ). La pentola prende il colore nero dal fuoco e dal fumo. La faccia raffigura le opere, dalle quali, come dalla faccia, si riconosce l’uomo. "Li riconoscerete dai loro frutti" ( Mt 7,16 ). Perciò le opere dei peccatori sono come la negrezza della pentola, perché rese tali dal fuoco della suggestione diabolica e dal fumo della concupiscenza carnale. Dice quindi Geremia: "La loro faccia si è annerita sopra i carboni" ( Lam 4,8 ). I peccatori sono quindi figli del diavolo, ma quando, per mezzo della grazia, con la remissione dei peccati riacquistano il candore, allora il diavolo li abbandona e il benignissimo Signore li accoglie tra le braccia della sua misericordia. Giustamente quindi è detto: "Una donna abbandonata e con l’animo afflitto". Di essa dice Geremia: "Mi ha reso desolata, affranta dal dolore per sempre" ( Lam 1,13 ). "Desolata", vale a dire priva del conforto delle cose temporali; "affranta dal dolore": in lat. moerore confectam, lett. composta, "confezionata" di tristezza. Ottima "confezione" ( sic ), quando con queste tre eccellenti spezie, la contrizione, la confessione e la soddisfazione, unite al balsamo della divina misericordia, per opera dello speziale, cioè dello Spirito Santo, si confeziona il ricostituente per l’anima pentita. Di essa dice appunto il Signore nel vangelo di oggi: "La donna quando partorisce è nella tristezza". E poiché il Signore ci ha presentato l’esempio della donna che partorisce e della sua sofferenza, per insegnarci a pentirci del peccato e a partorire l’opera buona, per questo vogliamo spiegare in che modo l’uomo viene concepito nel grembo materno, come si forma, come viene portato per nove mesi e come venga partorito nella sofferenza: spiegheremo prima il processo naturale e poi le applicazioni morali che se ne possono trarre. 12. La donna concepisce nel piacere e partorisce nel dolore. Dopo la fecondazione la donna aumenta di peso e nei suoi occhi si forma quasi un’ombra; in alcune donne questo avviene presto, dopo dieci giorni, in altre qualche tempo dopo. Nelle donne gravide subentra una diminuzione dell’appetito, quando all’embrione incominciano a crescere sulla testa i capelli. Fra tutti gli organi si forma per primo il cuore, e gli organi interni si formano prima di quelli esterni. E si configura per prima la parte superiore, dal diaframma in su, ed è in proporzione la più grande; invece la parte inferiore è più piccola. Necessariamente l’organo che è il cuore dev’essere formato prima degli altri, dal momento che è il principio del movimento ed è l’organo che ha un vasto campo di influenza, perché da esso procede ( dipende ) la vita. E il cuore è collocato nella parte superiore e sul davanti: ciò che è più nobile è insediato nella parte più nobile, secondo la natura. Solo il cuore fra tutti gli organi interni non deve assolutamente avere sofferenze o grandi infermità. E questo è giusto, perché se si rovina il principio, il fondamento, non c’è più il sostegno degli altri organi. Sono gli altri organi che ricevono forza dal cuore: il cuore invece non la riceve da essi. E nel cuore non c’è osso, fuorché nel cuore del cavallo e in quello di una certa razza di mucche: nel cuore di questi animali c’è l’osso a motivo della grandezza del loro corpo. L’osso infatti è posto nel cuore dalla natura per sostenerlo, come in tutte le altre membra. Dunque dopo la formazione del cuore, si forma la parte superiore del corpo. Perciò nella formazione dell’embrione compaiono prima la testa e gli occhi. Invece le membra che sono al disotto dell’ombelico, come le gambe e le cosce, appaiono molto piccole, giacché la parte inferiore del corpo è ordinata solo alla parte superiore. Nel cuore dunque deve trovarsi il fondamento, il principio dei sensi e tutte le potenze naturali, ed è per questo che il cuore si forma per primo. E a motivo del calore del cuore e del fatto che da esso si dipartono le vene, la natura ha disposto, in contrapposizione al cuore, un organo freddo, e cioè il cervello: per questo nel processo dello sviluppo la testa si forma dopo la formazione del cuore. La grandezza della testa è superiore a quella delle altre membra, perché il cervello è grande e umoroso fin dall’inizio della sua formazione. Infatti i neonati non sono in grado di tenere sollevata la testa per lungo tempo: proprio per il peso del cervello. E tutte le membra ricevono prima la loro configurazione e le loro caratteristiche; e solo dopo ricevono la consistenza, la morbidezza e il colorito che sono loro propri; infatti il pittore fa prima il disegno, e poi sul disegno stende il colore, finché ha completato la sua opera. Se nel corpicino si formano gli attributi maschili, le donne gravide hanno un colorito più bello e il parto risulterà più facile. Già dal quarantesimo giorno il maschietto incomincia a muoversi. L’altro sesso, vale a dire la femmina, incomincia a muoversi solo al novantesimo giorno, e appena concepita copre di pallore il volto della gestante e ne rende fiacche e lente le gambe. Quando in entrambi i sessi spuntano i capelli, aumentano i disturbi nella madre, e nei pleniluni il malessere aumenta; il plenilunio poi è sempre dannoso anche ai nati. Se la donna in attesa mangia cibi molto salati, il bambino nasce senza unghie. Osserva poi che tutti gli animali quadrupedi stanno nell’utero distesi, mentre gli animali privi di piedi, come i pesci – per esempio la balena e il delfino che portano i figli nell’utero –, vi stanno girati sul fianco. Invece altri pesci depongono le uova nell’acqua, e perciò amano poco i figli perché poco faticano per essi. Si lamenta infatti Abacuc: "Tu hai fatto gli uomini come i pesci del mare, e come un verme che non ha padrone" ( Ab 1,14 ). E gli animali che hanno due piedi stanno nell’utero incurvati, come gli uccelli e l’uomo che appunto stanno nell’utero ripiegati in se stessi: il loro naso sta tra le ginocchia e sopra le ginocchia gli occhi. Infatti le guance derivano il loro nome dalle ginocchia ( in lat. genae, guance, da genu, ginocchio ); e quando nella preghiera pieghiamo le ginocchia, gli occhi vengono eccitati alle lacrime, come per una certa sintonia affettiva. E i loro orecchi sporgono in fuori. E tutti gli animali tengono da principio la testa rivolta in alto; quando poi sono completamente formati e si muovono per venire alla luce, la piegano verso il basso. Siccome la parte superiore del corpo è più pesante di quella inferiore, avviene come nella bilancia, nella quale il piatto più pesante si abbassa verso terra. E nell’uomo le mani dell’embrione sono aperte sulle costole; però quando il bambino viene partorito, subito le mani vanno alla bocca. Quando la donna è prossima a liberare il grembo ed è giunto il momento del parto, conviene che trattenga al massimo il fiato, poiché lo sbadiglio potrebbe fermare il puerperio, e il ritardo sarebbe mortale. E questo si verifica soprattutto nelle donne che non hanno il torace vasto e quindi non possono trattenere a lungo il respiro. Osserva ancora che in moltissime donne lo stato di salute peggiora durante la gravidanza: e questo avviene perché se ne stanno troppo ferme, e quindi si accumulano in esse molti umori superflui. Invece nelle donne che faticano, la gravidanza non produce tali inconvenienti, e hanno maggiore probabilità di partorire senza ritardi, poiché la fatica consuma gli umori superflui. La fatica è una di quelle cose che fanno traspirare molto, e così la donna nel momento del parto può trattenere il suo respiro; perciò se fa così, il parto sarà svelto e facile; in caso contrario, il parto sarà doloroso, difficile e triste. "La donna, dunque, quando partorisce, è nella tristezza". 13. Senso morale. La donna raffigura l’anima. La grazia dello Spirito Santo è, per così dire, lo sposo, che la ingravida del figlio della benedizione, cioè del proposito della buona volontà e dello spirito della salvezza. Dice Isaia: Di fronte a te, Signore, abbiamo concepito e abbiamo partorito lo spirito della salvezza ( cf. Is 26,17-18 ). Dopo l’ingravidamento l’anima si appesantisce perché si affligge per i peccati; la vista viene indebolita dalla caligine, perché le si offusca lo splendore delle cose temporali. Dice Giobbe: "Si oscureranno le stelle a causa della sua caligine" ( Gb 3,9 ) Le stelle della gloria mondana saranno oscurate dalla caligine della penitenza. Nella gravidanza sopravviene la diminuzione dell’appetito e la nausea, perché l’anima, dopo essere ingravidata dalla grazia di Dio, diviene incapace del male e sente la nausea dei vizi di prima. Dice infatti la sposa del Cantico dei Cantici: Dite al mio diletto che languisco di amore ( cf. Ct 5,8 ). L’uomo languente è debole e ha nausea dei cibi. Così l’anima languisce di amore per lo sposo, quando diviene incapace di fare il male e ha nausea dei vizi praticati prima. Il cuore, tra tutti gli organi, si forma per primo. Nel cuore è indicata l’umiltà: nel cuore questa virtù ha la sua dimora preferita. "Imparate da me – dice il Signore – che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ). L’umiltà deve nascere prima di tutte le altre virtù, perché essa è "la forma che riforma le cose deformate". Da essa infatti viene il principio motore di tutte le buone opere, e ha un grande influsso sulle altre virtù, perché di tutte è la madre e la radice. Dice infatti Salomone: "Meglio un cane vivo che un leone morto" ( Qo 9,4 ). E la Glossa commenta: È meglio l’umile pubblicano che il fariseo superbo: il primo, quanto più si è umiliato, tanto più è stato esaltato. E il beato Bernardo: "Quanto più a fondo scaverai le fondamenta dell’umiltà, tanto più in alto salirà l’edificio" [ della santità ]. L’umiltà è più nobile delle altre virtù, perché con la sua nobiltà sostiene umilmente le cose meno nobili e meno pregiate; dev’essere collocata di preferenza nel posto più alto, cioè negli occhi, e in quello più avanzato, cioè nei gesti del corpo. Dice infatti il vangelo dell’umile pubblicano: "Non osava neppure alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore!" ( Lc 18,13 ). Come il cuore non deve avere sofferenze o infermità, così la vera umiltà non può soffrire, cioè non può dolersi dell’ingiuria ricevuta, né star male per la prosperità altrui. E questo è giusto, perché se l’umiltà si falsa, crolla anche l’edificio delle altre virtù. Dice Gregorio: "Chi accumula virtù senza l’umiltà è come colui che getta la polvere contro il vento". E in nessun cuore c’è osso, fuorché nel cuore del cavallo e di certe mucche. Nel cavallo è raffigurato l’ipocrita arrogante, nella mucca il lussurioso. Nell’umiltà simulata dell’ipocrita c’è l’osso della superbia e della rapina: infatti si fa bello delle penne dello struzzo e ruba le lodi della santità altrui. Nell’incostante umiltà del lussurioso c’è l’osso della scusa e dell’ostinazione. In questi due animali, il cavallo e la mucca, sono indicate tutte le specie di vizi. 14. Dopo che si è formato il cuore, si forma la parte superiore del corpo. Dopo che nella mente dell’uomo è nata l’umiltà, allora avviene la distinzione tra la parte superiore e quella inferiore, e poiché la parte superiore ha maggiore dignità, essa viene formata per prima, e in essa compaiono prima di tutto il capo e gli occhi. La parte superiore è la vita contemplativa, nella quale compare per primo, e per primo deve comparire, il capo della carità, del quale è detto nel Cantico dei Cantici: "Il suo capo è oro purissimo" ( Ct 5,11 ). L’oro è puro e lucente, e la carità dev’essere pura nei riguardi di Dio e lucente nei riguardi del prossimo. Compaiono quindi gli occhi, cioè la conoscenza della felicità eterna. La vita attiva, in quanto parte inferiore, deve fare da serva alla contemplazione, poiché la parte inferiore esiste solo in ordine alla parte superiore. Dice infatti l’Apostolo: Non l’uomo per la donna, ma la donna è stata formata per l’uomo ( cf. 1 Cor 11,9 ); perché la vita attiva è stata costituita per servire alla vita contemplativa, e non la contemplativa per servire a quella attiva. E come il cervello, organo freddo, è posto in contrapposizione al cuore per temperarne il calore, così la vita contemplativa, che consiste nella compunzione della mente, è posta in contrapposizione della vita attiva, affinché con la sua preghiera e con la compunzione delle lacrime temperi la febbre dell’attivismo e il fuoco delle tentazioni: e questo deve compiersi con l’umiltà che abita nel cuore. E come la grandezza del capo è superiore a quella delle altre membra, così la grazia della contemplazione è più sublime, perché più vicina a Dio, oggetto della contemplazione. Ahimè, quanti bambini, vale a dire quanti incostanti di mente, hanno tentato di reggere la grandezza di questo capo, ma non hanno potuto resistere per lungo tempo, appunto per la sua grandezza. Solo Abramo, cioè il giusto, con il figlioletto, cioè con la purezza della mente, salì al monte della vita contemplativa. Invece i servi restarono nella valle dei piaceri mondani, aspettando insieme con l’asino ( cf. Gen 22,3-5 ), cioè con la lentezza dell’asino. E come tutte le membra ricevono dapprima la loro configurazione, le caratteristiche, il colorito, la solidità e la morbidezza, così tutte le virtù devono avere la loro configurazione, i loro confini, affinché progredendo per la via regia non pieghino né a destra né a sinistra, e la crudeltà non rivendichi spazio sotto il pretesto della giustizia, e la neghittosa indolenza non si camuffi col manto della mansuetudine. Devono avere i segni della passione del Signore, per contrassegnare col sigillo della sua croce tutto ciò che facciamo di bene. E il colorito non sia fosco ma vero e autentico, affinché i vizi, tinti del colore delle virtù, non ingannino l’anima. Dice sant’Isidoro: Alcuni vizi presentano l’apparenza di virtù, e perciò ingannano più funestamente i loro seguaci, in quanto si nascondono sotto il velo della virtù. E il Filosofo: Non esiste raggiro più larvato di quello che si nasconde sotto l’apparenza del dovere. Infatti il cavallo di Troia poté trarre in inganno, in quanto contraffaceva l’immagine di Minerva. Le virtù devono avere inoltre la solidità e la morbidezza: vino e olio, verga e manna, schiaffi e mammelle, ferro e linimento. 15. Quando il corpicino prende le caratteristiche del maschio … Nel maschio è raffigurata l’opera virtuosa, nella femmina l’opera effeminata. Quando l’anima concepisce un’opera virtuosa è in stato di benessere perché dispone tutto rettamente e ordinatamente; ed è di colorito buono ( sano ) perché piace a Dio ed edifica il prossimo. Questo è il maschio che il faraone, cioè il diavolo, vuole annegare nel fiume dell’Egitto ( cf. Es 1,22 ), vale a dire nell’amore di questo mondo. E di questo maschio è detto nel primo libro dei Re: "Signore degli eserciti – disse Anna –, se darai alla tua serva un figlio maschio, lo consacrerò al Signore per tutti i giorni della sua vita" ( 1 Sam 1,11 ). Domanda un figlio maschio, non una femmina. Sapeva infatti che il faraone aveva comandato che le femmine fossero riservate a lui ( cf. Es 1,22 ). Quindi nel sesso femminile è raffigurata l’opera della mente effeminata, e quando la misera anima la concepisce, il suo volto si copre di pallore, viene cioè reso brutto dall’amore delle cose terrene; l’anima è frenata da fiacchezza e languore, ed essendo negligente, tiepida e priva di forze, viene distolta dalle opere buone. Questa è la figlia del re dell’Egitto, la quale rese vana la sapienza di Salomone e pervertì il suo cuore facendogli seguire gli dèi stranieri ( cf. 1 Re 11,34 ). Ahimè, quanti sapienti, resi tiepidi dall’effeminatezza della mente, si abbandonano ai peccati mortali! Quanti sono i tuoi peccati mortali, tanti sono gli dèi che adori. Dice il beato Bernardo: "Anche se sei sapiente, la sapienza ti manca se non lo sei per il tuo bene". Quando i capelli, cioè i pensieri inutili, spuntano nella mente, procurano all’anima un grande danno, perché, come dice Salomone, "i pensieri cattivi allontanano da Dio" ( Sap 1,3 ). E quando la donna gravida mangia cibi molto salati, il nato è privo di unghie. Il sale rende sterile il terreno. La moglie di Lot fu trasformata in una statua di sale ( cf. Gen 19,26 ). Il Signore comanda che il sale scipito venga gettato via ( cf. Mt 5,13 ). Il sale in questo passo sta a indicare la vanagloria, che rende sterile ogni opera. Se l’anima che sta per partorire l’erede della vita eterna mangia il sale della vanagloria, la sua opera sarà senza unghie, sarà privata cioè della perseveranza finale e della gloria celeste. Inoltre, l’uomo e gli uccelli stanno nell’utero incurvati: il loro naso sta tra le ginocchia, gli occhi sopra le ginocchia e gli orecchi all’infuori. Nel naso è indicata la discrezione, cioè la capacità di giudizio; nelle ginocchia la compunzione delle lacrime e l’afflizione della penitenza; negli occhi l’illuminazione della mente e negli orecchi il comando dell’obbedienza. Gli uccelli e l’uomo raffigurano il proposito della buona volontà: gli uni volano nella contemplazione, l’altro fatica nell’azione. Dice Giobbe: "L’uomo nasce alla fatica, l’uccello al volo" ( Gb 5,7 ). Il suo naso dev’essere tra le ginocchia per poter procedere con discrezione, tenendo il giusto mezzo sia nella compunzione della mente che nella mortificazione del corpo. E gli occhi devono essere sopra le ginocchia per compiere tutte le cose nell’illuminazione di una gioiosa coscienza, poiché il Signore ama chi dona con gioia ( cf. 2 Cor 9,7 ); e gli orecchi devono essere tese all’infuori per una spontasnea e libera obbedienza, giacché "l’obbedienza – come dice Gregorio – attira a sé tutte le virtù, e attiratele le custodisce". Questo figlio dell’anima deve tenere le mani aperte sopra le costole. Le costole sono così chiamate perché custodiscono gli organi interni, e simboleggiano l’umile sentire di sé e il disprezzo del mondo: due virtù queste che custodiscono egregiamente tutte le virtù; su di esse il figlio dell’anima deve tenere aperte e fisse le mani delle opere, per dire con Abramo: "Parlerò al mio Signore, benché io sia polvere e cenere" ( Gen 18,27 ); e con Davide: "Chi perseguiti, o re di Israele? Chi perseguiti? Un cane morto tu perseguiti e una pulce" ( 1 Sam 24,15 ); e con l’Apostolo: "Per me il mondo è stato crocifisso, come io lo sono per il mondo" ( Gal 6,14 ). E appena partorito, questo figlio, porta le mani alla bocca. Questo indica che ognuno, memore della sua nascita, deve mettere le mani sopra la sua bocca, per non peccare con la sua lingua, perché, come dice Salomone, chi custodisce le sue labbra, custodisce la sua anima ( cf. Pr 21,23 ). "E quando la donna è prossima a liberare il grembo, ed è giunto il momento del parto …", ecc. "La donna, quando partorisce, è nella tristezza perché è giunta la sua ora". L’ora del parto della donna simboleggia la confessione dell’anima pentita: in quel momento essa deve rattristarsi, prorompere in amari gemiti, dicendo con il Profeta: "Sono stremata dai lunghi lamenti" ( Sal 6,7 ). Osserva che nella donna che sta partorendo si devono considerare quattro momenti: il dolore, il travaglio, la gioia del parto e il compito dell’ostetrica. Queste stesse cose si devono vedere anche nel penitente, del quale la donna che partorisce è figura. 16. Del dolore e del travaglio parla il profeta Michea: "Non hai alcun re, o il tuo consigliere è forse perito, che ti ha presa il dolore come una partoriente? Soffri e datti da fare, figlia di Sion, come una partoriente, perché ora uscirai dalla città e dimorerai nella campagna e andrai fino a Babilonia: lì sarai liberata, lì ti riscatterà il Signore dalla mano dei tuoi nemici" ( Mic 4,9-10 ). Gesù Cristo è il re che guida l’anima perché non vada errando; è consigliere perché le consiglia di sperare nella misericordia, e le dice: Soffri, figlia di Sion, cioè anima, con il dolore della contrizione; impegnati nell’opera di soddisfazione ( di penitenza ) in modo che la pena sia proporzionata alla colpa, perché adesso uscirai dalla città, cioè dalla comunità dei santi, come si fa con i penitenti all’inizio del digiuno quaresimale: infatti il lebbroso abitava fuori dell’accampamento ( cf. Lv 13,46 ); e abiterai nella campagna della dissomiglianza, nella quale il figlio prodigo dissipò le sostanze del padre vivendo dissolutamente ( cf. Lc 15,13 ). Abiterai, o anima, nella campagna per riconoscere la tua dissomiglianza e riacquistare la somiglianza con Dio, secondo la quale sei stata creata; e arriverai fino a Babilonia, cioè alla confusione del peccato affinché, umiliata nel tuo peccato, lo riconosca, e riconosciutolo tu lo pianga, e piangendolo tu riabbia la grazia; lì sarai liberata perché, come dice Agostino, "se tu riconosci, Dio perdona"; lì ti riscatterà Dio dalla mano dei tuoi nemici, perché il turbamento e l’umiliazione per il proprio peccato determinano la cacciata dei demoni. Della gioia del parto spirituale dice il Signore: "Grande gioia c’è nel cielo per un peccatore che fa penitenza" ( Lc 15,7 ); e "Rallegratevi con me perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta" ( Lc 15,9 ); e Gabriele nel vangelo di Giovanni: "Molti si rallegreranno della sua nascita" ( Lc 1,14 ). Si legge nella Genesi che "Abramo imbandì un grande banchetto il giorno in cui Isacco fu svezzato" ( Gen 21,8 ). Quando il peccatore viene svezzato, viene cioè staccato dal latte della vita mondana e della concupiscenza carnale, allora Abramo, cioè Dio Padre, imbandisce in cielo un grande banchetto. Infatti dice: Si deve banchettare e rallegrarsi perché questo mio figlio era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato ( cf. Lc 15,32 ). Sul compito dell’ostetrica, cioè sulla diligenza dei sacerdoti, parla Giobbe: "Con la sua mano in funzione di levatrice, fu estratto il tortuoso serpente" ( Gb 26,13 ). Ostetrica deriva dal lat. obstare, stare davanti, cioè servire. Le ostetriche sono figura del sacerdote, che deve assistere e aiutare i peccatori che si confessano. Per questo è detto: "la sua mano in funzione di ostetrica". La mano del Signore è il sacerdote: con essa dev’essere estratto dal peccatore il serpente, cioè l’uomo vecchio, perché sia poi in grado di partorire l’uomo nuovo. Come al momento del parto avviene alle donne in certe regioni – almeno così si racconta –, che espellono un rospo prima del bambino, così deve fare anche il penitente: prima di tutto con la confessione espelle l’uomo vecchio, poi finalmente partorisce in sé l’uomo nuovo. E se vuole partorirlo con maggiore facilità e tranquillità, si guardi bene dallo sbadigliare. Sbadiglia colui che confessa la storia dei suoi peccati con tiepidezza e quasi dormendo. Sbadiglia colui che, impedito dalla vergogna, non manifesta il peccato che aveva promesso di confessare. Dice perciò Isaia: "I figli sono stati portati fino al parto, ma poi non ci fu più la forza di partorirli" ( Is 37,3 ). E ciò avviene quando il peccato è già sulla bocca, ma per la vergogna la bocca non si apre alla confessione, e così l’infelice anima muore. Se avesse sofferto e avesse faticato, senza dubbio ora sarebbe lieta per il parto. Ma a motivo dell’inazione e della tiepidezza, per cui si accumula nell’anima un eccesso di pensieri cattivi, la sua disposizione peggiora e nel parto corre gravi rischi. Dice Girolamo: Bisogna fare sempre qualcosa perché, se la mano si ferma, il campo del nostro cuore viene invaso dai rovi dei cattivi pensieri. E Isidoro: La libidine brucia più intensamente se trova uno in ozio. Invece nell’anima veramente pentita c’è il dolore e la fatica, e quindi il parto della confessione è rapido e facile. Infatti la fatica consuma gli umori superflui ed è una di quelle cose che fanno traspirare abbondantemente. Infatti dice la Genesi: "Col sudore del tuo volto mangerai il tuo pane" ( Gen 3,19 ). Il volto è così chiamato perché in esso si manifesta la volontà dell’animo ( lat. vultus, voluntas ). Nel volto del vero penitente si manifesta il dolore della contrizione e scorrono le lacrime dell’amarezza, come fosse il sudore del corpo, e lì c’è il pane e il nutrimento dello stesso penitente. Giustamente quindi è detto: "La donna quando partorisce è nella tristezza; ma quando ha partorito il figlio non si ricorda più del travaglio, a motivo della gioia che la ricolma" ( Gv 16,21 ), cioè a motivo della gloria eterna. Infatti dice Isaia: "Le precedenti tribolazioni sono state dimenticate e non ritorneranno ad opprimere il cuore: ma godrete ed esulterete per sempre" ( Is 65,16-18 ). Dalla tristezza di questo mondo si degni di guidarci a quel gaudio, colui che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Domenica IV dopo Pasqua Temi del sermone – Vangelo della IV domenica dopo Pasqua: "Vado da colui che mi ha mandato"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone al prelato della chiesa, come deve lavorare nel campo dei fedeli: "Il contadino aspetta". – Parte I: Sermone per l’annunciazione, o per la natività, o per la passione del Signore: "Ti metterò un anello alle narici", e "Gli porrai un cerchio alle narici?". – Sermone della passione del Signore: "È venuto meno il mantice nel fuoco". – Natura della tortora e che cosa raffiguri; la duplice eredità di Gesù Cristo. – Parte II: Sermone contro i mondani: "Quando verrà il Paràclito". – Le uova di vento e la diversità della loro forma; natura della pernice, e che cosa significhino queste cose. – Sermone contro i fornicatori e gli ubriaconi; come perdano il cuore e la fede: "La fornicazione, il vino e l’ubriachezza tolgono il cuore". – Sermone sulla giustizia dei santi: "Convincerà il mondo quanto alla giustizia". – Sermone sul giudizio, nel quale si richiedono sei persone: "Convincerà il mondo quanto al giudizio". – Sermone contro i golosi e i lussuriosi: "Se mi ascolterai, non ci sarà in mezzo a te". – Collocazione dell’orecchio e della lingua e loro significato: "Ogni uomo sia pronto ad ascoltare". – Sermone contro gli iracondi: "Sia lento all’ira". – Parte III: Sermone sulla venuta dello Spirito: "L’angelo del Signore discese nella piscina". – Le proprietà della palma. – Contro coloro che hanno la grazia informe: "Ogni animale che abbia …"; e il germoglio innestato nell’albero Esordio - in che modo il prelato deve lavorare nel campo dei fedeli 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Io vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?" ( Gv 16,5 ). Dice Giacomo nell’epistola canonica: "L’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra, portando pazienza finché potrà raccogliere il frutto precoce e quello tardivo" ( Gc 5,7 ). L’agricoltore, colui che coltiva il campo, è il predicatore, che nel sudore della sua fronte, col sarchio della parola coltiva il campo, cioè l’anima dei fedeli. Il campo si chiama in latino ager, perché in esso si opera ( lat. agere ), si lavora. I campi o si seminano, o si coltivano a piante, o si dispongono a pascolo, o si ornano con fiori diversi. Anche nell’anima è necessario fare sempre qualche cosa, perché non si avveri ciò che dice Salomone: "Sono passato per il campo dell’uomo pigro, ed ecco che le spine lo avevano invaso completamente" ( Pr 24,30-31 ). Infatti dove c’è il torpore della pigrizia, subito prosperano le spine pungenti dei pensieri perversi. Perciò l’anima dev’essere seminata con la semente della predicazione, coltivata con le piante delle virtù, preparata a pascolo, cioè ai desideri della vita eterna, ornata di fiori diversi, vale a dire degli esempi dei santi. E se il campo sarà coltivato in questo modo, di esso dice il Signore: "Ecco, il profumo del figlio mio è come il profumo di un campo rigoglioso, che il Signore ha benedetto" ( Gen 27,27 ). "L’agricoltore aspetta il prezioso frutto della terra". Per il fatto che il predicatore coltiva il campo del Signore, egli attende il frutto della terra, cioè della vita eterna. Per questo il Signore promette al predicatore: "Se convertirai ( qualcuno ), io convertirò te; e se separerai ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca" ( Ger 15,19 ). "Se convertirai", cioè se farai convertire – come dice Giacomo – "il peccatore dalla sua via di errore" ( Gc 5,20 ), io convertirò te infondendoti la grazia; e se avrai separato ciò che è prezioso, cioè l’anima che ho riscattato con il mio sangue prezioso, da ciò che è vile, cioè dal peccato, del quale nulla al mondo è più vile, sarai come la mia bocca, perché nella rigenerazione giudicherò gli empi per mezzo di te. Ma nel frattempo bisogna agire con pazienza. E quindi soggiunge: "Deve sopportare con pazienza, finché potrà raccogliere il frutto precose e quello tardivo". Si chiama precose ciò che matura prima, e tardivo quando la maturazione è completa. Quindi il predicatore, se sopporta con pazienza e con gioia, quando cade in varie tentazioni, riceverà il frutto precoce della grazia nel tempo presente, e quello tardivo della gloria nella vita futura. In proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: "Vado da colui che mi ha mandato". 2. Osserva che in questo brano evangelico sono poste in evidenza tre fatti. Primo, il ritorno di Gesù Cristo al Padre, quando dice: "Vado da colui che mi ha mandato". Secondo, l’accusa fatta al mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, dove dice: "Quando verrà lo Spirito, accuserà il mondo …". Terzo, le ispirazioni dello Spirito di verità, dove conclude: "Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi insegnerà tutta la verità". In questa domenica e nella prossima si leggono le epistole canoniche. L’introito della messa di oggi esorta: "Cantate al Signore un canto nuovo" ( Sal 98,1 ). E nell’epistola del beato Giacomo è detto: "Tutto ciò che ci viene dato di buono", ecc. ( Gc 1,17 ): noi la divideremo in tre parti e ne faremo risaltare la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Le tre parti dell’epistola sono: primo: "Ogni ottimo regalo"; secondo: "Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi"; terzo: "Perciò, deposta ogni impurità", ecc. I. Il ritorno di Gesù Cristo al Padre 3. "Io vado da colui che mi ha mandato". Poco prima il Signore aveva detto: "Voi sapete dove vado, e conoscete anche la via". Gli disse Tommaso: "Signore, non sappiamo dove vai" ( Gv 14,4-5 ). E il Signore poco dopo aggiunse: "Vado da colui che mi ha mandato. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e ritorno al Padre" ( Gv 16,28 ). Questo è il cerchio di cui parla il Padre, minacciando il diavolo: "Metterò un cerchio nelle tue narici e un morso sulle tue labbra, e ti farò tornare per la strada per cui sei venuto" ( Is 37,29 ). Il cerchio, così chiamato perché gira nella circonferenza, raffigura Gesù Cristo che, come il cerchio, è ritornato da dove era partito. Infatti è partito dal Padre, ha fatto un giro fino agli inferi, ed è ritornato al trono di Dio. Il cerchio dunque fu posto alle narici del diavolo, perché la Sapienza di Dio si è incarnata per insegnare a noi la vera sapienza e così, per mezzo della sapienza da lui insegnata, vanificasse le insidie del diavolo, raffigurate nelle sue narici. Le narici, dette in latino nares perché esce da esse l’aria ( lat. nares, aër ) ossia il fiato, simboleggiano l’astuzia delle insidie diaboliche. Infatti il diavolo, da congetture e circostanze esteriori e dal temperamento degli uomini, intuisce e subodora, quasi con il fiuto delle narici, a quali vizi uno sia più incline, e lì tende i suoi tranelli. Ma tutti coloro che sono istruiti nella sapienza di Dio sono in grado di sfuggire, se lo vogliono, a questi tranelli. "E porrò un morso alle sue labbra". Il morso è la croce di Gesù Cristo: il diavolo, da essa trattenuto come un cavallo, non può più divorarci com’era solito fare. Concorda con questo ciò che leggiamo in Giobbe: "Porrai forse un anello alle narici di beemot ( ippopotamo ), e gli forerai la mascella con un cerchio?" ( Gb 40,21 ). Il cerchio, detto in lat. armilla, braccialetto, perché può servire anche come arma, è la croce di Gesù Cristo, della quale Isaia dice: "Il potere è stato posto sulle sue spalle" ( Is 9,6 ). Con questo cerchio il Figlio di Dio ha perforato la mascella del diavolo e dalle sue fauci ha liberato il genere umano. Quindi soggiunge: "E ti farò ritornare sulla via per la quale sei venuto". Il diavolo perdette il possesso del mondo per la stessa via per la quale l’aveva usurpato: aveva ingannato l’uomo e la donna con l’albero proibito e il serpente. Per opera di un uomo, Gesù Cristo, e di una donna, la Vergine Maria, per mezzo dell’albero della croce e il serpente, vale a dire con la morte della carne di Cristo, che era simboleggiata dal serpente che Mosè aveva innalzato nel deserto su di un’asta di legno ( cf. Nm 21,8-9; Gv 3,14 ), il diavolo perdette il possesso del genere umano. Quindi, conclusa l’opera della nostra redenzione, Cristo dice: Vado [ ritorno ] dal Padre che mi ha mandato. Con tutto questo concorda ciò che leggiamo nel libro di Tobia, quando Raffaele, dopo aver incatenato il demonio, restituì la vista a Tobia e disse: "È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato" ( Tb 12,20 ). Raffaele s’interpreta "medicina di Dio". Egli è figura di Cristo, perché Cristo con la sua carne inchiodata sul legno della croce ha ricavato dal serpente un antìdoto per noi, e così incatenò il diavolo e restituì la vista degli occhi al genere umano. Dopo di che disse: " È tempo ormai che io ritorni a colui che mi ha mandato", ossia, "Vado da colui che mi ha mandato". 4. Il Padre ha mandato a noi il Figlio, regalo ottimo e dono perfetto; lo confermano le parole dell’epistola di oggi: "Ogni regalo ottimo e ogni dono perfetto discende dall’alto, viene dal Padre della luce" ( Gc 1,17 ). Ottimo, cioè sommo; perfetto è ciò a cui nulla si può aggiungere. Cristo è il regalo ottimo, perché ci è stato dato dal Padre, del quale egli è il sommo e coeterno Figlio. Per questo è detto nel secondo libro dei Re: "La terza battaglia avvenne a Gob contro i Filistei: in essa Adeodato, figlio di Salto, fabbricante di vesti variopinte, betlemita, abbatté Golia di Gat" ( 2 Sam 21,19 ). Adeodato è Davide – alla lettera: dato da Dio al popolo d’Israele –; figlio di Salto, perché pascolava le pecore di suo padre in monti boscosi ( lat. saltus ); è detto infatti: "Lo tolse dalla cura delle pecore gravide" ( Sal 78,70 ); fabbricante di vesti variopinte: sua madre era della famiglia di Beseleel, che era fabbricante di vesti di vari colori, come dice l’Esodo ( cf. Es 38,23 ); betlemita: era infatti originario di Betlemme. Senso allegorico. "La terza battaglia avvenne a Gob". Osserva che il diavolo fece contro il Signore tre battaglie: in cielo, quando per superbia tentò di usurpare la perfezione della divinità; nel paradiso terrestre, quando in oltraggio al creatore, ingannò i progenitori con le lusinghe di false promesse; nel mondo, quando nel deserto tentò lo stesso Uomo-Dio e lo fece poi inchiodare sul patibolo della croce. Di questa ultima battaglia è detto appunto: "La terza battaglia avvenne a Gob", nome che s’interpreta "lago", e raffigura il mondo, che è lago di miseria e fango di impurità ( cf. Sal 40,3 ). Il lago è così chiamato perché è come il luogo dell’acqua: infatti l’acqua vi sta ferma e non ne esce. Questo mondo è il luogo dell’acqua, cioè della superbia, della lussuria e dell’avarizia, che mai ne escono, anzi crescono ogni giorno. In questo lago Davide, che s’interpreta "misericordioso", è figura di Gesù Cristo, la cui misericordia non si può misurare, e che solo per misericordia ci è stato dato dal Padre, e che è ogni regalo ottimo: egli uccise Golia di Gat. Golia s’interpreta "che si trasforma"; di Gat, cioè "che si spaventa"; ed è figura del diavolo, "che si trasforma in angelo di luce" ( 2 Cor 11,14 ), perché ha paura di essere sorpreso nel suo vero aspetto. Ma il nostro Davide lo ha ucciso, quando gli ha tolto il possesso del mondo e lo ha rinchiuso nel carcere dell’inferno. Fu "figlio di Salto". Il termine latino saltus denota un luogo in cui gli alberi salgono ( saliunt ) molto in alto. Furono "salto" gli antichi padri, i patriarchi e i profeti che, ispirati dallo Spirito di Dio, come alberi che si spingono a grande altezza, profetizzarono l’incarnazione del figlio di Dio: egli provenne da loro secondo la carne, e quindi è detto "figlio di Salto". È detto anche "fabbricante di vesti variopinte" ( polymitharius ). Le vesti variopinte si fanno con l’ago. Osserva che nell’ago ci sono due estremità: una appuntita e una perforata, la cruna: la parte appuntita raffigura la divinità, quella perforata, la cruna, l’umanità. Di quest’ago il Signore stesso dice nel vangelo: Non può un cammello passare per la cruna di un ago ( cf. Mt 19,24; Lc 18,25 ). Il cammello con le gobbe, cioè il ricco pieno di soldi, non può passare per la cruna dell’ago, cioè per la povertà di Gesù Cristo. Oppure, nella parte smussata può essere simboleggiata la mansuetudine e la misericordia che Cristo mostrò nella sua prima venuta; in quella acuta la trafittura della giustizia, con la quale trafiggerà nell’ultimo giudizio. Con quest’ago il nostro polymitharius, il nostro fabbricante di vesti variopinte, confeziona all’anima fedele una tunica variopinta, una veste che si distingue per il vario colore delle virtù. Dice Salomone: "Si confezionò una veste di vari colori: il bisso e la porpora sono le sue vesti" ( Pr 31,22 ). Il bisso ( lino purissimo ) della castità e la porpora della passione del Signore sono le vesti dell’anima fedele. È detto anche "betlemita". Betlemme s’interpreta "casa del pane". Egli, nella sua casa che è la chiesa, ci nutre con il pane del suo corpo. Ha detto infatti: "Il pane che io vi darò è la mia carne, per la vita del mondo" ( Gv 6,52 ). Altro commento. Gesù Cristo ci fu dato da Dio nella natività. Dice Isaia: "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio" ( Is 9,6 ). Fu figlio di Salto nella predicazione e nella passione. Nella predicazione perché scelse gli apostoli, come alberi che si spingono in alto, e infatti disse: "Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto" ( Gv 15,16 ); nella passione, perché fu coronato con le spine dei nostri peccati. Fu fabbricante di vesti variopinte nella risurrezione; in essa riparò con l’ago della sua potenza e della sua sapienza la tunica variopinta, cioè la carne gloriosa presa dalla Vergine Maria, distesa per noi sul legno della croce, lacerata dai chiodi, trafitta dalla lancia, e la restituì all’immortalità. Sarà per noi betlemita nell’eterna beatitudine, dove saremo saziati e lo vedremo faccia a faccia ( cf. 1 Cor 13,12 ). Giustamente quindi è detto: "Ogni ottimo regalo". Il Padre della luce, come un munifico e misericordioso elemosiniere, non ha dato a noi poveri soltanto del vino buono o migliore, ma quello ottimo. 5. "E ogni dono perfetto". Dice l’Apostolo: "Insieme con lui ci ha donato ogni cosa" ( Rm 8,32 ); e di nuovo: "Lo diede come capo della chiesa" ( Ef 1,22 ). Commenta la Glossa: Non poté dare un dono più grande. Giustamente Cristo è chiamato "ogni dono perfetto", perché quando il Padre ce lo donò, per mezzo suo portò a compimento tutte le cose. Infatti: "Il Figlio dell’uomo venne a salvare ciò che era perduto" ( Mt 18,11 ). Perciò la chiesa nell’introito della messa di oggi esorta: "Cantate al Signore un canto nuovo" ( Sal 98,1 ), come dicesse: O fedeli, salvati e rinnovati per mezzo del Figlio dell’uomo, cantate un canto nuovo. Dovete gettar via le cose vecchie, perché arrivano le nuove ( cf. Lv 26,10 ). Cantate, ripeto, perché Dio Padre ha compiuto cose meravigliose, quando mandò a noi ogni ottimo regalo, cioè il Figlio suo. "Al cospetto delle genti rivelò la sua giustizia" ( Sal 98,2 ), quando ci diede ogni dono perfetto, lo stesso Unigenito, che giustifica le genti e tutto compie e porta a perfezione. Giustamente quindi è detto: "Ogni dono perfetto". Tutto fece in sei giorni. "Disse, e fu fatto" ( Sal 148,5 ). Nel sesto periodo "il Verbo si fece carne" ( Gv 1,14 ). Il sesto giorno e all’ora sesta patì per noi, e così compì tutto. Disse infatti sulla croce: "Tutto è compiuto!" ( Gv 19,30 ). Quanto grande è la distanza tra il dire e il fare, altrettanta ce ne fu tra il creare e il ri-creare. Agevole e facile fu la creazione, che avvenne con una sola parola, anzi con la sola volontà di Dio, il cui dire è volere; ma la ri-creazione fu molto difficile, perché avvenne per mezzo della passione e della morte. Adamo fu creato con facilità, e con grandissima facilità cadde. Guai a noi, miseri, che siamo stati ricreati e redenti con sì grande passione, con sì grandi patimenti e dolori, e poi con così grande facilità pecchiamo gravemente e rendiamo vana tanta fatica del Signore. Gesù stesso dice per bocca di Isaia: "Ho faticato a vuoto, per nulla e invano ho consumato le mie forze" ( Is 49,4 ). Nella creazione il Signore non ha faticato, perché "ha fatto tutte le cose che ha voluto" ( Sal 135,6 ); ma nella ri-creazione faticò tanto, che "il suo sudore fu di gocce di sangue che scorrevano in terra" ( Lc 22,44 ). Se provò così grande sofferenza nella preghiera, quanta – credi – dovette provarne nella crocifissione? Il Signore quindi faticò e così ci strappò dalle mani del diavolo. Invece noi, peccando mortalmente, ricadiamo nelle mani del diavolo e per quanto sta in noi rendiamo vana la fatica del Signore. Per questo dice: "Ho faticato invano", per nulla, cioè senza alcuna utilità. Non vedo infatti nessun vantaggio dalla mia passione, perché "non c’è chi faccia il bene, non ce n’è neppure uno" ( Sal 14,1 ). "L’omicidio, l’adulterio, lo spergiuro, il furto, la maledizione e la menzogna hanno dilagato e si versa sangue su sangue" ( Os 4,2 ). "I sacerdoti non dissero forse: Dov’è il Signore? I custodi della legge mi hanno ignorato, e i pastori – cioè i prelati – mi si sono ribellati, e i profeti – cioè coloro che predicano – hanno profetato in Baal" ( Ger 2,8 ), cioè "nei luoghi alti" [ dove si adoravano gli idoli ]: infatti predicano per farsi vedere superiori agli altri. Ben a ragione perciò il Signore dice: "Ho faticato invano, per nulla e invano ho consumato le mie forze". La forza della divinità quasi si consumò nella debolezza dell’umanità. Non ti sembra che la forza si sia consumata quando lui, Dio e Uomo, fu legato alla colonna come un malfattore, fu colpito con i flagelli, fu schiaffeggiato, fu coperto di sputi, gli fu strappata la barba, il suo capo, che fa tremare gli angeli, fu percosso con una verga, e poi fu crocifisso tra due ladroni? Guai dunque a quei miserabili, a quei meschini e stolti che neppure da questi fatti si convincono a fuggire le vanità del mondo. Invano ha consumato le sue forze, perché vani sono diventati coloro per i quali le ha consumate. Bisogna perciò avere un grande timore che come all’inizio disse: Mi pento di aver fatto l’uomo ( cf. Gen 6,7 ), non dica anche adesso: Mi pento di aver redento l’uomo, perché ho consumato ( distrutto ) tutte le mie forze, ma la loro malizia non è stata distrutta! 6. Dice Geremia: "È venuto meno il mantice al fuoco, è consumato il piombo; inutilmente il fonditore lo ha fuso, poiché le loro cattiverie non si sono consumate. Chiamateli perciò argento di scoria, perché il Signore li ha rigettati" ( Ger 6,29-30 ). In questa citazione ci sono cinque cose da considerare: il fonditore, il mantice, il fuoco, il piombo e l’argento. Nel fonditore è indicata la divinità, nel mantice la predicazione, nel fuoco la passione di Gesù Cristo, nel piombo l a sua umanità, nell’argento le nostre anime. Nella fornace del fuoco l’argento viene purificato e liberato dal piombo e raffinato. Per distruggere la scoria dall’argento, cioè la malizia dalle nostre anime, si misero insieme Dio e l’Uomo e la sua predicazione. Ma inutilmente il fonditore fece la fusione e profuse invano la sua forza. Il mantice venne meno e il piombo fu consumato nel fuoco della passione, e così faticò invano e per nulla, perché le nostre cattiverie non si sono consumate. Perciò l’argento di scoria sarà gettato nel letamaio della geenna, perché le anime dei peccatori saranno gettate nello stagno del fuoco ardente. Dice Osea: "L’ortica erediterà il loro amato argento e nelle loro tende cresceranno le lappole" ( Os 9,6 ). L’ortica, che brucia ( lat. urtica, urit ), raffigura il fuoco dell’inferno; la lappola, che si attacca, indica l’accanimento della pena con cui le anime degli empi saranno tormentate, poiché non hanno voluto accogliere il dono perfetto di Dio, del quale è detto: "Ogni ottimo regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce" ( Gc 1,17 ), come il raggio dal sole. Infatti come il raggio di sole, partendo dal sole illumina il mondo, e tuttavia dal sole non si allontana mai, così il Figlio di Dio scendendo dal Padre illumina il mondo, e tuttavia mai si allontana dal Padre, perché con il Padre è una cosa sola. Infatti disse egli stesso: "Io e il Padre siamo una cosa sola" ( Gv 10,30 ). Dice Giovanni Damasceno: "Il Verbo s’incarnò senza uscire dalla sua immaterialità, e così fu integralmente incarnato e anche totalmente incircoscritto ( infinito ). Rispetto alla carne è diminuito e limitato; rispetto alla divinità è senza limiti, ma non perché sia dilatata la carne, che fu invece circoscritta dalla divinità. Era dunque in tutte le cose e sopra tutte le cose, eppure stava nel grembo della santa Genitrice". E Agostino: "Quando si legge "Il Verbo si è fatto carne", nel Verbo riconosco il vero Figlio di Dio, nella carne il vero Figlio dell’uomo, uno e l’altro insieme una sola persona, Dio e Uomo, congiunti dall’inenarrabile grandezza della grazia divina". Giustamente quindi è detto: "Discese dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento" ( Gc 1,17 ). Non c’è in Dio cambiamento: non può dare ora il bene, ora il male, oppure il bene con una certa mescolanza di male. Nella sua natura non c’è alcun cambiamento, ma solo identità ( Dio è sempre se stesso ), e ciò non solo nella natura ma anche nella distribuzione dei doni, perché infonde solo e sempre doni di luce, e non tenebre di errori. E Giacomo continua: "Di sua volontà egli ci ha generati": dapprima figli delle tenebre, quindi, con l’acqua della rigenerazione, figli della luce; "con una parola di verità", cioè con la dottrina del vangelo, perché fossimo "come l’inizio della sua creazione"; perché adesso la riforma del nostro essere è solo all’inizio: la riforma completa avverrà nel futuro. Oppure, secondo un’altra versione: "perché fossimo come la primizia delle sue creature" ( Gc 1,18 ), cioè avessimo il primato su tutto il creato. O ancora: Ci ha generati con una parola di verità affinché incominciamo a gemere nella contrizione e a partorire nella confessione; perché "ogni creatura", secondo l’Apostolo, "geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" ( Rm 8,22 ), perché poi possiamo godere con il Figlio di Dio, che dice: "Vado da colui che mi ha mandato". 7. Cristo fece come la tortora, che nel periodo invernale scende a valle e senza piume si rifugia nei tronchi cavi degli alberi; invece nel periodo estivo ritorna sulle alture. Così Cristo, nell’inverno dell’infedeltà e nel gelo della persecuzione diabolica discese nel grembo dell’umilissima Vergine e dimorò in questo mondo, povero e disprezzato come un uccello senza piume. Di questa tortora dice Salomone: "La voce della tortora si è fatta sentire nella nostra terra" ( Ct 2,12 ). La voce della tortora assomiglia al gemito e al pianto. Cristo è disceso tra noi per gemere e piangere – mai si legge che abbia riso –, per insegnare anche a noi a gemere e a piangere. "Si è sentita la voce della tortora nella nostra terra", voce che dice: "Fate penitenza!" ( Mt 3,2 ). Quando poi si avvicinò l’estate e incominciò ad accendersi la crudeltà della persecuzione giudaica e divampò il fuoco della passione, allora ritornò sul monte, cioè al Padre. Disse infatti: "Vado da colui che mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?". Domandiamo a Cristo per quale via ritorni al Padre. E ci risponderà: Per la via della croce! Egli stesso infatti disse: "Non fu forse necessario che Cristo subisse la passione, e così entrasse nella sua gloria?" ( Lc 24,26 ). Cristo ebbe una duplice eredità: una da parte della Madre, cioè la fatica e il dolore; l’altra da parte del Padre, e cioè il gaudio e il riposo. Quindi per il fatto che noi siamo suoi coeredi, dobbiamo ricercare anche noi questa duplice eredità. Perciò sbagliamo se vogliamo avere la seconda senza la prima, perché il Signore ha fondato la seconda sulla prima, proprio perché noi non avessimo la pretesa di avere la seconda senza la prima. Egli ha innestato l’albero della vita sull’albero della scienza del bene e del male, quando "il Verbo si è fatto carne" ( Gv 1,14 ). Quindi "sarà come albero piantato lungo il corso delle acque" ( Sal 1,3 ). E Isaia: "Ha fondato la terra e ha piantato i cieli" ( Is 51,16 ). Nella terra dell’umanità, fondata sulle sette colonne della grazia settiforme ( dei sette doni dello Spirito ), ha impiantato i cieli della divinità. Procuriamo dunque di venire in possesso della prima eredità che Gesù Cristo ci ha lasciato, per meritare di arrivare alla seconda. II. L’accusa contro il mondo 8. "Quando verrà il Paràclito ( il Consolatore ), egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato già giudicato" ( Gv 16,8-11 ). Il mondo è chiamato così perché è sempre in movimento ( lat. mundus, motus ); infatti ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo è detto in greco kòsmos, l’uomo è detto mikrokosmos, cioè piccolo mondo. Infatti come il mondo fu creato composto di quattro elementi, così gli antichi affermarono che l’uomo consta di quattro umori ( fluidi ), amalgamati in un unico temperamento. Il mondo sta a indicare i mondani, che sono sempre in movimento. Di essi Giuda, nella sua lettera cattolica dice: "Essi sono nuvole senza pioggia, portate in giro dai venti, alberi autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati; flutti del mare infuriato, che schiumano le loro brutture; astri erranti ai quali è riservata in eterno la tempesta delle tenebre" ( Gd 1,12-13 ). In questo passo ci sono quattro elementi da notare: le nuvole, gli alberi, i flutti e gli astri. In questi quattro elementi sono indicati i quattro vizi dei mondani, e cioè la superbia, l’avarizia, la lussuria e l’ipocrisia. Le nuvole nere ed errabonde raffigurano i superbi che, dalla superficialità del loro animo e dall’oscurità della mente sono portati in giro per vari peccati; sono privi dell’acqua della compunzione e della luce della grazia settiforme. Di essi infatti dice il profeta: "Dio mio, rendili come una ruota, e come la pula davanti al vento" ( Sal 83,14 ). Fa’ attenzione alla ruota e alla pula. La ruota è detta così da ruotare, girare; la pula è detta in lat. stipula, quasi usta, bruciata. Dio rende i superbi come una ruota, permettendo che essi ruotino, ròtolino di peccato in peccato, e poi li rende come pula davanti al vento, perché essi che furono aridi, privi dell’umore della grazia, come pula saranno bruciati nel fuoco delle pene eterne. Alberi autunnali, infruttuosi, sono gli avari, che occupano inutilmente la terra ( cf. Lc 13,7 ): il Signore li maledice come fece con l’albero nel quale non trovò frutto ( cf. Mc 11,21 ). Fa’ attenzione alle quattro parole: autunnali, infruttuosi, due volte morti, sradicati. L’autunno è chiamato così da tempestas ( bufera ): in autunno cadono le foglie. Gli avari sono alberi autunnali, i quali, quando sopraggiunge la bufera della morte, saranno spogliati delle foglie delle ricchezze, delle quali adorni e ricoperti incedevano solenni; e siccome sono stati senza frutto, saranno gettati nel fuoco eterno, perché "ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco" ( Mt 3,10 ); "due volte morti", perché saranno sepolti nell’inferno con l’anima e con il corpo, sradicati dalla terra dei viventi. I flutti del mare infuriato sono i lussuriosi. I flutti sono così chiamati perché fluttuano, agitati dal soffiare dei venti. I lussuriosi infatti, agitati dalle suggestioni degli spiriti immondi, fluttuano tra vari pensieri e schiumano lussuria nel subbuglio della loro anima. Sono come una pentola posta sopra il fuoco, che manda fuori la schiuma. La pentola è il cuore del peccatore, nel quale c’è l’acqua della concupiscenza carnale: si pone sotto ad essa il fuoco della suggestione diabolica e così schiuma la lussuria del suo ribollimento. Astri erranti sono gli ipocriti e i falsi religiosi. Gli astri sono detti in lat. sidera, perché i naviganti li osservano ( lat. consìderant ) e per mezzo di essi regolano la loro rotta. I degni prelati della chiesa e i veri religiosi sono astri che brillano in un luogo oscuro ( cf. 2 Pt 1,19 ): essi dirigono sulla giusta rotta della vita eterna coloro che navigano nel mare di questa vita. Invece gli ipocriti e i falsi religiosi sono astri erranti, causa di naufragio per gli altri, e perciò saranno travolti dalla tempesta e dalla bufera della morte eterna. 9. Tutti costoro sono come "uova di vento", che non fanno nascere pulcini. Si dice infatti che la libidine ecciti le pernici in modo tale, che quando il vento soffia dietro ai maschi, esse s’ingravidino solo con l’odore e depongano delle uova non fecondate che non producono pulcini; e tali uova sono tutte uova di vento. La pernice, uccello falso e immondo, sta ad indicare i suddetti peccatori, che hanno, come dice Pietro, gli occhi pieni di adulterio e non sono mai sazi di peccato ( cf. 2 Pt 2,14 ); essi con il vento della suggestione diabolica concepiscono uova di vento, cioè amore della vanità mondana, di cui dice Osea: Hanno seminato vento e raccoglieranno tempesta; non c’è in essi spiga eretta e non produrrà farina ( cf. Os 8,7 ). Chi semina il vento dell’amore mondano, senza dubbio raccoglierà la tempesta della morte eterna. La spiga, così chiamata dal lat. spiculum, punta, è la contrizione del cuore, che punge il peccatore e produce la farina della confessione. Questa spiga non è eretta e non produce farina nei peccatori che non concepiscono pulcini, cioè opere di vita eterna, ma solo vento di vanità mondana. Osserva ancora che le uova si distinguono dal loro aspetto, perché alcune sono appuntite e altre sono rotonde; ed esce prima la parte appuntita e poi quella più larga. Le uova lunghe con la punta acuta producono maschi; le uova rotonde, che invece di avere la punta sono tondeggianti, producono femmine. Per questo si può sapere con sicurezza quali uova producano maschi e quali femmine. Allo stesso modo il diavolo, dall’indizio della acutezza e della rotondità, distingue tra gli uomini quali sono i maschi e quali le femmine. Nell’acutezza è raffigurata la compunzione e la contemplazione delle cose celesti, nella rotondità il piacere della carne e nell’andare in giro alla ricerca delle cose mondane. "Ho fatto un giro sulla terra e l’ho percorsa" ( Gb 1,7 ), dice Satana. "Va in giro come un leone, cercando chi divorare" ( 1 Pt 5,8 ), dice Pietro. E il profeta Isaia: "La mia mano, come in un nido, ha trovato la ricchezza dei popoli; e come si raccolgono le uova abbandonate, così io ho raccolto tutta la terra; e non ci fu chi muovesse una piuma", cioè facesse un atto di virtù, "o aprisse la bocca", per la confessione; "o gemesse" ( Is 10,14 ), per la compunzione interiore. Non sono i maschi, cioè i giusti, compunti nella mente e immersi nella contemplazione, che si comportano così, ma le femmine, cioè i mondani, resi effeminati dai beni caduchi di questo mondo. Di essi è detto: "Quando verrà il Paràclito convincerà il mondo di peccato", ecc. Il termine greco paràklisis significa "consolazione", quindi paràclito vuol dire consolatore: ma la sua consolazione i mondani non la vogliono accogliere, perché hanno già la loro consolazione. Dice infatti di loro il Signore: "Guai a voi, che avete la vostra consolazione!" ( Lc 6,24 ). E Isaia: "Non siete voi forse figli scellerati, prole bastarda, che vi consolate con gli dèi ( falsi ) sotto ogni albero frondoso?" ( Is 57,4-5 ). I mondani sono figli scellerati per la loro superbia, sono prole bastarda a motivo della lussuria; essi si consolano con gli dèi dell’avarizia, "che è appunto schiavitù degli idoli" ( Col 3,5; cf. Ef 5,5 ), sotto ogni albero frondoso, vale a dire nella gloria delle cose di questo mondo. 10. Dunque "quando verrà il Paràclito, convincerà il mondo del peccato" che ha, "della giustizia" che non ha, "e del giudizio" che non teme. Nota queste tre cose: peccato, giustizia e giudizio. Il peccato. Peccatore deriva dal lat. pellicio, adescare, sedurre, ciò che fa la meretrice; quindi peccatore è come seduttore. Con questo termine venivano indicati in antico gli infami, gli scandalosi, poi divenne il nome comune di tutti i delinquenti, appunto perché il mondo è contaminato dalla fornicazione più che da qualunque altro vizio. Perciò dice Osea: "Si prostituirono e non cessarono, perché hanno abbandonato il Signore, trasgredendo la legge. La fornicazione, il vino e l’ubriachezza distruggono il cuore" ( Os 4,10-11 ). Osserva che nel cuore ci sono tre sentimenti: lo sdegno, la sede della sapienza e l’amore. Il cuore è un organo nobile e sdegnoso, che non tollera che entri in lui qualcosa di immondo. La fornicazione fa sì che il cuore perda questa intolleranza, questo sdegno, quando si rassegna ad ingoiare tale boccone. Parimenti il cuore è la sede della sapienza: il vino la fa perdere. Con il cuore poi amiamo: ma perde questo amore colui che, ubriaco di cupidigia delle cose terrene, non soccorre il prossimo. E che il peccato di fornicazione distrugga il cuore è dimostrato dall’esempio di Salomone, che si diede all’adorazione degli idoli ( cf. 1 Re 11,4 ). Dice l’Apostolo: "Con il cuore si crede per ottenere la giustizia" ( Rm 10,10 ), ma la fornicazione distrugge il cuore, nel quale risiede la fede. Perciò a causa della fornicazione si perde la fede. Per questo si dice ( in lat. ) fornicatio, quasi a dire formae necatio, cioè uccisione della forma, vale a dire uccisione dell’anima, formata a somiglianza di Dio. La vita dell’anima è la fede. "Cristo", dice l’Apostolo, "per mezzo della fede abita nei nostri cuori" ( Ef 3,17 ). Ma la fornicazione distrugge il cuore nel quale è la vita e così l’anima muore, perché venendo meno la causa viene meno anche l’effetto. Per questo il Signore dice: "Lo convincerà di peccato, perché non hanno creduto in me". Quindi il Paràclito per mezzo dei ministri della predicazione convincerà il mondo del peccato di fornicazione. 11. La giustizia. La giustizia è la virtù con la quale, giudicando rettamente, viene dato a ciascuno il suo. Giustizia è come dire iuris status, stato di diritto. La giustizia è l’abito, la disposizione dell’animo di attribuire ad ognuno l’onore, il credito che gli spetta, tenuto conto dell’utilità comune. Fanno parte della giustizia: il timore di Dio, il rispetto della religione, la pietà, l’umanità, il godere del giusto e del buono, l’odio del male, l’impegno della riconoscenza. Il mondo non ha questa giustizia perché non teme Dio, disonora la religione, odia il bene ed è ingrato verso Dio. Sarà convinto riguardo alla giustizia che non ha praticato, perché non ha punito se stesso, secondo giustizia, per i peccati commessi. Sarà convinto riguardo alla giustizia, non la sua, ma quella dei credenti: dal confronto con essi riceverà la condanna. Cristo non disse: Il mondo non mi vedrà, ma "Voi", apostoli, "non mi vedrete", e questo contro i mondani, i quali dicono: Come possiamo credere a ciò che non vediamo? È vera giustizia, è cioè fede giustificante, credere in ciò che non si vede. Oppure, "convincerà il mondo riguardo alla giustizia" dei santi. Dice il Signore per bocca di Zaccaria: "Sarà teso su Gerusalemme il filo a piombo" ( Zc 1,16 ). Il filo a piombo, o piombino, è strumento del muratore, detto in lat. perpendiculum da perpendo, controllare, verificare. È formato da un piombo, o da una pietra legata ad un filo, e con esso si controlla la perpendicolarità delle pareti. La giustizia dei santi ( la loro santità ) è come un filo a piombo che viene teso su Gerusalemme, vale a dire su ogni anima fedele, affinché misuri e conformi la sua vita sull’esempio della loro. Ogni volta che si celebrano le feste dei santi, viene teso questo filo a piombo sulla vita dei peccatori; e quindi celebriamo le feste dei santi per avere dalla loro vita una regola per la nostra. È assurdo perciò, è una presa in giro, nelle solennità dei santi volerli onorare con i cibi, con grandi mangiate, quando sappiamo che essi sono saliti al cielo con i digiuni. Amando il mondo e la sua gloria, curando il corpo con i suoi piaceri e accumulando denaro non imitiamo certo la vita dei santi: perciò la loro giustizia ( santità ) sarà la prova che noi meritiamo la dannazione. 12. Il giudizio. Osserva che in ogni giudizio si richiedono sei persone: il giudice, l’accusatore, il reo e tre testimoni. Il giudice è il sacerdote; l’accusatore e il reo è il peccatore, che deve accusare se stesso come reo; i tre testimoni sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione ( o penitenza ), che testimoniano a favore del peccatore, che sia veramente pentito. Dice Agostino: "Sali, o peccatore al tribunale della tua mente: la ragione sia il giudice, la coscienza sia l’accusatore, il dolore sia il tormento, il timore il carnefice; il posto dei testimoni sia tenuto dalle opere. I mondani che non vogliono sottoporsi a tale giudizio, saranno condannati con sentenza eterna e irrevocabile nell’esame dell’ultimo giudizio, insieme con il loro principe, il diavolo, che è già stato giudicato. L’apostolo Giacomo per istruire questi uomini a guardarsi dal peccato, ad amare la giustizia, a temere il giudizio, nella seconda parte dell’epistola di oggi soggiunge: "Lo sapete bene, fratelli miei dilettissimi: ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento invece a parlare e lento all’ira; perché l’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio" ( Gc 1,9-20 ). Ogni uomo dev’essere pronto ad ascoltare ciò che dice l’Apostolo: "Fuggite la fornicazione" ( 1 Cor 6,18 ). 13. Dice il Signore con le parole del salmo: "Se mi ascolterai, non ci sarà in mezzo a te un nuovo dio, e non adorerai un dio straniero" ( Sal 81,9-10 ). Il "nuovo dio" è il ventre che cerca sempre nuovi cibi. Questo dio è in coloro dei quali l’Apostolo dice: "Il loro dio è il ventre, si gloriano di ciò che è la loro vergogna, tutti intenti alle cose della terra" ( Fil 3,19 ). Il "dio straniero" che rende l’uomo straniero a Dio, è la lussuria. Essa è il dio Beelfegor ( BaalPeor ), nome che s’interpreta "colui che divora le cose antiche". È appunto la lussuria, male antico, antico morbo che divora tutti i beni. Concorda con questo, ciò che leggiamo nel libro dei Numeri: "Il popolo fornicò con le figlie di Moab, ed esse lo indussero a partecipare ai loro sacrifici. Il popolo mangiò e si prostrò ad adorare i loro dèi. E così Israele abbracciò il culto di Beelfegor. Il Signore, adirato, disse a Mosè: Prendi tutti i capi del popolo e falli impiccare ai patiboli contro il sole, affinché la mia ira ardente si allontani da Israele" ( Nm 25,1-4 ). Le figlie di Moab, nome che s’interpreta "dal padre", sono la gola, la lussuria e gli altri vizi che hanno per padre il diavolo: con queste "figlie di Moab" il popolo del mondo si dà alla fornicazione. Mangiano e adorano i loro dèi, perché sono dediti alla gola e alla lussuria: per questo "i capi del popolo" devono essere appesi ai patiboli. I capi del popolo sono i cinque sensi del corpo, che a motivo dei peccati commessi devono essere appesi al patibolo della penitenza. E questo "contro il sole". Nel sole è indicata la gloria del mondo: poiché con essa abbiamo peccato, contro di essa insistiamo con le opere di penitenza. Oppure, "contro il sole": se abbiamo peccato pubblicamente, pubblicamente facciamo penitenza. Considera che Origène si serve di questo passo dei Numeri – "Prendi tutti i capi del popolo …" – per applicarlo agli angeli, e dice: "Se l’angelo spera la ricompensa per il bene che noi, a lui affidati in custodia, abbiamo compiuto, teme anche di essere incolpato per ciò che abbiamo fatto di male. Per questo è detto che saranno esposti contro il sole, perché si veda chiaramente per colpa di chi sono stati commessi i peccati con i quali abbiamo aderito a Beelfegor o ad altro idolo, a seconda del peccato commesso. E se il capo, cioè l’angelo assegnato a ciascuno, non mancò, ma esortò al bene e parlò nel mio cuore per mezzo della coscienza che mi distoglieva dal peccare, e io, respinti i suoi consigli e il freno della coscienza, mi sono gettato nei peccati, mi sarà raddoppiata la pena per aver disprezzato il consigliere e per aver commesso il delitto. E non farti meraviglia che anche gli angeli vengano al giudizio insieme con gli uomini. Il Signore stesso infatti verrà al giudizio con i capi del suo popolo. Commentando sempre questo passo, Origène dice ancora: Secondo l’Apocalisse di Giovanni, ad ogni singola chiesa presiede in generale un angelo, il quale, o viene encomiato per il buon comportamento del popolo, oppure viene interrogato sui delitti che sono stati commessi. Questo fatto mi induce all’ammirazione dello stupendo mistero, che ci sia in Dio tanta sollecitudine nei nostri riguardi da permettere che anche i suoi angeli siano interrogati e anche rimproverati per noi ( cf. Ap 1,20–3,22 ). Avviene infatti come quando si affida un fanciullo a un educatore: se risulta istruito in materie meno convenienti ne viene incolpato l’educatore, a meno che il fanciullo, testardo, protervo e insolente, non abbia sprezzato le salutari ammonizioni dell’educatore. Ciò che avverrà di quell’anima, ce lo dice Isaia: "La figlia di Sion sarà abbandonata, come un capanno in una vigna" ( Is 1,8 ). E la Glossa: Dio ha maggior sollecitudine della salvezza di un’anima, che il diavolo della sua dannazione. 14. "Sia, dunque, ogni uomo pronto ad ascoltare". Ogni uomo dovrebbe essere pronto per natura ad ascoltare: infatti l’orecchio è chiamato in lat. auris, quasi àvide rapiens, che afferra avidamente, o anche hauriens sonum, che raccoglie il suono. E osserva che nella parte posteriore del capo non c’è carne, né il cervello; nella parte posteriore del capo c’è l’apparato dell’udito. E questo è giusto perché la parte posteriore del capo è vuota, piena d’aria, e lo strumento dell’udito è "aereo", e quindi l’uomo sente subito, a meno che non vi sia frapposto un impedimento. Nel capo, vale a dire nella mente, nella quale non c’è la carne della propria volontà ma l’aria della devozione, passa velocemente la voce dell’obbedienza, e quindi è detto: "All’udirmi, subito mi obbedì" ( Sal 18,45 ). E Samuele nel primo libro dei Re, dice: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta" ( 1 Sam 3,10 ). E affinché l’obbedienza penetri più velocemente è necessario che sia aerea, pura, sensibile alle cose celesti, niente ritenendo della terra. "Sia dunque ogni uomo pronto ad ascoltare". "E lento a parlare". La natura stessa ha insegnato questo, quasi chiudendo la lingua a doppia porta, perché non uscisse liberamente. La natura infatti ha posto davanti alla lingua come due porte, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire se non con grande cautela. Queste due porte aveva chiuso con cautela colui che diceva: "Ho posto una custodia alla mia bocca e una porta che circondi le mie labbra" ( Sal 141,3 ). Dice giustamente "una porta che circondi" ( lat. ostium circumstantiae ), perché si deve guardarsi non solo dalle parole illecite ma anche dalle occasioni di parlare illecitamente. Per esempio, ci sono certi che si vergognano di denigrare qualcuno apertamente, ma poi lo fanno sotto l’apparenza della lode e, quel che è peggio, fanno questo perfino in confessione. E fa’ attenzione, perché non si deve chiudere solo la porta dei denti ma anche quella delle labbra. Chiude la porta dei denti e quella della labbra colui che si rifiuta sia alla calunnia che all’adulazione. Ma la lingua, "male ribelle", come dice Giacomo, "piena di veleno mortale" ( Gc 3,8 ), fuoco che incendia la foresta delle virtù, che incendia il corso della nostra vita ( cf. Gc 3,5-6 ), sfonda la prima e la seconda porta, esce in piazza come una meretrice, loquace e raminga, insofferente della quiete, e porta ovunque lo scompiglio ( cf. Pr 7,8-11 ). Di essa dice infatti il beato Bernardo: "Chi potrà calcolare quante abiezioni commetta il piccolo membro della lingua, quale cumulo di sporcizia si ammassi su labbra incirconcise, quanto grande sia il danno arrecato da una bocca sfrenata. Nessuno sottovaluti il tempo che si perde in parole oziose. Appunto perché ora è il tempo favorevole e il giorno della salvezza, la parola se ne vola via irrevocabile, e il tempo passa irrimediabilmente; e lo stolto non sa quello che perde. Dicono alcuni: "Si potrà pure passare un’ora in conversazione". Quell’ora te l’ha concessa la generosità del creatore per ottenere il perdono, per cercare la grazia, per fare penitenza, per guadagnarti la gloria". E continua: "Non esitare a definire la lingua del calunniatore più crudele della lancia che ha trafitto il fianco del Signore. La lingua infatti trafigge il corpo di Cristo: ma non lo trafigge dopo morto, bensì lo uccide proprio trafiggendolo. E neppure furono più dannose le spine che punsero il suo capo, né i chiodi che perforarono le sue mani e i suoi piedi", se confrontati con la lingua del calunniatore che trafigge il cuore stesso. Dice il Filosofo: "Non dire cose turpi: a poco a poco per mezzo delle parole si perde il pudore" ( Seneca ). "Mi sono pentito talvolta di aver parlato, mai di aver taciuto" ( P. Siro ). "Usa più spesso gli orecchi che la lingua" ( Seneca ). Sia dunque ogni uomo "lento a parlare", e così potrà imitare la giustizia dei santi, perché, come afferma Giacomo, "colui che non pecca con la parola è un uomo perfetto" ( Gc 3,2 ). "E lento all’ira", la quale impedisce all’animo di distinguere la verità. Dice in proposito il Filosofo: "Quanto meno dominerai l’ira, tanto più dall’ira sarai dominato" ( Orazio ). "L’iracondo, quando smette di adirarsi, si adira contro se stesso" ( P. Siro ). "L’ira non è mai stata capace di riflessione" ( P. Siro ). Giustamente quindi è detto: "L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio". Sia perciò ogni uomo "lento all’ira", per non essere colpito, nel giorno dell’ira, dall’irrevocabile sentenza di dannazione, insieme con il diavolo. III. L’ispirazione dello spirito di verità 15. "Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi insegnerà la verità tutta intera" ( Gv 16,13 ). Quando una donna – cioè il piacere della carne e la vanità del mondo – si appresta ad accalappiare le anime, illude l’infelice spirito dell’uomo con il falso piacere e stravolge il senno. Per questo nel libro della Sapienza si legge: "Il fascino della vanità deturpa anche il bene e l’incostanza della concupiscenza perverte la mente" ( Sap 4,12 ). Il fascino è l’adulazione, ossia l’inganno con la lode. Il fascino della vanità è la lode dell’adulazione o l’inganno della prosperità mondana, la quale oscura i beni spirituali, e l’incostanza della concupiscenza carnale sconvolge l’animo. Ma quando verrà lo Spirito di verità che illumina il cuore dell’uomo, allora insegnerà tutta la verità ed espellerà ogni falsità. È scritto nel vangelo di Giovanni che l’angelo del Signore scendeva nella piscina: l’acqua si agitava e uno veniva risanato ( cf. Gv 5,4 ). Quando l’angelo del Signore, cioè la grazia dello Spirito Santo, discende nella piscina, vale a dire nel cuore del peccatore, allora la mente si agita con l’acqua della compunzione e "uno" viene risanato, cioè il vero penitente, che dev’essere "uno", non aver cioè divisione tra bocca e cuore. Quando dunque verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà", cioè infonderà in voi "tutta la verità". E ricorda bene che come la generazione non può avvenire senza l’elemento attivo, così l’uomo non può fare opere veramente buone senza lo Spirito di verità. 16. La palma, che è femmina, non porta a maturazione frutti, se non riceve, per mezzo del vento che lo trasporta, il caldo effluvio di un’altra palma che sia maschio ( Plinio ). Dice l’Ecclesiastico: "Sono cresciuta come una palma in Cades" ( Sir 24,18 ). Cades s’interpreta "trasportata" o "cambiata". L’uomo non può fare progressi senza la grazia dello Spirito Santo, come la palma non fruttifica senza l’effluvio della palma maschile. Quindi l’uomo che è privo della grazia non è atto al servizio di Dio, ed è paragonabile a colui che è privo di testicoli, perché non ha la capacità di generare opere buone. Si legge in proposito nel Levitico: "Non offrirete al Signore nessun animale al quale siano stati ammaccati o schiacciati o strappati o tagliati i testicoli" ( Lv 22,24 ). Ha i testicoli ammaccati colui che ha la grazia "informe", e quindi non può generare. Sono invece stati tolti i testicoli a colui che non ha né la grazia "informe" né la grazia "formata". "Ma quando verrà lo Spirito di verità, vi insegnerà tutta la verità". Concorda con questo la terza parte dell’epistola di oggi: "Per questo, rigettata ogni impurità e ogni manifestazione di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime" ( Gc 1,21 ). "Per questo", cioè per meritare di ricevere lo Spirito Santo, "rigettata ogni impurità" sia dell’anima che del corpo, "e ogni manifestazione di malizia", che sono i pensieri di una mente depravata, "con docilità", poiché i docili ( i miti ) erediteranno la terra ( cf. Sal 37,11 ), "accogliete la parola seminata in voi", parola che è data da Dio solo ai miti, ai docili, a coloro che hanno la mitezza delle colombe. E osserva infine che, come un innesto praticato in una pianta vecchia, la fa ringiovanire e fruttificare, così lo Spirito di verità, quando viene infuso in una mente "invecchiata nel male" ( Dn 13,52 ), la fa ringiovanire e la rende atta a produrre frutti degni di penitenza. Ti preghiamo, dunque, o Signore Gesù, che sei salito da questo mondo al Padre nella forma della nostra umanità, di trascinarci dietro a te con la fune del tuo amore. Ti preghiamo di non accusarci di peccato, di aiutarci ad imitare la giustizia dei santi, di farci temere il tuo giudizio e di infonderci lo Spirito di verità che ci insegni la verità tutta intera. Accordaci tutto questo, tu che sei benedetto e glorioso per tutti i secoli. E ogni anima dica: Amen, alleluia! Domenica V dopo pasqua Temi del sermone – Vangelo della quinta domenica dopo Pasqua: "In verità, in verità vi dico, qualunque cosa chiederete"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sull’unzione della grazia: "La sua unzione", e "Sadoc e Natan unsero Salomone". – Parte I: Sermone sul Padre: "Padre nostro, che sei nei cieli"; il nato della cicogna. – Sermone sull’amore di Dio: "Ti darò una terra dove scorre latte e miele". – Sermone contro coloro che chiedono cose temporali: "Finora non avete chiesto nulla". – Sermone sul gaudio dei giusti e su quello dei carnali: "Fiorirà il mandorlo", e sugli ònagri. – Sermone sulle tre particolarità dello specchio e sul significato di esse: "Se uno è solo ascoltatore della parola". – Parte II: Sermone per l’annunciazione, o per la natività o per la passione del Signore: "Mosè disse ad Aronne: Prendi il turibolo". – Parte III: Sermone sulla misericordia di Dio, il suo giudizio e la sua potenza: "Colui che comanda al sole, e il sole non nasce". – Sermone per esortare alla mortificazione del corpo: "Colui che creò arturo e orione". – Sermone per il giorno della Pentecoste: "Alzati, o aquilone". – Sermone sull’osservanza del silenzio e sulle varie istituzioni dei religiosi: "Se qualcuno pensa di essere religioso". Esordio - Sermone sull’unzione della grazia 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà" ( Gv 16,23 ). Dice Giovanni nella sua prima lettera: "La sua unzione vi istruisce su ogni cosa" ( 1 Gv 2,27 ). Osserva che l’unzione è duplice: la prima è l’infusione della grazia, della quale dice il profeta: "Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali" ( Sal 45,8 ). O Dio Figlio, il Dio Padre tuo ti ha unto, in quanto uomo, con l’olio di letizia, cioè con il dono della grazia settiforme, che ti ha reso immune da ogni peccato; "a preferenza dei tuoi eguali", perché a te lo Spirito è stato infuso senza misura, mentre agli altri è stata infuso con certe limitazioni. Infatti leggiamo in Giovanni: "Dalla su apienezza noi tutti abbiamo ricevuto" ( Gv 1,16 ). La seconda unzione è la predicazione della parola di Dio, della quale è detto nel terzo libro dei Re, che Zadoc e Natan unsero Salomone in Gichon ( cf. 1 Re 1,38-39 ). Zadoc s’interpreta "giustizia", Natan "dono della grazia", Salomone "pacifico", Gichon "lotta". La giustizia della vita onesta e il dono della grazia, vale a dire la predicazione della parola di Dio, ungono il peccatore, riconciliato con Dio in Gichon per mezzo della confessione, affinché, spoglio dei peccati e delle cose temporali, sia in grado di lottare contro il diavolo. Quando la prima unzione unge interiormente l’anima, la seconda diventa molto efficace. Ma se la prima manca, la seconda non ha più alcuna efficacia. Perciò la Glossa commenta: La sua unzione ci istruisce su tutto. Nessuno attribuisca a chi insegna ciò che sente e comprende dalla bocca di lui, se non c’è all’interno uno che istruisce. La lingua del maestro si affatica invano all’esterno; non per questo il maestro deve tacere, anzi deve fare quanto sta in lui, perché la sua predicazione è utile a creare le buone disposizioni. Infatti l’unzione dell’ispirazione interiore, o della predicazione del Signore, ci istruisce su tutte le cose riguardanti la salvezza dell’anima, che sono: il disprezzo del mondo, l’umile sentire di sé, la ricerca della felicità celeste. E a questo proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: "In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la concederà". 2. In questo vangelo si devono considerare tre momenti. Primo, la richiesta della gioia perfetta, quando dice: "In verità, in verità vi dico", ecc. Secondo, la supplica di Gesù Cristo al Padre per noi: "Io pregherò il Padre per voi". Terzo, la conoscenza che ha Cristo stesso di tutte le cose: "Adesso conosciamo che sai tutto". Nell’introito della messa di questa domenica si canta: "Con voce di giubilo annunziate …" ( Is 48,20 ), e si legge l’epistola del beato Giacomo: "Siate esecutori della Parola" ( Gc 1,22 ). Divideremo il brano dell’epistola in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. Ecco le tre parti dell’epistola: primo: "Siate esecutori della Parola"; secondo, "chi invece fissa lo sguardo nella legge della perfetta libertà"; terzo, "se qualcuno pensa di essere religioso", ecc. I. Chiedere la pienezza del gaudio 3. "In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" ( Gv 16,23-24 ). "In verità", si dice in ebraico amen, ed è un’affermazione solenne, un giuramento. La Verità ( Gesù Cristo ) ci promette la gioia ripetendo due volte la parola del giuramento, affinché crediamo senza alcun dubbio a ciò che dice. "Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome". Fa’ attenzione a queste tre parole: Padre, qualcosa, nel mio nome. Non può essere chiamato padre se non colui che ha un figlio, perché padre e figlio sono due nomi correlativi. Quando dice "padre", pensa al "figlio", del quale è padre. Il Padre è Dio, di cui noi siamo i figli e al quale ogni giorno diciamo: "Padre nostro, che sei nei cieli" ( Mt 6,9 ). Anche Isaia dice: "Tu, Signore, sei il nostro Padre, il nostro redentore: da sempre questo è il tuo nome" ( Is 63,16 ). E Dio stesso ci dice con le parole di Geremia: "Ed ora grida verso di me: Padre mio, sei tu la guida della mia verginità" ( Ger 3,4 ). La verginità dell’anima è la fede, che agisce per mezzo dell’amore ( cf. Gal 5,6 ) e preserva l’anima dalla corruzione: è Dio Padre che, come un condottiero, guida l’anima alla fede. Noi, figli, dobbiamo dunque chiedere al nostro Padre qualcosa. Tutto ciò che esiste è nulla, eccetto amare Dio. Amare Dio è qualcosa; è questo qualcosa che dobbiamo chiedere, e cioè che noi, figli, amiamo il nostro Padre, come il figlio della cicogna ama il padre suo. Si dice che il nato della cicogna ami così tanto il padre, che, quando invecchia, lo sostenta e lo nutre, e questo fa parte delle sue caratteristiche ( del suo istinto ). Così in questo mondo che va ormai invecchiando, noi dobbiamo sostentare il nostro Padre nelle sue membra deboli e ammalate, nutrirlo nei poveri e nei bisognosi. Egli ha detto: Ciò che avete fatto ad uno solo di questi miei più piccoli, l’avete fatto a me ( cf. Mt 25,40 ). Se chiederemo l’amore, il Padre stesso che è amore, ci darà ciò che egli è: appunto l’amore. 4. Dio stesso dice nell’Esodo: "Ti darò una terra dove scorre latte e miele" ( Es 13,5 ). Fa’ attenzione a queste quattro parole: terra, scorre, latte e miele. La terra, per la sua stabilità, simboleggia l’amore di Dio, che dà all’uomo la sicurezza di essere nella verità. Infatti Salomone dice: "Una generazione passa, una generazione viene: la terra invece resta in eterno" ( Qo 1,4 ). La generazione, cioè l’amore della carne, passa, e una generazione, cioè l’amore del mondo, viene; la terra invece, cioè l’amore di Dio, resta in eterno, perché, come dice l’Apostolo, "l’amore non avrà mai fine" ( 1 Cor 13,8 ). Di questa terra è detto: "scorre", a motivo della sua abbondanza. E anche nel salmo leggiamo: "L’esuberanza del fiume rallegra la città di Dio" ( Sal 46,5 ), cioè l’anima, nella quale Dio ha la sua dimora. Questa terra abbonda di latte e miele. Il latte nutre, il miele addolcisce: così l’amore di Dio nutre l’anima perché cresca di virtù in virtù e addolcisce il tormento di tutte le tribolazioni. "Per chi ama, nulla è difficile" ( Cicerone ). Quando la dolcezza dell’amore divino viene a mancare, l’amarezza della tribolazione, anche la più piccola, diventa intollerabile. Ma il legno rese dolci le acque di Mara ( cf. Es 15,23.25 ); la farina del profeta Eliseo rese commestibili le amare colloquintidi ( cocomeri selvatici ) ( cf. 2 Re 4,39-41 ). Così l’amore di Dio cambia in dolcezza ogni amarezza. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Il mio Spirito è dolce, e la mia eredità supera in dolcezza il miele e il favo di miele" ( Sir 24,27 ). Lo Spirito del Signore è lo spirito di povertà, del quale dice Isaia: "Lo Spirito dei forti è come il turbine che si abbatte sulla parete" ( Is 25,4 ). I forti sono i poveri, che non vacillano né nella prosperità né nelle avversità; il loro spirito ( soffio ), come il turbine, si abbatte sulla parete delle ricchezze, della quale ancora Isaia dice: "Lo scudo ha messo a nudo la parete" ( Is 22,6 ). Lo scudo è detto in lat. clipeus, in quanto clepit, cioè cela, nasconde, protegge il corpo: simboleggia lo spirito di povertà che nasconde, ripara l’anima dai dardi dei demoni. Questo scudo spoglia la parete delle ricchezze. L’eredità del Signore fu la passione della croce, che ha lasciato ai suoi figli. Infatti ha detto: "Fate questo in memoria di me" ( Lc 22,19 ), cioè in ricordo della mia passione. L’Apostolo, in quanto erede, possedeva questa eredità quando diceva: Porto nel mio corpo le stimmate di Cristo ( cf. Gal 6,17 ). Quindi lo spirito di povertà e l’eredità della passione sono, per il cuore del vero amante di Cristo, più dolci del miele e di un favo di miele. Giustamente perciò è detto: "Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome". Il nome di Cristo è in ebraico "Messia"; Cristo è termine greco e significa "Unto", cioè consacrato; in greco è chiamato anche Sotèr, cioè Salvatore. Quindi nel nome del Salvatore domandiamo al Padre che, se non per noi, almeno per il Figlio suo, per mezzo del quale ha salvato il genere umano, ci conceda il privilegio del suo amore; preghiamolo con le parole del Profeta: "O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo e fissa il volto del tuo Cristo" ( Sal 84,10 ); come dicesse: Se non vuoi guardare a noi per amor nostro, guarda almeno il volto del tuo Cristo, per noi colpito dagli schiaffi, lordato dagli sputi, illividito nella morte. "Guarda al volto del tuo Cristo!". E quale Padre non guarderebbe al volto del figlio morto? Quindi anche tu, o Padre, guarda a noi, perché il Cristo tuo Figlio è morto per noi, che siamo stati la causa della sua morte. Come egli ci ha comandato, noi ti chiediamo nel suo nome che tu dia a noi te stesso, perché senza di te non c’è esistenza. Dice infatti Agostino: "Signore, se tu vuoi che io mi allontani da te, dammi un altro te stesso: altrimenti io da te non mi allontano". 5. Perciò dice giustamente: "In verità, in verità vi dico: Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome, ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome". Commenta la Glossa: Fiduciosi nella mia presenza, non avete mai chiesto qualcosa, che sia cioè qualcosa, anche paragonato a ciò che è eterno. In questo passo il Signore rimprovera coloro che chiedono cose temporali, che sono un nulla. Di costoro dice Osea: "La vostra misericordia è come nube del mattino, e come la rugiada al mattino svanisce" ( Os 6,4 ). Come dicesse: Quando domandate a Dio misericordia, voi domandate cose temporali che sono come le nubi del mattino, le quali sono soltanto aria ispessita, come vanità ispessita. Così i beni temporali sono come un nulla; ma quel nulla, per sembrare qualcosa, è come avvolto in certe apparenze fantasmagoriche. Le nubi impediscono la vista del sole, e l’abbondanza delle cose temporali toglie la conoscenza di Dio. Giobbe infatti dice: "Il grasso copre la sua faccia" ( Gb 15,27 ), perché la pinguedine della ricchezza acceca gli occhi della mente. Infatti leggiamo nel salmo: "Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole" ( Sal 58,9 ). Il fuoco dell’amore delle cose terrene acceca gli occhi dell’uomo, come una padella bollente acceca gli occhi dell’orso. Quindi "la vostra misericordia, come nube del mattino e come rugiada che all’alba si dissolve", viene meno quando il sole brucia, proprio quando più sarebbe necessaria; le erbe e i fiori restano esposti all’ardore del sole e così ne sono bruciati. Anche la felicità terrena dà qualche sollievo in questo mondo, ma purtroppo avvia gli uomini agli eterni supplizi. Leggiamo in Naum: "Ninive, le sue acque sono come una pozzanghera" ( Na 2,8 ). Ninive s’interpreta "splendida", e simboleggia il mondo che si copre di falsa bellezza, come il fango coperto di neve; il suo conforto è paragonato a quello di una pozzanghera che abbonda di acqua d’inverno ma si secca d’estate. Il mondo infatti abbonda ora delle acque della ricchezza ma, quando arriva la vampa della morte, sarà svuotato delle ricchezze e consegnato agli eterni supplizi. Perciò finora non avete chiesto nulla, e se avete chiesto, non l’avete fatto nel mio nome, vale a dire per la salvezza dell’anima vostra. L’ordine con il quale dobbiamo chiedere e supplicare ce lo indica l’Apostolo, scrivendo a Timoteo: "Ti raccomando dunque che prima di tutto si facciano suppliche, orazioni, domande e ringraziamenti" ( 1 Tm 2,1 ). La supplica, tra le pratiche spirituali, è una fervorosa e insistente preghiera a Dio: in queste pratiche chi, prima della grazia soccorritrice, mette la sua cultura, non mette altro che dolore. L’orazione invece è il sentimento dell’uomo che si mette in rapporto con Dio, un pio e familiare colloquio, la sosta della mente illuminata per fruirne, per quanto è possibile. La domanda è la preoccupazione, l’ansia di ottenere alcune cose temporali, necessarie alla vita presente: in questo caso Dio, pur considerando la buona volontà di chi prega, fa tuttavia ciò che egli giudica più utile ed esaudisce volentieri colui che domanda rettamente. Di questa specie di preghiera, la domanda, dice il salmista: "La mia preghiera è volta alle cose che anch’essi amano" ( Sal 141,5 ), cioè gli empi; infatti in generale è di tutti, e soprattutto dei figli di questo secolo, desiderare la tranquillità della pace, la salute del corpo, la clemenza del tempo e le altre cose che riguardano le esigenze e i bisogni di questa vita, nonché i piaceri di chi ne abusa. Chi domanda con coscienza queste cose, non le chieda se non per necessità, e in questo modo sottomette sempre la propria volontà a quella di Dio. In queste domande si deve pregare con devozione e con coscienza: ma non bisogna ostinarsi in quelle richieste, perché solo il Padre che è nei cieli sa che cosa ci è necessario in questa vita, e non noi. Infine il ringraziamento consiste nel comprendere e nel riconoscere la grazia di Dio e la sua volontà salvifica, nel continuo e instancabile orientamento a Dio, anche se qualche volta l’atto esteriore o l’affetto interiore non ci sono o sono alquanto tiepidi. Dice in proposito l’Apostolo: "C’è in me la volontà, ma non trovo la via per compiere il bene" ( Rm 7,18 ); come dicesse: C’è sempre la volontà, ma talvolta dorme, cioè è inefficace; perché io cerco di compiere l’opera buona, ma non ne trovo il modo. Questa è la carità, che non viene mai meno ( cf. 1 Cor 13,8 ); con la carità si realizza "la preghiera senza interruzione", e il rendimento di grazie, di cui dice l’Apostolo: "Pregate senza cessare mai" ( 1 Ts 5,17 ), "rendendo sempre grazie a Dio" ( Ef 5,20 ). Ben a ragione quindi dice: "Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena". 6. Osserva che c’è una gioia vuota, quella dei carnali, e una gioia piena, quella dei santi. Della gioia vuota dei carnali, dice Isaia: "La gioia degli ònagri ( asini selvatici ) sono i pascoli dei greggi" ( Is 32,14 ). Ci sono due specie di ònagri: la prima ha le corna e si trova in Grecia; di essa dice Giobbe: "Chi ha lasciato libero l’ònagro e chi ha sciolto i suoi legami?" ( Gb 39,5 ); la seconda specie si trova in Spagna, e di questa dice sempre Giobbe: "Il vanaglorioso si innalza nella sua superbia e si crede libero come il puledro dell’ònagro" ( Gb 11,12 ). Parimenti in questo mondo ci sono due specie di ònagri, cioè di superbi. Ci sono appunto alcuni che vanno tronfi delle "corna" della loro dignità; altri che vanno in superbia solo per la vanità della loro mente, e scuotono da sé il giogo dell’obbedienza. Quindi gioia degli ònagri sono i pascoli dei greggi, cioè dei poveri: ma coloro che ingoiano e depredano i beni dei poveri, saranno essi stessi preda del diavolo. Dice infatti Salomone: "La preda di caccia del leone, cioè del diavolo, è l’ònagro nel deserto" ( Sir 13,23 ); e Isaia: "Guai a te, che depredi! Non sarai forse anche tu depredato?" ( Is 33,1 ). Della gioia vuota dei carnali dice ancora Salomone: "Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero" ( Qo 12,5 ). Come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante, così l’uomo carnale brama il fiore in questo mondo, ma nell’altro resterà nudo di ogni fiore: del suo fiore caduco s’ingrasserà la locusta, cioè il diavolo; la grassezza del diavolo, se così si può dire, consiste nella gioia sfrenata della gloria temporale; e il cappero della concupiscenza carnale e della gloria mondana sarà disperso. Dice infatti Giacomo: "Il ricco passerà come il fiore d’erba. Si leva il sole con il suo ardore e fa seccare l’erba; il suo fiore cade, la bellezza del suo volto svanisce: il ricco appassirà nelle sue imprese" ( Gc 1,10-11 ). La radice è la concupiscenza della carne; il fiore è il godimento delle cose temporali. Al sopraggiungere del sole, cioè all’arrivo dell’inesorabilità della morte e della severità del giudice, la radice si secca, il fiore cade, la bellezza del suo volto, cioè l’onore del mondo, gli amici e i vicini, svaniranno. Per questo la gioia del mondo è vuota. Invece della gioia piena e vera della vita eterna, dice sempre Salomone: "Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero". Osserva che la gioia dei santi consiste in tre cose: nella risurrezione del corpo, nella beatitudine dell’anima, nella liberazione dallo stimolo della carne e della tentazione diabolica. Il mandorlo, cioè il corpo, fiorirà di quattro prerogative: la luminosità, l’agilità, la sottigliezza e l’immortalità. E la locusta, cioè l’anima, si sazierà della visione di Dio, della beatitudine degli angeli, della compagnia dei santi. E allora sarà disperso il cappero, cioè lo stimolo della carne, la tentazione del demonio. Scrive infatti l’Apostolo ai Corinzi: "Quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità, allora si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato" ( 1 Cor 15,54-56 ). Allora sarà disperso il cappero perché, come dice il Profeta, gli estranei non passeranno più per Gerusalemme ( cf. Gl 3,1 ), vale a dire i demoni non tenteranno più il giusto, e la mala bestia, cioè la concupiscenza della carne, non passerà più per la sua anima ( cf. Is 35,9 ). 7. Con questa duplice gioia, cioè quella vuota e quella piena, concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Siate esecutori della Parola e non solo uditori, ingannando voi stessi. Perché se uno è uditore della parola ma non esecutore, questi è paragonabile a un uomo che esamina il suo volto allo specchio: lo considera e poi se ne va, e subito dimentica come era" ( Gc 1,22-24 ). Esecutori della parola di Dio sono coloro che domandano la gioia piena e la ricevono; solo ascoltatori sono quelli che si sforzano di conseguire la gioia vuota del mondo. A questo proposito dice il salmo: "È tempo di agire, Signore", non solo di ascoltare o di parlare; "hanno violato la tua legge" ( Sal 119,126 ) coloro che ascoltano e non agiscono. E Salomone: "Chi distrugge la siepe", cioè la legge, "lo morderà il serpente" ( Qo 10,8 ), cioè il diavolo. Viola la legge colui che non vive secondo quanto dice o ascolta; di lui appunto è detto: "Se uno è solo uditore della parola e non esecutore", ecc. Osserva che lo specchio non è altro che un vetro sottilissimo, nel quale si devono considerare tre caratteristiche: lo scarso valore, la fragilità e la trasparenza. Il vetro è una materia di poco valore, perché è fabbricato con un po’ di sabbia, è di sostanza fragile e trasparente nella sua chiarezza; posto contro il sole, risplende come un altro sole. È detto specchio perché riflette lo splendore, oppure perché le donne, guardandolo, ammirano la bellezza ( lat. species ) del loro volto, o anche perché è trasparente come il vetro. E il vetro è così chiamato perché risplende con chiarezza allo sguardo ( lat. vitrum, visum ). Lo specchio, o il vetro, simboleggia la sacra Scrittura, nel cui splendore sta il volto della nostra origine: da dove siamo nati, quali siamo nati, e a che scopo siamo nati. Da dove siamo nati, si riferisce alla meschinità della nostra origine fisica; quali ( di che natura ) siamo nati, riguarda la fragilità della nostra sostanza; a che scopo siamo nati, si riferisce alla dignità della gloria, nella quale, se saremo stati esecutori della Parola, per la vicinanza con il vero sole, come il sole risplenderemo. Nello specchio della sacra dottrina si ritrovano queste tre carateristiche. Sul poco valore della materia, sta scritto nella Genesi: "Sei cenere e in cenere ritornerai" ( Gen 3,19 ). Sulla fragilità della nostra sostanza dice il salmo: "I nostri anni saranno considerati come tela di ragno" ( Sal 90,9 ). Che cos c’è di più fragile, di più inconsistente della tela di ragno? E che cos’è la vita dell’uomo corruttibile, che si consuma per una piccola lesione e per una anche minima febbriciattola? Della luminosità poi è detto nel vangelo: "I giusti splenderanno come il sole", ecc. ( Mt 13,43 ). In questo specchio il misero uomo osserva il volto della sua nascita, come sia nato, quanto sia fragile, e che cosa sarà di lui, e da queste considerazioni si sente nascere talvolta la compunzione e la volontà di fare penitenza. Ma siccome è solo uditore della Parola, e non esecutore, è amante della gioia vana e vuota, subito dimentica com’era e come si è veduto. Il piacere della vanità scaccia il pensiero della propria salvezza; al contrario, il pensiero della vera gioia produce nell’anima l’amore alla propria salvezza. "Chiedete, dunque, e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena". Di questa gioia si ricorda la chiesa nell’introito della messa di oggi: Con voce di giubilo date l’annuncio fino agli estremi confini della terra ( cf. Is 48,20 ). O predicatori, date l’annuncio di gioia: "Chiedete, affinché la vostra gioia sia piena", non soltanto ai giusti che sono in seno alla chiesa, ma fatelo risuonare fino agli estremi confini della terra, e anche per coloro che sono fuori dei confini, cioè fuori dei comandamenti di Dio, i quali sono per noi come i confini del vivere, perché tutti sentano la voce dell’esultanza e possano conquistare la gioia piena, che non avrà mai fine. A questa gioia ci conduca Gesù Cristo. Amen. II. Gesù Cristo intercede per noi presso il Padre 8. "Io pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre" ( Gv 16,26-27 ). Cristo, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, mediatore tra Dio e gli uomini, prega per noi il Padre. Leggiamo nel Levitico: "Il sacerdote pregherà per loro, e il Signore sarà loro propizio" ( Lv 4,20 ); e di nuovo: "Il sacerdote pregherà per lui e per il suo peccato, e il peccato gli sarà perdonato" ( Lv 4,26 ). Concordano con questo le parole del libro dei Numeri: "Mosè disse ad Aronne: Prendi il turibolo, accendilo con il fuoco dell’altare, mettici sopra l’incenso e va’ subito dal popolo a pregare per loro: perché l’ira del Signore è divampata e il flagello è già incominciato. Aronne eseguì il comando: corse in mezzo alla moltitudine, già colpita dal flagello, offrì gli incensi; e stando tra i morti e i vivi pregò per il popolo, e il flagello cessò" ( Nm 16,46-48 ). "Disse Mosè ad Aronne", cioè il Padre al Figlio: "Prendi il turibolo" dell’umanità, che fu fabbricato per opera di Bezaleel ( cf. Es 31,2 ), che s’interpreta "divino adombramento": adombramento dello Spirito Santo nel grembo della Vergine gloriosa, che dallo Spirito Santo fu appunto "adombrata" ( cf. Lc 1,35 ), apportandole così il refrigerio ed estinguendo totalmente in lei il fomite del peccato. "Riempi" con il fuoco della divinità il turibolo dell’umanità, nella quale abitò corporalmente la pienezza della divinità ( cf. Col 2,9 ). E giustamente dice "dall’altare", perché sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo ( cf. Gv 16,28 ). "E mettivi sopra l’incenso" della tua passione e così, quale mediatore, pregherai per il popolo, che l’incendio del diavolo sta atrocemente devastando. Ed egli, obbediente alla volontà di colui che comandava, preso il turibolo, corse "alla morte, e alla morte di croce" ( Fil 2,8 ). "E stando" sulla croce con le braccia aperte, "tra i morti e i vivi", cioè tra i due ladroni, dei quali uno fu salvato e l’altro dannato – oppure anche tra i morti e i vivi, cioè tra quelli che erano rinchiusi nel carcere dell’inferno e quelli che vivevano nella miseria di questo esilio –, li liberò tutti dall’incendio della persecuzione diabolica offrendo se stesso in sacrificio di soave odore ( cf. Ef 5,2 ). Ben a ragione quindi dice di se stesso: "Io pregherò il Padre per voi". E Giovanni nella sua lettera canonica scrive: "Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto: egli è propiziazione", cioè espiazione, "per i nostri peccati" ( 1 Gv 2,1-2 ). Per questo ogni giorno lo offriamo al Padre nel sacramento dell’altare, perché sempre di nuovo espii per i nostri peccati. Facciamo infatti come fa la donna che ha un bambino piccolo: quando il marito arrabbiato vuole percuoterla, essa, tenendo il bambino tra le braccia, lo mette davanti all’uomo dicendo: Percuoti questo, colpisci questo! Il bambino, con le lacrime agli occhi, soffre insieme con la madre. Invece il padre, che si sente sconvolgere le viscere per le lacrime del figlio che ama immensamente, a motivo del figlio perdona alla moglie. Così anche noi, a Dio Padre adirato per i nostri peccati, offriamo il figlio suo Gesù Cristo nel sacramento dell’altare come patto della nostra riconciliazione; e Dio Padre, se non per riguardo a noi, almeno per riguardo al suo Figlio diletto, allontani da noi i giusti flagelli che abbiamo meritato e ci perdoni ricordando le sue lacrime, le sue sofferenze e la sua passione. Il Figlio stesso infatti dice per bocca di Isaia: "Io ho fatto e io reggerò; io porterò e salverò" ( Is 46,4 ). Fa’ attenzione ai quattro verbi: Io "ho fatto" l’uomo e io lo "reggerò" sulle mie spalle come una pecora smarrita e stanca; io lo "porterò" come la nutrice porta il bimbo tra le braccia. E che cosa può fare il Padre, se non rispondere: "Io salverò"? Giustamente quindi Cristo dice: "Io pregherò il Padre per voi; il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre". Il Padre e il Figlio sono una cosa sola. Il Figlio stesso lo ha affermato: "Io e il Padre siamo una cosa sola" ( Gv 10,30 ). Chi ama il Padre ama anche il Figlio, e il Padre e il Figlio amano lui. Nel vangelo di Giovanni infatti, il Figlio dice: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui" ( Gv 14,21 ). 9. In riferimento a questo amore, concordano anche le parole dell’epistola di oggi: "Chi invece fissa lo sguardo sulla legge della perfetta libertà e le resterà fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi sarà beato nel praticarla" ( Gc 1,25 ). La legge della perfetta libertà è l’amore di Dio, che rende l’uomo perfetto in tutto e libero da ogni schiavitù. Perciò il salmo dice del giusto: "La legge del suo Dio è nel suo cuore" ( Sal 37,31 ). Nel cuore del giusto infatti c’è la legge dell’amore di Dio, e quindi Dio dice: "Figlio, dammi il tuo cuore" ( Pr 23,26 ). Come lo sparviero quando cattura degli uccelli ne cerca prima di tutto il cuore e lo mangia, così Dio nulla ricerca e nulla ama maggiormente nell’uomo come il suo cuore, nel quale c’è la legge dell’amore, e quindi "i suoi passi non vacilleranno" ( Sal 37,31 ). I passi del giusto sono le sue opere o anche gli affetti della mente, che mai vacilleranno, cioè mai sono colti nel laccio della suggestione diabolica, né scivolano nella piazza della vanità mondana. Del laccio parla Giobbe: "Il suo piede sarà preso al laccio e la sete infierirà contro di lui" ( Gb 18,9 ). Il piede dell’iniquo è preso nel laccio della cattiva suggestione e così infierisce contro di lui la sete della cupidigia. Dello scivolamento parla Geremia: "I nostri piedi scivolarono nel cammino verso le nostre piazze" ( Lam 4,18 ). Piazza ( lat. platea ) viene dal greco plàtos, larghezza. I nostri piedi – detti in lat. vestigia, perché per mezzo di essi si invèstiga, cioè si scopre il percorso di chi è passato – stanno ad indicare le opere, in base alle quali uno viene conosciuto. Nella fangosa vastità del piacere mondano scivolano le opere dei peccatori, perché cadono di peccato in peccato e alla fine rovinano nell’inferno. Dice infatti il salmo: "Le loro vie divengano oscure e scivolose, e l’angelo del Signore", cioè l’angelo cattivo ( del Signore, perché anche lui è creatura di Dio ), "li perseguiti" ( Sal 35,6 ), finché li precipiti nell’abisso dell’inferno. Invece i passi del giusto non vacillano, perché nel suo cuore c’è la legge dell’amore, e chi ad essa è fedele "troverà la felicità nell’osservarla". L’amore di Dio infonde la grazia nella vita presente e la beatitudine della gloria in quella futura. Ad essa ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen. III. Il Cristo che tutto sa e conosce 10. "Gli dicono i suoi discepoli: Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio" ( Gv 16,29-30 ). A ragione i discepoli hanno detto: "Ora conosciamo che sai tutto". E su questo abbiamo la testimonianza dell’Apostolo: "La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v’è creatura alcuna che possa nascondersi di fronte a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi" ( Eb 4,12-13 ). La Parola, cioè il Figlio di Dio, per mezzo della quale abbiamo conosciuto la sua volontà, è viva, cioè conferisce la vita; è efficace, cioè capace di effetto, e può con facilità compiere ciò che vuole. La parola di Dio è efficace, perché il Figlio di Dio "operò tutto ciò che volle" ( Sal 115,3 ). Opera ciò che vuole, dove vuole e quando vuole. Dice infatti Giobbe: "Egli comanda al sole, e questo non sorge, e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea le costellazioni di Arturo ( l’Orsa Maggiore ) e di Orione, le Pleiadi e i penetrali dell’Austro. Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero" ( Gb 9,7-10 ). Colui che fa tali cose, conosce e sa veramente tutto. Il Figlio di Dio può fare veramente tutto: egli è vita e potenza. "Comanda al sole, e questo non sorge". Nel sole è raffigurata l’illuminazione della grazia, che sorge quando viene infusa nella mente, e non sorge quando non viene concessa. Dice perciò il Signore: "Avrò misericordia di chi vorrò, e sarò clemente verso chi mi piace" ( Es 33,19 ). E ancora: "Io indurirò il cuore del faraone" ( Es 4,21 ). Si dice che il Signore indurisce il cuore quando toglie la sua grazia, oppure non la concede. Dice infatti per bocca di Osea: "Non visiterò le vostre figlie quando si prostituiranno" ( Os 4,14 ). All’anima peccatrice non può accadere nulla di peggio, come quando il Signore abbandona il peccatore alla depravazione del suo cuore e non lo corregge con il flagello del paterno castigo. "Alle stelle pone il suo sigillo". Il sigillo è un segno che s’imprime su qualche cosa, perché resti nascosta finché il sigillo non verrà rimosso. Le stelle raffigurano i santi, che Cristo mette sotto il sigillo della sua provvidenza, affinché non compaiano in pubblico quando vogliono, ma siano sempre pronti per il tempo stabilito da Dio e quando udranno con l’orecchio del cuore la voce di colui che comanda, escano dal segreto della contemplazione per operare a seconda delle necessità. "Egli da solo stende i cieli". I cieli raffigurano i predicatori santi, che piovono con le parole, lampeggiano con gli esempi della vita santa, tuonano con le minacce della pena eterna. Questi cieli stende il Signore, perché diffondano la luce e ne ricoprano i peccatori e li inducano a liberarsi dal vischio delle cose temporali. "E cammina sui flutti del mare". I flutti del mare raffigurano i superbi di questo mondo, sopra i quali il Signore cammina quando nel loro cuore imprime le orme della sua umiltà. Dice infatti nell’Ecclesiastico: "Il giro del cielo da sola ho percorso, sono penetrata nella profondità dell’abisso, ho camminato sui flutti del mare, ho sostato su tutta la terra; su ogni popolo e su ogni gente ho posto il mio dominio, e di tutti i grandi ho soggiogato il cuore con la mia potenza" ( Sir 24,8-11 ). "Il giro del cielo", cioè il cuore del giusto io circondo, difendo e proteggo; penetrai "nelle profondità dell’abisso", cioè nel cuore dei cattivi, per convertirli alla penitenza; camminai "sui flutti del mare", cioè su coloro che sono oppressi dalle tentazioni; e mi fermai "su tutta la terra": Dio si ferma sull’umile, su coloro che fanno frutti di opere buone e sono costanti, mentre il diavolo si ferma sulla sabbia; "su ogni popolo e su ogni gente" ho posto il mio dominio: di tutti questi è formata e composta la chiesa. 11. "Egli fa Arturo e Orione, le Pleiadi e i segreti dell’Austro". Fa’ attenzione a queste quattro parole. Arturo ( l’Orsa Maggiore ) è chiamato dai latini settentrione, perché è composto di sette stelle; è chiamato anche "carro" perché le stelle sono disposte a forma di carro. Infatti cinque formano il carro, e due, che sembrano quasi nello stesso punto, fanno da buoi. Le cinque stelle raffigurano i cinque sensi del corpo; le due stelle, che a guisa di buoi devono tirare, sono la speranza e il timore. E qui hai la concordanza con quanto è scritto nel primo libro dei Re, dove si narra che i filistei presero due mucche, le attaccarono al carro e posero l’arca sopra il carro che era nuovo ( cf. 1 Sam 6,10-11 ). Il carro è detto in lat. plaustrum, che suona quasi come pilastro, attorno al quale si gira, ed è figura del nostro corpo che deve rivolgersi alle opere di misericordia; nuovo, per aver riparato ai peccati con la penitenza, perché deve portare l’arca dell’obbedienza. E questo carro devono tirarlo due mucche, cioè la speranza e il timore, fino a Betsames, che s’interpreta "casa del sole", cioè alla dimora della vita eterna, nella quale abita il Sole di giustizia. "Orione" è chiamata la stella della spada. Per questo i latini la chiamano iugula, cioè spada per scannare: infatti è armata come un gladiatore ( gladius, spada ) e per la sua luce è la più impressionante e luminosa delle stelle. Le stelle di Orione compaiono proprio nel rigore del tempo invernale e la loro comparsa porta piogge e tempeste. Le stelle di Orione raffigurano la contrizione del cuore e la confessione della bocca: quando queste compaiono producono la pioggia delle lacrime e le tempeste della disciplina, del digiuno e dell’astinenza. "Le Pleiadi" sono cinque stelle, disposte come la lettera greca Y ( ìpsilon ). Le Pleiadi raffigurano quelle cinque parole che Paolo, scrivendo ai Corinzi, voleva dire nella chiesa ( cf. 1 Cor 14,19 ), nel senso da lui inteso. Esse sono: orazione, lode, consiglio, esortazione e confessione. "I penetrali dell’Austro". L’Austro è un vento caldo e simboleggia lo Spirito Santo, del quale la sposa del Cantico dei Cantici dice: "Lèvati, Aquilone, e tu, o Austro, vieni e soffia nel mio giardino, per far stillare i suoi aromi" ( Ct 4,16 ). "L’Aquilone", così chiamato quasi perché "lega le acque" ( aquas ligans ), è simbolo del diavolo, che con il gelo della malizia fa rapprendere le acque della compunzione nel cuore del peccatore. All’Aquilone è detto "lèvati", cioè allontànati; "e vieni tu, o Austro", cioè Spirito Santo, "e soffia nel mio giardino", cioè nella mia coscienza, "per far stillare i suoi aromi", cioè le lacrime, che al cospetto del Signore sono più olezzanti più di tutti gli aromi. "I penetrali dell’Austro" simboleggiano il segreto della contemplazione, il gaudio della mente, la soavità della dolcezza interiore, che sono come gli intimi segreti dell’Austro, cioè dello Spirito Santo, con i quali esso dimora e dimorando spira con la brezza soave del suo amore. 12. "Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero". Fece cose grandi nella creazione, inconcepibili nella ri-creazione; farà per noi cose meravigliose nell’eterna beatitudine. O anche: "fece cose grandi" nella sua incarnazione, e perciò la beata Vergine Maria dice: "Ha fatto in me grandi cose colui che è potente, e santo è il suo nome" ( Lc 1,49 ); "inconcepibili" nella sua nascita, nella quale la Vergine partorì lo stesso Figlio di Dio; "meravigliose" nell’operare miracoli. Sia benedetto, perché sa e conosce tutto colui che per noi ha operato tali meraviglie. Di lui l’Apostolo dice: "La parola di Dio è viva ed efficace". "Ed è più penetrante di ogni spada a doppio taglio". Cristo infatti colpisce l’anima con la contrizione, il corpo con la sofferenza, "penetrando fino alla divisione dell’anima", cioè dell’animalità ( della natura ), "e dello spirito", cioè della ragione. E considera che l’anima è un’entità incorporea, capace di ragione, ordinata a vivificare il corpo. L’anima rende gli uomini "animali" ( naturali ), che sono i sapienti secondo la carne ( cf. Rm 8,5 ), soggetti ai sensi del corpo. Essa, se incomincia ad essere perfettamente ragionevole, respinge subito da sé le caratteristiche di genere femminile, e diventa "animo" partecipe della ragione, ordinato a governare il corpo. Infatti, fino a che è "anima", presto infiacchisce in ciò che è carnale; invece l’"animo", ossia lo spirito, considera solo ciò che è virile e spirituale: e così avviene la divisione dell’anima e dello spirito. "Delle giunture e delle midolla". Le giunture sono le articolazioni; il midollo è la sostanza che impregna ( riempie ) le ossa. Nelle giunture sono simboleggiate le misteriose concatenazioni dei pensieri, nel midollo la compunzione delle lacrime che impregnano le ossa delle virtù. Cristo, in virtù della sua divinità, penetra fino alla divisione delle giunture e delle midolla, perché conosce con esattezza l’inizio, lo svolgimento e la conclusione dei pensieri, a che cosa tendano, in che modo si concatenino uno con l’altro, in quale maniera e per quali processi sorga nel cuore la compunzione. Dice infatti Salomone: "Come ignori quale sia la via dello spirito e in che modo si formino le ossa nel grembo della donna gravida, così ignori l’opera di Dio, autore di tutte le cose" ( Qo 11,5 ). Solo Dio sa qual è la via dello spirito, cioè della contrizione, e in che maniera si formino le ossa nel grembo della donna gravida, vale a dire le virtù nella mente del penitente. Aggiunge infatti l’Apostolo: "Egli scruta i pensieri e le intenzioni del cuore; non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, perché, come dice anche l’Ecclesiastico, gli occhi del Signore sono in ogni luogo ( cf. Sir 23,27 ); tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi; davanti a lui, come dice Giobbe, è aperto anche l’inferno e non ha copertura l’abisso ( cf. Gb 26,6 ). Quindi proprio con profonda convinzione i discepoli dissero: "Ora conosciamo che tu sai tutto e non c’è bisogno che qualcuno ti interroghi: per questo crediamo che sei uscito da Dio". Il Figlio è uscito da Dio perché tu uscissi dal mondo; è venuto da te perché tu andassi da lui. Che cosa significa uscire dal mondo e andare a Cristo, se non soggiogare i vizi e legare l’anima a Dio con i legami dell’amore? 13. Da tutto ciò risulta la concordanza con la terza parte dell’epistola che si legge nella messa di oggi: "Se uno crede di essere religioso ma non frena la lingua, ingannando così il suo cuore, la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro necessità e conservarsi puri da questo mondo" ( Gc 1,26-27 ). La religione è chiamata così perché per mezzo di essa leghiamo la nostra anima all’unico Dio per tributargli il culto divino. "Religione è quella che presta culto e venerazione di natura superiore, che chiamano divina" ( Agostino ). Ascolti il religioso, gonfio di presunzione, sfrenato di lingua, bandito dal regno di Dio: "Se uno crede di essere religioso", ecc. La lingua è chiamata così da "legare", e chi non la tiene legata con il silenzio, dà prova di essere senza religione. L’inizio della religione è il tenere a freno la lingua ( cf. Gc 1,26 ). Dice infatti Salomone: "Chi porrà una guardia alla mia bocca e chi metterà un sigillo sicuro sulle mie labbra, affinché io non cada per loro colpa e la mia lingua non mi porti alla rovina?" ( Sir 22,27 ), vale a dire: affinché io non dica il bene in modo errato, e sappia quindi sia tacere che parlare al tempo giusto. Di proposito dice "sigillo": ciò che si mette sotto sigillo, viene rinchiuso perché non sia aperto ai nemici, ma solo agli amici. Ascoltino i religiosi del nostro tempo, che caricano l’edificio della loro religione con grande varietà di prescrizioni, con svariati elenchi di precetti: essi, come i farisei, si gloriano dell’apparenza di purezza esteriore. Al primo uomo, elevato a sì alto grado di dignità, Dio ha dato un solo e breve comando: "Non mangerai dell’albero della scienza del bene e del male" ( Gen 2,17 ), e l’uomo non osservò neppure quell’unico comando. Invece agli uomini del nostro tempo, ridotti alla miseria di sì grande infelicità e posti ai margini del mondo, anzi, per parlar chiaro, tra i rifiuti del mondo, vengono imposti molti e nuovi comandamenti, vengono fatte lunghe prescrizioni. E tu credi che le osserveranno? Al contrario, in questo modo si creano solo trasgressori. Ascoltino costoro che cosa dice il Signore nell’Apocalisse: "Non imporrò su di voi altri pesi; ma quello che avete, tenetelo" ( Ap 2,24-25 ), cioè il vangelo. E dice la Glossa: Ascoltino costoro, che cos’è la vera religione: Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove ( cf. Gc 1,25 ), ecc. Osserva che la vera religione consiste in due cose: nella misericordia e nell’innocenza. Infatti, ordinando di soccorrere gli orfani e le vedove, suggerisce tutto ciò che dobbiamo fare per il prossimo; e comandando di preservarci senza macchia in questo mondo, ci mostra tutto ciò in cui noi dobbiamo essere casti ( astinenti ). Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il nostro Signore Gesù Cristo di infonderci la sua grazia, con la quale possiamo tendere e arrivare alla pienezza della vera gioia; di pregare per noi il Padre affinché ci conceda la vera religione e possiamo così giungere al regno della vita eterna. Ce lo conceda lui stesso, che è degno di lode, che è principio e fine, che è mirabile e ineffabile nei secoli eterni. E ogni religione pura e senza macchia dica: Amen, alleluia. Domenica VI dopo Pasqua Temi del sermone – Vangelo della VI domenica dopo Pasqua: "Quando verrà il Paràclito"; vangelo che si divide in due parti. – Anzitutto sermone sulla risurrezione dell’anima e del corpo: "I morti vivranno". – Parte I: Sermone sulla santa Trinità: "Quando verrà il Paràclito". – Sermone contro coloro che sono nella stretta del diavolo, che vivono in peccato mortale: "Il faraone mise a capo dei figli d’Israele dei sovrintendenti"; natura della rana e del ragno. – Sermone contro coloro che vivono nei piaceri: "Seppellirono Asa". – Sermone contro la vanità del mondo che inganna anche l’uomo spirituale: "Il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio". – Sermone a consolazione di chi si trova nella tentazione: "Quando attraverserai le acque, io sarò con te". – Sermone sull’infusione della grazia e sulla compunzione della mente: "Figlie di Sion, esultate e rallegratevi". – Sermone sul giusto che rinuncia al mondo: "Giacobbe attraversò il guado di Iabbok". – Sermone sulla preghiera: "Ascolta, Signore, la mia voce". – Parte II: Sermone sulla pazienza: "Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate". – Sermone contro molti predicatori; sulla natura della mucca selvatica che colpisce il cacciatore con lo sterco: "Sai che i farisei nel sentire questa parola si sono scandalizzati?" – Sermone sull’ospitalità: "Siate ospitali a vicenda". Esordio - La risurrezione dell’anima e del corpo 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre", ecc. ( Gv 15,26 ). Dice il Signore per bocca di Isaia: "Vivranno i morti, i miei uccisi risorgeranno. Risvegliatevi e cantate lodi, voi che giacete nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce" ( Is 26,19 ). La rugiada è chiamata in lat. ros perché è rara, cioè rarefatta e leggera, e non densa e fitta come la pioggia. Si dice poi che la rugiada bagni più intensamente i campi quando la notte è più serena e la luna più limpida, e che la rugiada, nel breve corso della notte, restituisca alla terra tutta l’umidità che il calore del sole le ha sottratto lungo tutto il corso del giorno. La rugiada simboleggia il Paràclito, lo Spirito di verità che, scendendo con delicatezza nella mente del peccatore, raffredda l’ardore del sole, vale a dire la concupiscenza della carne. Dice infatti l’Ecclesiastico: "La rugiada che scende su chi viene dal caldo, lo rinfresca ( lat. humilem facit, lo rende umile )" ( Sir 43,24 ). Sul peccatore, che viene dall’ardore dei vizi, scende la grazia dello Spirito Santo e ne raffredda l’ardore, e mentre gli fa conoscere in quanti e quanto grandi vizi sia impantanata la sua anima, lo rende umile fino al pianto, perché si dolga di ciò che ha commesso. Dice infatti Geremia: "Dopo che tu mi hai illuminato, io ho percosso il mio femore" ( Ger 31,19 ). Dopo che la grazia dello Spirito Santo ha mostrato al peccatore il cumulo della sua iniquità, egli percuote con i flagelli della penitenza il suo femore, vale a dire il suo corpo. E osserva che giustamente lo Spirito Santo è detto "rugiada di luce": rugiada perché rinfresca, di luce perché illumina. Perciò quando arriva la rugiada di luce i morti per i peccati vivranno la vita della grazia, e gli uccisi dalla spada della colpa risorgeranno nella prima risurrezione, che è la penitenza. "Svegliatevi", dunque, voi che siete immersi nel sonno del peccato, "e lodate Dio" confessando il vostro crimine, "voi che abitate nella polvere" della vanità terrena, "perché rugiada di luce" è lo Spirito Santo, padre dei penitenti e consolatore di coloro che gemono: di essi il Figlio di Dio nel vangelo di oggi dice: "Quando verrà il Paràclito", ecc. 2. In questo brano evangelico sono posti in evidenza due fatti. Primo, l’invio dello Spirito, dove dice: "Quando verrà il Paràclito"; secondo, la persecuzione contro i discepoli di Cristo, dove si legge: "Vi ho detto queste cose affinché non vi scandalizziate". In questa domenica poi si canta l’introito: "Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato" ( Sal 27,7 ); inoltre si legge l’epistola del beato Pietro: "Siate prudenti e vigilanti", che noi divideremo in due parti mettendone in evidenza la concordanza con le due parti del vangelo su indicate. La prima parte: "Siate prudenti e vigilanti"; la seconda, "Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione". I. L’invio del Paraclito 3. "Quando verrà il Paràclito". Si dive notare anzitutto che in questo brano evangelico viene proclamata espressamente la fede nella santa Trinità. Dal Padre e dal Figlio viene mandato lo Spirito Santo: queste Tre divine Persone sono una sola sostanza e perfette nell’uguaglianza. Unità nell’essenza e pluralità nelle Persone. Il Signore rivela chiaramente l’Unità della divina sostanza e la Trinità delle Persone, quando dice: Andate e battezzate tutte le genti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ( cf. Mt 28,19 ). Dice appunto: "nel nome", e non "nei nomi", per indicare l’unità della sostanza. E con i tre nomi che aggiunge, indica che sono "Tre Persone". Nella Trinità è il principio ultimo di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la suprema beatitudine. Per "principio ultimo", come dimostra Agostino nella sua opera La vera religione, s’intende Dio Padre, dal quale sono tutte le cose, dal quale sono il Figlio e lo Spirito Santo. Per "bellezza perfettissima" si intende il Figlio, cioè la verità del Padre, per nulla diverso da lui; bellezza che con lo stesso Padre e nello stesso Padre adoriamo, che è forma di tutte le cose, da un solo Dio create e ad un solo Dio ordinate. Per "suprema beatitudine" e "somma bontà" s’intende lo Spirito Santo, che è dono del Padre e del Figlio; dono che noi dobbiamo adorare e credere immutabile insieme con il Padre e il Figlio. In riferimento alle cose create, intendiamo la Trinità in una sola sostanza, vale a dire un solo Dio Padre dal quale proveniamo, un unico Figlio per mezzo del quale esistiamo, e un solo Spirito Santo nel quale viviamo; vale a dire: il principio al quale ci riferiamo, la forma, il modello al quale tendiamo e la grazia con la quale veniamo riconciliati. E affinché la nostra mente si innalzi alla contemplazione del Creatore, e creda senza ombra di dubbio all’Unità nella Trinità e alla Trinità nell’Unità, consideriamo quale impronta della Trinità ci sia nella mente stessa. Dice Agostino nell’opera La Trinità: "Benché la mente umana non sia della stessa natura di Dio, dobbiamo tuttavia cercare e trovare la sua immagine – della quale nulla di meglio esiste – in ciò che di meglio c’è nella nostra natura, vale a dire nella mente. La mente si ricorda di se stessa, comprende se stessa e ama se stessa. Se riconosciamo questo, riconosciamo la trinità: non certo Dio, ma l’immagine di Dio. Qui infatti compare una certa trinità: della memoria, dell’intelligenza e dell’amore o della volontà. Queste tre facoltà non sono tre vite, ma una sola vita; né tre menti, ma una sola mente; non tre sostanze, ma una sola sostanza. Memoria vuol dire relazione a qualche cosa; intelligenza e volontà, o amore, indicano pure relazione a qualche cosa; la vita invece è in se stessa e mente e sostanza. Quindi queste tre facoltà sono una sola cosa, in quanto sono una sola vita, una sola mente e una sola sostanza. Queste tre facoltà, pur essendo distinte tra loro, sono dette una cosa sola, perché esistono sostanzialmente nello spirito. E la mente stessa è quasi la genitrice, e la sua cognizione è quasi la sua prole. La mente infatti, quando riconosce se stessa, genera la conoscenza di sé ed è essa sola la genitrice della sua conoscenza. Terzo viene l’amore, che procede dalla mente stessa e dalla sua conoscenza, quando la mente, conoscendo se stessa, si ama: non potrebbe infatti amare se stessa se non conoscesse se stessa. E ama anche la prole in cui si compiace, cioè la conoscenza di sé: e così l’amore è una specie di legame tra genitrice e prole. Ecco quindi che in queste tre parole – memoria, intelligenza e amore – compare una certa impronta della Trinità. 4. "Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità", ecc. Fa’ attenzione a queste tre parole: Paràclito, Spirito e ‘di verità’. Nella miseria di questo mondo ci sono tre mali: l’angustia ( oppressione ) che tormenta, il peccato che dà la morte e la vanità che inganna. Dell’oppressione che tormenta è detto nell’Esodo che "il faraone impose ai figli d’Israele dei sovrintendenti ai lavori per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses" ( Es 1,11 ). Così il diavolo, a coloro che sono cristiani solo a parole, impone dei sovrintendenti ai lavori, cioè altri demoni incaricati a fomentare ogni vizio, perché li tormentino con il peso dei peccati. E quindi essi gemono e si lamentano: "Eravamo minacciati e afferrati per il collo; eravamo sfiniti, ma non ci si concedeva riposo. All’Egitto abbiamo teso la mano e agli Assiri, per essere saziati di pane" ( Lam 5,5-6 ). I Babilonesi, cioè i demoni, impongono gravi pesi sul collo dell’uomo che conducono in schiavitù, e con minacce lo trascinano con una fune legata al collo, come un asino o un bue; e anche se è sfinito non gli danno tregua, poiché lo fanno precipitare di peccato in peccato. Ahimè, quanto grande follia è lo stancarsi nel cammino e non volersi fermare! Abbiamo teso la mano all’Egitto e agli Assiri, cioè ci siamo fatti servi del mondo e dei demoni, per essere saziati di pane, cioè dei piaceri della carne. Questi cristiani costruiscono le città-deposito per il faraone, cioè per il diavolo: Pitom e Ramses. Pitom s’interpreta "bocca dell’abisso", e Ramses "danno dalla tignola". Pitom simboleggia la lussuria, che è la bocca dell’abisso che mai dice basta, giacché è priva della luce della grazia e non c’è misura che la plachi. "Il piacere, dice Girolamo, ha sempre fame di se stesso". Di questo abisso dice il salmo: "L’abisso chiama l’abisso" ( Sal 42,8 ), cioè la lussuria chiama lussuria, come la rana chiama la rana. La rana ha un suo richiamo particolare, che suona coax, e lo fa solo nell’acqua. È soprattutto il maschio che al tempo degli accoppiamenti chiama la femmina con questo richiamo ben noto. E la rana aumenta la sua voce quando tiene la mandibola inferiore sul livello dell’acqua e spalanca quella superiore. E a motivo della dilatazione delle due mandibole, i suoi occhi luccicano come candele. Analogo è pure il comportamento dei ragni quando vogliono accoppiarsi. La femmina attira il maschio per mezzo dei fili della tela e il maschio fa altrettanto con la femmina. E la trazione reciproca non cessa, finché non arrivano all’accoppiamento. I lussuriosi sono come le rane che, nell’acqua del piacere carnale, si incitano vicendevolmente alla lussuria con segni e richiami: i loro occhi sono pieni di adulterio, accesi di libidine e, come i ragni, si attraggono con certi fili di parole e di promesse; si attraggono e infine si congiungono nell’abisso della loro perdizione. Ramses simboleggia l’avarizia, che corrode la mente come la tignola corrode le vesti. La tignola è chiamata in lat. tinea, perché tiene, e penetra a tal punto da corrodere. Parimenti l’avarizia corrode la mente dell’avaro perché moltiplichi i suoi beni: ma l’infelice, più moltiplica e più ha fame. Infatti dice il beato Bernardo: "Non diversamente il cuore dell’uomo si sazia con l’oro, di quanto non si sazi il suo corpo con l’aria". E il Filosofo: "Che cosa puoi augurare di male all’avaro se non che viva a lungo?" E ancora: "Nulla di buono può fare l’avaro, se non morire" ( P. Siro ). Queste sono le città del diavolo, la lussuria e l’avarizia. E quale oppressione è più dolorosa di essere imprigionati nell’abisso e invasi dalla tignola? 5. Sul peccato che dà la morte si legge nella Genesi che "Rachele morì e fu sepolta sulla strada che porta ad Efrata" ( Gen 35,19 ). Efrata s’interpreta "fertile", e simboleggia l’abbondanza delle cose temporali, dalle quali l’infelice anima è soffocata e, dopo sepolta, è schiacciata dalla massa delle abitudini cattive. Infatti "il ricco rivestito di porpora, poiché quaggiù visse sepolto nei piaceri, nell’aldilà fu sepolto nei tormenti dell’inferno ( cf. Lc 16,19-22 ). Leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni che "posero Asa sul suo letto, pieno di aromi e di unguenti da meretrice, preparati da un esperto di profumeria, e li bruciarono su di lui in grandissima quantità ( cf. 2 Par 16,14 ). Asa s’interpreta "che s’innalza", e raffigura il ricco di questo mondo nella sua superbia, del quale dice il Profeta: "Ho visto l’empio trionfante, ergersi come il cedro del Libano" ( Sal 37,35 ). Il suo letto è il corpo, nel quale giace dissoluto, ( privo di forze ) come un paralitico; letto che è pieno di aromi e di unguenti da meretrice, cioè di onori, di ricchezze e di piaceri, preparati da esperti profumieri, cioè dai demoni. Ma poi nell’aldilà l’infelice anima sarà bruciata, insieme con lo sventurato suo corpo, nel fuoco inestinguibile della geenna, in una fiamma smisurata. "Ogni uomo serve dapprima il vino buono, e poi quello meno buono" ( Gv 2,10 ). Poiché hai bevuto dal calice d’oro di Babilonia, berrai poi fino alla feccia dal pozzo della dannazione eterna. 6. Sulla vanità ingannatrice parla il terzo libro dei Re, dove si legge che un vecchio profeta ingannò un uomo di Dio e lo costrinse ad andare con lui nella sua casa: e l’uomo di Dio nella casa di lui mangiò il pane e bevve l’acqua. E dopo aver mangiato e bevuto, sellò il suo asino. Partito di lì, l’uomo di Dio lungo la strada fu assalito da un leone, che lo uccise; il suo cadavere era steso a terra e l’asino stava fermo accanto ad esso: il leone stava vicino al cadavere dell’uomo di Dio. E il leone non fece nulla all’asino e non si cibò neppure del cadavere ( cf. 1 Re 13,11-30 ). Il vecchio profeta raffigura la vanità del mondo, che promette sempre cose false. Dice infatti Geremia: "I tuoi profeti fanno per te profezie false e stolte" ( Lam 2,14 ). I nostri profeti sono la vanità del mondo e i piaceri della carne, i quali, se vedono che noi disprezziamo il mondo e mortifichiamo la carne, subito ci predicono miseria e malattie. Dicono: Se tu dài via le tue cose, di che cosa vivrai? Se tu fai del male al tuo corpo, ti ammalerai. Ahimè, quanta gente hanno ingannato questi profeti! Questi sono profeti che parlano in nome proprio e non in nome di Dio. Giustamente quindi è detto che il vecchio profeta ingannò l’uomo di Dio. E giustamente la vanità del mondo è detta "vecchio profeta": infatti ha continuato ad ingannare dall’inizio del mondo fino alla feccia di questo nostro tempo, e ancora continuerà. "E nella sua casa" l’uomo di Dio "mangiò il pane e bevve l’acqua". Il pane simboleggia la grandezza della gloria del mondo, della quale Salomone dice: "È gradito all’uomo il pane della menzogna, ma poi la sua bocca sarà piena di sassi" ( Pr 20,17 ). Il pane della menzogna è la gloria del mondo che si illude di essere qualcosa, mentre non è nulla. Dice Agostino: "Tutto ciò che ha una fine è da ritenersi come passato". Questa gloria, essendo piacevole per l’uomo, riempie la sua bocca di sassi, di pietra infuocata, cioè della pena eterna, che non può essere inghiottita né vomitata. "E bevve l’acqua". L’acqua raffigura la lussuria o l’avarizia: chi la beve avrà ancora sete ( cf. Gv 4,13 ). Chi mangerà questo pane e berrà quest’acqua sarà ucciso dal leone, vale a dire dal diavolo. E osserva che il leone non fece alcun male all’asino, e non mangiò il cadavere, perché il diavolo non si cura del denaro o del corpo, ma fa di tutto solo per uccidere l’anima. Disse infatti il re di Sodoma ad Abramo: "Dammi le anime, il resto tienilo pure" ( Gen 14,21 ). Cristo ha comperato le anime, consegnando alla morte la sua anima ( cf. Is 53,12 ); e perciò il diavolo fa ogni sforzo per ingannare un sì grande "compratore", quando vuole uccidere l’anima nostra. 7. Ma il Signore, contro i tre mali su descritti, cioè l’oppressione, il peccato e la vanità, mandò il Paràclito, lo Spirito Santo, Spirito di verità: Paràclito contro l’oppressione, Spirito contro la colpa, di verità contro la vanità. Il Paràclito ci consola nell’oppressione delle tribolazioni. Dice Isaia: "Quando attraverserai le acque io sarò con te e i fiumi non ti sommergeranno; se camminerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà" ( Is 43,2 ). Fa’ attenzione a queste quattro parole: acque, fiumi, fuoco e fiamma. Le acque raffigurano la gola e la lussuria; i fiumi la prosperità mondana; il fuoco l’oppressione delle avversità e la fiamma la malizia della persecuzione diabolica. Dice dunque: "Quando attraverserai le acque …" La mente che lo Spirito Santo ha reso forte con il fuoco della carità, non può essere travolta dalle acque della gola e della lussuria, né sommersa dai fiumi della prosperità terrena. Dice infatti Salomone: "Le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo, perché le sue vampe sono vampe di fuoco e di fiamme" ( Ct 8,7.6 ). La mente che lo Spirito Santo infiamma, non può essere consumata né dal fuoco delle avversità né dalla fiamma della persecuzione diabolica. Lo Spirito stesso infatti, come è detto nel libro di Daniele, allontana la fiamma di fuoco dalla fornace e fa spirare in mezzo alla fornace come un venticello rugiadoso ( cf. Dn 3,49-50 ). Parimenti, contro il peccato mandò lo Spirito per ridare la vita all’anima. Leggiamo nella Genesi: "Spirò sul suo volto il soffio della vita e l’uomo divenne anima vivente" ( Gen 2,7 ). Il soffio della vita è la grazia dello Spirito Santo, e quando Dio la infonde nel volto dell’anima, non c’è dubbio che l’anima risuscita da morte a vita. E questo Spirito è detto "di verità", contro la vanità del mondo, che la verità stessa discaccia. Dice Gioele: "Figlie di Sion, gioite e rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi ha dato il maestro della giustizia, e farà scendere su di voi la pioggia del mattino e della sera. E le vostre aie si riempiranno di frumento, e i vostri torchi traboccheranno di vino e di olio" ( Gl 2,23-24 ). Sia benedetto il Signore, Dio nostro, il Figlio di Dio, nel quale noi, figli di Sion, cioè della chiesa militante e trionfante, dobbiamo gioire nel cuore e rallegrarci con le opere, perché ci ha dato il maestro della giustizia, cioè lo Spirito della grazia, che insegna a ciascuno di noi a mostrare la sua giustizia ( santità ). Nel darci questo Spirito, egli ha fatto discendere su di noi la pioggia del mattino, cioè la compunzione dei nostri peccati, e la pioggia della sera, cioè il dolore per i peccati degli altri. Infatti chi piange pietoso per i peccati altrui, lava perfettamente anche i propri. Nella discesa di questo Maestro della giustizia le aie, cioè le menti dei fedeli, furono riempite del frumento della fede, e i torchi, cioè i loro cuori, traboccarono del vino della compunzione e dell’olio della pietà. Giustamente quindi è detto: "Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza. E anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dall’inizio" ( Gv 15,26-27 ). Infatti nel cuore dei fedeli lo Spirito di verità rende testimonianza dell’incarnazione di Cristo, della sua passione e della sua risurrezione. E anche noi dobbiamo dare a tutti gli uomini la testimonianza che Cristo si è veramente incarnato, ha veramente subìto la passione ed è veramente risorto. 8. Con questa prima parte del brano evangelico concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Siate prudenti e vegliate nella preghiera. Soprattutto abbiate sempre tra voi la carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati" ( 1 Pt 4,7-8 ). Osserva che il beato Pietro ci richiama a tre virtù: alla prudenza, alla vigilanza e alla costanza nella preghiera. Della prudenza dice Salomone: "Beato l’uomo che è pieno di prudenza: il suo possesso vale più dell’argento e il suo provento più dell’oro" ( Pr 3,13-14 ). Chi invece è negligente e imprudente, è esposto a molti pericoli. Sulla vigilanza poi leggiamo nella Genesi che "Giacobbe attraversò il guado di Iabbok: trasportate all’altra riva tutte le sue cose, restò solo. Ed ecco, un uomo incominciò a lottare con lui fino al mattino, e poi gli disse: Lasciami andare perché ormai spunta l’aurora" ( Gen 32,22-24 ). Giacobbe s’interpreta "soppiantatore"; Iabbok "torrente di polvere", e raffigura i piaceri temporali che passano come un torrente, sono sterili e accecano gli occhi come la polvere. Il penitente deve attraversare questo torrente con tutti i beni che il Signore gli ha elargito, deve attraversarlo e rimanere solo. Rimane solo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto al Signore; che sottomette la sua volontà a quella degli altri; che non conserva il ricordo delle ingiurie ricevute e che accetta di essere disprezzato ( lett. sperni se non spernit, non disprezza l’essere disprezzato ). E se in questo modo resterà solo, potrà lottare valorosamente con il Signore e ottenere da lui ciò che vuole, e meriterà di sentirsi dire: "Lasciami andare, ormai spunta l’aurora". L’aurora segna la fine della notte e l’inizio del giorno. Essa raffigura la morte del giusto, la fine della miseria di questa vita, e l’inizio della beatitudine, nella quale il Signore dice al giusto: Lasciami andare, ormai spunta l’aurora. Come dicesse: Non c’è più bisogno di lotta, finisce per te la prova, la miseria, e incomincia la gloria. Infatti dell’anima del giusto è detto nel Cantico dei Cantici: "Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole?" ( Ct 6,9 ). La luna è chiamata così perché è quasi ( lat. ) luminum una, una delle luci. L’anima del giusto, quando sale dalla dimora di questa miseria, entra nella beatitudine, nella quale è bella come la luna, perché viene immersa nella luce delle anime sante, come una di esse. Ed è fulgida come il sole, perché viene illuminata dallo splendore di tutta la Trinità. 9. Dell’assiduità nell’orazione si parla nell’introito della messa di oggi: Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato. Di te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cercherò. Non nascondermi il tuo volto ( cf. Sal 27,7-9 ). Ricordati che ci sono tre specie di orazione: l’orazione mentale, l’orazione vocale e l’orazione manuale ( delle opere ). Della prima dice l’Ecclesiastico: "L’orazione di colui che si umilia, penetra i cieli" ( Sir 35,21 ). Della seconda parla il salmo: "La mia orazione entri al tuo cospetto" ( Sal 88,3 ). Della terza parla l’Apostolo: "Pregate senza interruzione" ( 1 Ts 5,17 ). Non cessa mai di pregare colui che non cessa mai di fare il bene. Dice dunque l’introito: "Ascolta, Signore, la mia voce", la voce del cuore, della bocca e delle opere, "con la quale a te ho gridato. A te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto". Il volto del Signore è quell’immagine secondo la quale siamo stati creati "a sua immagine e somiglianza" e che poi abbiamo perduto quando siamo caduti nel peccato mortale. Infatti sopra il volto del Signore abbiamo disegnato il volto del diavolo; e questo lo vieta l’Ecclesiastico, dove dice: "Non assumere un volto contro il tuo volto" ( Sir 4,26 ). Ogni volta che commetti il peccato mortale, sovrapponi il ceffo del diavolo al volto di Dio. Dice infatti il salmo: "Fino a quando giudicherete iniquamente e assumerete la faccia dei peccatori?" ( Sal 82,2 ). Per essere in grado di ritrovare il volto del Signore, che abbiamo perduto, accendiamo la lucerna, buttiamo completamente all’aria la casa, finché lo troviamo ( cf. Lc 15,8 ): ciò significa che dobbiamo quasi distruggerci per i nostri peccati, perlustrare ogni angolo della coscienza nella confessione e perseverare nelle opere di penitenza. E così finalmente potremo ritrovare il volto del Signore, perduto con il peccato, e cantare esultanti: "Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto" ( Sal 4,7 ). E poiché il volto del Signore si ricompone e si conserva sino alla fine con la carità, dice Pietro di questa virtù: "Soprattutto abbiate sempre tra di voi una grande carità" ( 1 Pt 4,8 ). Come Dio è il principio di tutte le cose, così la carità, virtù fondamentale, si deve conquistare prima di tutte le altre; e se sarà reciproca e costante, coprirà tutto il cumulo dei peccati. La carità dev’essere vicendevole, cioè reciproca, e fatta in comune; dev’essere continua: non deve cioè mai mancare, non solo quando tutto va bene, ma anche quando tutto sembra andar male; e dev’essere incessante e perseverare sino alla fine. Oppure anche: la carità è il Paràclito, lo Spirito di verità che, come l’olio copre ogni liquido, copre la moltitudine dei peccati. Ma fa’ attenzione, che se l’olio viene soffiato via, ricompare ciò che prima era nascosto. Così la grazia di Dio che con la penitenza copre la moltitudine dei peccati, se viene soffiata via con la ricaduta nel peccato mortale, ciò che era già stato perdonato ritorna, perché chi pecca contro il primo dei precetti, cioè contro il precetto della carità, si rende colpevole anche di tutti gli altri ( cf. Gc 2,10 ). E quindi se commetterai di nuovo il peccato mortale e ti rivolgerai ad un altro confessore, sarà necessario che tu confessi tutto. Lo Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del Figlio, si degni di coprire con la sua carità la moltitudine dei nostri peccati. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. II. La persecuzione contro i discepoli di Cristo 10. "Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E vi faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato" ( Gv 16,14 ). E poiché "i dardi che si prevedono feriscono di meno" ( Gregorio ), per questo il Signore ha prevenuto i suoi soldati affinché, contrapponendo ai dardi della persecuzione lo scudo della pazienza, non si scandalizzino quando si imbatteranno nel momento della prova. "Vi ho detto queste cose, perché non vi scandalizziate". Io, Verbo del Padre, da cui dovete prendere esempio di pazienza, parlo a voi affinché non vi scandalizziate. Chi si scandalizza nel momento della persecuzione, con lo scandalo della sua impazienza si separa dai discepoli di Cristo. "Vi scacceranno dalle loro sinagoghe". Infatti dice Giovanni: "I giudei avevano già stabilito che se uno avesse riconosciuto il Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga" ( Gv 9,22 ). Cristo dice: "Io sono la verità" ( Gv 14,6 ). Chi predica la verità professa Cristo. Chi invece nella predicazione tace la verità rinnega Cristo. "La verità genera l’odio" ( Terenzio ), e quindi alcuni, per non incorrere nell’odio di certe persone, si coprono la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, se dicessero le cose come stanno, come la stessa verità esige e come la sacra Scrittura espressamente comanda, incorrerebbero – se non mi inganno – nell’odio dei carnali e forse questi li scaccerebbero dalla loro sinagoga; siccome si regolano sull’esempio degli uomini, temono lo scandalo degli uomini, mentre non è lecito rinunciare alla verità per timore dello scandalo. E infatti i discepoli dissero a Gesù: "Sai che i farisei, sentita questa parola, si sono scandalizzati? Allora Gesù rispose: Ogni albero che non è stato piantato dal Padre mio celeste, sarà sradicato. Lasciateli perdere: sono ciechi e guide di ciechi" ( Mt 15,12-14 ). O predicatori ciechi, poiché temete lo scandalo dei ciechi, per questo cadete nella cecità dell’anima. Questi fanno con voi ciò che fa la vacca selvatica con il cacciatore. Si legge nella Storia Naturale che la vacca selvatica lancia da lontano il suo sterco contro il cacciatore che la insegue e lo colpisce: il cacciatore viene così trattenuto e ritardato, e intanto essa fugge. Sicuramente fanno oggi così anche alcuni prelati, vacche grasse sul monte di Samaria ( cf. Am 4,1 ), vacche belle e molto grasse che pascolano in luoghi paludosi ( cf. Gen 41,2 ), le quali al cacciatore, cioè al predicatore, lanciano lo sterco delle cose temporali per sfuggire alle sue rampogne. Leggiamo infatti nell’Ecclesiastico: "Il pigro sarà lapidato con sassi infangati" ( Sir 22,1 ). E il Signore dice per bocca di Isaia: "Susciterò contro di loro i Medi", cioè dei predicatori, "che non cerchino l’argento, né bramino l’oro, affinché uccidano con le frecce i loro pargoli", cioè gli amatori del mondo, con le frecce della santa predicazione ( Is 13,17-18 ). 11. Con questa seconda parte del brano evangelico concorda la seconda parte dell’epistola: "Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione; ognuno secondo la grazia che ha ricevuto, mettendola a disposizione degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Se uno parla, usi le parole di Dio; se uno esercita un ufficio, lo compia con la forza che ha ricevuto da Dio" ( 1 Pt 4,9-11 ). Ospite è colui che accoglie e anche colui che è accolto. È chiamato in lat. hospes, come mettesse un piede sulla porta ( lat. infert ostio pedem ), oppure perché tiene la porta aperta ( ostium patens ), e quindi è detto ospitale. Sono ospitali quei predicatori che sentono il dovere di aprire ai peccatori la porta della predicazione; e fanno ciò senza mormorazione, cioè senza scandalo. Non si può infatti fare della mormorazione senza scandalo. E giustamente i predicatori sono detti ospitali, perché come buoni amministratori devono mettere a disposizione altrui la grazia della predicazione che hanno ricevuto e che si effettua in tante forme. Infatti, come tante sono le forme con cui si fanno i peccati, così anche la predicazione deve assumere svariate forme, affinché le anime, deformate dalle varie forme di vizi, vengano riformate con la forma della predicazione. Così parla Pietro ai prelati predicatori: "Pascete il gregge di Dio, che vi è affidato, provvedendo ad esso non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; e non spadroneggiando sulla parte a voi affidata, ma facendovi modelli del gregge" ( 1 Pt 5,2-3 ). E continua: "Se uno parla, adoperi le parole di Dio". Usa le parole di Dio colui che attribuisce a Dio, e non a se stesso, la perizia che ha nel parlare. E colui che usa le parole di Dio, si ricordi che null’altro deve insegnare se non la volontà di Dio, la dottrina delle sacre Scritture e ciò che è utile ai fratelli; e si guardi bene dal tacere ciò che invece deve insegnare. "E chi esercita un ufficio", sia con la parola, sia con qualunque altro incarico di carità, "lo faccia con la forza" non sua, ma "con quella ricevuta da Dio, affinché in tutte le cose", in tutte le nostre opere, "venga glorificato Dio, per mezzo di Gesù Cristo" ( 1 Pt 4,11 ). Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Cristo Gesù affinché infonda in noi il Paràclito, lo Spirito di verità, e ci dia la pazienza per non scandalizzarci nel momento della tribolazione. A lui appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Litanie ( o rogazioni) 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Se uno di voi ha un amico [ e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti. E se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza. Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, che cerca trova e chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà un sasso? O se gli chiede un pesce gli darà una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!" ( Lc 11,5-13 ). In questo vangelo sono posti in evidenza tre argomenti: - la richiesta del pane, - l’insistenza nella preghiera, - l’amore del padre verso il figlio. I. La richiesta del pane 2. "Se uno di voi ha un amico". Vedremo il significato di queste sei cose: l’amico, la notte, i tre pani, l’amico che torna da un viaggio, la porta chiusa, e i bambini che sono a letto col padre. L’amico – in lat. amicus, che suona quasi come animi custos, custode dell’animo – è Gesù Cristo, che, se non è lui che custodisce l’animo, invano veglia chi lo custodisce ( cf. Sal 127,1 ). Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Un amico fedele è una protezione potente: chi lo trova, trova un tesoro. Nulla è paragonabile a un amico fedele, e non c’è peso d’oro e d’argento che possa contrapporsi al valore della sua fedeltà" ( Sir 6,14-15 ); e più avanti continua: "Non abbandonare un vecchio amico, perché quello recente non è uguale a lui" ( Sir 9,14 ): l’amico recente simboleggia il diavolo, che si avvantaggia nei cambiamenti. Il vero amico nostro è Gesù Cristo, che ci ha amati tanto da dare per noi la sua vita ( cf. Gal 2,20 ). Pensa quale amico fedele sarebbe colui che, vedendoti in punto di morte, si offrisse per te e prendesse volentieri su di sé la tua malattia e la tua morte! Si legge nella Storia Naturale che la calandra ( l’allodola ), uccello tutto bianco, le cui interiora curano l’annebbiamento ( la cataratta ) degli occhi, fissa lo sguardo su di un ammalato se questi è destinato a sopravvivere, perché questo fatto è presagio della sua guarigione: quest’uccello si avvicina al volto dell’infermo, assorbe e prende su di sé la sua malattia, quindi vola in cielo e lì, tra i raggi infuocati del sole, la disperde e la distrugge. Così Cristo, amico nostro, tutto bianco perché assolutamente immune da ogni ombra di peccato, con il sangue che uscì dalla ferita del suo costato, guarì l’offuscamento della nostra anima, che prima non poteva vedere con chiarezza. Per questo è detto che il sangue estratto dal fianco di una colomba rimuove la macchia dell’occhio ( Plinio ). Gesù Cristo, con gli occhi della sua misericordia, guardò fissamente il genere umano malato, e questo fu il segno della nostra salvezza; si avvicinò a noi, prese su di sé la nostra infermità, salì sulla croce, e lì nel fuoco ardente della sua passione consumò e distrusse i nostri peccati. Fu dunque veramente nostro amico, e di lui è detto: "Se uno di voi ha un amico, e va da lui a mezzanotte". La notte, chiamata in lat. nox perché nuoce agli occhi, è simbolo della tribolazione o della tentazione, che ostacola l’occhio della ragione. Dice Giobbe della notte: "Quella notte sia di solitudine e non sia degna di lode" ( Gb 3,7 ). La notte della tentazione è "di solitudine" quando non trova consenso nell’uomo, e "non è degna di lode" quando l’uomo non l’asseconda e non l’approva. Acconsente alla tentazione e l’approva colui che quando essa si presenta l’accoglie e, accoltala, se ne compiace con l’immaginazione della mente. In tale notte devi andare da Cristo, tuo amico, e dirgli: "Amico, prestami tre pani". I tre pani simboleggiano la triplice grazia della compunzione. La prima consiste nel ricordo della propria fragilità e della propria malizia; la seconda nella considerazione dell’esilio di questa vita terrena; la terza nella contemplazione del creatore. Questi tre pani chiede che gli siano prestati [ chi è tentato ]. Prestare vuol dire dare una cosa, con la condizione che venga restituita. Tutto ciò che abbiamo nell’ambito della grazia lo riceviamo da Dio e a lui dobbiamo restituirlo. "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria" ( Sal 115,1 ). Sei povero, non hai il pane della compunzione: chiedilo in prestito all’amico, con il patto di restituirgli ciò che da lui hai ricevuto. "Perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti" ( Lc 11,6 ). L’amico che è venuto dal viaggio raffigura l’anima nostra la quale, ogni volta che va in giro alla ricerca delle cose temporali, si allontana da noi: ritorna poi quando medita sulle verità eterne e brama rifocillarsi con il nutrimento celeste. Ma non c’è nulla da metterle dinanzi, perché all’anima, che dopo le tenebre sospira a Dio, nulla più piace se non pensare, parlare e guardare a Dio soltanto. L’anima, quando ricomincia a vedere con chiarezza, fa di tutto unicamente per meditare più profondamente e per giungere al gaudio della Trinità, anche questo simboleggiato nei tre pani. 3. "Ma l’amico dall’interno deve rispondere: Non m’importunare: ormai la porta è chiusa e i miei bambini sono a letto con me" ( Lc 11,7 ). Lo stesso amico nostro è all’interno, e noi miseri stiamo ancora fuori, perché siamo stati allontanati dallo sguardo dei suoi occhi, nella miseria del presente esilio; stiamo fuori, e perciò dobbiamo gridare: "Amico, prestami tre pani". Chiede che gli siano prestati tre pani colui che è oppresso da molte sofferenze. Ecco, sta fuori nel cuore della notte e nell’assoluta necessità di pane; sta fuori davanti alla porta chiusa, chiama e si sente rispondere: "Non importunarmi!", cioè non ho il dovere di preoccuparmi per le tue richieste, perché ormai "la porta è chiusa". Troviamo qualcosa di simile nel Deuteronomio: "Il cielo che ti sta sopra sia di bronzo, e la terra che calpesti di ferro. Il Signore mandi sulla tua terra come pioggia la polvere, e dal cielo discenda su di te la cenere, finché sarai schiacciato" ( Dt 28,23-24 ). La porta è chiusa e il cielo diventa di bronzo quando il raggio della grazia divina non illumina più la mente dell’uomo, la cui preghiera non penetra più nel cielo che per lui è diventato di bronzo. "Hai posto davanti a te una nube, perché non giungesse fino a te la preghiera" ( Lam 3,44 ). Infatti se il cielo fosse di bronzo e il sole non desse più la sua luce e non cadesse più la pioggia, gli uomini sarebbero avvolti dalle tenebre e perirebbero tutti per la siccità. Così avviene anche quando la porta o il cielo della grazia celeste si chiude, e il peccatore resta nelle tenebre della sua coscienza e rimane privo della pioggia della compunzione; la terra che calpesta, cioè la vita attiva, nella quale lavora e suda, diventa di ferro, quando da essa non ricava alcun frutto di consolazione, ma solo gelo e durezza di mente: il ferro infatti è freddo e duro. Alla terra è data la polvere invece della pioggia quando, invece dell’effusione delle lacrime, viene data all’infelice anima la polvere dei pensieri inutili e frivoli, dai quali resta come accecata. Cade su di essa la cenere, quando ricerca solo le cose caduche e periture, dalle quali viene tormentata e distrutta. Quanto dolore e quanta sofferenza! Nella vita contemplativa nessuna dolcezza, in quella attiva nessuna consolazione, nell’orazione l’oscuramento della mente, nelle cose temporali traviamento! Ma si deve forse disperare? Si deve forse desistere dalla preghiera? No, certamente! E anche se la porta della grazia celeste è chiusa, forse lo è a causa dei nostri peccati, oppure è chiusa allo scopo di spronarci ad implorare e a scongiurare con maggiore insistenza. E anche se i bambini, vale a dire se gli spiriti angelici, per mezzo dei quali Dio infonde i doni della sua grazia e manda la consolazione nelle tribolazioni, sono con lui a letto, cioè nella pace eterna, per il fatto che non escono a farci questo servizio – di essi dice l’Apostolo: "Non sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza?" ( Eb 1,14 ) – si deve forse smettere di domandare il pane? "Non posso, dice, alzarmi a darti il pane". Osserva la Glossa: Non toglie la speranza di ottenere ma, dopo averne posto in evidenza la difficoltà, stimola ancor più il desiderio di pregare. "Ma se lui persisterà nel bussare, io vi dico …", ecc. Commenta ancora la Glossa: Se l’amico si alza e gli dà i pani, spinto non dall’amicizia ma solo dalla voglia di liberarsi da quella seccatura, quanto più generoso sarà Dio, il quale senza badare al fastidio, dà nella più larga misura quanto gli si domanda. Perciò, affinché l’anima nostra, convertitasi dalla vanità dell’errore, non languisca più a lungo per la mancanza di aspirazioni spirituali, chiediamo i pani, cerchiamo l’amico che ce li dia, bussiamo alla porta dove sono tenuti nascosti. Dà una grande speranza colui che non inganna con la sua promessa. "Si alzerà almeno a motivo della sua indiscrezione", perché la dura fatica ( l’ostinazione ) vince tutte le difficoltà, "e gliene darà", con l’infusione della sua grazia, "quanti gliene occorrono", anche se non sempre quanti egli ne vorrebbe. II. L’insistenza nella preghiera 4. "E io vi dico: Chiedete e vi sarà dato" ( Lc 11,9 ). Dice il profeta Zaccaria: "Chiedete al Signore la pioggia della sera, ed egli manderà la neve; e darà loro piogge abbondanti e a ciascuno erba nei campi" ( Zc 10,1 ). Nella neve che è candida e fredda è raffigurato il nitore della castità; nelle piogge abbondanti la compunzione accompagnata dalle lacrime; nell’erba la compassione per le necessità dei fratelli, che sempre deve verdeggiare nel campo del nostro cuore. Queste tre cose dobbiamo chiedere al Signore, anche se non al mattino presto, almeno sul far della sera, cioè in un secondo momento, giacché prima di tutto dovremmo cercare il regno di Dio e la sua giustizia ( cf. Mt 6,33; Lc 12,31 ). I mondani chiedono prima di tutto le cose terrene, e per ultime quelle eterne, mentre prima dovrebbero incominciare dal cielo, dove sta il nostro tesoro, e dove perciò dovrebbe essere anche il nostro cuore ( cf. Mt 6,21; Lc 12,34 ), e anche la nostra domanda. "Cercate e troverete" ( Lc 11,9 ). Dice la sposa del Cantico dei Cantici: "Mi alzerò e mi aggirerò per la città: per strade e piazze cercherò colui che la mia anima ama" ( Ct 3,2 ). La città raffigura la patria celeste, nella quale ci sono strade e piazze, vale a dire gerarchie angeliche minori e maggiori. L’anima alzandosi, vale a dire sollevandosi dalle cose terrene, va in giro quando contempla l’ardente amore dei serafini verso Dio, quando osserva la sapienza dei cherubini nei riguardi di Dio, e così degli altri ordini angelici, tra i quali è alla ricerca del suo sposo. Ma poiché egli è molto più in alto di tutti, non lo trova, e quindi è necessario che essa superi con lo sguardo della mente le sentinelle, cioè gli spiriti celesti, per poter trovare il suo amato. "Cercate e troverete". Dice Sofonia: "Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che avete praticato i suoi precetti; cercate la giustizia, cercate l’umiltà per trovarvi al riparo nel giorno della sua ira" ( Sof 2,3 ). E Amos: "Cercate il Signore e vivrete. Non rivolgetevi a Betel, non andate a Gàlgala e non passate a Bersabea" ( Am 5,4-5 ). I figli d’Israele avevano fabbricato dei vitelli d’oro e li avevano collocati a Betel, per adorarli in quel luogo ( cf. 1 Re 12,32 ). Nell’oro è simboleggiato lo splendore della gloria temporale, nel vitello la lussuria della carne. Non cercate queste cose. "Non andate a Gàlgala", che s’interpreta "pantano", figura del fango della lussuria, nel quale i porci si rotolano. "E non passate a Bersabea", che s’interpreta "settimo pozzo", vale a dire abisso di cupidigia, che è assolutamente senza fondo, come il settimo giorno del quale si legge che non ha fine. "Cercate, dunque, il Signore finché si fa trovare; invocatelo mentre è vicino" ( Is 55,6 ). 5. Infatti continua: "Bussate e vi sarà aperto" ( Lc 11,9 ). Leggiamo negli Atti degli Apostoli: "Pietro continuava a bussare. Quando finalmente aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti" ( At 12,16 ). Pietro, liberato dalla prigione per opera di un angelo, raffigura colui che per mezzo della grazia di Dio viene liberato dal carcere del peccato. Costui deve bussare con perseveranza alla porta della corte celeste, e allora gli angeli gli apriranno, presenteranno cioè al cospetto del Signore la sua devota orazione: e il loro stupore, per così dire, non è altro che la gioia che provano per un peccatore che fa penitenza ( Lc 15,10 ). III. L’amore del Padre verso il Figlio 6. "Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane …" ( Lc 11,11 ), ecc. Vedremo quale sia il significato di queste sei cose, che si contrappongono tra loro, e cioè: il pane e il sasso, il pesce e il serpente, l’uovo e lo scorpione. Il pane, così chiamato perché si pone [ in tavola ] insieme con ogni altro cibo, simboleggia la carità, la quale deve accompagnare ogni altro cibo di opere buone. "Tutto si faccia nella carità" ( 1 Cor 16,14 ). Come senza il pane la mensa sembra squallida, così senza la carità le altre virtù sono un nulla: esse sono perfette solo unite alla carità. Leggiamo a questo proposito nel Levitico: "Mangerete il vostro pane a sazietà e dimorerete senza paura nella vostra terra" ( Lv 26,5 ). Il Signore promette qui due cose, che avremo in modo perfetto nella vita futura: la sazietà della carità, della quale sarà ricolma l’anima, e la pace della terra, cioè della nostra carne. Ogni cristiano, figlio della grazia, deve chiedere a Dio Padre questo pane, per essere capace di amare Dio sopra tutte le cose e il prossimo come se stesso. Per questo prega: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" ( Lc 11,3 ). "Forse che gli darà un sasso?" ( Lc 11,11 ). Dice Giobbe: "Un torrente separa la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo peregrinante" ( Gb 28,3-4 ). Il torrente raffigura la compunzione delle lacrime, la quale separa la pietra della caligine, cioè la durezza della mente ottenebrata, e l’ombra della morte, cioè il peccato mortale che proviene dal diavolo il cui nome è morte ( cf. Ap 6,8 ), dal popolo peregrinante, cioè dai penitenti, i quali si considerano pellegrini in questo esilio. Quindi al figlio che domanda la carità, Dio Padre non dà la durezza del cuore, ma piuttosto la toglie. "Toglierò da voi il cuore di pietra", che è insensibile, "e vi darò un cuore di carne" ( Ez 36,26 ), in grado di sentire dolore. "O che chiede un pesce" ( Lc 11,11 ). Il pesce raffigura la fede nelle cose invisibili. Infatti come il pesce nasce immerso nell’acqua e in essa vive e si nutre, così la fede che riguarda Dio, viene generata in modo invisibile nel cuore; viene consacrata dalla grazia invisibile dello Spirito Santo per mezzo dell’acqua del battesimo; viene nutrita, affinché non venga meno, con il misterioso aiuto della protezione divina; compie tutto il bene che le è possibile in vista dei premi invisibili. O anche: la fede viene paragonata al pesce perché, come esso è continuamente sbattuto dalle onde del mare ma non ne viene ucciso, così la fede non viene scossa dalle avversità. Questo pesce ogni cristiano deve chiedere a Dio Padre dicendo: Concedimi di vivere e di morire nella fede dei tuoi apostoli e della tua santa chiesa cattolica. 7. "Forse che invece del pesce gli darà un serpente?" ( Lc 11,11 ). Il serpente è così chiamato perché si avvicina di nascosto, serpeggiando. I serpenti sono freddi per natura, e non attaccano se non quando si sono riscaldati. Alcuni affermano che i serpenti nascono dal midollo spinale di un uomo morto. Dicono che il serpente muore se gli si gettano sopra delle foglie di rovo. Si dice anche che se il serpente vede un uomo nudo, ha paura, mentre se lo vede vestito, lo attacca. E i serpenti gradiscono molto il vino, e mangiano la carne e le erbe, e succhiano gli umori dell’animale al quale si attaccano. Il serpente è il diavolo, che si avvicina di nascosto per tentare; oppure anche la sua perfidia che "serpeggia", va cioè di traverso come il granchio. Il diavolo, per innata malvagità è freddo, ma infiammato dall’ardore di nuocere, tenta di inoculare il veleno dell’infedeltà ( mancanza di fede ) nei fedeli, i soli che sono vivi. Invece tutti gli altri sono morti, perché uccisi dal veleno dell’infedeltà, che nasce dal loro stesso cuore e ne fuoriesce per dare la morte anche ad altri. Ma siano rese grazie a Dio che, contro questo veleno, ci ha dato un rimedio: le foglie del rovo. Il rovo, che ardeva e non si consumava ( cf. Es 3,2 ), simboleggia l’umanità di Cristo la quale, coperta degli aculei della sofferenza, bruciò nel fuoco della passione, ma non si consumò: "Si disseccò come un coccio la mia potenza" ( Sal 22,16 ). Le sue foglie, cioè le sue parole uccidono il serpente, vale a dire il diavolo e la sua perfidia. Il diavolo ha paura dell’uomo nudo, cioè del povero di Cristo, spoglio di cose temporali; ma quando vede l’uomo vestito, cioè ingordo, pieno di beni terreni, lo attacca, vale a dire lo assedia di tentazioni e, per quanto gli è possibile, gli inocula il veleno. Oppure: l’uomo nudo è colui che si è spogliato della veste della sua volontà; di lui dice il vangelo: "Gettato il mantello, balzò in piedi e corse da Gesù" ( Mc 10,50 ). Chi vuole ricevere la luce e giungere alla salvezza, deve prima di tutto gettare lontano la sua volontà. Chi invece vuole restare coperto con la veste della sua volontà, viene subito attaccato dal diavolo. Questo si constata chiaramente in Adamo: finché restò nell’obbedienza, il diavolo ebbe paura di lui: "Erano tutti e due nudi e non se ne vergognavano" ( Gen 2,25 ); ma quando si coprirono con la veste della loro volontà, il serpente li attaccò: "Quando si accorsero di essere nudi, intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture" ( Gen 3,7 ). Il diavolo poi gradisce molto il vino della lussuria, e la carne, cioè la carnalità della gola; ingoia anche volentieri le erbe, cioè lo splendore della gloria terrena; e dall’uomo, al quale si attacca approfittando del suo consenso, succhia ed estrae tutti gli umori, vale a dire la compunzione della mente. Dio Padre non darà mai un tale serpente al figlio suo che gli chiede un pesce; anzi, di un infedele fa un fedele, e lo richiama dalla morte alla vita. 8. "Oppure, se il figlio gli chiede un uovo …" ( Lc 11,12 ), ecc. Nell’uovo è simboleggiata la certezza della nostra speranza, perché nell’uovo si può vedere il feto non ancora perfetto, ma si spera, riscaldandolo, che giunga a maturazione. L’uovo deriva il suo nome dal lat. uvidum, umido: infatti nel suo interno è pieno di umore. Così colui che nutre la speranza dei beni eterni è pieno dell’umore della devozione. Si legge nella Storia Naturale che le uova si diversificano tra loro per la forma: alcune sono appuntite, altre tondeggianti. Le uova lunghe, con una estremità stretta, producono i maschi; quelle tondeggianti producono invece le femmine, e hanno le estremità larghe. Ci sono anche le "uova di vento", piccole e sterili, che non producono nulla. Quando durante la cova ci sono dei tuoni, le uova si guastano. Nelle uova appuntite è indicata la speranza dei beni eterni. Dimentico delle cose passate, dice l’Apostolo, sono proteso a quelle future ( cf. Fil 3,13 ). Nella lunghezza e nella parte stretta dell’uovo è simboleggiato il desiderio che l’anima nutre nella speranza del regno celeste. Da tale uovo nasce un maschio, cioè la vita virtuosa. Invece nelle uova larghe e tondeggianti è simboleggiata la speranza dei beni passeggeri, se può esser detta speranza. "Ciò che uno vede, come può sperarlo?" ( Rm 8,24 ). C’è appunto in tali uova la via larga che conduce alla morte ( cf. Mt 7,13 ). E ancora: "All’intorno ( lat. in circuitu ) si aggirano gli empi" ( Sal 12,9 ); "Dio mio, fa’ che siano come una ruota" ( Sal 83,14 ). Da queste uova nasce una femmina, cioè una vita effeminata. E tale speranza è ottusa, cioè oscura, perché preferisce le tenebre alla luce ( cf. Gv 3,19 ). Questa speranza è raffigurata nell’uovo di vento, perché è volubile e piena di vento. Infatti dice Osea: "Hanno seminato vento: raccoglieranno tempesta" ( Os 8,7 ). Quale il seme, tale il frutto, perché chi semina vanità, raccoglierà dannazione. La speranza posta nel vento non produce il frutto della carità; è piccola e meschina perché non cresce in Dio; è insipida perché la sua sapienza non è condita con il divino sapore. Infine, quando all’inizio della conversione e della nuova vita scoppiano i tuoni, cioè le tentazioni della prosperità o delle avversità, queste riescono spesso a guastare le uova della speranza e dei santi propositi. Quindi il figlio della grazia deve domandare al Padre della misericordia l’uovo della speranza dei beni eterni perché, come dice Geremia, "benedetto è l’uomo che confida nel Signore: il Signore stesso sarà la sua speranza" ( Ger 17,7 ). 9. "Forse che il padre gli darà uno scorpione?" ( Lc 11,12 ). Come si deve aver paura del pungiglione che lo scorpione ha sulla coda, così è un atto contrario alla speranza guardare indietro, cioè al passato: la speranza è la virtù che si protende in avanti, che aspira cioè ai beni futuri. Lo scorpione, che ha la caratteristica di non ferire il palmo della mano, lambisce con la bocca, ma intanto la coda, nella quale ha due pungiglioni, colpisce e inocula il veleno. Il palmo della mano è così chiamato in quanto è glabro e non ha peli. La mano raffigura l’opera buona, il palmo la retta intenzione nell’operare. Il pelo nel palmo o nell’occhio è l’intenzione cattiva. Leggiamo nel vangelo: "Se il tuo occhio" – cioè la tua intenzione – "è limpido, tutto il tuo corpo" – cioè il tuo operare – "sarà luminoso" ( Lc 11,34 ). Lo scorpione è il diavolo che, mentre blandisce, lusinga con la suggestione, e alla fine colpisce con i due pungiglioni della coda: infatti nella vita presente avvelena con il peccato il corpo e l’anima, e poi in quella futura manda entrambi all’eterna punizione. Beato colui che nella mano delle sue opere ha il palmo della retta intenzione, che il diavolo non è in grado di danneggiare. Infatti il palmo senza macchia della retta intenzione purifica e rende bello il volto e tutto il corpo. "Se dunque voi, che siete cattivi …" ( Lc 11,13 ), ecc. Tutte le creature al cospetto della bontà divina sono cattive, perché "nessuno è buono se non Dio solo" ( Lc 18,19 ). Il paragone è quanto mai appropriato. Infatti se l’uomo peccatore, ancora sotto il peso della fragilità della carne, non si rifiuta di dare i beni temporali ai figli che glieli chiedono, a maggior ragione il Padre celeste largisce ai figli, che vivono in terra nel suo timore e nel suo amore, i beni imperituri nel cielo. Colui che è benedetto nei secoli si degni di elargire anche a noi questi beni eterni. Amen. IV. Sermone morale 10. "Vennero da Sichem, da Silo e da Samaria ottanta uomini con la barba rasa, con le vesti stracciate, smunti e macilenti: avevano in mano doni e incenso da offrire nella casa del Signore" ( Ger 41,5 ). Così ci dice Geremia. Come quegli uomini si unirono insieme per pregare il Signore, così anche noi in questi giorni ci raduniamo nella preghiera: perciò questi giorni sono chiamati in greco litanèia ( litanie, suppliche ) e in it. rogazioni ( dal lat. rogare, pregare, domandare ). Le rogazioni sono state istituite per pregare il Signore e per ottenere da lui qualche cosa. Proprio per questi due scopi sono state istituite: per pregare Dio che ci perdoni i peccati; infatti dice Isaia: "Mi chiedono giudizi giusti e vogliono avvicinarsi a Dio" ( Is 58,2 ); e per ottenere i benefici della sua misericordia, sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. E noi per meritare di ricevere questi benefici dobbiamo fare spiritualmente ciò che quegli uomini hanno fatto materialmente. Gli "ottanta" raffigurano tutti quelli che, "nei sette giorni" della vita presente, vivono operando il bene nell’attesa dell’ottavo giorno, quello della risurrezione. Tutti sono chiamati uomini ( lat. viri ), perché non compiono opere frivole o vane, ma solo atti di virtù. Infatti il sostantivo vir, uomo, viene dalla parola virtus, virtù, fortezza. Questi uomini vengono da Sichem che s’interpreta "fatica", e da Silo che s’interpreta "dov’è lui?", e da Samaria, che s’interpreta "lana", termine che deriva dal lat. laniare, dilaniare, cioè lacerare, strappare. Queste tre località simboleggiano le tre caratteristiche che riguardano i beni temporali: si conquistano con fatica e travaglio; si conservano con il timore di perderli: infatti l’avaro dice sempre: "Dov’è lui?", cioè il denaro; si perdono con grande dispiacere: ecco la "dilaniazione", cioè lo strazio del cuore. Deve disprezzare tutte queste cose colui che vuole veramente pregare il Signore. 11. "Con la barba rasa". Nel fatto di radersi la barba è simboleggiata l’opera virtuosa. Dice il salmo: "Come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne" ( Sal 133,2 ). Aronne s’interpreta "monte eccelso", e raffigura l’uomo costante, che stende la mano a cose eccelse ( cf. Pr 31,19 ), sul cui capo, cioè nella cui mente, è sparso l’olio profumato della grazia divina. I pugili che si accingono al combattimento sono soliti ungersi il capo. Così Dio unge la mente del giusto affinché sia forte contro l’antico avversario. Questo unguento scende su tutta la barba, parola che il salmo dice due volte, perché dall’abbondanza della grazia interiore vengono profumate le grandi opere del duplice comandamento della carità. E si rade la barba colui che mai presume di affidarsi al valore delle sue opere buone. Dice infatti Isaia: "In quel giorno il Signore, con un rasoio affilato", o preso in prestito, "raderà il capo, il pelo delle gambe e tutta la barba a coloro che sono oltre il fiume" ( Is 7,20 ). Al di là del fiume dei piaceri mondani stanno i penitenti, ai quali il Signore con il rasoio affilato, o preso in prestito, della sua passione rade ogni presunzione e fiducia nel bene operato. Chi può infatti presumere o gloriarsi del bene operato, quando vede il Figlio del Padre, fortezza e sapienza del Padre ( cf. 1 Cor 1,24 ), inchiodato in croce, sospeso in mezzo a due ladroni? Nel capo, nelle gambe e nella barba sono simboleggiati l’inizio, la continuazione e il compimento dell’opera buona; e il Signore rade nel penitente tutto questo, quando gli vieta di confidare o di gloriarsi sia all’inizio, che nella continuazione e nel compimento dell’opera buona, perché "chi si gloria, si glori nel Signore" ( 1 Cor 1,31; 2 Cor 10,17 ), e non in se stesso. 12. "E con le vesti strappate". Le vesti simboleggiano le membra del corpo. Dice infatti l’Apocalisse: "Hai nella città di Sardi poche persone che non hanno macchiato le loro vesti" ( Ap 3,4 ), cioè le loro membra. Sono veramente poche a Sardi quelle persone. Sardi s’interpreta "bellezza del dominio", e in ciò è indicata la verginità, e chi la conserva possiede veramente la bellezza del dominio. Quale splendido dominio quando il creatore domina lo spirito, e lo spirito domina la carne! Si strappa le vesti colui che non risparmia se stesso nel mortificare il corpo. È detto di Giobbe: "Si alzò, si strappò la tunica; tosatosi il capo si prostrò a terra e adorò Dio" ( Gb 1,20 ). Giobbe, che s’interpreta "dolente", è figura del penitente che si duole nella contrizione, si alza nella confessione, si strappa la tunica, cioè castiga la sua carne per riparare al peccato, si tosa il capo con l’umiltà della mente, si prostra per terra nella meditazione della morte, e adora Dio nel rendimento di grazie. "Smunti e macilenti". Il latino dice squalentes, squallidi. Lo squallore significa pallore, magrezza, sporcizia e denutrizione. I grandi penitenti hanno questo squallore: sono pallidi in viso, magri nel corpo, miseri nelle vesti e sobri nel mangiare. 13. "Avevano in mano doni e incenso". Dice la Storia Naturale che la mano dell’uomo, datagli dal creatore, è adatta a qualsiasi lavoro, perché è aperta e larga, è articolata in varie parti: e se ne può usare una parte sola, o due e anche molte, a seconda delle circostanze. E l’agilità e le articolazioni delle dita danno la capacità di prendere e di trattenere. Nella mano è simboleggiata l’attività caritativa; dobbiamo stendere la mano ad utilità del prossimo e articolarla, per così dire, in tante parti a seconda delle necessità. Viene usata una sola parte ( della mano ), quando ci dedichiamo solo a Dio; ne vengono usate due parti, quando si somministra al prossimo il nutrimento dell’anima e del corpo. L’agilità delle dita, cioè la pratica delle virtù nella vita attiva, compie due cose: prende la grazia data da Dio, quindi la trattiene, cioè la conserva, per non perderla. In questa mano, dunque, dobbiamo avere i doni della fortezza, della carità e dell’elemosina, e l’incenso della devozione interiore, affinché tutto ciò che facciamo, sia fatto con devozione. "Per offrirli nella casa del Signore". E questo è ciò che si dice anche nell’Apocalisse: "E il fumo degli incensi, con le preghiere dei santi, salì davanti a Dio per mano dell’angelo" ( Ap 8,4 ). Chi cerca la propria lode per le buone opere che compie, non offre doni nella casa di Dio e neppure il fumo dell’incenso sale davanti al Signore. Veniamo così istruiti a fare l’offerta delle nostre opere nella casa del Signore, davanti a lui, cioè con pura coscienza nella quale egli dimora, e da lui solo attendere la ricompensa. Solo così, mediante il ministero degli angeli deputati alla nostra custodia, la nostra devozione salirà a Dio e la sua grazia scenderà su di noi, affinché anche noi diveniamo finalmente capaci di salire alla sua gloria. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. L’ascensione del Signore 1. In quel tempo: "Mentre gli Undici stavano a mensa, apparve loro Gesù" ( Mc 16,14 ). In questo brano del vangelo si devono considerare tre fatti: - l’ultima apparizione di Cristo, - l’invio degli apostoli alla predicazione, - l’ascensione di Cristo al cielo. I. L’ultima apparizione di Cristo 2. "Mentre gli Undici stavano a mensa". Nota che Gesù, dopo la sua risurrezione, apparve ai suoi discepoli dieci volte. Apparve cinque volte nel giorno stesso della risurrezione, come vedremo nel sermone sulla Risurrezione del Signore: "Fiorirà il mandorlo". La sesta volta apparve a Tommaso, insieme agli altri discepoli, otto giorni dopo essere risorto. La settima volta al mare di Tiberiade. L’ottava volta sul monte, al quale li aveva mandati. La nona e la decima volta in questo giorno dell’Ascensione. In questo giorno andò da loro a Gerusalemme e disse: "Restate in città, finché non sarete rivestiti della potenza dall’alto" ( Lc 24,49 ). E poiché mangiò con loro, se ne deduce che era passata l’ora sesta, cioè il mezzogiorno: e questa fu la nona apparizione. Poi li condusse fuori, al monte degli Ulivi, verso Betania. Alzate le mani, li benedisse. E sotto i loro occhi si innalzò verso il cielo, avvolto in una nube splendente che sembrava sollevarlo: e questa fu la decima apparizione. "Mentre dunque gli undici discepoli erano a mensa, apparve loro Gesù". In lat. è detto recumbentibus, cioè mentre erano distesi ( adagiati ) a mensa, secondo l’uso del tempo. Osserva che Gesù appare solo a chi è disteso nella quiete, nella pace e nell’umiltà. Dice infatti Isaia: "A chi volgerò il mio sguardo, se non al poverello, al contrito di spirito e a colui che teme le mie parole?" ( Is 66,2 ). Nell’acqua torbida e agitata non vede il suo volto chi vi si specchia. Se vuoi che appaia in te il volto di Cristo che ti guarda, distenditi e riposa. "Fermatevi in città – disse – fino a che non siate rivestiti della potenza dall’alto". Restare in città significa raccogliersi nella propria coscienza e tenersi lontano dal chiasso esteriore. Si legge infatti nel secondo libro dei Re che Davide si stabilì nella sua casa di cedro e il Signore gli diede tregua da tutti i suoi nemici all’intorno ( cf. 2 Sam 7,1-2 ). Si legge nella Storia Naturale che il cedro è un albero molto alto, di gradevole profumo e di vita lunga; con il suo profumo mette in fuga i serpenti e ha la particolarità di fare frutto di continuo, in inverno e in estate. La casa di cedro è la coscienza del giusto: è alta per l’amore di Dio, di gradevole profumo per la sua onesta condotta, ha vita lunga per la perseveranza; con il profumo della sua onestà o della sua preghiera devota mette in fuga i serpenti, vale a dire gli impulsi carnali o i demoni, e sia nell’inverno dell’avversità che nell’estate della prosperità produce frutti di eterna salvezza. Chi dimora in tale casa sta al sicuro da tutti i nemici all’intorno, cioè dal diavolo, dal mondo e dalla carne, e gode della pace, perché si riveste di potenza dall’alto, e non dal basso, cioè dal mondo. Chi si riveste della potenza del mondo, viene facilmente sconfitto nella guerra; chi invece si riveste della potenza dall’alto, cioè della potenza dello Spirito Santo, distrugge i nemici e compie le opere di virtù. 3. "Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato" ( Mc 16,14 ). O infelici coloro che non credono a Pietro, al quale Cristo apparve, e che lo vide risuscitato dai morti! Dice Pietro: "Avete ucciso l’autore della vita, che Dio ha risuscitato dai morti, e di questo noi siamo testimoni" ( At 3,15 ), "noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui, dopo che fu risuscitato da morte" ( At 10,41 ): e in questo è prefigurata la reale risurrezione della carne. Non credono che Cristo sia risuscitato dai morti coloro che negano la finale risurrezione dei corpi. Perciò leggiamo nella prima lettera ai Corinzi: "Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dai morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato; e se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede" ( 1 Cor 15,12-14 ). Nella finale risurrezione dei corpi, Dio ripudierà e condannerà gli increduli e i duri di cuore, i quali ora non credono che essa avverrà. II. L’invio degli apostoli alla predicazione 4. Gli apostoli vengono mandati a predicare dove è detto: "Andate in tutto il mondo" ( Mc 16,15 ). C’è un comando simile anche in Isaia: "Andate, veloci messaggeri, ad un popolo disperso e straziato, ad un popolo tremebondo come nessun altro, ad un popolo in attesa e oppresso" ( Is 18,2 ). Il genere umano era stato disperso, scacciato dalla felicità del paradiso terrestre, era straziato dalla persecuzione diabolica, pieno di terrore per le pene dell’inferno minacciate all’anima, e oppresso nei riguardi del corpo per la prospettiva della corruzione: e tuttavia aspettava il Salvatore del mondo. A questo popolo il Salvatore mandò i veloci messaggeri, cioè gli apostoli obbedienti, dicendo: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a tutte le creature" ( Mc 16,15 ), cioè a tutto il genere umano, che ha qualcosa in comune con ogni creatura, con gli angeli, con gli animali, con le piante, con le pietre, con il fuoco e con l’acqua, con il caldo e con il freddo, con l’umido e con il secco, perché l’uomo è un microcosmo, cioè un piccolo mondo. "Chi crederà", ossia chi professerà la fede per se stesso o per mezzo di un altro, "e sarà battezzato", cioè persevererà nella grazia ricevuta con il battesimo, "sarà salvo; chi invece non crederà, sarà condannato. E questi saranno i miracoli che accompagneranno coloro che credono: nel mio nome scacceranno i demoni", ecc. ( Mc 16,16-17 ). In quel tempo avvenivano i miracoli a favore degli infedeli chiamati alla conversione; adesso invece, poiché la fede è adulta, il miracolo è cessato. Anche noi infatti, quando impiantiamo delle pianticelle, le innaffiamo fino a che mettono le radici in terra e s’irrobustiscono. 5. Senso morale. Il mondo è così chiamato perché è sempre in movimento ( lat. mundus, motus ). Ai suoi elementi non è concesso riposo. Il mondo ha quattro parti: l’oriente, l’occidente, il meridione e il settentrione. Come il mondo consta di queste quattro parti, così anche l’uomo, che è un piccolo mondo, consta – a detta degli antichi – di quattro fluidi ( indoli ) commisti, in giusta proporzione, in un unico temperamento. Il misero uomo dall’inizio alla fine della sua vita è sempre in movimento, e mai riposa finché non arriva al suo "luogo", cioè a Dio. Dice infatti Agostino: "Inquieto è il nostro cuore, o Signore, finché non riposerà in te". "E nella pace è il suo luogo" ( Sal 76,3 ). Il luogo dell’uomo è Dio: non ci sarà mai pace se non in lui, e quindi a lui si deve tornare. I momenti principali della vita dell’uomo sono: l’oriente della nascita, l’occidente della morte, il meridione della prosperità e il settentrione delle avversità. In questo mondo dobbiamo andare: "Andate in tutto il mondo", per meditare come eravate al momento della vostra nascita, come sarete al momento della morte; come siete quando vi sorride la prosperità e come vi comportate quando si abbatte su di voi l’avversità: osservate se quella vi esalta e questa vi deprime. Da questa quadruplice meditazione scaturisce un quadruplice profitto: la diffidenza di sé, il disprezzo del mondo, l’equilibrio per non esaltarsi, la pazienza per non deprimersi e scoraggiarsi. È bene quindi andare in tutto il mondo e predicare il vangelo a tutte le creature. Dice l’Apostolo: "Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove" ( 2 Cor 5,17 ). E il salmo: "Il popolo che sarà creato [ nuovo ] darà lode al Signore" ( Sal 102,19 ); e Isaia: "Ecco, io creo Gerusalemme, città di esultanza e il suo popolo, popolo di gaudio. E io esulterò di Gerusalemme e godrò del mio popolo" ( Is 65,18-19 ). Creare significa fare qualcosa dal nulla. L’uomo, quando è in peccato mortale, è nulla, perché Dio, che veramente è, non è in lui con la grazia. "L’uomo – dice Agostino – quando pecca diventa un nulla"; ma quando, per mezzo della grazia di Dio si converte e fa penitenza, viene creata in lui una nuova creatura, cioè una nuova e pura coscienza. E questa è Gerusalemme, cioè la città della pace, che esulta per la misericordia di Dio che le è stata elargita. Viene creato anche "un popolo" di molti e buoni pensieri e sentimenti, in cui c’è il gaudio e la lode a Dio, provenienti dalla sua dolcezza che esso pregusta. E allora le cose vecchie, vale a dire le opere e l’incallito comportamento dei cinque sensi, passano, si allontanano, e ne nascono di nuove in Cristo, affinché l’uomo non viva più per se stesso, ma per Cristo che è morto per lui ( cf. 2 Cor 5,15 ). Queste dunque sono "tutte le creature": l’uomo esteriore e interiore e il rinnovamento prodotto dalla grazia. A questa creatura dobbiamo predicare il vangelo del Regno, cioè annunziare il bene: la parola greca "evangelo" significa appunto "buon annunzio". Annuncia il bene ad ogni creatura colui che si orna di virtù internamente e esternamente. Predica il vangelo del Regno colui che, nel segreto del suo cuore, considera quanto grande sarà la gloria di contemplare, insieme con gli spiriti beati, il volto del creatore, lodarlo senza fine insieme con essi, vivere sempre con lui che è la vita, e godere perennemente di una felicità inesprimibile. Da questa predicazione provengono due risultati: "Chi crederà e sarà battezzato". Credere vuol dire "dare il cuore" ( lat. credo, cor do ). Figlio mio, dice Gesù, dàmmi il tuo cuore! ( cf. Pr 23,26 ). Chi dà il cuore, dà tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio; viene battezzato, quando si inonda di lacrime o per la dolcezza della contemplazione divina, o per il ricordo della sua iniquità, oppure per la compassione che prova di fronte alle necessità dei fratelli. "Invece chi non crede", non dà il cuore a Dio, e se non lo dà a Dio, necessariamente lo darà al diavolo, o alla carne, o al mondo. E chi avrà fatto questo, "sarà condannato". 6. "E questi sono i miracoli che accompagneranno quelli che credono". Il miracolo è chiamato in latino signum, segno. I segni accompagneranno coloro che hanno dato il cuore a Dio, perché già sul loro cuore c’è il segno di cui parla il Cantico dei Cantici: "Méttimi come un segno sopra il tuo cuore" ( Ct 8,6 ). Quando vogliamo difendere dai ladri una nostra proprietà, la nostra casa o i nostri beni, siamo soliti apporvi un segno, un marchio, come la bandiera del re o di qualche potente, perché vedendolo, i ladri non osino penetrarvi. Così se vogliamo difendere il nostro cuore dai demoni, mettiamo su di esso, come segno, Gesù, che è la salvezza: dove c’è salvezza c’è incolumità. Ed ecco i segni, i miracoli: "Nel mio nome scacceranno i demoni" ( Mc 16,17 ). "Demoni" è un termine preso dalla lingua greca. In greco dàimon significa "esperto", "perito", che conosce le cose. I demoni raffigurano la sapienza della carne e l’astuzia del mondo, le quali, a guisa di demoni, tormentano l’uomo, lo spirito dell’uomo e con insistenza affliggono il suo corpo. La sapienza della carne simboleggia il demonio notturno, l’astuzia del mondo il demonio meridiano. La sapienza della carne è cieca, per quanto essa sia convinta di vederci molto bene: solo nella notte ha la vista acuta, come il gatto. L’astuzia del mondo, poiché arde del calore della malizia, è come il sole a mezzogiorno. Chi ha dato il cuore a Dio, scaccia via da sé questi demoni e farà anche tutti gli altri segni di cui parla il vangelo. "Parleranno lingue nuove" ( Mc 16,17 ). La lingua del mondo è una lingua vecchia, perché dice cose vecchie dell’uomo vecchio. Coloro che sono tormentati dai demoni sopraddetti, parlano questa lingua; ma quando li scacciano via da sé, parlano lingue nuove nella novità della loro vita. Dice infatti Isaia: "In quel giorno ci saranno cinque città nella terra d’Egitto che parleranno la lingua di Canaan e giureranno per il Signore degli eserciti: la prima si chiamerà "Città del Sole" ( Is 19,18 ). La terra d’Egitto, nome che significa "tenebre", raffigura il corpo dell’uomo, coperto dalle tenebre della colpa e dei castighi: in esso ci sono cinque città, cioè i cinque sensi del corpo, il primo dei quali, cioè la vista, è chiamato "Città del Sole", perché, come il sole illumina tutto il mondo, così la vista illumina tutto il corpo. Queste città parlano la lingua di Canaan, che significa "cambiata": per il cambiamento operato dalla destra dell’Altissimo ( cf. Sal 77,11 ), si spogliano dell’uomo vecchio con le sue azioni e indossano l’uomo nuovo, vivendo nella giustizia e nella verità ( cf. Ef 4,24; Col 3,9 ). Come parlando si porta all’esterno la parola che è nascosta nel cuore, così i cinque sensi dell’uomo, ormai cambiati e convertiti a Dio, parlano di lui all’esterno come lo hanno all’interno, e in questo appunto consiste il giurare: affermare la verità. Infatti la verità della coscienza si afferma e si conferma con la testimonianza della vita santa, a lode del Signore degli eserciti, cioè del Signore degli angeli. E ancora: "Prenderanno i serpenti" ( Mc 16,18 ), nei quali sono simboleggiate l’adulazione e la detrazione, che avanzano serpeggiando di nascosto e inòculano il veleno. L’adulatore avanza serpeggiando e il detrattore inòcula il veleno. Coloro che parlano lingue nuove, scacciano da sé questi serpenti: "Siano lontane dalla vostra bocca le cose vecchie" ( 1 Sam 2,3 ). La saliva dell’uomo digiuno uccide il serpente; la lingua digiuna, cioè mortificata, è come una lingua nuova, il cui contravveleno annulla il veleno. Ma l’antico serpente adulava, per così dire, Eva quando diceva: "Non morirete affatto!", e quasi calunniava Dio dicendo: "Dio sa che nel giorno in cui mangerete dell’albero proibito, si apriranno i vostri occhi e sarete come dèi, conoscendo il bene e il male" ( Gen 3,4-5 ). Come dicesse: Dio vi ha proibito questo perché è invidioso, e non vuole che voi diventiate simili a lui nella scienza. Ecco come l’adulazione avanza serpeggiando, e la detrazione inòcula il veleno. Chi invece ha la lingua digiuna, sputi in bocca al serpente e lo uccida, e così lo scacci da sé. 7. Ancora: "Se berranno qualche veleno, non recherà loro danno" ( Mc 16,18 ). Dice la Glossa: Quando sentono le pestifere suggestioni diaboliche, è come se bevessero qualcosa di micidiale, che però non reca loro danno, perché non le portano ad esecuzione. E dice Isaia: "Non berranno più vino cantando: ogni bevanda sarà amara per i bevitori" ( Is 24,9 ), e quindi non recherà loro danno. Non beve, cantando, il vino della suggestione diabolica, colui che non vi acconsente, anzi la respinge, ne soffre e piange; e quindi la bevanda stessa, cioè la suggestione del diavolo, è amara per coloro che la bevono, cioè per quelli che l’avvertono e sono costretti a subirla. Al contrario Gioele dice: "Alzatevi, ubriachi, e piangete e mandate lamenti voi tutti che bevete il vino con piacere, perché sarà tolto dalla vostra bocca" ( Gl 1,5 ). E così avviene proprio alla lettera, perché il piacere del vino sparisce immediatamente dalla bocca, non appena scende per la gola. Quanti mali cagiona un brevissimo piacere a colui che, con il consenso della mente e delle opere, beve il vino della suggestione diabolica! Agli ubriachi di questo vino è detto: "Alzatevi!" nel ricordo del vostro peccato, "piangete" nella contrizione del cuore, "mandate lamenti" nella confessione. Chi avrà realizzato in sé i quattro segni di cui abbiamo parlato, potrà certamente operare anche il quinto a favore del prossimo: "Imporranno le mani ai malati, e questi guariranno" ( Mc 16,18 ). Ammalato si dice in lat. æger, che suona come egens, bisognoso, perché ha bisogno di un rimedio, di una medicina. L’ammalato è il peccatore che ha veramente bisogno della medicina, cioè dell’esempio delle buone opere. E impone le mani su di lui perché si senta meglio, cioè perché ritorni alla penitenza, colui che non solo lo incoraggia con la parola della predicazione, ma anche lo sostiene con l’esempio della vita santa. Amen. III. L’ascensione di Gesù al cielo 8. "E il Signore Gesù", che era disceso dal cielo, "dopo aver parlato loro, fu assunto in cielo" ( Mc 16,19 ). Troviamo la concordanza nei Proverbi di Salomone: "Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi racchiuse lo spirito ( vento ) nelle sue mani? Chi raccolse le acque nel suo manto? Chi innalzò tutti i confini della terra? Qual è il suo nome, o qual è il nome del suo figlio, se lo sai?" ( Pr 30,4 ). Fa’ attenzione alle tre parole: racchiuse, raccolse, innalzò. Il Figlio di Dio Padre, Gesù Cristo, discese dal cielo e assunse la nostra carne mortale, e salì quindi al cielo proprio con essa, divenuta immortale: di lassù mandò lo Spirito della grazia settiforme, che egli racchiude nelle mani della sua potenza. Ed è così, perché lo dà a chi vuole e quando vuole, e lo chiude quando vuole. Dice infatti Giobbe: "Nasconde nelle mani la luce e le ordina di apparire di nuovo. Annunzia a chi gli è amico che essa è sua proprietà e che ad essa può avvicinarsi" ( Gb 36,32-33 ). A chi è amico di Dio viene manifestata talvolta una certa luce nella coscienza, una luce di interiore letizia, come un lume che, rinchiuso tra le mani, si vede e si occulta ad arbitrio di colui che lo tiene: e questo perché l’animo s’infiammi per giungere al possesso della luce eterna e all’eredità della piena visione di Dio. Parimenti, il Figlio di Dio raccoglie, cioè frena le acque, vale a dire la concupiscenza carnale, nel manto, cioè nel corpo, del quale l’anima è ricoperta come di una veste. Dice Giobbe: "Io mi consumerò e andrò in putrefazione, come una veste che viene consumata dalla tignola" ( Gb 13,28 ). La tignola nasce dalla veste e poi la corrode: la corruzione nasce dal corpo e poi lo distrugge. Il Figlio di Dio racchiude in questa veste gli istinti dei sensi con il legame dell’amore e la fune del timore, affinché non ne escano le acque della concupiscenza carnale, e così risveglia alla penitenza e alla gloria eterna tutti i confini della terra, cioè coloro nei quali ormai la condizione terrena è conclusa. Perciò "fu assunto in cielo", per sollevare con sé la terra e farla cielo; infatti il Padre per bocca di Isaia gli dice: "Ho posto le mie parole nella tua bocca e ti ho custodito all’ombra delle mie mani, perché tu impianti i cieli e fondi la terra e dica a Sion: Tu sei mio popolo" ( Is 51,16 ). E il Figlio stesso dice: "Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui" ( Gv 8,26 ). Nell’ora della passione il Padre lo protesse all’ombra della mano della sua potenza, perché gli prestò conforto nel momento in cui più infieriva la crudeltà dei giudei. Dice il salmo: "Stendesti la tua ombra sopra il mio capo nel giorno della battaglia" ( Sal 140,8 ), nella quale con le mani inchiodate sulla croce distrusse le potenze dell’aria. Egli impiantò i cieli, cioè la divinità, sulla terra della nostra umanità e fondò la terra della nostra umanità nel cielo, cioè ve la stabilì per sempre. Quindi conclude: "E sedette alla destra di Dio" ( Mc 16,19 ). E nel salmo: "Disse il Signore", il Padre, "al mio Signore", cioè al Figlio suo: "Siedi alla mia destra" ( Sal 110,1 ): vale a dire: Ripòsati e regna con me sui beni più preziosi. Lo stesso Gesù, partecipe della nostra natura, renda anche noi partecipi di questi beni, lui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone allegorico 9. "Ho attraversato questo Giordano portando solo il mio bastone, ed ora ritorno con due schiere" ( Gen 32,10 ). Queste parole disse Giacobbe quando dalla Mesopotamia ritornava alla sua terra natale. Possono benissimo essere attribuite a Cristo che da questa terra fa ritorno al Padre, e il cui bastone fu la croce. Leggiamo nel primo libro dei Re: "Il filisteo disse a Davide: Sono io forse un cane, perché tu mi venga contro con un bastone?" ( 1 Sam 17,43 ). Il filisteo, nome che s’interpreta "cade per aver bevuto", o anche "doppia rovina", raffigura il diavolo che, ubriaco di superbia, cadde dal cielo, e fece poi cadere l’uomo nella duplice rovina dell’anima e del corpo. È chiamato cane perché con le sue suggestioni abbaia contro gli innocenti e non riconosce il padrone, cioè il suo Creatore; il nostro Davide, Cristo, per combattere per noi contro di lui, lo affrontò con il bastone della croce. Ecco perché nello stesso libro dei Re è detto poco sopra: "Davide prese il suo bastone, che sempre aveva per mano; si scelse quindi dal torrente cinque ciottoli ben levigati e li pose nella sacca da pastore, che portava con sé; prese in mano la fionda e mosse contro il filisteo" ( 1 Sam 17,40 ). Ecco le armi con le quali Gesù Cristo uccise il nostro nemico. Cristo ebbe sempre nelle sue mani il bastone della croce: prima della passione lo ebbe nelle opere, nella passione fu inchiodato ad essa per le mani, dopo la passione ne conservò nelle mani le ferite, per mostrarle per noi al Padre. Dice infatti Isaia: "Ecco che io ti ho scritto nelle mie mani" ( Is 49,16 ). Osserva che per scrivere qualche cosa sono necessari almeno tre strumenti: la carta, la penna e l’inchiostro. La carta fu la mano di Cristo, la penna il chiodo e l’inchiostro il suo sangue. La sua scrittura fornisce la prova della nostra liberazione, cònfuta il nemico e ci riconcilia con Dio Padre. I cinque ciottoli ben levigati raffigurano le cinque piaghe di Gesù Cristo, che egli prese dal torrente della nostra umanità. La sacca da pastore raffigura l’amore, con il quale ci ha amati sino alla fine: "Il buon pastore – ha detto – dà la sua vita per le sue pecore" ( Gv 10,11 ). Mise in questa sacca i cinque ciottoli ben levigati, perché per l’amore che nutriva per noi, ricevette su di sé le cinque piaghe, le quali ci resero ben levigati, cioè puri e luminosi. La fionda, che ha due strisce di cuoio di pari lunghezza, raffigura l’imparzialità della giustizia, per la quale condannò il diavolo e strappò dalle sue mani il genere umano. Fu giusto infatti e legittimo che il diavolo perdesse il potere che aveva sul genere umano, sul quale presumeva di avere qualche diritto, lui che osò stendere la mano su Cristo, sul quale diritti certamente non ne aveva. "Viene il principe di questo mondo, ma su di me non ha alcun potere" ( Gv 14,30 ), perché "tra i morti io sono libero" ( Sal 88,6 ): tuttavia Cristo è passato attraverso la morte, per liberare i morti. Dice infatti: "Con il mio bastone ho attraversato questo Giordano". "Nel suo viaggio bevve al torrente: per questo sollevò in alto il capo" ( Sal 110,7 ). Sul "bastone" della croce, solo, povero e nudo, passò dalla riva della nostra mortalità, della nostra condizione mortale, a quella della sua immortalità, attraverso il fiume del giudizio – questo significa il nome Giordano –, vale a dire attraverso lo spargimento del suo sangue con il quale giudicò il diavolo, cioè lo condannò e ne distrusse il potere. 10. E quanto grande vantaggio sia venuto a noi da questo suo passaggio, si comprende quando aggiunge: "E adesso", cioè oggi, "ritorno con due schiere". La sua partenza dal Padre, il suo ritorno al Padre, la sua discesa agli inferi e la sua ascensione fino al trono di Dio: ecco il "cerchio ( l’anello ) posto nelle narici di beemot ( ippopotamo ) ( cf. Gb 40,10.21 ) e di Sennacherib" ( 2 Mac 15,22 ), al quale il Signore dice: "Metterò un anello alle tue narici e un morso alle tue labbra e ti rimanderò per la strada per la quale sei venuto" ( Is 37,29 ). Cristo, sapienza del Padre, che, come il cerchio, non ha principio né fine, uscendo dal Padre e al Padre ritornando, riunendo in se stesso tutte le cose e racchiudendole nel suo cuore, smascherò la perfidia del diavolo, raffigurata nelle narici. Infatti, come per mezzo delle narici percepiamo le cose a distanza, così il diavolo, con l’acutezza della sua astuzia ( perfidia ) capisce a quale vizio un uomo è maggiormente incline, e quindi si sforza di catturarlo con quello. Nel morso ci sono due elementi: il ferro e la briglia; il ferro si mette nella bocca del cavallo, con la briglia lo si frena e lo si guida. Cristo, nella sua passione, con i chiodi e con la briglia della sua umanità fabbricò un morso con cui domare e frenare il diavolo, perché non corresse a suo piacimento, ma ritornasse indietro per la via per la quale era venuto. Era venuto per mezzo di Eva, di Adamo e del frutto dell’albero proibito: ma dovette ritornare indietro, e ciò che aveva rapito con l’astuzia, lo perdette per opera di Maria, per opera di Cristo e per mezzo del legno della croce; con questo legno passò il nostro Giacobbe che sconfisse il diavolo e oggi è ritornato in cielo con due squadre. Giacobbe divise in due squadre tutta la gente che era con lui ( cf. Gen 32,7 ): le schiave e i loro figli erano nella prima squadra; nella seconda le donne libere, ossia Lia e Rachele e i loro figli. Queste due squadre simboleggiano la chiesa, formata da due popoli: dal popolo dei pagani, indicato nelle schiave, e dal popolo giudaico, indicato nelle persone libere, per aver dato al mondo la conoscenza di Dio e la sua legge. Questa chiesa Cristo la conquistò con molte sofferenze, in Mesopotamia, cioè nel mondo, e l’ha portata con sé oggi ritornando al cielo, poiché ha portato con sé la sua fede e la sua devozione, affinché il suo cuore e la sua vita non fossero più in terra ma nel cielo ( cf. Fil 3,20 ). E al cielo faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen. V. Sermone morale 11. "Con il mio bastone". Vedremo il significato morale di queste quattro cose: del bastone, del Giordano e delle due squadre. Nel bastone è simboleggiata la pratica della penitenza, della quale si parla nella Genesi, quando Giuda [ figlio di Giacobbe ] dice a Tamar: "Cosa vuoi avere per caparra? Rispose Tamar: Il tuo anello, il tuo bracciale e il bastone che hai in mano" ( Gen 38,18 ). Giuda è Cristo che, secondo l’Apostolo, appartiene appunto alla tribù di Giuda. Tamar, nome che s’interpreta "mutata", o "amara", o anche "palma", è l’anima che ha cambiato ed è passata dal male al bene; amara a motivo della penitenza che pratica per essere un giorno palma nella gloria. Si legge infatti in Giobbe: "Morirò nel mio piccolo nido", cioè nell’umiltà e nella tranquillità della coscienza, "e moltiplicherò i miei giorni come la palma" ( Gb 29,18 ). Però in questa triplice interpretazione può anche essere raffigurato il triplice stato degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti. Cristo dunque dice all’anima: "Che cosa vuoi avere per caparra?". Caparra in lat. si dice àrrabo, che suona come arra bona, buon pegno: il pegno è ciò che si dà come caparra. L’anima, per essere sicura delle promesse, domanda un buon pegno, cioè l’anello, il bracciale e il bastone. Nell’anello è simboleggiata la fede formata [ la fede unita alla grazia e alla carità ]. Leggiamo in Luca: "Mettetegli l’anello nella mano" ( Lc 15,22 ). La Glossa: L’anello è il segno della fede, con il quale sono segnate le promesse nel cuore dei fedeli. "Dàteglielo nella mano", cioè nelle opere, affinché la fede si manifesti nelle opere, e le opere testimonino la fede. Nel bracciale – in latino armilla, da armus, òmero, la parte superiore del braccio –, che è rotondo e si porta al polso, è indicata l’opera di carità che fa stendere il braccio per portare il peso del fratello in necessità, e lo fa metter sotto l’òmero, o la spalla, per sorreggerlo ( cf. Gen 49,15 ). Nel bastone, con il quale uno si difende dal cane, e sul quale si appoggia per non cadere, è indicata, come già detto, la pratica della penitenza, con la quale l’anima si difende dagli appetiti della carne e si sostiene per non cadere nel peccato mortale. In queste tre cose è compresa tutta la giustizia, che consiste nel rendere a ciascuno il suo, cioè l’anello della fede a Dio, il bracciale della carità al prossimo e la pratica della disciplina a se stessi. 12. È detto del bastone: "Ho attraversato questo Giordano con il mio bastone". Giordano s’interpreta "discesa" o anche "appropriazione delle cose", cioè delle cose transitorie di questo mondo. Chi vuole appropriarsene è costretto ad abbassarsi, cioè a discendere dal suo stato di giustizia, dalla quiete della coscienza e dalla dolcezza della contemplazione. Perché, come dice Gregorio, chi si appoggia ad uno che scivola giù, necessariamente scivola giù con lui. Beato invece chi può dire: Con la pratica della penitenza sono passato dalla riva della vanità del mondo alla riva della familiarità celeste; ho attraversato questo Giordano, ho scavalcato cioè tutto ciò che è transitorio e caduco. Dice la Genesi: "Giacobbe attraversò il guado di Iabbok; trasportate tutte le cose che gli appartenevano, restò solo" ( Gen 32,22-24 ). Iabbok s’interpreta "torrente di polvere", e raffigura le cose temporali che, come il torrente, abbondano nell’inverno della miseria di questa vita, ma inaridiscono d’estate, vale a dire quando giungerà la vampa della morte o dell’ultimo giudizio. Le cose temporali, come la polvere, accecano i loro amatori. La polvere è detta in lat. pulvis, perché viene spazzata via ( pulsa ) dalla forza del vento. Così queste cose temporali vengono spazzate via dal vento dell’avversità e rapite dalla morte. Ma Giacobbe, cioè il giusto, vincitore del mondo, passa al di là delle cose temporali, per non passare con esse, perché nulla vi rimanga delle sue cose, ma trasferisce al di là tutto ciò che gli appartiene. E che cosa appartiene al giusto, se non l’umiltà, la carità, la castità e le altre virtù? Chi trasferisce queste cose con sé, resta solo, cioè estraneo al chiasso del mondo, lontano dal tumulto dei pensieri e dagli assalti dei demoni. Beato colui che passa così, perché nell’ora della morte potrà dire: "E adesso io ritorno con due squadre". Infatti ciò si accorda con quanto è scritto nel Cantico dei Cantici: "Tutte hanno parti gemellari e nessuna di esse è sterile" ( Ct 4,2 ). E di nuovo: "Le tue due mammelle sono come due cerbiatti gemelli di una capriola, che pascolano tra i gigli, fino a che spiri la brezza del giorno che finisce e le ombre si allunghino" ( Ct 4,5-6 ). La capriola – detta in lat. caprea, perché prende le cose difficili ( ardua capiens ) –, ha la vista acuta, sceglie le erbe da mangiare e si spinge sulle alture. La capriola raffigura l’anima del giusto che, con il desiderio del cielo, raggiunge le cose difficili, e perciò si innalza fino ad esse; ha molto acuto lo sguardo della fede, si sceglie le erbe dei pascoli eterni con le quali si ristora; le sue due mammelle sono il duplice sentimento suscitato dalla carità, con il cui latte e la cui dolcezza nutre se stessa e il prossimo. Questi sono i due parti gemellari, i due cerbiatti o i due caprioli, che pascolano tra i gigli: il sentimento della carità divina pascola tra i gigli, cioè nella castità della mente e del corpo, ossia nella letizia della contemplazione; il sentimento della carità fraterna pascola tra i gigli, vale a dire nella luce della buona riputazione. E per quanto tempo pascoleranno così? Finché spunterà il giorno dell’eterno splendore e tramonteranno le ombre della cecità presente. Dica dunque il giusto: "E ora", cioè alla fine della mia vita, "con due squadre", vale a dire con i meriti della vita attiva e di quella contemplativa, "ritornerò" alla patria celeste. A questa patria faccia giungere anche noi, colui che è benedetto nei secoli. Amen. Domenica di Pentecoste ( 1 ) Temi del sermone – Epistola del santo giorno di Pentecoste, divisa in cinque parti. – Anzitutto sermone sullo Spirito Santo e la proprietà del crisòlito: "Nelle ruote era lo spirito della vita". – Parte I: Sermone sulla solennità dello Spirito Santo: "Era ormai giunto il terzo giorno". – Le tre lingue: del serpente, di Eva e di Adamo; le quattro prerogative del fuoco e il loro significato. – Parte II: L’infusione dello Spirito Santo, la risurrezione dell’anima, le quattro parti del mondo e il loro significato: "Dai quattro venti vieni, o Spirito!" – L’arca di Noè, i suoi cinque scomparti e il loro significato: "L’arca di Noè aveva cinque scomparti". – I cinque sensi del corpo, la loro disposizione, le loro proprietà e il loro significato: Il primo scomparto era quello dei rifiuti. – Parte III: Le tre specie di suono e il loro significato: "Venne all’improvviso un suono dal cielo". – Sermone ai penitenti o ai religiosi: "Era ormai giunto il terzo giorno". – La caratteristica della terra e il suo significato: "Lo Spirito del Signore riempì l’universo". – Parte IV: Sermone sulla confessione, sulla precisazione delle circostanze, sul fervore della soddisfazione, sulla proprietà e la disposizione della lingua e suo il significato: "E apparvero loro delle lingue come di fuoco, che si dividevano". – Parte V: L’invio dello Spirito Santo: "Mandò il fuoco dall’alto", e "Il Signore fece passare lo spirito ( il soffio ) sopra la terra". – Sermone contro coloro che predicano molto, ma poco o nulla fanno: "Incominciarono a parlare in svariate lingue". Esordio - Lo Spirito Santo e la proprietà del crisòlito 1. "Mentre stavano per compiersi i giorni della Pentecoste, i discepoli si trovarono tutti insieme nello stesso luogo" ( At 2,1 ). Dice Ezechiele: "Nelle ruote v’era lo spirito della vita" ( Ez 1,20 ). Gli apostoli furono ruote che giravano speditamente a portare in tutto il mondo il Figlio di Dio. Queste ruote, come aggiunge lo stesso profeta, "avevano l’aspetto della pietra di crisòlito" ( Ez 10,9 ). La pietra di crisòlito ( topazio ) risplende come l’oro: il suo nome è composto appunto dai termini greci chrisòs, oro, e lìthos, pietra. Questa pietra sembra emanare da se stessa come delle scintille ardenti, e mette in fuga ogni specie di serpenti; essa raffigura gli apostoli i quali, splendenti dell’oro della grazia settiforme, emanavano da se stessi le scintille della predicazione che infiammavano gli ascoltatori, e con esse mettevano in fuga ogni specie di demoni. Queste ruote, come dice sempre Ezechiele, erano di grande dimensione ed altezza e di aspetto spaventoso ( impressionante ) ( cf. Ez 1,18 ). E anche gli apostoli furono grandi nella perfezione della loro dottrina e del loro insegnamento, eccelsi per la sublimità delle promesse celesti, e terribili per le minacce e i castighi spaventosi che sarebbero seguiti. Dice infatti il penitente, con le parole del Cantico dei Cantici: "L’anima mia mi conturbò a motivo delle quadrighe di Aminadab" ( Ct 6,11 ). Aminadab s’interpreta "spontaneo" ed è figura di Gesù Cristo, il quale spontaneamente offrì se stesso sulla croce per noi; e le sue quadrighe furono gli apostoli, dei quali dice Abacuc: "E le tue quadrighe sono la salvezza" ( Ab 3,8 ), vale a dire che per mezzo di esse dà la salvezza. La mia anima, dice appunto il penitente, fu tutta turbata a motivo della loro predicazione, turbamento che mi indusse alla penitenza. E quindi Abacuc: "Hai mandato sul mare i tuoi cavalli ad agitare le acque profonde; ho udito e fremettero le mie viscere" ( Ab 3,15-16 ). Il Signore mandò nel mare, cioè nel mondo, i cavalli, cioè gli apostoli, i quali con la loro predicazione agitarono le acque profonde, sconvolsero cioè molti popoli e li convertirono alla penitenza. Io ho udito la loro predicazione, dice il penitente, e furono turbate le mie viscere, vale a dire la mia carnalità. I. L’infusione della grazia dello Spirito Santo negli apostoli, in forma di lingue di fuoco 2. In queste ruote v’era lo spirito della vita che tutto vivifica. Leggiamo infatti nell’epistola di oggi: "Mentre stavano per compiersi i giorni della Pentecoste, gli apostoli stavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa nella quale si trovavano. Ed apparvero loro delle lingue sparse come di fuoco, che si posarono su ciascuno di loro. E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e incominciarono a parlare diverse lingue come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi" ( At 2,1-4 ). Pentecoste è parola greca che significa "cinquantesimo", e l’antico popolo eletto festeggiava questo giorno, perché era stata data loro la Legge in mezzo al fuoco, proprio nel cinquantesimo giorno da quello dell’immolazione dell’agnello, per mezzo del quale i figli d’Israele erano usciti dall’Egitto. E nel Nuovo Testamento, nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di Cristo, lo Spirito Santo discese sugli apostoli, apparendo nel fuoco. La Legge venne sul monte Sinai, lo Spirito sul monte Sion. La Legge fu data in un luogo alto del monte, lo Spirito nel cenacolo. "Quando dunque stavano per compiersi i giorni della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nello stesso luogo". Nessuno era assente, prima di tutto perché il numero di dodici era completo e poi perché erano tutti un cuor solo e un’anima sola. "Erano nello stesso luogo", cioè nel cenacolo, dov’erano saliti. Chi infatti desidera ricevere lo Spirito Santo, calpesta l’abitazione della carne, superandola con la contemplazione della mente. "Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa nella quale si trovavano". Non conosce indugi la grazia dello Spirito Santo, secondo il detto: "L’impeto del fiume rallegra la città di Dio" ( Sal 46,5 ). Venne con il rombo del tuono colui che veniva per istruire i suoi. Troviamo anche nell’Esodo delle parole che lo confermano: "Ed ecco che giunto il terzo giorno, sul far del mattino, si sentirono rumoreggiare tuoni e si videro lampeggiare folgori, e nubi densissime coprivano il monte; e rimbombava un fortissimo suono di tromba: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore" ( Es 19,16 ). Il primo giorno fu quello dell’incarnazione di Cristo, il secondo quello della sua passione, il terzo quello della discesa dello Spirito Santo: quando venne "si sentirono rumoreggiare tuoni", perché "all’improvviso venne dal cielo un rombo; si videro lampeggiare folgori", simbolo dei miracoli operati dagli apostoli; "e nubi densissime", vale a dire compunzione dei cuori e pentimento, "coprivano il monte", cioè il popolo che si trovava a Gerusalemme; negli Atti degli Apostoli si legge infatti che "i pentiti di cuore dicevano a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli?". "E il suono delle trombe", cioè della predicazione degli apostoli, "rimbombava sempre più forte". E Pietro disse: "Fate penitenza e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati: dopo riceverete il dono dello Spirito Santo" ( At 2,37-38 ). "E tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore", e quindi "furono battezzati, e in quel giorno si unirono a loro circa tremila persone" ( At 2,41 ). 3. "Apparvero loro delle lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di essi", perché per mezzo delle lingue del serpente, di Eva e di Adamo la morte entrò nel mondo ( cf. Sap 2,24 ). La lingua del serpente inoculò il veleno in Eva, la lingua di Eva lo inoculò in Adamo e la lingua di Adamo tentò di ritorcerlo contro il Signore. La lingua è un membro freddo, è sempre immersa nell’umidità, e quindi è un male ribelle ed è piena di veleno mortale ( cf. Gc 3,8 ), del quale nulla è più freddo. Lo Spirito Santo apparve perciò in forma di lingue di fuoco per opporre lingue a lingue, e fuoco a veleno mortale. E considera che il fuoco ha quattro proprietà: brucia, purifica, riscalda e illumina. Allo stesso modo lo Spirito Santo brucia i peccati, purifica i cuori, elimina il torpore del freddo e illumina, ossia rende chiare le cose che si ignorano. Il fuoco è anche incorporeo e invisibile per sua natura, ma quando investe qualche oggetto assume varie colorazioni a seconda dei materiali nei quali brucia. Così lo Spirito Santo non può essere veduto se non per mezzo delle creature nelle quali opera. Osserva ancora che la dispersione [ confusione ] delle lingue avvenne nella torre di Babele ( cf. Gen 11,8-9 ), per il fatto che la superbia disunisce e disperde, mentre l’umiltà riunisce. Nella superbia c’è la dispersione, nell’umiltà c’è la concordia. Ecco che si compie così la promessa del Signore: Non vi lascerò orfani, ma vi manderò lo Spirito Paràclito ( cf. Gv 14,18.26 ), il quale fu il loro avvocato e parlò a tutti in loro favore. Colui che veniva per la Parola portò le lingue. Tra lingua e parola c’è una parentela: non possono essere divise una dall’altra; così la Parola ( il Verbo ) del Padre, cioè il Figlio, e lo Spirito Santo sono inseparabili, anzi hanno un’unica natura. "E tutti furono pieni di Spirito Santo e incominciarono a parlare diverse lingue, come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi". Ecco il segno della pienezza: il vaso pieno trabocca, il fuoco non può essere occultato. Parlavano tutte le lingue, oppure parlavano la propria lingua, l’ebraica, e tutti li capivano come se parlassero la lingua di tutti. Lo Spirito Santo, "distribuendo i suoi doni a ciascuno come vuole" ( 1 Cor 12,11 ), infonde la sua grazia dove vuole, come vuole, quando vuole, in chi vuole e nella misura che vuole. Si degni di infonderla anche in noi, colui che in questo giorno infuse la grazia negli apostoli per mezzo delle lingue di fuoco. A lui sia sempre lode e gloria nei secoli eterni. Amen. II. L’infusione dello Spirito Santo e la risurrezione dell’anima 4. "Quando si compirono i giorni della Pentecoste, i discepoli erano tutti riuniti nello stesso luogo". Dice il profeta Ezechiele: "Vieni, o Spirito, dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano" ( Ez 37,9 ). I quattro venti sono le quattro parti del mondo: l’oriente, l’occidente, il settentrione e il mezzogiorno. Nell’oriente è indicata l’incarnazione di Cristo, nell’occidente la sua passione, nel settentrione la sua tentazione, e nel mezzogiorno l’invio dello Spirito Santo. Oppure anche: nell’oriente è indicato il ricordo del nostro miserevole ingresso nel mondo, nell’occidente il pensiero della nostra dolorosa dipartita, nel settentrione la considerazione della nostra infelice condizione, e nel mezzogiorno il riconoscimento dei nostri peccati. Da questi quattro venti viene lo Spirito Santo e soffia, con lo spirare della sua grazia, sopra gli uccisi dalla spada della colpa, affinché rivivano con la vita della penitenza. Leggiamo infatti negli Atti degli Apostoli che "mentre Pietro stava ancora parlando, lo Spirito Santo scese su tutti quelli che ascoltavano le sue parole" ( At 10,44 ). E per questo si legge oggi: "Quando si compirono i giorni …", ecc. Nel brano degli Atti che si legge oggi nella messa, si devono sottolineare quattro fatti. Primo, il compimento dei cinquanta giorni: "Quando si compirono i giorni della Pentecoste"; secondo, l’infusione dello Spirito Santo: "All’improvviso venne un rombo dal cielo"; terzo, l’apparizione dello Spirito in forma delle lingue di fuoco: "Apparvero loro delle lingue di fuoco divise"; quarto, gli apostoli che parlano tutte le lingue: "Tutti furono pieni di Spirito Santo, e parlavano…", ecc. "Quando si compirono i giorni della Pentecoste". Pentecoste è un termine greco che significa "cinquantesimo". Cinque volte dieci fanno cinquanta. Cinque sono i sensi del corpo, dieci i precetti del decalogo. Se i cinque sensi del nostro corpo saranno perfetti nell’adempimento dei dieci precetti del decalogo, allora senza dubbio si compirà in noi il sacratissimo giorno della Pentecoste, nel quale viene dato lo Spirito Santo. In riferimento a questo cinquantesimo giorno, leggiamo nella Genesi che l’arca di Noè misurava cinquanta cubiti di larghezza ( cf. Gen 6,15 ). Ma prima dobbiamo considerare che la stessa arca aveva cinque scomparti; il primo era lo scomparto dei rifiuti, il secondo quello dei viveri, il terzo quello delle bestie feroci, il quarto degli animali domestici, il quinto riservato agli uomini e agli uccelli. Noè è figura del giusto ( cf. Gen 6,9 ), la cui arca è il proprio corpo, che giustamente è detto arca. Arca deve il suo nome al fatto che tiene lontani ( lat. arcet ) i ladri. Così il corpo del giusto deve chiudere fuori di sé ogni vizio che tenta di rubargli le virtù. I cinque scomparti di quest’arca sono i cinque sensi, cioè il gusto, l’odorato, il tatto, l’udito e la vista. 5. Il primo scomparto è quello dei rifiuti, lo sterquilinio. Ed è figura della lingua della nostra bocca, per mezzo della quale dobbiamo buttar fuori nella confessione tutto lo sterco dei nostri peccati. Questa è la porta dello sterquilinio, della quale è detto nel secondo libro di Esdra che "Melchia, figlio di Recab, costruì la porta dello sterquilinio, e vi pose i battenti, le serrature e le sbarre" ( Ne 3,14 ). Lo sterquilinio, luogo pieno di sterco, è così chiamato perché è imbrattato e insudiciato di sterco. La coscienza del peccatore, graveolente e ammorbata dallo sterco del diavolo, deve purificarsi per la porta della confessione. Questa porta la costruisce Malchia, figlio di Recab. Malchia s’interpreta "coro per il Signore", e Recab "che sale". Malchia è figura del penitente che con il timpano e il coro, cioè con la mortificazione della carne e l’accordo della carità, deve far risuonare un inno al Signore. Egli è figlio di Gesù Cristo, che sale alla destra del Padre. Questo Malchia deve applicare alla sua lingua i battenti ( in lat. valvae, da velare, occultare ), che sono come delle porte interiori, che si chiudono dall’interno, perché tutti i suoi beni vengano chiusi dentro, tenendo scritto sulla fronte della coscienza quel versetto di Isaia: "Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me" ( Is 24,16 ); e deve applicare le serrature per trattenere con le serrature dell’amore e del timore di Dio gli impulsi dell’animo che vogliono irrorompere all’esterno; deve applicare anche le sbarre, per proporre cose utili a tempo e a luogo e mai parlare di cose cattive. 6. Il secondo scomparto è quello dei viveri, e raffigura l’olfatto delle narici. Le narici sono chiamate in lat. nares, perché attraverso di esse passa l’aria ( lat. nares, aër ) ossia il respiro. Le narici hanno tre compiti: lasciar passare il respiro, captare gli odori, far uscire lo spurgo del cervello. È un disturbo, un difetto il non respirare con le narici, che è il modo giusto, stabilito dalla natura. Si respira con la bocca solo per necessità ed è cosa molto sgradevole, perché è contro la natura. E anche lo sternuto segue la via delle narici, quando aumenta l’aria nel cervello ed prorompe all’improvviso. Nelle narici, come abbiamo già detto altre volte, sono simboleggiate la discrezione e la prudenza: per mezzo di queste due virtù, come attraverso le narici, aspiriamo lo spirito della contemplazione e della perfetta carità, captiamo il profumo del buon esempio e purifichiamo i pensieri cattivi. E come il respiro sano e utile si fa attraverso le narici, così per mezzo della discrezione e della prudenza si aspira, si attira lo spirito dell’amore divino che poi si emette e si diffonde per la consolazione e l’edificazione del prossimo. E come il respiro per la bocca si fa solo per necessità ed è sgradevole, così anche la confessione della bocca si fa per necessità. Dal momento che hai peccato, è necessario che tu ti confessi: se non vuoi confessarti sei destinato alla dannazione. Ed è sgradevole perché rimuove, rimescola lo sterquilinio, e del suo fetore si legge nel vangelo: "Padrone, il fico làscialo ancora per quest’anno finché io gli scavi attorno e vi metta il letame" ( Lc 13,8 ). Il fico raffigura l’anima, lo scavo la contrizione, il letame è la confessione dei peccati, la quale fa fruttificare l’anima, prima sterile. E quando il vento della superbia o della vanagloria aumenta nel cervello, ossia nella mente, per mezzo della discrezione e della prudenza viene immediatamente lanciato fuori. 7. Il terzo scomparto è quello delle bestie feroci, e raffigura il tatto delle mani, con le quali dobbiamo impugnare il flagello e flagellarci senza misericordia per i pensieri disordinati, per le parole sconvenienti, per le opere cattive, perché tanti siano i nostri sacrifici di espiazione quanti sono stati i piaceri dei quali ci siamo dilettati. E osserva che come nelle mani ci sono dieci dita, così dieci sono le specie di flagellazione, cioè di mortificazione: la rinuncia alla propria volontà, l’astinenza dal cibo e dalla bevanda, la rigorosità del silenzio, le veglie di preghiera durante la notte, l’effusione delle lacrime, il dedicare un congruo tempo alla lettura, il lavoro materiale, la generosa partecipazione alle necessità del prossimo, il vestire dimessamente, il disprezzo di sé. Con queste dieci dita dobbiamo afferrare il flagello e colpirci senza pietà, senza misericordia, quasi con ferocia, perché nel giorno del castigo che spezzerà le ossa, possiamo trovare misericordia. 8. Il quarto scomparto è quello degli animali domestici e raffigura l’udito. Considera che l’orecchio è composto di cartilagine e di carne. Nell’orecchio interno c’è un meato tortuoso, che assomiglia ad un anello, e va a finire in un osso, simile per forma e configurazione all’orecchio esterno. A quell’osso arriva ogni rumore e ogni suono, e da esso viene trasmesso al cervello. E dal cervello esce una vena che va fino all’orecchio destro e un’altra vena che va all’orecchio sinistro. E tutti gli animali che hanno le orecchie, hanno la possibilità di muoverle, eccettuato l’uomo. La cartilagine ha l’apparenza dell’osso, ma non ne ha né la durezza né la resistenza. La carne ( lat. caro ) è così chiamata perché è cara, amata. Nella cartilagine e nella carne, delle quali è composto l’orecchio, sono indicate le virtù della mansuetudine e dell’umiltà, delle quali nulla è più caro a Dio e agli uomini. L’udito di ogni uomo dev’essere fornito di queste due virtù per rispondere con mansuetudine e umiltà ad ogni affronto, molestia o ingiuria verbale. E questo lo insegna la natura stessa, la quale nell’orecchio interno non ha aperto un meato diritto ma tortuoso, perché quando senti ciò che non ti piace, non colpisca subito l’animo, ma le parole e i discorsi passino quasi a stento per una via resa difficile da una certa qual tortuosità, di modo che, perduta per via la loro virulenza, arrivino alla fine senza forza e così ti pungano, ti offendano poco o nulla. E le due vene che escono dal cervello, una delle quali arriva all’orecchio destro e l’altra al sinistro, simboleggiano la temperanza e l’obbedienza. Nella destra viene indicata la prosperità e nella sinistra l’avversità. Quando senti cose favorevoli e ciò che ti piace, è necessaria la temperanza; quando invece ti dispiace ciò che ti viene ordinato e senti cose sgradite, allora hai più bisogno dell’obbedienza, perché è più fruttuosa. E tutti gli animali che hanno orecchie possono muoverle, eccetto l’uomo. È veramente degno di essere chiamato uomo, colui che non può muovere le orecchie, che cioè non si lascia muovere dalla stabilità della sua mente per causa del vento delle parole. Invece l’uomo che ha le orecchie che gli prudono, che crede ad ogni parola, e presta volentieri e avidamente l’orecchio all’adulazione, non è degno di essere chiamato uomo, ma animale bruto. 9. Il quinto scomparto è quello riservato agli uomini e agli uccelli, ed è figura della vista degli occhi, con i quali dobbiamo guardare con misericordia i poveri e coloro che sono nell’indigenza, e considerare attentamente le cose celesti, perché, come dice l’Apostolo, "le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate e comprese per mezzo delle cose create" ( Rm 1,20 ). Ecco che adesso sei bene informato sui i cinque scomparti dell’arca di Noè, vale a dire sui cinque sensi del corpo del giusto. E osserva ancora che l’arca di Noè fu costruita sul modello del corpo umano: aveva infatti una lunghezza di trecento cubiti, una larghezza di cinquanta e un’altezza di trenta ( cf. Gen 6,15 ). Nel corpo umano l’altezza è sei volte la sua circonferenza e dieci volte il suo diametro. L’altezza si misura dalla pianta dei piedi alla sommità della testa; la circonferenza si misura all’altezza del torace, e il diametro dal dorso al ventre. Quindi, se i cinque sensi sono perfetti nell’osservanza dei dieci precetti del decalogo, allora l’arca di Noè si allargherà fino a cinquanta cubiti e così si compirà il cinquantesimo giorno, e il giusto alla fine della sua vita avrà raggiunto la perfezione. Leggiamo infatti nel libro della Sapienza: "Giunto in breve alla perfezione, compì le opere di una lunga vita: la sua anima fu gradita al Signore" ( Sap 4,13-14 ). A ragione dunque è detto: "Essendosi compiuti i giorni della Pentecoste, i discepoli erano tutti radunati nello stesso luogo". I discepoli del giusto sono i sentimenti della ragione e i puri pensieri della mente. E questi sono tutti veramente nello stesso luogo quando si compie il giorno della Pentecoste, quando cioè i cinque sensi raggiungono la perfezione. Fa’ attenzione alle due parole: "tutti insieme" e "nello stesso luogo". "Tutti insieme", cioè ugualmente e insieme. Sono tutti insieme quei pensieri della mente che, sotto l’uguale regola della ragione, si radunano con ordine e procedono con discrezione, in modo che nella mente un pensiero non sembri superiore all’altro, né l’altro inferiore al primo; se questo avvenisse, la disuguaglianza stessa sarebbe causa della rovina di tutto l’edificio delle virtù. Dice l’Apostolo: Tutte le cose si facciano con ordine ( cf. 1 Cor 14,40 ), per poter dire a questo: "Va’", e quello vada; e ad un altro: "Vieni", e quello venga; e al servo, cioè al corpo: "Fa’ questo", e il servo, il corpo, lo faccia ( cf. Mt 8,9 ). Siano dunque i discepoli tutti ugualmente insieme, affinché i pensieri della mente riuniti tutti insieme come una schiera di soldati, siano in grado di combattere validamente contro le potestà dell’aria ( cf. Ef 6,12 ). E siano anche "nello stesso luogo", non divisi e separati, perché la mente divisa non ottiene nulla. Dice infatti l’Ecclesiastico: "La tua attività non abbracci molte cose" ( Sir 11,10 ); e di nuovo: "Guai al peccatore che cammina per due strade" ( Sir 2,14 ). E Gregorio: "Il fiume che si dirama in tanti rivoli, si dissecca nel suo alveo". E Bernardo: "L’animo occupato in tante faccende, necessariamente è tormentato da tante preoccupazioni". Se dunque, prima di tutto, i giorni della Pentecoste saranno compiuti, anche i discepoli, tutti insieme ugualmente nello stesso luogo, saranno pronti ad accogliere la grazia dello Spirito Santo: si degni di infonderla anche in noi, colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. Sermone ai religiosi sulla penitenza 10. "Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa nella quale si trovavano" ( At 2,2 ). Suono è tutto ciò che è sensibile all’udito. Ci sono tre specie di suono: quello prodotto dalla voce per mezzo della gola; quello prodotto dal soffio come nella tromba, e quello prodotto dalla percussione come nella lira. Il "rombo di vento impetuoso" è figura della contrizione del cuore, che il penitente avverte come un suono con l’orecchio del cuore. Dice infatti il Signore: "Il vento ( lo Spirito ) soffia dove vuole", perché è in suo potere scegliere il cuore da illuminare, "e senti la sua voce, ma non sai di dove viene e dove vada" ( Gv 3,8 ). La voce dello Spirito Santo è la compunzione che parla al cuore del peccatore, e anche se la senti non sai di dove venga, cioè per quale via sia entrata nel suo cuore e in che modo ritorni, perché la sua essenza è invisibile. E considera anche che questo suono si produce in tre modi: con la voce della predicazione, con il soffio della partecipazione fraterna, con la percussione della paterna correzione. Da queste tre azioni nasce di solito nel cuore del peccatore il suono della compunzione. Giustamente quindi è detto: "All’improvviso venne dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte veemente". Su questo abbiamo una concordanza nelle parole dell’Esodo: "Era giunto il terzo giorno, e splendeva il mattino" ( Es 19,16 ), come abbiamo visto più sopra. Il primo giorno simboleggia il riconoscimento del proprio peccato; il secondo giorno l’orrore e l’odio contro il peccato; il terzo giorno la contrizione del cuore nei confronti del peccato. E quando si arriva alla contrizione e risplende il mattino della grazia, allora si incominciano a sentire "i tuoni" dei gemiti, dei sospiri e dell’accusa di sé; incominciano a "balenare le folgori" della confessione; e "la nube compatta", cioè l’oscurità della penitenza, arriva a "coprire il monte", cioè il penitente, che è come un monte che si innalza dalla valle dell’impurità e della miseria. E "lo squillare della tromba", cioè della vita santa e della buona riputazione, "risuona sempre più forte", perché dove ha abbondato il peccato, sovrabbondi anche la grazia ( cf. Rm 5,20 ). E così si spaventa tutto il "popolo" dei demoni, che sono "negli accampamenti", sono cioè sempre pronti all’attacco; ma se essi vedono tutti questi cambiamenti, non hanno più il coraggio di iniziare la battaglia. Leggiamo infatti in Giobbe: "Nessuno gli diceva più una parola, perché vedevano che il dolore era molto grande" ( Gb 2,13 ). Infatti quando gli spiriti del male vedono che il rombo del vento impetuoso riempie tutta la casa, cioè la coscienza del penitente, nella quale egli dimora, cioè si umilia ripensando ai suoi anni nell’amarezza della sua anima ( cf. Is 38,15 ), gli spiriti del male non osano avanzare oltre, né osano proferire parole di suggestione. E fa’ attenzione che dice "veemente" ( impetuoso ), che elimina cioè l’eterno "Vae", guai ( lat. vae adimens ), e che trasporta in alto la mente ( lat. vehens mentem ). E così la contrizione del cuore elimina l’eterno guai e solleva in alto lo spirito. 11. Nell’introito della messa di oggi si legge: "Lo Spirito del Signore riempì l’orbe terracqueo; e questo, che tutto contiene, ha la conoscenza della voce" ( Sap 1,7 ). L’orbe è così chiamato dalla rotondità del cerchio. La terra è oscura, fredda e immonda. L’orbe è il cuore del peccatore, che si aggira all’intorno come una ruota, si volge ora ad oriente ora ad occidente, percorrendo il mondo, che è oscuro per la superbia, freddo per l’avarizia e immondo per la lussuria. Ma lo Spirito del Signore riempie l’orbe terracqueo quando infonde la grazia della compunzione nel cuore del peccatore e così lo libera dall’eterno guai. "E questo, che tutto contiene, ha la conoscenza della voce". "E questo", cioè l’uomo, animale ragionevole, che comprende in sé tutti i quattro elementi, dei quali sono costituite tutte le cose, "ha la conoscenza della voce" perché capisce quando lo Spirito gli parla. Dice Bernardo: "Lo Spirito Santo ci parla ogni volta che noi pensiamo cose buone". E il Profeta: "Ascolterò che cosa mi dice Dio, il Signore" ( Sal 85,9 ), e così eleva in alto la mente. Infatti il Filosofo, descrivendo lo spirito, dice: "Lo spirito è il veicolo delle virtù: per mezzo suo le virtù vanno a eseguire le loro opere" ( Seneca ). Preghiamo dunque il Figlio di Dio che infonda in noi lo spirito di contrizione, che ci liberi dall’eterno guai, ed elevi alle cose celesti la nostra mente. Ce le conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. La proclamazione della lode e la confessione del peccato 12. "E apparvero loro delle lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono sopra ciascuno di loro" ( At 2,3 ). Fa’ attenzione a questi tre particolari: le lingue, la precisazione che si dividevano, e che erano come di fuoco. Nelle lingue è indicata la confessione, nel fatto che si dividevano è indicata la precisazione delle circostanze del peccato; nel fuoco è indicato il fervore della confessione e della soddisfazione, cioè dell’esecuzione dell’opera penitenziale imposta dal confessore. Considera che la lingua è l’organo del senso del gusto, e la sua sensibilità sta principalmente nell’estremità. La parte dove la lingua si allarga ha una sensibilità minore. La lingua, con la sua sensibilità, sente tutto ciò che è comune a tutti i corpi: il caldo e il freddo, la durezza e la cedevolezza ( delicatezza ). E questo lo fa con tutte le sue parti. E la lingua, per sua natura, è destinata a gustare le cose umide, bagnate, e a parlare. La lingua dell’uomo è perfettamente sciolta e snodata, flessibile e larga, adatta a due funzioni: il gusto e la parola. La lingua flessibile e larga è adatta a parlare bene, perché si distende e si contrae, si flette e si gira nella bocca in tutti i sensi: se la lingua è agile e larga si è in grado di parlare molto bene. E questo risulta ancora più evidente se si osservano quelli che hanno la lingua impedita, cioè i balbuzienti o gli scilinguati. Alcuni poi hanno nella lingua anche un altro impedimento: e questo si avvera solo con alcune consonanti quando la lingua è stretta, contratta e non bene distesa; giacché il piccolo sta nel grande, ma non il grande nel piccolo. Ed è per questo che gli uccelli che hanno la lingua larga sono in grado di pronunciare alcune sillabe e parole, molto più degli uccelli che hanno la lingua stretta. Nella lingua, come si è detto, è indicata la confessione, nella quale si deve rivelare tutto quello che è comune a tutto il corpo, cioè i peccati che si commettono con tutto il proprio essere: nell’infuocato calore della superbia, nel freddo della malizia e della pigrizia, nella durezza dell’avarizia, nella mollezza della lascivia e della lussuria. E come la lingua è destinata dalla natura a gustare e a parlare, così duplice è la confessione della lingua: la confessione ( la proclamazione ) della lode, e la confessione del peccato. La confessione ( il canto ) della lode si ha nell’Ufficio divino e nelle salmodie; se compiamo queste opere con devozione, gustiamo certamente la grazia della compunzione e la dolcezza della contemplazione. Dice infatti Gregorio: "Con la voce della salmodia, se è accompagnata dall’attenzione del cuore, al cuore stesso viene preparata la via per giungere a Dio onnipotente, perché sveli alla mente attenta i misteri della profezia e le infonda la grazia della compunzione. Sta scritto: "Il sacrificio della lode mi onorerà" ( Sal 50,23 ). Infatti mentre per mezzo della salmodia si esprime la compunzione, si apre nel nostro cuore una via per la quale, alla fine, si arriva a Gesù". 13. Nella confessione del peccato dobbiamo parlare, cioè confessare apertamente, totalmente e senza veli i nostri peccati. E questo ce lo insegna la natura stessa, perché la lingua dell’uomo è appunto agile, molle e larga. Così la confessione del peccato deve essere totale, con la manifestazione e la precisazione di tutte le circostanze; deve essere cedevole, molle, vale a dire bagnata dalle lacrime; deve essere larga nella riparazione di tutte le offese arrecate, nella restituzione di tutto il mal tolto e nella serietà del fermo proposito di non più ricadere in peccato. La confessione di una simile lingua fa sì che l’anima si innalzi fino a Dio per mezzo della contemplazione, si ripieghi poi in se stessa per mezzo dell’umiltà, si aggiri tutt’all’intorno per mezzo della compassione verso il prossimo. Sventurati e stolti, invece, quei peccatori, che sono balbuzienti e hanno la lingua stretta e impedita, perché quando si confessano, balbettano e si confessano in modo incompleto. Giustamente quindi è detto: "E apparvero loro delle lingue come di fuoco, che si dividevano". Le lingue della confessione devono essere "divise", sparse, perché, nella confessione, il peccatore deve avere il cuore e la lingua divisi in tante parti: il cuore per dolersi in molti modi per il molti peccati commessi; la lingua per precisare distintamente tutte le circostanze dei peccati commessi. Su questo argomento troverai una trattazione più approfondita nel sermone della prima domenica di Quaresima: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto" ( Mt 4,1 ). E osserva che come il fuoco riscalda le cose fredde, rende tenere quelle dure, rende solide quelle molli, abbassa e incenerisce quelle alte, e se uno lo vuole tenere acceso lo conserva sotto la cenere, così l’ardore della confessione e della soddisfazione riscalda con il fuoco dell’amore coloro che sono freddi, intenerisce con la compunzione i cuori induriti, rinsalda con la fermezza di un santo proposito i molli, cioè i lussuriosi, umilia quelli che sono alti, cioè superbi e li incenerisce con il ricordo della loro fragilità e della loro iniquità: e sotto tale cenere, questo fuoco può essere conservato in continuazione. Io vi scongiuro, fratelli carissimi, che questo fuoco si posi, e rimanga sempre su ciascuno di voi; che le vostre lingue siano divise nella confessione dei peccati e delle loro circostanze; affinché confessandovi integralmente, in modo completo e senza veli, possiate esser degni di proclamare il nome del Signore, insieme con gli angeli, nella celeste Gerusalemme. Ce lo conceda colui il cui fuoco è in Sion e la cui fornace è in Gerusalemme ( cf. Is 31,9 ), e che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. V. I frutti della grazia dello Spirito Santo 14. "E tutti furono pieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare in lingue diverse, come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi" ( At 2,4 ). Vengono riempiti dallo Spirito Santo, il solo che è in grado di riempire l’anima, la quale non può essere riempita neppure da tutto l’universo. Non possono ricevere un altro spirito, perché i vasi quando sono pieni, non possono contenere più di quello che hanno. Infatti alla beata Maria fu detto: "Ave, piena di grazia, il Signore è con te, benedetta tu fra le donne" ( Lc 1,28 ). Fa’ attenzione che tra le due espressioni: "piena di grazia" e "benedetta tu fra le donne", è detto: "il Signore è con te", perché è il Signore stesso che conserva all’interno la pienezza della grazia e opera all’esterno la benedizione della fecondità, cioè delle opere sante. Giustamente anche, dopo "piena di grazia", è detto "il Signore è con te", perché senza Dio nulla possiamo fare o avere, e senza di lui neppure conservare ciò che abbiamo avuto. Perciò dopo la grazia è necessario che il Signore sia con noi e custodisca e conservi ciò che egli solo ha dato. Mentre egli ci previene dandoci la sua grazia, noi, nel conservarla, diventiamo suoi cooperatori: egli non veglia su di noi, se insieme con lui non vegliamo anche noi. E sembra che il Signore esiga questa nostra vigilante cooperazione, quando dice agli apostoli: "Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate per non cadere in tentazione" ( Mt 26,40-41 ). Giustamente quindi è detto: "E tutti furono pieni di Spirito Santo". Dice in proposito il Signore nel vangelo di oggi: "Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" ( Gv 14,26 ). Il Padre ha mandato il Consolatore nel nome del Figlio, cioè a gloria del Figlio, per manifestare la gloria del Figlio. "Egli – dice – "vi insegnerà" perché sappiate; "vi ricorderà", cioè vi esorterà, perché vogliate; la grazia dello Spirito Santo dà il sapere e il volere. Si canta infatti oggi nella messa: "Vieni, Spirito Santo, e riempi i cuori dei tuoi fedeli", perché abbiano il sapere, "e accendi in essi il fuoco del tuo amore", perché abbiano la volontà di eseguire ciò che hanno saputo ( cf. Sequenza della Messa di Pentecoste ). Si canta anche: "Mandi il tuo Spirito e sono creati" con la tua sapienza, e rinnovi la faccia della terra con la tua volontà di amore ( cf. Sal 104,30 ). Concorda, con queste parole, ciò che leggiamo nelle Lamentazioni di Geremia: "Dall’alto egli ha fatto scendere un fuoco nelle mie ossa e mi ha istruito" ( Lam 1,13 ). È la chiesa che dice: Il Padre "dall’alto", cioè dal Figlio, ha fatto scendere "il fuoco", cioè lo Spirito Santo, "nelle mie ossa", cioè sugli apostoli, e per mezzo di essi "mi ha istruita" perché io sappia e voglia. 15. "Tutti furono pieni di Spirito Santo". Troviamo una concordanza nelle parole della Genesi: "Il Signore fece passare un vento", lo Spirito Santo, "sopra la terra, e le acque diminuirono. Le sorgenti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse, e furono trattenute le piogge dal cielo" ( Gen 8,1-2 ). Fa’ attenzione a queste quattro entità: le acque, le sorgenti, le cateratte e le piogge. Nelle acque sono raffigurate le ricchezze, nelle sorgenti dell’abisso i pensieri dell’animo, nelle cateratte del cielo gli occhi, nelle piogge l’abbondanza delle parole. Quando dunque il Signore fa passare lo Spirito Santo sopra la terra, vale a dire nella mente del peccatore, allora le acque delle ricchezze diminuiscono, perché vengono erogate ai poveri. Di queste acque è detto nella Genesi: "Chiamò la grande massa della acque mare" ( Gen 1,10 ). L’accumulo delle ricchezze non è altro che amarezza, tribolazione e dolore. Dice infatti Abacuc: "Guai a colui che accumula ciò che non è suo. Fino a quando si caricherà di denso fango?" ( Ab 2,6 ). Il fango accumulato in casa manda fetore; invece sparpagliato sulla terra, la rende feconda. Così le ricchezze, se si accumulano, e se soprattutto non sono proprie ma hanno provenienza furtiva, emanano fetore di peccato e di morte. Se invece vengono distribuite ai poveri e restituite ai loro proprietari, rendono feconda la terra della mente e la fanno fruttificare. Un abisso è il cuore dell’uomo. Di esso dice Geremia: "Malvagio è il cuore dell’uomo e insondabile; chi lo conoscerà?" ( Ger 17,9 ). Le sorgenti di questo abisso sono i pensieri; le sorgenti vengono chiuse quando viene infusa la grazia dello Spirito Santo. E su questo concorda ciò che leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni: "Ezechia radunò una grande moltitudine di popolo e ostruirono tutte le sorgenti e il torrente che attraversava il territorio, dicendo: Perché non vengano i re degli Assiri e trovino acque in abbondanza" ( 2 Par 32,4 ). Ezechia è figura del giusto, il quale deve radunare una grande moltitudine di buoni pensieri e chiudere le sorgenti dei pensieri iniqui e perversi e il torrente delle concupiscenze, perché i demoni, trovando grande abbondanza di acque, non distruggano con esse la città dell’anima. Le cateratte del cielo sono le finestre. Le finestre sono così chiamate perché "portano luce" ( luce in greco si dice phos ), o anche perché attraverso di esse noi vediamo al di fuori. Disposti nella testa, come le due luci collocate da Dio nel firmamento ( cf. Gen 1,14-19 ), abbiamo i due occhi, che sono come due finestre attraverso le quali siamo in grado di vedere: e vengono chiuse sulle vanità del mondo quando viene infusa nella mente la luce della grazia. Le piogge ( in lat. pluviae, che suona quasi come fluviae, fluenti ), simboleggiano le parole che senza ostacoli e senza impedimenti vengono largamente profuse ovunque. Dice infatti Salomone: "Chi lascia scorrere le acque [ chi parla troppo ], suscita litigi e contese" ( Pr 17,14 ). E quindi l’Ecclesiastico consiglia: "Non dare alle tue acque uno sfogo, neppure il più piccolo" ( Sir 25,34 ). Queste piogge vengono sospese quando, con la grazia dello Spirito Santo, la lingua si abitua a cantare le lodi al suo Creatore e a confessare i suoi peccati. Ben a ragione quindi è detto: "E tutti furono pieni di Spirito Santo". 16. "E cominciarono a parlare lingue diverse, come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi". Chi è pieno di Spirito Santo parla diverse lingue. Le diverse lingue sono le varie testimonianze che possiamo dare a Cristo, come l’umiltà, la povertà, la pazienza e l’obbedienza: e parliamo queste lingue quando mostriamo agli altri queste virtù, praticate in noi stessi. Il parlare è vivo quando parlano le opere. Vi scongiuro: cessino le parole e parlino le opere. Siamo pieni di parole ma vuoti di opere, e perciò siamo maledetti dal Signore, perché egli ha maledetto il fico sul quale non trovò frutti, ma solo foglie ( cf. Mt 21,19 ). Dice Gregorio: "È stabilita una legge per il predicatore: deve mettere in pratica ciò che predica. Inutilmente fa conoscere la legge colui che con le opere, con la sua vita, distrugge il suo insegnamento". Invece gli apostoli "parlavano come lo Spirito Santo dava loro di esprimersi", e non secondo le loro inclinazioni. Ci sono infatti alcuni che parlano secondo le loro inclinazioni, si appropriano delle parole altrui e le proclamano come proprie e le attribuiscono a se stessi. Di costoro e di quelli che sono come loro, il Signore dice: "Eccomi contro i profeti, i quali si rubano gli uni gli altri le mie parole. Eccomi contro i profeti che dicono le loro parole e proclamano: Dice il Signore! Eccomi contro i profeti che fanno sogni menzogneri, che li raccontano e pervertono il mio popolo con le loro menzogne e con i loro falsi miracoli. Io non li ho inviati, né ho dato loro alcun incarico: essi non hanno giovato per nulla a questo popolo, dice il Signore" ( Ger 23,30-32 ). Parliamo dunque come lo Spirito Santo ci dà di parlare, chiedendogli umilmente e devotamente che ci infonda la sua grazia affinché compiamo i giorni della Pentecoste con la perfezione dei cinque sensi e nell’osservanza del decalogo; e perché siamo ripieni del gagliardo vento della contrizione e veniamo infiammati delle lingue di fuoco della confessione. Così infiammati e illuminati meritiamo di vedere il Dio uno e trino tra gli splendori dei santi. Ce lo conceda colui che è Dio, uno e trino, ed è benedetto nei secoli dei secoli. E ogni spirito risponda: Amen. Alleluia. Festa di Pentecoste ( 2 ) 1. "Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre vi manderà nel mio nome, vi insegnerà tutte le cose e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto" ( Gv 14,26 ). Esordio - Lo Spirito Santo consolatore 2. "Paràclito" è parola greca che significa "consolatore". Lo Spirito Santo è chiamato consolatore perché consola coloro che ha riempito di sé, affinché, abbandonate le cose di questo mondo, godano di eterna letizia. Dice infatti Isaia: "Il Signore consolerà Sion e consolerà ( restaurerà ) tutte le sue rovine. Del suo deserto farà un luogo di delizie e della sua steppa un giardino del Signore. Giubilo e gioia saranno in essa, azioni di grazie e canti di lode" ( Is 51,3 ). Spiegheremo questo passo prima in senso morale e quindi in senso anagogico, cioè mistico. 3. Senso morale. Sion, nome che s’interpreta "scoglio", e anche "esplorazione", raffigura l’anima del giusto la quale, stando nel corpo come lo scoglio in mezzo al mare, è investita dai vari flutti delle tentazioni, e tuttavia non cede e non si muove, ma esplora in continuazione dentro e sopra di sé. "Fammi conoscere te e fammi conoscere me", dice Agostino. Lo Spirito Santo consola questa Sion: "Beati quelli che piangono, perché saranno consolati" ( Mt 5,5 ); e Isaia: "Consolerò tutti quelli che piangono e riempirò di consolazione tutti coloro che piangono in Sion" ( Is 61,2-3 ). Piangere si dice in latino lugère, che suona quasi come luce egère, mancare, essere privo di luce. Colui che sa rinunziare alla luce della gloria mondana, lo Spirito Santo lo riempie della consolazione della sua grazia. "Restaurerà tutte le sue rovine". Ecco che cosa dice il Signore: "Chi avrà lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto" ( Mt 19,29 ), riceverà cioè virtù e doni spirituali, che rappresentano il centuplo se vengono paragonati ai beni temporali e ai piaceri della carne: quando questi crollano, quelli crescono. Crolla il superbo, l’umile si rialza; crolla il lussurioso, il casto risorge, e così avviene con tutte le altre virtù. "E farà del suo deserto un luogo di delizie". Deserto è parola latina che significa "abbandonato", e raffigura il cuore del giusto che, privo della consolazione di questo mondo, viene deliziato dalla grazia dello Spirito Santo. E che cosa chiamerò delizia, se non la dolcezza della contemplazione, la devozione della mente e la partecipazione alle sofferenze del prossimo? "Farà della sua steppa", cioè della sua povertà, "un giardino del Signore". Dice la sposa del Cantico dei Cantici: "Il mio diletto scende nel suo giardino" ( Ct 6,1 ). E Bernardo: "In cielo vi erano tutti i beni in grande abbondanza: mancava solo la povertà. Invece sulla terra questa merce vi era in grande abbondanza, ma l’uomo ignorava il suo valore. Allora venne il Figlio di Dio a cercarla, per renderla preziosa con il suo apprezzamento. "In essa", cioè nella Sion sopraddetta, "ci sarà giubilo" per il peccato perdonato, "letizia" per la coscienza illuminata, "rendimento di grazie" per i beni temporali, "e inni di lode" per i beni spirituali. 4. Senso mistico. Osserva che nel succitato brano di Isaia la parola "consolerà" è ripetuta due volte, a motivo della duplice consolazione che il giusto riceverà nella risurrezione finale, cioè la "stola" dell’anima e la "stola" del corpo. Leggiamo nei Proverbi: "Tutti i suoi di casa hanno veste doppia" ( Pr 31,21 ); e Isaia: "Per la doppia vergogna e il doppio rossore cui furono sottoposti, renderanno grazie per la porzione che sarà loro data: per questo possederanno il doppio nella loro terra e godranno di una letizia perenne" ( Is 61,7 ). È detto doppio ciò che consta di due parti. Perciò consolerà l’anima e consolerà anche il corpo, perché restaurerà tutte le sue rovine. Il Signore per bocca di Amos promette: "In quel giorno rialzerò la dimora di Davide che è caduta; riparerò le brecce delle sue mura e restaurerò ciò che era crollato" ( Am 9,11 ). La dimora di Davide, cioè il corpo del giusto, che è caduto con la morte, il Signore lo risusciterà in quel giorno, cioè nella risurrezione finale; e allora riparerà le aperture delle sue mura, cioè le sofferenze e le tribolazioni delle sue membra, affinché non ci sia più in esse patimento alcuno. E poiché non c’è vera risurrezione, se non si rialza ciò che è caduto, soggiunge: "E restaurerò ciò che era crollato". Dice infatti Giobbe: "Con questa mia carne vedrò Dio, mio salvatore" ( Gb 19,26 ). E poiché quaggiù il giusto è stato deserto, cioè solo, nel raccoglimento del suo spirito, e solitario per la povertà sofferta nel suo corpo, lassù la sua anima sarà deliziata dal sapore della sapienza con la quale si saziano gli angeli; e il suo corpo, come giardino del Signore, sarà irrigato dai quattro fiumi del paradiso ( cf. Gen 2,10-14 ), sarà cioè dotato delle quattro proprietà dei corpi glorificati. E in riferimento a queste quattro proprietà è detto: "Giubilo" per la luminosità, "letizia" per l’agilità, "azione di grazie" per la sottigliezza e "canto di lode" per l’impassibilità" si troveranno in essa", cioè nella "stola", nella veste del corpo glorificato. Beato colui che meriterà di essere consolato dal Consolatore con questa duplice consolazione. I. Sermone sul senso letterale del vangelo di questa festa 5. "Il Paràclito, lo Spirito Santo". È colui che dal Padre e dal Figlio viene infuso nel cuore dei santi; è colui per mezzo del quale essi sono santificati, per meritare di essere santi. Come lo spirito umano è la vita del corpo, così questo Spirito divino è la vita degli spiriti: quello è vita sensificante ( che rende sensibile ), questo è vita santificante. Ed è chiamato Spirito Santo perché senza di lui nessuno spirito, né angelico né umano, può divenire santo. "Che il Padre vi manderà nel mio nome", cioè per la mia gloria, vale a dire per manifestare la mia gloria, o anche perché ha lo stesso nome del Figlio, cioè è Dio. E aggiunge: "Egli mi glorificherà" ( Gv 16,14 ), perché rendendovi spirituali proclamerà in quale modo il Figlio sia uguale al Padre, quel Figlio che avevate conosciuto solo nella carne, come uomo ( cf. 2 Cor 5,16 ); oppure anche: liberandovi dal vostro timore, vi renderà capaci di annunciare a tutto il mondo la mia gloria, non a mio vantaggio ma a vantaggio degli uomini. "Egli vi insegnerà tutte le cose". Dice Gioele: "Figli di Sion, esultate nel Signore vostro Dio, perché vi ha dato il maestro della giustizia ( Gl 2,23 ), che vi istruirà affinché conosciate tutto ciò che riguarda la salvezza. E poco prima il Signore promette: "Ecco, io vi manderò frumento, vino e olio, e ne avrete in abbondanza" ( Gl 2,19 ). Lo Spirito Santo è detto frumento, perché sostiene colui che cammina verso la patria, affinché non venga meno lungo la via ( cf. Mt 15,32 ); è detto vino perché solleva e allieta nella tribolazione; è detto olio perché attenua le asperità. Queste tre azioni dello Spirito erano assolutamente necessarie agli apostoli che andavano a predicare in tutto il mondo; e perciò, come oggi, il Signore mandò loro lo Spirito Santo che infuse in essi questi tre doni e dei quali furono ricolmi. Ecco quindi che si canta: "Tutti furono pieni di Spirito Santo" ( At 2,4; At 4,31 ), affinché in essi non potesse entrare lo spirito del mondo: infatti un vaso ben pieno di una cosa non può riceverne alcun’altra. "E vi ricorderà tutte le cose", cioè vi presenterà, vi farà ritornare alla mente "tutto ciò che io vi avevo detto". Vi istruirà affinché conosciate, vi ispirerà affinché vogliate. Ecco dunque che lo Spirito Santo ci dà il conoscere e il volere: aggiungiamoci da parte nostra, per quanto ci è possibile, tutto ciò che dipende da noi, e così diverremo il tempio dello stesso Santo Spirito. Lo mandi anche su di noi il Figlio, che è benedetto nei secoli. Amen. II. Sermone allegorico 6. "Un fiume di fuoco scaturiva rapido dalla faccia dell’Antico dei giorni" ( Dn 7,10 ), cioè del Vegliardo. Queste parole sono di Daniele. Troviamo parole simili anche in Isaia: "Farò scorrere l’acqua sopra l’assetato e torrenti sul terreno arido. Effonderò il mio Spirito sulla tua discendenza e la mia benedizione sui tuoi posteri" ( Is 44,3 ). Ed è anche ciò che Pietro proclamò a Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo: "Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno" ( At 2,17 ). Il fiume, che ha sempre acque correnti, raffigura il perenne flusso delle acque. L’acqua stessa è fiume, e il fiume è lo scorrere stesso delle acque. Il fiume è la grazia dello Spirito Santo che oggi ha irrigato a profusione il cuore degli apostoli, li ha saziati e li ha purificati. "Effonderò sopra di voi acqua pura, e sarete purificati da tutte le vostre sozzure" ( Ez 36,25 ). Questo fiume è detto "di fuoco". Che cos’è infatti lo Spirito Santo se non il fuoco di Dio? Ciò che il fuoco materiale opera nel ferro, opera anche questo fuoco in un cuore malvagio, insensibile e indurito. Infatti con l’infusione di questo fuoco, l’anima dell’uomo perde a poco a poco ogni bruttura, ogni insensibilità e ogni durezza, e si trasforma a somiglianza di colui dal quale è stata infiammata. A questo scopo infatti viene donato all’uomo, a questo scopo viene in lui infuso, perché ad esso si conformi, per quanto è possibile. Infatti l’uomo, come acceso dal divin fuoco, tutto s’infiamma, tutto arde e quasi si liquefa nell’amore di Dio, secondo ciò che dice l’Apostolo: "L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" ( Rm 5,5 ). Considera poi che il fuoco, quando brucia le cose alte le abbassa, unisce insieme le cose divise, come il ferro al ferro, rende chiare le cose oscure, penetra in quelle dure, è sempre in movimento, ogni suo movimento e ogni irruenza sono rivolti verso l’alto e rifugge dalla terra; infine coinvolge nella sua azione ( di bruciare ) tutte le cose che investe. Queste sette proprietà del fuoco si possono applicare ai sette doni dello Spirito Santo. Egli con il dono del timore abbassa le cose alte, cioè umilia i superbi; con il dono della pietà riunisce le cose divise, cioè gli animi discordi; con il dono della scienza rende chiare le cose oscure; con il dono della fortezza penetra nei cuori induriti; con il dono del consiglio è sempre in movimento perché colui nel quale è infuso non languisce più nel torpore ma è sempre al lavoro per operare la sua salvezza e quella del prossimo: infatti "non conosce indugi la grazia dello Spirito Santo" ( Ambrogio ); con il dono dell’intelletto influisce su tutti i sentimenti perché con la sua ispirazione dà all’uomo la capacità di comprendere, in lat. intellìgere, intus lègere, cioè leggere dentro, leggere nel cuore, per cercare le cose del cielo e rifuggire da quelle della terra; infine con il dono della sapienza coinvolge nella sua azione la mente nella quale penetra, rendendola atta a gustare le cose dello spirito. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Ho riempito la mia abitazione di una nuvola profumata" ( Sir 24,21 ). La mente del giusto, nella quale ha la sua dimora lo Spirito Santo, olezza come un vaso o come un ambiente nel quale si conservano le essenze aromatiche. Perciò la grazia dello Spirito Santo è chiamata "fiume di fuoco": fiume perché spegne la sete delle cose temporali e lava le sozzure dei peccati; di fuoco perché infiamma per amare e illumina per conoscere. Per questo è detto che oggi è apparso sugli apostoli in lingue di fuoco, perché li ha resi eloquenti e ardenti: ardevano di amore di Dio e con la parola illuminavano il prossimo. 7. "Scorreva rapido". Leggiamo negli Atti del Apostoli: "All’improvviso venne dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte veemente" ( At 2,2 ), che porta cioè in alto la mente ( lat. vehit mentem ), oppure che elimina l’eterno "guai!" ( in lat. vae adimens ): "l’impeto del fiume rallegra la città di Dio" ( Sal 46,5 ), perché "riempì tutta la casa dove si trovavano" ( At 2,2 ). Abbiamo sentito verso dove scorre questo fiume: vediamo ora da dove sia scaturito: "Scaturiva dalla faccia dell’Antico di giorni" ( vegliardo ). Antico è come dire ( in lat. ) antequam, "prima che"… Cristo dice di sé: "Prima che Abramo fosse, io sono!" ( Gv 8,58 ). Egli è dunque "l’Antico di giorni", perché è il Principio senza principio, il senza tempo che forma i tempi e li governa, Dio che regna ovunque, dalla cui faccia scaturì oggi il fiume di fuoco. La faccia è così chiamata perché "fa conoscere" ( lat. facies, facit scire ). Per mezzo del Figlio conosciamo il Padre, per mezzo dello Spirito Santo conosciamo il Figlio. "Quando verrà il Paràclito, egli mi renderà testimonianza" ( Gv 15,26 ). Preghiamo dunque con devozione il Figlio perché ci mandi il Paràclito, il Consolatore, per mezzo del quale possiamo conoscerlo e amarlo, in modo da essere degni di giungere fino a lui. Ce lo conceda egli stesso, il Figlio, che è benedetto nei secoli. Amen. III. Sermone morale 8. "Un fiume di fuoco scaturiva rapido dalla faccia dell’Antico di giorni". Leggiamo anche in Isaia: "Quando egli verrà, sarà come fiume impetuoso, che lo Spirito del Signore sospinge" ( Is 59,19 ). Il fiume simboleggia il profluvio delle lacrime, che lo spirito di contrizione muove a versare. Si legge nell’Esodo che Mosè colpì con il bastone la pietra e da essa scaturì l’acqua ( cf. Es 17,6 ). La pietra raffigura il cuore indurito che, se viene colpito con il bastone della contrizione, fa sgorgare l’acqua delle lacrime. Pungi l’occhio e farai sgorgare la lacrima; pungi il cuore e farai sgorgare la sapienza. E questo fiume è detto "di fuoco", cioè bollente. Leggiamo nella Genesi: "Costui è Ana, che trovò nel deserto acque bollenti, mentre pascolava le asine di suo padre Zibeon" ( Gen 36,24 ). Ana, che s’interpreta "reso grato", è figura del peccatore che la grazia divina, gratuitamente elargita, ha reso grato a Dio. Questi ha trovato le acque, cioè le lacrime ardenti che scacciano il gelo della cattiveria, non nella città e nel tumulto delle cose mondane, ma nel deserto, nella solitudine del corpo e della mente. Il bambino è tutto contento quando la mamma lo immerge nell’acqua calda per lavarlo. Così il giusto, che è bambino per quanto riguarda la malizia, gioisce quando la grazia, come una madre, lo lava nelle lacrime. "Mi laverai, e sarò più bianco della neve" ( Sal 51,9 ). E trova queste acque quando trova le asine, quando cioè con il flagello della disciplina castiga in se stesso gli indugi e le lentezze simili a quelle degli asini, e si sforza di raggiungere i pascoli eterni. O anche: le asine sono figura delle anime fedeli che si dicono appartenere a Zibeon, nome che s’interpreta "è nel dolore": in lui è raffigurato Cristo, padre del giusto, che assumendo la nostra natura fu nel dolore perché, come dice l’Apostolo, "con lacrime e forti grida offrì preghiere e suppliche" ( Eb 5,7 ); il giusto, mentre pasce i fedeli di Cristo con la parola e con l’esempio, trova le lacrime nella solitudine della sua mente, perché dalla partecipazione alle sofferenze del prossimo nasce la compunzione delle lacrime. Dice infatti Giobbe: "Piangevo con chi era nell’afflizione, e la mia anima partecipava alle sofferenze del povero" ( Gb 30,25 ). Ecco dunque che la compunzione delle lacrime viene chiamata "fiume di fuoco" perché purifica e riscalda. Dice il proverbio: Versa calde lacrime, chi piange dal profondo del cuore. Poiché nel cuore della Maddalena grande era il fuoco dell’amore, ella profuse lacrime ardenti: "Incominciò a bagnare di lacrime i suoi piedi" ( Lc 7,38 ). In verità le sue lacrime furono un vorticoso fiume di fuoco, perché distrussero tutti i suoi peccati. Le sono perdonati i suoi molti peccati – disse Gesù – perché ha amato molto ( cf. Lc 7,47 ). 9. "Fiume rapido". Leggiamo in Giobbe: "Gemo e sospiro prima di mangiare, e i ruggiti del mio dolore sono come acque inondanti" ( Gb 3,24 ). Come un fiume rapido e vorticoso o le acque di un’inondazione travolgono gli ostacoli, così il ruggito di dolore, cioè i gemiti e le lacrime del penitente, travolgono ogni ostacolo di tentazioni; e come al ruggito del leone tutti gli altri animali trattengono il passo, così anche i demoni si fermano al gemito del penitente. Infatti sempre in Giobbe leggiamo: "Nessuno osava più rivolgergli la parola, perché vedevano che molto grande era la sua sofferenza" ( Gb 2,13 ). Le tentazioni dei demoni, le loro suggestioni cessano quando nel penitente subentra un dolore veramente grande; e prima dev’esserci questo dolore perché poi possa nutrirsi, possa cioè assaporare la quiete e la tranquillità della coscienza. Questo fiume sgorga dal volto di Cristo, che viene per il giudizio e per rendere a ciascuno secondo le sue opere ( cf. Mt 16,27 ). L’uomo deve considerare l’ira tremenda di quel terribile giudice, "davanti al quale le potenze di cieli saranno sconvolte" ( Lc 21,26 ), e le colonne del cielo si scuoteranno ( Gb 26,11 ), quando, come si legge nell’Apocalisse, "diranno ai monti e alle pietre: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello" ( Ap 6,16 ). Egli che prima restò muto davanti a coloro che lo tosavano e che lo colpivano, il cui volto fu lordato di sputi, gonfiato di schiaffi e pallido a morte, nel giorno del giudizio sarà terribile, indignato e inflessibile. E chi oserà allora fermarsi a guardare quel volto? Se Ester – come si legge nella Scrittura – quando vide il volto di Assuero, splendente di maestà, venne meno e cadde quasi esanime ( cf. Est 5,1c ), che cosa farà l’uomo quando, nell’ultimo giudizio, vedrà il volto del giusto giudice così severo? "Avendo Assuero alzato il volto, facendo trasparire dallo sguardo saettante il furore dell’animo, la regina svenne, mutò il suo colorito in pallore e piegò la testa sull’ancella che l’accompagnava" ( Est 5,1 ). Quando uno riflette attentamente dentro di sé su tutte queste cose, si sente scosso dalla paura, ricolmo di dolore, bagnato di lacrime, e così "un fiume travolgente di fuoco" sgorga dal volto di Cristo. Conclude infatti Isaia: Davanti al tuo volto, o Signore, abbiamo concepito e partorito lo spirito della salvezza ( cf. Is 26,17-18 ), cioè lo spirito di una compunzione inondata di lacrime. Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli. Amen. Prologo Fiduciosi nella grazia del Verbo Incarnato che dà voce e sapienza ( cf. Lc 21,15 ), "e rende eloquenti le lingue dei bambini" ( Sap 10,21 ), e le cui mani – come dice Ezechiele – sono sotto le ali dei quattro animali ( cf. Ez 1,8 ), ci ripromettiamo di portare a compimento, sotto la sua guida e in lui che è la via stessa, a suo onore e ad utilità dei fedeli, il lavoro che abbiamo intrapreso, incominciando dal momento in cui ebbe inizio tutto il creato ( vedi domenica di Settuagesima ). All’inizio di questo lavoro ci siamo proposti di stabilire una concordanza – anche se non in modo perfetto, almeno in parte – tra i vangeli domenicali del ciclo annuale e le narrazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, come si leggono nella chiesa, e le epistole delle domeniche con l’introito della messa. Si tenga presente che da questa prima domenica dopo Pentecoste fino alla prima domenica di agosto si legge nella chiesa la storia dei Re, che è divisa in quattro libri: e in questo periodo ci sono otto domeniche. Vogliamo perciò concordare il quattro con l’otto, adattando cioè alcuni racconti di un libro con i passi di due vangeli, e così di seguito, come ci sembrerà meglio. Domenica I dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della I domenica dopo Pentecoste: "C’era un uomo ricco"; vangelo che si divide in quattro parti. – Anzitutto sermone al prelato o al predicatore della chiesa, che con la fionda e il sasso, cioè con le opere e con la parola, deve sconfiggere il diavolo: "Davide prese il suo bastone". – Parte I: Sermone contro i ricchi di questo mondo: "C’era un uomo nel deserto di Maon". – Sermone contro i piaceri dei cinque sensi: "Guai a voi che già al mattino vi alzate ubriachi". – Sermone contro i golosi: "Veniva il figlio del sacerdote". – Sermone sulla carità: "Dio è amore". – Sermone morale sul ricco, cioè il corpo, e su Lazzaro, cioè l’anima peccatrice: "C’era un uomo ricco". – Sermone sulla piscina, i suoi cinque portici e il loro significato: "C’era a Gerusalemme una piscina chiamata Probatica". – Sermone ai predicatori: "I cani andavano a leccargli le piaghe". – Parte II: Sermone sul ricco e il povero: "C’erano due donne, Fenenna e Anna". – Sermone sulla dannazione del ricco e la gloria del povero: "Dagon giaceva per terra", e "Morirò nel mio piccolo nido". – Sermone sulla sepoltura dell’empio: "Questo dice il Signore a Ioachim", e "Quando l’uomo morirà". – Parte III: Sermone contro i detrattori: "Non prender parte ai banchetti del popolo"; la triplice spada della detrazione. – Da rilevare che colui che è in peccato mortale, se fa delle opere buone, gli giovano in cinque modi. – Sermone contro coloro che vivono nelle ricchezze e nei piaceri, dei quali saranno ben presto privati: "Davide prese la lancia e la brocca dell’acqua". – Parte IV: Sermone sulla casa del Padre e i cinque fratelli del ricco; loro significato: "Ti prego, padre". – Sermone sulla schiavitù dei cinque sensi: "Abigail si alzò e si affrettò a raggiungere Davide". Esordio - Sermone al prelato, o al predicatore della chiesa 1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: "C’era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso, e banchettava ogni giorno lautamente" ( Lc 16,19 ). Nel primo libro dei Re si racconta che Davide "prese il suo bastone, che sempre aveva tra le mani, e scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi, li pose nella sacca da pastore che aveva con sé, prese in mano la fionda e si mosse contro il Filisteo" ( 1 Sam 17,40 ). Fa’ attenzione a queste quattro cose: il bastone, i cinque ciottoli, la sacca e la fionda. Nel bastone è raffigurata la croce di Cristo, nei cinque ciottoli la conoscenza del Vecchio Testamento, nella sacca pastorale la grazia del Nuovo Testamento, nella fionda la giusta bilancia del giudizio. Quindi Davide, cioè il predicatore, deve prendere il bastone, cioè la croce di Cristo, per poter sopportare più facilmente, appoggiato ad essa, la fatica del cammino. Di questo bastone è detto nella Genesi: "Con il mio bastone soltanto ho attraversato questo Giordano, ed ora ritorno con due schiere" ( Gen 32,10 ). Il giusto attraversa l’amore transitorio di questo mondo con il bastone della croce di Cristo e così ritorna alla terra promessa con due squadre, cioè con i frutti della vita attiva e di quella contemplativa. Il predicatore deve avere questo bastone sempre in mano, con le buone opere. Dice infatti Abacuc: "Il suo splendore sarà come la luce, e corni ( potenza ) usciranno dalle sue mani" ( Ab 3,4 ). Lo splendore della santa vita e della predicazione è luce per il peccatore: "Voi siete la luce del mondo" ( Mt 5,14 ). Nelle mani stesse del predicatore ci devono essere i due bracci della croce affinché, con le mani inchiodate su di essi, non possa mai stenderle a cose illecite. "Scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi e li pose nella sacca da pastore che portava con sé". La sacca da pastore è detta in latino pera, nome che può indicare anche il vaso nel quale si mette il latte: ed è figura del Nuovo Testamento nel quale si trova la grazia, che può essere paragonata al latte. Nulla è più gradito ( lat. gratius ) del latte, poiché la madre lo offre gratuitamente ( lat. gratis ) al figlio, senza nulla esigere da lui. I cinque ciottoli raffigurano i cinque libri di Mosè ( Pentateuco ), con i quali intendiamo la conoscenza di tutto il Vecchio Testamento: libri che il predicatore, come sostegno della sua predicazione, deve prendere dal torrente, cioè dall’abbondanza della Sacra Scrittura, e riporre nella sacca del Vangelo. Infatti nel Nuovo Testamento è riposta la comprensione dell’Antico, perché "una ruota è in mezzo ad un’altra ruota" ( Ez 1,16 ). Oppure, nei cinque ciottoli possiamo veder raffigurati i severi rimproveri con i quali si devono colpire senza pietà coloro che sono schiavi dei sensi del corpo. Infatti i trasgressori del Vecchio Testamento, sepolti sotto i colpi di pietra, erano figura dei peccatori del Nuovo Testamento, che si devono colpire con aspri rimproveri. "Prese in mano la fionda e si avviò contro il filisteo". Nella fionda, che ha le due funicelle della stessa lunghezza, è raffigurata la coerenza tra la dottrina e la vita. Il predicatore deve avere per mano questa fionda, affinché la mano corrisponda alla bocca, e il suo comportamento corrisponda al suo insegnamento: solo così potrà avviarsi contro il filisteo e ucciderlo. Filisteo s’interpreta "che cade per il troppo bere", e raffigura il ricco di questo mondo coperto di porpora ( cf. Lc 16,19 ), ubriaco per gli eccessi della gola e della lussuria, che dalla grazia cade nella colpa, e dalla colpa rovinerà poi nella geenna: di lui si parla appunto nel vangelo di oggi: "C’era un uomo ricco, vestito di porpora", ecc. 2. In questo vangelo si devono considerare quattro fatti: primo, la diseguale condizione di vita del ricco vestito di porpora e del mendìco Lazzaro: "C’era un uomo ricco"; secondo, la morte di entrambi: "Avvenne poi che morì il mendìco"; terzo, il castigo del ricco e la gloria di Lazzaro: "Alzando i suoi occhi"; quarto, la disperata supplica del ricco in favore dei suoi cinque fratelli: "Ti prego, padre Abramo!…". Per quanto il Signore ce lo concederà, vedremo di concordare con queste quattro parti del vangelo alcuni racconti del primo libro dei Re. Osserva ancora che nell’introito di questa domenica si canta: "O Signore, ho sperato nella tua misericordia" ( Sal 13,6 ). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: "Dio è amore" ( 1 Gv 4,8 ); brano che divideremo in quattro parti, concordandole con le quattro suddette parti del vangelo. Prima parte: "Dio è amore"; seconda: "In questo consiste il perfetto amore"; terza: "Nell’amore non c’è timore"; quarta: "Noi dunque amiamo il Signore". L’ineguale condizione del ricco, vestito di porpora, e del mendico lazzaro 3. "C’era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso e tutti i giorni banchettava lautamente" ( Lc 16,19 ). Questo ricco, sconosciuto, in un certo senso, davanti a Dio, non è indicato con il nome. Non fu ritenuto degno di essere scritto in questo santo Vangelo il suo nome, che mai sarebbe stato scritto nel libro della vita eterna. In segno di riprovazione il racconto incomincia con le parole: Homo quidam, un tale. Anche noi diciamo un tale, di un uomo che disprezziamo o che non conosciamo. Questo tale rappresenta tutti i mondani, carnali e venduti come schiavi del peccato ( cf. Rm 7,14 ); di lui dice il salmo: "Ecco l’uomo che non ha posto in Dio la sua difesa, ma che confidava nella sua grande ricchezza e si credeva forte nella sua vanità" ( Sal 52,9 ). Considera queste tre parole: non ha posto, confidava, si credeva forte. Ad esse corrispondono le tre espressioni del vangelo: "C’era un uomo ricco", e quindi "non ha posto in Dio la sua difesa"; "si vestiva di porpora e bisso", perché "confidava nelle sue grandi ricchezze"; "e tutti i giorni banchettava lautamente", e così "si credeva forte nella sua vanità". Concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: "C’era un uomo nel deserto di Maon che possedeva beni a Carmel; costui era molto ricco. In casa sua teneva un banchetto come un banchetto da re. Il suo cuore era allegro ed egli era ubriaco fradicio. Il nome di quest’uomo era Nabal" ( 1 Sam 25,2.36 ). Nabal s’interpreta "stolto", Maon "abitazione" e Carmel "molle". Le tre parti di questo passo corrispondono alle tre parti del vangelo. Dice il vangelo: "C’era un uomo ricco", e il primo libro dei Re: "C’era un uomo nel deserto di Maon". Nel vangelo: "Era vestito di porpora e bisso", e il libro dei Re: "Costui era molto ricco". Il vangelo continua: "Tutti i giorni banchettava lautamente", e il libro dei Re: "In casa sua teneva un banchetto, come un banchetto da re". 4. Il ricco di questo mondo è stolto, perché non ha il gusto delle cose di Dio ( cf. Mt 16,23; Mc 8,33 ); egli è "nel deserto di Maon", cioè in quella dimora della quale è detto: "La loro dimora sarà deserta" ( Sal 69,26 ); "possedeva beni a Carmel", viveva cioè nella mollezza; per questo dice il profeta Amos: "Guai a voi che dormite in letti di avorio e vi rammollite nei vostri divani" ( Am 6,4 ). "E quell’uomo era molto ricco". Dice Davide: "Ho visto l’empio trionfante ergersi come un cedro del Libano" ( Sal 37,35 ). E Giobbe: "Ho visto lo stolto metter salda radice, e subito ho maledetto la sua appariscenza" ( Gb 5,3 ). "In casa sua teneva un banchetto come un banchetto da re". Infatti dice Amos: "Guai a voi ricconi di Sion, che mangiate gli agnelli del gregge e i vitelli scelti da tutto l’armento, bevendo il vino da larghe coppe, cosparsi di raffinati profumi" ( Am 6,1.4.6 ). E Isaia: "Guai a voi che vi alzate di buon mattino per ubriacarvi e sbevazzare fino a sera, accesi in volto dal vino. Nei vostri banchetti ci sono la cetra, la lira, il timpano e il flauto, e scorre il vino; ma non badate all’azione del Signore e non vedete l’opera delle sue mani" ( Is 5,11-12 ). In questi quattro strumenti musicali, e nel vino, è raffigurato il piacere dei cinque sensi. La cetra, sulla quale vengono tese le corde formate con le minugie di un animale morto, raffigura la vista che è come tesa verso le cose che si guardano con bramosia. La lira, così chiamata dalla varietà delle voci, in quanto produce suoni diversi, raffigura l’udito che si delizia appunto della varietà delle voci. Il timpano che, percosso dalle mani, risuona, è figura del tatto. Il flauto raffigura l’olfatto delle narici, attraverso le quali emettiamo il fiato, come avviene appunto attraverso il flauto. Infine il vino si riferisce chiaramente al gusto. Coloro che sono schiavi di questi cinque sensi non rivolgono la loro attenzione all’opera del Signore, a ciò che egli ha operato sulla nostra terra ( cf. Sal 74,12 ), vale a dire alla sua passione e morte; e non vogliono guardare all’opera delle sue mani, cioè ai suoi poveri, che egli stesso ha modellato con le sue mani nella ruota ( tornio ) della predicazione e ha forgiato nella fornace della povertà, come fa appunto il vasaio con la creta. 5. "C’era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso, e ogni giorno banchettava lautamente". Osserva che nella porpora è indicata la dignità mondana, nel bisso la preziosità delle vesti, e nel banchetto i piaceri della gola. La porpora è il colore del manto regale; viene emessa dalle conchiglie marine, incise con il ferro. Le conchiglie, chiamate in lat. conchae perché si incavano, cioè si svuotano quando manca la luna, raffigurano i poveri, i quali quando manca la luna, quando cioè viene meno la prosperità del mondo, si svuotano dei loro beni. Questi poveri, l’uomo ricco, cioè il potere secolare, li incide con il ferro della sua potenza, ne cava il sangue del denaro, e con esso si confeziona la porpora della dignità e del potere. Di costoro Giobbe dice: "Mietono il campo altrui e vendemmiano la vigna di coloro che hanno oppresso con la forza. Lasciano nudi gli uomini, togliendo le vesti a chi nulla ha per ripararsi dal freddo" ( Gb 24,6-7 ). In simile porpora era avvolta anche la meretrice di cui parla l’Apocalisse ( cf. Ap 17,4 ). L’uomo ricco e la meretrice raffigurano la stessa cosa: l’uomo, perché sa di humus, cioè di terra; la meretrice, perché si mette a disposizione del diavolo. Il bisso è una qualità di lino, candido e morbidissimo: raffigura la ricercatezza nel vestire. E "quelli che indossano morbide vesti stanno nei palazzi dei re" ( Mt 11,8 ), cioè dei demoni. "Non ti vantare delle tue vesti", dice l’Ecclesiastico ( Sir 11,4 ); e Pietro: "Il vostro ornamento non sia quello esteriore: capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti; sia piuttosto quello interiore del vostro cuore, dello spirito incorruttibile, pieno di mitezza e di pace, che è tanto prezioso agli occhi di Dio" ( 1 Pt 3,3-4 ). "E ogni giorno banchettava lautamente". Anche con questo concorda ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: "Mentre la carne cuoceva, veniva il servo del sacerdote con in mano un forchettone a tre denti, e lo introduceva nella pentola o nella caldaia; e tutto ciò che il forchettone tirava su il sacerdote lo teneva per sé … Veniva poi il servo del sacerdote e diceva a chi offriva il sacrificio: Dammi, per il sacerdote, la carne da cuocere: non prendo da te carne già cotta, ma cruda" ( 1 Sam 2,13-14.15 ). Nel sacerdote è raffigurato il ventre, e nel suo servo l’avidità della gola, di cui dice Salomone: "Il giovane lasciato a se stesso disonora sua madre" ( Pr 29,15 ). Se l’avidità della gola non viene frenata, ma è lasciata ai suoi istinti, disonora sua madre, cioè la carne, il corpo, che talvolta, a causa dell’eccesso di cibo, va incontro a malattie e viene come preso al laccio. Questo servo tiene in mano un forchettone a tre denti, nel quale è indicata la triplice "rapina" della gola: infatti, o consuma i beni altrui divorandoli, o distrugge i propri vivendo dissolutamente, oppure non osserva tempi e modi nell’assumere i cibi che sono permessi. Tutto ciò che il forchettone tira su con questi tre denti, il ventre-sacerdote lo rivendica a sé, e pretende che gli venga data non carne cotta ma cruda, come il lupo, per poterla preparare con maggior accuratezza. Giustamente quindi è detto: "Banchettava ogni giorno lautamente". 6. "E c’era un mendìco di nome Lazzaro …" ( Lc 16,20 ). Metti a confronto tra loro le singole parti: metti a confronto l’oro con il piombo, affinché la meschinità del piombo risulti ancora maggiore di fronte allo splendore dell’oro. Il primo è detto: un tale; il secondo: di nome Lazzaro. Quello ricco, questo mendìco; quello "vestiva di porpora e bisso, questo era coperto di piaghe; quello ogni giorno banchettava lautamente, questo bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, ma nessuno gliele dava; perfino i cani venivano a leccargli le piaghe" ( Lc 16,20-21 ). Né Lazzaro era in grado di allontanarli da sé, né c’era qualche passante che lo facesse per lui. O divina condiscendenza! O beatitudine del mendìco! O miseranda dannazione del ricco! Nulla è più infelice – dice Girolamo – della felicità di chi pecca. E Agostino: Non c’è segno più evidente di dannazione, di quando le cose temporali vanno secondo la nostra volontà. Invece ai santi Dio sottrae le cose temporali, perché non perdano quelle eterne. Dice infatti Gregorio: Togliamo ai bambini il denaro, pur conservando per loro tutta l’eredità. "C’era un mendìco di nome Lazzaro". Il povero, l’umile è indicato con il suo nome, in segno di stima. Questo Lazzaro, nome che significa "aiutato", rappresenta tutti i poveri di Cristo, poveri ch’egli stesso aiuta e soccorre nelle loro necessità. Perciò queste due parole mendìco e Lazzaro vengono giustamente unite. Si dice "mendìco" per indicare uno che ha meno di quanto gli è necessario per vivere, e può significare anche: "dico con la mano" ( lat. manu dico ), perché presso gli antichi c’era l’uso di chiudere la bocca ai bisognosi e far loro stendere la mano, proprio per farli parlare solo con la mano. Quel povero fu aiutato dal Signore perché seppe tener chiusa la bocca per non proferire parole d’impazienza e stese invece la mano della sua mente devota. "Egli giaceva alla porta del ricco". Ecco che l’arca del Signore giace ai piedi di Dagon ( cf. 1 Sam 5,2 ). Ma attendi un po’ e vedrai al contrario il crollo di Dagon e l’esaltazione dell’arca ( cf. 1 Sam 5,3-5 ). Il povero non entrò nella porta del ricco, né il ricco gli mandò fuori il soccorso di un pasto. Non si comportò così Giobbe, il quale dice: "Il pellegrino non restò mai fuori e la mia porta fu sempre aperta al viandante" ( Gb 31,32 ). E ancora: "Mai ho rifiutato al povero ciò che domandava, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato da solo il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l’orfano" ( Gb 31,16-17 ). "Era coperto di piaghe". La piaga, in lat. ulcus, ulcera, che si forma sulla cute, si può identificare con la cancrena. Era dunque coperto di piaghe, colui che poco dopo sarebbe stato portato dagli angeli nel seno di Abramo. "Bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno gliele dava". Briciola, in lat. mica, è un piccolissima parte di pane che cade. Il vero povero si accontenta del minimo, desidera il minimo: e questo "minimo", unito con il "grande" di Dio, lo sazia e lo ristora. Invece colui che non volle dare neppure la briciola di pane, non meritò poi di ricevere neppure una goccia di acqua. "Perfino i cani venivano a leccargli le piaghe". La Glossa commenta: Se vediamo nei poveri qualcosa di ripugnante, non dobbiamo disprezzarli perché, anche se possono avere qualche macchia nei loro costumi, la povertà è la medicina che li purifica. Per un unico fatto vengono emessi da Dio due giudizi, e al ricco che non sente pietà alla vista del povero viene comminato il massimo della pena. Inoltre, il povero alla vista del ricco è ogni giorno tentato e messo alla prova: e questa prova è resa per lui sempre più ardua dalla povertà unita alla malattia, e dalla vista dell’abbondanza del ricco e dalla totale mancanza di ogni conforto e sollievo. Perciò il povero, privo di ogni umano soccorso, fiducioso solo nella divina misericordia, prega nell’introito della messa di oggi: "Signore, ho confidato nella tua misericordia. Il mio cuore ha esultato nella tua salvezza, canterò al Signore che mi ha beneficato" ( Sal 13,6 ). Nota che ha detto tre cose: Ho confidato, il mio cuore ha esultato, e canterò al Signore. Il vero povero confida nella misericordia di Dio, il suo cuore esulta pur nella miseria del mondo, e così canterà la sua lode al Signore nell’eterna gloria. 7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Dio è amore" ( 1 Gv 4,8 ). Essendo l’amore ( la carità ) la principale delle virtù, facciamo su di essa qualche considerazione con un breve sermone particolare. "L’amore con il quale si ama Dio e si ama il prossimo è proprio lo stesso, e questo amore è lo Spirito Santo, perché Dio è amore" ( P. Lombardo ). Questa legge dell’amore – come dice Agostino – è istituita da Dio, affinché tu ami Dio per se stesso e con tutto il cuore, e il prossimo come te stesso: ami cioè anche te stesso in ordine al prossimo e per il prossimo. Infatti devi amare te stesso per il bene e in ordine a Dio, e anche il prossimo dev’essere amato per il bene, e non per il male, e in ordine a Dio. Come prossimo poi si deve intendere ogni uomo, perché non c’è nessuno con il quale si possa agire male. Il modo di praticare questo amore viene indicato quando si dice: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore", cioè con tutta l’intelligenza, "con tutta l’anima", cioè con tutta la volontà, "con tutta la mente", cioè con la memoria, in modo che tu attribuisca tutti i pensieri, tutta la vita e tutta l’intelligenza a colui, dal quale hai tutto ciò che devi attribuirgli. Dicendo questo non lascia libera la minima parte della nostra vita, ma qualunque cosa passi per l’animo venga rapita verso colui al quale corre l’impeto dell’amore ( P. Lombardo ). Il beato Giovanni nell’epistola di oggi ha esposto molte cose sull’amore di Dio e del prossimo e ad esso ci ha esortati: "In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi vivessimo per lui" ( 1 Gv 4,9 ). Quanto grande è stato l’amore di Dio Padre per noi! Egli mandò proprio per noi il suo Figlio unigenito, perché lo amassimo vivendo per lui, senza il quale vivere è morire, perché "chi non ama rimane nella morte" ( 1 Gv 3,14 ). Se dunque Dio ci ha tanto amati da darci il suo Diletto, per mezzo del quale ha fatto tutte le cose, anche noi dobbiamo amarci a vicenda. "Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda" ( Gv 13,34 ). E poiché il ricco, vestito di porpora, non osservò questo comandamento, restò nella morte. Fu infatti sepolto vivo perché non amò la vita, che è amore; peccò perché nell’amore capovolse l’ordine dei valori. Dice Agostino: "Quattro cose si devono amare: primo, colui che è sopra di noi, cioè Dio; secondo, ciò che siamo noi ( noi stessi ); terzo, ciò che ci è vicino, cioè il prossimo; quarto, ciò che è sotto di noi, cioè il corpo. Il ricco amò prima di tutto e sopra tutto il suo corpo; di Dio, della sua anima e del prossimo non si curò per nulla, e perciò fu dannato. Il nostro corpo, dice il beato Bernardo, dobbiamo considerarlo come un ammalato affidato alle nostre cure: ad esso dobbiamo saper negare molte cose inutili che vorrebbe avere, e fargli invece accettare molte cose utili che non vorrebbe. Dobbiamo agire con il corpo come non appartenesse a noi, ma solo a colui dal quale siamo stati comprati a caro prezzo, affinché lo glorifichiamo anche con il nostro corpo ( cf. 1 Cor 6,20 ). Facciamo in modo che il Signore non debba rimproverarci con le parole di Ezechiele: "Giacché tu mi hai dimenticato e mi hai posposto al tuo corpo, sconterai la tua disonestà e le tue scelleratezze" ( Ez 23,35 ). Il corpo dunque dobbiamo metterlo al quarto e ultimo posto nel nostro amore: non come dovessimo vivere per esso, ma perché senza di esso vivere non possiamo. E dalla misera vita del corpo, si degni di condurci a sé colui che è la vita che vive in eterno. Egli è benedetto nei secoli eterni. Amen. 8. Senso morale. "C’era un uomo ricco", ecc. Per "uomo" intendiamo il corpo, per "Lazzaro" l’anima. Uomo viene dal lat. humus, umo ( terra ), ed è il corpo creato dalla terra, del quale dice Geremia: "Maledetto l’uomo che confida nell’uomo" ( Ger 17,5 ). Il nostro corpo è maledetto; infatti dice la Genesi: "Maledetta la terra", cioè il corpo, "per la tua opera" ( Gen 3,17 ), per colpa delle tue opere, vale a dire per il peccato di disobbedienza. E con quale maledizione è stato maledetto? "Ti produrrà triboli e spine" ( Gen 3,18 ). Nelle spine sono indicate la fame, la sete e la condanna alla morte; nei triboli le tentazioni della carne che tormentano l’anima. Ecco quali frutti ci produce la "terra maledetta", cioè il corpo. E di questa maledizione dice Mosè nel Deuteronomio: "Maledetto chiunque pende dal legno" ( cf. Dt 21,23; Gal 3,13 ). Il legno secco raffigura la gloria di questo mondo, dalla quale quest’uomo pende legato con la fune dell’amore terreno, e quindi è maledetto. Giustamente perciò è detto: "C’era un uomo ricco". Ahimè, di quante ricchezze abbonda quest’uomo e quante ancora ne brama: non gli basta tutto il mondo. Al piccolo corpo di un solo uomo non bastano tante ricchezze e tante proprietà. Questo misero uomo non è uscito dal grembo materno rivestito di porpora e di bisso, ma avvolto dalla placenta viscida e sgradevole; e al termine della sua vita ritornerà alla terra nudo e senza niente. E questa cosa possiamo capirla ancor meglio, considerando la crescita, il momento del massimo sviluppo, quello della stasi, e il declino del corpo stesso. Considera che nell’uomo, al termine del suo sviluppo ( nel grembo materno ), la parte superiore del corpo è più piccola della parte inferiore: e per parte superiore intendo ciò che va dalla testa fino agli organi dai quali vengono espulsi gli escrementi; per parte inferiore quella che va da quest’ultimo punto fino all’estremità dei piedi. Quando l’uomo è bambino, la parte superiore del suo corpo è più grande; quando invece invecchia, avverrà il contrario. E questa è anche la causa del modo diverso con cui l’uomo si muove nel tempo della crescita, in quello stazionario e in quello dell’invecchiamento. Infatti il bambino all’inizio del suo movimento all’esterno [ del grembo ] cammina sui piedi e sulle mani; poi a poco a poco alza e raddrizza il suo corpo finché giunge alla giovinezza e al massimo vigore dell’età; in seguito, avanzando negli anni, si incurva. Questo misero corpo, all’inizio della sua vita è piccolissimo; nella vecchiaia è curvo; invece al centro della sua vita, cioè nella giovinezza, si gonfia di ricchezze, si adorna di vesti, si ingrassa di cibi e bevande come il porco si rimpinza di ghiande. Giustamente quindi è detto: "C’era un uomo ricco che si vestiva di porpora e bisso e ogni giorno banchettava lautamente". 9. "C’era anche un mendìco di nome Lazzaro". Il mendìco Lazzaro raffigura la misera anima, povera e mendìca, che giace alla porta del ricco, coperta di piaghe. La porta del ricco raffigura i cinque sensi del corpo, tra i quali giace l’anima mendìca, coperta delle piaghe dei peccati. Dice infatti Giovanni: "C’era a Gerusalemme la piscina Probatica, che aveva cinque portici. Sotto questi portici giaceva una moltitudine di malati, di ciechi, di zoppi e di paralitici, che aspettavano il movimento dell’acqua" ( Gv 5,2-3 ). La piscina, così chiamata perché è piena di pesci, raffigura il corpo, che è pieno di pesci, cioè di pensieri oziosi e indiscreti. Questa piscina ha cinque portici, cioè i cinque sensi. Il portico ( da porta ) si chiama così perché è aperto: infatti i cinque sensi del corpo sono aperti ai vizi. Dice Geremia: "La morte è entrata per le nostre finestre" ( Ger 9,21 ). E Naum: "Le porte della tua terra saranno aperte ai tuoi nemici e il fuoco divorerà le tue sbarre" ( Na 3,13 ). Quando il fuoco della concupiscenza carnale brucia le sbarre, cioè i doni della grazia e della natura, dai quali l’anima è custodita quando ne è dotata, allora le porte della nostra terra, cioè i cinque sensi del nostro corpo, vengono aperti ai nostri nemici, vale a dire ai vizi e ai demoni. In questi cinque portici l’anima giace sfinita, cieca, zoppa, paralitica ( arida ). Sfinita perché priva della forza delle virtù; cieca perché priva della luce della ragione; zoppa di entrambi i piedi, vale a dire priva dello stimolo della buona volontà e del compimento delle buone opere; paralitica ( arida ), cioè senza la linfa della compunzione. Queste sono le piaghe di cui è coperta mentre giace alla porta del ricco, "bramando di saziarsi delle briciole, che cadono dalla mensa del ricco". La mensa simboleggia la prosperità di questo mondo ed ha quattro "piedi" ( gambe ): le ricchezze, gli onori, i piaceri e la salute del corpo. L’Apostolo ne parla ai Corinzi: "Non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni" ( 1 Cor 10,21 ). La mensa del Signore fu la povertà, alla quale egli partecipò insieme con i suoi apostoli; la mensa dei demoni è la prosperità dei secolari, della quale il profeta dice: "La loro mensa sia per loro un laccio, una ricompensa e uno scandalo" ( Sal 69,23 ). La prosperità diventa per i carnali "laccio di peccato", "la ricompensa" di Dio, che darà loro i mali dell’inferno in cambio dei beni che hanno avuto nel secolo, e uno "scandalo" per il prossimo. Le briciole che cadono da questa mensa sono i pensieri immondi, le varie preoccupazioni, le diverse occupazioni, che come vermi pullulano dalle piaghe dell’anima. Di essi l’anima sventurata brama saziarsi, ma non può. Dice infatti Geremia: "Hanno dato le cose più preziose in cambio di cibo, per rifocillare l’anima" ( Lam 1,11 ). Le cose più preziose sono le virtù, che i carnali vendono in cambio di cibo, cioè dei piaceri della carne che non saziano, ma che talvolta danno la sensazione di ristorare l’anima. 10. A questo mendìco Lazzaro, coperto di piaghe, resta un solo sollievo: la lingua dei cani. Infatti il vangelo aggiunge: "Perfino i cani andavano a leccargli le piaghe". I cani, così chiamati dal "canto" del latrato, sono figura dei predicatori, dei quali dice il Salmo: "La lingua dei tuoi cani abbia da lui", cioè dal Signore, "la sua parte tra i tuoi nemici" ( Sal 68,24 ): quelli che erano stati tuoi nemici, diventeranno tuoi amici, come avvenne quando Saulo diventò Paolo. E considera che come la lingua del cane è "medicamentosa" ( curativa ), così è anche la lingua del predicatore, che è il medico delle anime. Dice infatti Geremia: "Forse che a Galaad non c’è resina? O non hai alcun medico? Perché dunque non si è cicatrizzata la ferita della figlia del mio popolo?" ( Ger 8,22 ). Galaad, che s’interpreta "cumulo di testimonianze", è la santa chiesa, nella quale si sono accumulate le testimonianze delle Scritture: in essa c’è la resina della penitenza e il medico, cioè il predicatore, che la confeziona. Perché dunque la piaga dell’anima peccatrice non è guarita, e non si è ancora cicatrizzata? "Andavano, dunque, i cani e gli leccavano le piaghe". Fa’ attenzione che in questa parola "leccavano" sono indicate due cose: l’avidità e la delicatezza; infatti leccare o lambire si dice in lat. lingo, cioè leniter ago, tratto delicatamente. Il predicatore infatti, con la lingua della predicazione, deve curare con avidità le piaghe dei peccatori, ma deve anche lambirle con delicatezza, affinché sotto la sua lingua ci siano miele e latte ( cf. Ct 4,11 ), cioè una dottrina, un insegnamento dolce e delicato. Dice l’Apostolo: "Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che siete spirituali, istruitelo in spirito di delicatezza" ( Gal 6,1 ). Preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo che di questo uomo ricco, cioè del nostro misero corpo, faccia un povero volontario, lo rivesta di cenere e di cilicio, gli dia pane raffermo e poca acqua ( Is 30,20 ), guarisca le piaghe dell’anima con la lingua della sua dottrina e lo collochi nel seno di Abramo. Ce lo conceda lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen. II. Morte dell’epulone e di Lazzaro 11. "Avvenne poi che il mendìco morì, e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno" ( Lc 16,22 ). Si avverò quello che aveva detto Anna nel primo libro dei Re: "L’arco dei forti si è spezzato, invece i deboli sono rivestiti di vigore", ecc., fino alla conclusione del canto: "Dalla polvere solleva il mendìco e dal letamaio innalza il povero … perché egli occupi un trono di gloria" ( 1 Sam 2,4-8 ). Con questo racconto del vangelo concorda ciò che è narrato all’inizio del primo libro dei Re. C’erano cioè due donne, Fenenna e Anna. "Fenenna aveva dei figli, mentre Anna non ne aveva alcuno. La sua rivale, cioè Fenenna, la affliggeva e la rimproverava aspramente, fino a disprezzarla, perché il Signore aveva chiuso il suo grembo, e così la provocava. Anna perciò piangeva e non voleva prendere cibo" ( 1 Sam 1,2.6.7 ). Fenenna, che s’interpreta "conversione", è figura del ricco vestito di porpora, che si convertì non a Dio ma al mondo, non al cielo ma all’inferno. Anna, che s’interpreta "grazia", è figura del mendìco Lazzaro il quale, sostenuto dalla grazia di Dio, meritò di salire alla gloria: il Signore stesso gli concesse la grazia e la gloria. Fenenna ebbe vari figli. Figlio viene dal greco philos, che significa "amato, amore". Il ricco ebbe tanti figli, quante furono le opere che produsse per amore della carne e per la vanità del mondo. Si legge infatti nel libro dei Giudici che Ierub-Baal ( Gedeone ), figlio di Ioas, ebbe settanta figli, usciti dal suo fianco, avendo avuto molte mogli ( cf. Gdc 8,29-30 ). Osserva dunque che Fenenna, come riportano le "Storie", ebbe sette figli, e Ierub-Baal settanta, numero che ha lo stesso significato del sette, in quanto sta ad indicare la totalità dei vizi. Ierub-Baal s’interpreta "superiore", Ioas "temporale". Il ricco fu, in questo mondo, superiore al mendìco Lazzaro. Il figlio è figura del successo temporale, che dalla superbia, dalla gola, dall’avarizia e dalla vanagloria generò, quasi da tante mogli, la totalità dei vizi. Anna invece non aveva figli, perché era sterile; il mendìco Lazzaro, uomo giusto, non ha figli di opere cattive, ed è sterile, cioè senza quel frutto del quale è detto: "Dal frutto del frumento, del vino e dell’olio furono moltiplicati" ( Sal 4,8 ). Nel frumento è indicata l’abbondanza delle ricchezze, nel vino il piacere della carne, nell’olio gli eccessi della gola. Con queste tre cose si moltiplicò quel ricco, del quale è detto: "C’era un uomo ricco": ecco il frumento; "vestito di porpora e bisso": ecco il vino; "e ogni giorno banchettava lautamente": ecco l’olio. Egli, così moltiplicato, fu sepolto nell’inferno. "Io invece – dice il povero – in pace e in lui dormirò e mi riposerò" ( Sal 4,9 ), nel seno di Abramo. Considera ancora che Fenenna maltrattava Anna in quattro maniere: la affliggeva, la arguiva, la disprezzava e la provocava. Altrettanto faceva il ricco al mendìco Lazzaro. Lo affliggeva perché gli negava quell’aiuto che avrebbe dovuto dargli. Infatti Isaia, a coloro che non danno ai poveri le loro cose, dice: "Nella vostra casa c’è quello che avete rapito ai poveri. Perché opprimete il mio popolo e pestate la faccia dei poveri?, dice il Signore" ( Is 3,14-15 ). Lo arguiva. Arguire vuol dire convincere e dimostrare. Il modo più efficace per dimostrare che il piombo è un metallo di poco valore, è metterlo a confronto con l’oro. Lo stesso avviene della povertà, posta a confronto con la ricchezza. Perciò l’ostentata abbondanza del ricco metteva in evidenza la miseria del mendìco. Lo disprezzava quando, avvolto nella porpora, incedeva davanti a Lazzaro che, coperto di piaghe, giaceva alla sua porta. E in questo modo lo provocava, lo stimolava cioè ad un più grande amore verso Dio. "Di conseguenza Anna piangeva e non voleva prendere cibo". Lazzaro piangeva a motivo della miseria di questo esilio terreno e per il ritardo della gloria ( del paradiso ); e non prendeva cibo perché bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava. Ma fino a quando, Signore Dio, il ricco continuerà a prosperare e il povero a soffrire? "Perché – dice Geremia – le cose degli empi prosperano? Perché ai traditori e a quelli che compiono il male tutto va bene?" ( Ger 12,1 ). E Abacuc: "Perché non guardi a quelli che compiono il male, e taci mentre l’empio divora chi è più giusto di lui?" ( Ab 1,13 ). Di’, o Signore, fino a quando durerà tutto questo? 12. "Avvenne poi che il mendìco morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì poi anche il ricco e fu sepolto nell’inferno". Ecco dunque che "l’arco dei forti è stato spezzato, e il misero occuperà un soglio di gloria". E anche su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che Dagon [ un idolo ] "giaceva per terra davanti all’arca del Signore: la testa dell’idolo e le sue mani giacevano staccate sulla soglia; solo il tronco di Dagon era rimasto al suo posto" ( 1 Sam 5,4-5 ). L’arca del Signore raffigura il mendìco Lazzaro nel quale, come nell’Arca del Signore, ci furono tre cose: la manna, le tavole della legge e il bastone di Aronne. In Lazzaro c’era la manna della pazienza, le tavole del duplice comandamento della carità, e il bastone della disciplina. Quest’arca riposò nel seno di Abramo: davanti ad essa Dagon, l’idolo, crollò in pezzi. Dagon s’interpreta "pesce della tristezza". E raffigura il ricco vestito di porpora, che fu un pesce che percorreva le vie del mare, in questo mondo di tristezza e nell’inferno. "La sua testa e le sue mani giacevano staccate sulla soglia". Nella testa è indicata la grandezza temporale, nelle mani la potenza e l’abbondanza, nella soglia l’uscita dalla vita e l’arrivo della morte. Quando dunque cadde Dagon, quando cioè il ricco morì, la testa dei suoi onori e della sua grandezza, la mani della sua potenza e della sua ricchezza furono troncate, restarono sulla soglia, cioè sul termine della vita, e così lui, come il tronco dell’idolo, restò solo, nudo e impotente, sepolto al suo posto, cioè nell’inferno. Giustamente quindi è detto: "Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno". Ecco quanto grande è la giustizia di Dio! Il mendìco giaceva alla porta del ricco, coperto di piaghe: ora invece è il ricco che giace lì solo, come un tronco. Dice infatti Salomone: "I malvagi giaceranno davanti ai buoni e gli iniqui davanti alle porte dei giusti" ( Pr 14,19 ). Lazzaro morì nel piccolo nido della sua povertà, del quale dice Giobbe: "Morirò nel mio piccolo nido, e moltiplicherò i miei giorni come la palma" ( Gb 29,18 ). Chi muore nel piccolo nido della povertà, sarà piantato come la palma nella casa dell’eternità e dell’eterna giovinezza. "Il giusto – è detto – fiorirà come palma" ( Sal 92,13 ). 13. "Invece il ricco fu sepolto nell’inferno". Di questa sepoltura parla Geremia: "Dice il Signore a Ioachim, figlio di Giosia, re di Giuda: Non faranno il lamento per lui, dicendo: Ahi, fratello mio! e: Guai, sorella! Né grideranno: Ahi, Signore! Ahi, illustre re! Sarà sepolto come si seppellisce un asino, e sarà gettato a marcire fuori delle porte di Gerusalemme" ( Ger 22,18-19 ). Considera che la sepoltura dell’asino avviene in questo modo: il padrone si tiene la pelle, i cani ne divorano le carni. Nelle ossa, che durano più a lungo, è raffigurata l’anima; la pelle, cioè i beni terreni, se li tengono i figli; le carni le divorano i vermi; dell’anima si impadroniscono i demoni. Per questo dice l’Ecclesiastico: Quando l’uomo morirà avrà per suo retaggio belve, serpenti e vermi ( cf. Sir 10,13 ). Le belve sono i figli senza cuore; i serpenti e i vermi sono i demoni. Il ricco coperto di porpora ebbe questa sepoltura, poiché fu sepolto nell’inferno. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola di oggi: "Per questo l’amore di Dio ha raggiunto in noi la perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio: perché come è lui, così siamo anche noi in questo mondo" ( 1 Gv 4,17 ). E la Glossa commenta: Noi dimostriamo di amare Dio in modo perfetto se non temiamo l’arrivo del giudice, se non abbiamo paura di presentarci a lui. Il mendìco Lazzaro non temeva l’arrivo del giudice, perché amava Dio in modo perfetto, e lo aspettava non come giudice che viene a giudicare, ma come colui che viene a dare la ricompensa. Invece il ricco coperto di porpora, nel quale non c’era l’amore, non confidava certo nel giorno del giudizio, non avendo mai avuto compassione per il povero. I giusti invece hanno fiducia perché imitano la perfezione dell’amore di Dio, amando in questo mondo anche i nemici, come Dio che dal cielo "fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" ( Mt 5,45 ). Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, noi che siamo i tuoi poveri e i tuoi mendicanti: fa’ che moriamo nel piccolo nido della nostra povertà, per essere poi portati dagli angeli nel seno di Abramo. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. La pena del ricco e la gloria di Lazzaro 14. "In mezzo ai tormenti, il ricco levò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro nel suo seno. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del dito e venga a rinfrescarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura" ( Lc 16,23-24 ). Il ricco alzò i suoi occhi, ma invano, perché quaggiù aveva stabilito di tenere gli occhi rivolti verso terra ( cf. Sal 17,11 ). Dice Isaia: "Guardando la terra, ecco le tenebre della tribolazione, e la luce è oscurata dalla sua caligine" ( Is 5,30 ). Il ricco guardò all’amore delle cose terrene e quindi le tenebre della tribolazione lo avvolsero, e la luce, cioè la sua ricchezza, fu oscurata dalla sua caligine, cioè dalla caligine dell’inferno. "Vide Lazzaro nel seno di Abramo". Quanto sia grande il tormento dei cattivi alla vista della felicità dei buoni, lo attesta il libro della Sapienza: "Vedendoli saranno presi da terribile spavento e saranno pieni di stupore per la loro inattesa salvezza. Gemendo nei tormenti del loro spirito, pentendosi amaramente, diranno dentro di sé: Questi sono coloro che noi una volta abbiamo deriso e fatto oggetto del nostro scherno. Ah, noi stolti! Abbiamo stimato una pazzia la loro vita e disonorevole la loro morte. Ecco che ora sono annoverati tra i figli di Dio e condividono la sorte dei santi" ( Sap 5,2-5 ). "Allora gridando disse: Padre Abramo …" Chiese una goccia d’acqua colui che non volle dare una briciola di pane. Bramava che una sola goccia d’acqua cadesse sulla sua lingua dalla punta del dito di Lazzaro, proprio lui che non volle dargli neppure le briciole di pane che cadevano dalla sua mensa. Dice un dito, non perché Lazzaro avesse puntato il dito [ contro di lui ], ma per dimostrare in questo modo che il ricco avrebbe stimato un grande beneficio anche il minimo aiuto, come è appunto l’intinzione di un dito, se avesse potuto conseguire ciò che chiedeva. E aggiunge: "Per rinfrescare la mia lingua". Non aveva la lingua, ma subì la pena per il peccato della lingua perché, come avviene sempre tra i banchettanti, s’era abbandonato alle scurrilità. Era tormentato ancora prima del giudizio, perché per il lussurioso esser privo dei piaceri è già un tormento. Osserva che non peccò soltanto con il vizio della gola, ma anche con la lingua, quando durante i banchetti si abbandonava alle scurrilità. E contro questo vizio dice Salomone: "Non partecipare ai banchetti dei bevitori e alle gozzoviglie di quelli che si rimpinzano di carni" ( Pr 23,20 ). Sparlando e calunniando il prossimo, mangiano non solo le carni ma anche gli escrementi, perché non solo lo denigrano nelle opere buone, ma anche dicono il falso; e quindi non mangiano solo le carni degli animali, ma – ciò che è più abominevole – anche carne umana, quando con il dente della calunnia rodono le opere dei fratelli, che sono invece degne di encomio. Ahimè, quanti religiosi stanno oggi senza mangiare carne, e poi con il dente della calunnia dilaniano i loro fratelli. Di costoro dice Seneca: "Come puzzano di sotto, puzzano anche di sopra". E il beato Bernardo: "Calunniare o ascoltare un calunniatore: non mi è facile dire quale delle due cose sia più riprovevole". E ancora: "Spada a tre punte è la lingua del calunniatore; infatti con un solo colpo ne uccide tre": e cioè il calunniatore, chi lo ascolta e il calunniato, quando la calunnia gli si abbatte addosso. 15. "Ma Abramo gli rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Inoltre tra voi e noi è posto un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare a voi non possono farlo, né di costì si può attraversare fino a noi" ( Lc 16,25-26 ). Considera che questo ricco ha avuto qualcosa di buono, ha fatto cioè delle cose buone, delle opere buone, anche se non spinto dalla carità, e la misericordia divina, nella sua grandezza, lo ricompensò con i beni temporali. "E Lazzaro ha avuto parimenti i suoi mali". Per il male che aveva fatto, con i peccati veniali, ha ricevuto come compenso il male delle tribolazioni. E perciò "adesso è consolato, tu invece sei tormentato". Osserva ancora che colui che si trova in peccato mortale, il bene che compie, le sue opere buone gli giovano in cinque modi. Primo, lo rende più idoneo a ricevere la grazia; secondo, lo rende capace di dare buon esempio al prossimo; terzo, lo abitua a fare il bene; quarto, gli merita la ricompensa di beni temporali, come avvenne con questo ricco; quinto, se muore in peccato mortale, gli saranno mitigate le pene dell’inferno. C’è poi la risposta di Abramo alla richiesta del ricco: "Tra noi e voi è posto un grande abisso", ecc. Come i dannati vorrebbero passare dai tormenti alla gloria dei santi, così i giusti, spinti dalla pietà, vorrebbero, col pensiero, andare da coloro che si trovano in mezzo ai tormenti, per liberarli. Ma non possono farlo perché le anime dei giusti, benché per la perfezione della loro natura abbiano anche la misericordia, tuttavia sono ormai legati così perfettamente alla giustizia del loro creatore, che non possono più essere mossi a compassione nei confronti dei dannati. Tra il ricco e il povero c’è un tale abisso, che coloro che vogliono attraversarlo non possono più farlo, perché dopo la morte non si possono più cambiare i meriti. 16. E con questo concorda ciò che troviamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che Davide prese la lancia e la brocca dell’acqua che stava dalla parte della testa di Saul. Davide, dopo essere passato dall’altro lato, si fermò lontano sulla cima del monte; vi era un grande spazio tra di loro. Allora Davide alzò la voce e gridò ad Abner: Guarda un po’ dov’è la lancia del re e dov’è la brocca dell’acqua che stava presso la sua testa ( cf. 1 Sam 26,12.13.14.16 ). Davide s’interpreta "forte di mano", Saul "colui che abusa". Nella lancia è raffigurata la ricchezza e nella brocca dell’acqua il piacere della gola. Davide è figura del mendìco Lazzaro, il quale fu sempre forte pur in mezzo a tante sventure e tribolazioni; Saul è figura del ricco, vestito di porpora, il quale abusò dei doni che Dio gli aveva elargito. Davide sottrasse a Saul la lancia e la brocca dell’acqua, e così Lazzaro, per il fatto che non volle commiserare se stesso, sottrasse a Saulo [ cioè al ricco ] la lancia, vale a dire la potenza della ricchezza, e la brocca dell’acqua, cioè il piacere della gola. E Lazzaro passò dalla tribolazione al riposo e si assise sulla sommità del monte, lontano, cioè nel seno di Abramo, ben lontano dai tormenti del ricco. "E il ricco, alzando gli occhi", ecc. "Davide gridò ad Abner: Guarda un po’ dov’è la lancia del re, e dov’è la brocca dell’acqua che stava presso la sua testa". O ricco epulone, dov’è adesso la lancia delle tue ricchezze, con la quale eri solito colpire i poveri? Dov’è la brocca dell’acqua, dov’è il piacere della gola? Ti basterebbe bagnarti la lingua, ora che sei tormentato tra le fiamme. Giustamente quindi è detto: "Questi è consolato, tu invece sei tormentato". E con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola di oggi: "Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo, e chi teme non è perfetto nell’amore" ( 1 Gv 4,18 ). Nell’amore del mendìco Lazzaro non ci fu timore: lo scacciò il suo perfetto amore perché, come dice la Glossa, l’amore fa sì che non si temano le tribolazioni della vita presente. Invece il timore del ricco, che temette di perdere quello che possedeva, lo condusse al castigo della morte. Ti preghiamo, Signore Gesù Cristo, di liberarci dalla sete inestinguibile e dal fuoco ardente e di collocarci nel seno di Abramo insieme con il beato Lazzaro. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. La disperata supplica del ricco per i suoi cinque fratelli 17. "Padre Abramo, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli: li ammonisca, perché non finiscano anch’essi in questo luogo di tormenti" ( Lc 16,27-28 ). Troppo tardi questo ricco si mette a fare il maestro: ormai non c’è più tempo né di imparare né di insegnare. Dopo che al ricco, che brucia nel fuoco, è venuta meno la fiducia in se stesso, egli ricorre ai vicini dicendo: Ti prego, padre Abramo! … Fa’ attenzione a queste tre cose: "la casa", "di mio padre", "i cinque fratelli". Il padre del ricco fu il diavolo, perché egli visse imitandolo. La sua casa fu il mondo, cioè quelli che conducono una vita mondana; in questa casa ci sono i suoi cinque fratelli, cioè tutti coloro che sono schiavi dei cinque sensi del corpo. Il ricco che si vede dannato a causa dei cinque sensi del corpo, che ha amato come fratelli, sente adesso una certa pietà per coloro che sono dediti ai piaceri dei sensi, egli che non ebbe pietà per se stesso, e cerca di provvedere. Considera che i carnali amano come fratelli i cinque sensi del corpo, mentre i giusti li tengono schiavi. Troviamo su questo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che "Abigail si preparò in gran fretta, poi montò su di un asino e, seguita dalle sue cinque giovani ancelle, andò dietro ai messaggeri di Davide, e divenne sua moglie" ( 1 Sam 25,42 ). Abigail s’interpreta "esultanza del padre mio", ed è figura dell’anima che si pente: per la sua conversione c’è grande gioia nel cielo ( cf. Lc 15,7 ). Essa sale su di un asino, sottomette cioè la carne, e l’accompagnano le sue cinque ancelle, cioè i cinque sensi del corpo: la vista dell’intelligenza, l’udito dell’obbedienza, il gusto dell’approvazione, l’odorato dell’indagine e il tatto dell’azione. Si mette così al seguito dei messaggeri di Davide, segue cioè la povertà, l’umiltà, la passione di Gesù Cristo: esse ci parlano di lui e ci dicono qual è stata la sua vita in questo mondo. E così diviene sua sposa, con lui impegnata, a lui legata per mezzo dell’anello di una fede perfetta. 18. "Allora Abramo gli rispose: Hanno Mosè e i profeti: ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo; ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti si convincerebbero a mutar vita" ( Lc 16,29-31 ). Si deduce da tutto questo che il ricco era giudeo, perché i suoi fratelli erano soggetti alla legge di Mosè e ai profeti; e forse per questo Abramo lo chiama figlio, e lui chiama Abramo padre. Colui che aveva disprezzato le parole di Dio, era convinto che anche i suoi seguaci non le avrebbero ascoltate. Coloro che disprezzano le parole della Legge, molto più difficilmente osserveranno i precetti del Redentore – che appunto è risorto dai morti –, precetti che sono molto più impegnativi. E se rifiutano di metterne i pratica le parole, senza dubbio rifiutano anche di credergli. Gli uomini carnali, dediti ai piaceri della carne, non ascoltano né Mosè, vale a dire il santo prelato della chiesa, né i profeti, cioè i predicatori; e quel che è peggio, non credono neppure a Cristo, che è risorto dai morti. Saul credette a Samuele, evocato da una indovina: e noi non crederemo al vero Figlio di Dio, realmente risuscitato dai morti da Dio, Padre suo? Ecco la concordanza che troviamo nel primo libro dei Re. Disse Saul all’indovina: "Pratica la divinazione per me, con uno spirito: èvocami colui che ti dirò. Gli disse la donna: Chi devo evocarti? Egli rispose: Évocami Samuele. Quando la donna vide Samuele, gridò a gran voce a Saul: Perché mi hai comandato questo? Tu sei Saul. Il re le disse: Non aver paura! Che cosa hai visto? E la donna disse a Saul: Un uomo anziano, solenne, avvolto nel manto sacerdotale" ( 1 Sam 28,8.11-14 ). Saul comprese che era Samuele e si prostrò con la faccia a terra. E lo spirito di Samuele, come racconta Giuseppe [ Flavio ], disse a Saul: "Perché mi hai disturbato e costretto ad apparire?" ( Comestor ). Di questa apparizione, come narrano le "Storie", pensano alcuni che fu uno spirito maligno ad apparire a Saul sotto le sembianze di Samuele; o che la sua figura fu solo immaginaria, e fu chiamata Samuele. Altri ritengono che, con il permesso di Dio, apparve solo la sua anima, rivestita di un corpo che gli assomigliava. Altri ancora pensano che sia stato evocato solo il suo corpo con lo "spirito vegetativo", che abbiamo in comune con gli animali, mentre la sua anima sarebbe rimasta tranquilla nel luogo del suo riposo. Noi dunque dobbiamo trattare i cinque sensi del corpo non come fratelli, ma come schiavi. Ascoltiamo Mosè e i profeti. Crediamo a Cristo risorto dai morti e assiso alla destra Padre, e credendo amiamolo. 19. Infatti la quarta parte dell’epistola, in accordo con questa quarta parte del vangelo, ci dice: "Amiamo dunque Dio, perché egli per primo ci ha amati. Se uno dicesse: Io amo Dio, e poi odia il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede?" ( 1 Gv 4,19-20 ). E Agostino commenta: "Se uno amasse di amore spirituale colui che vede con gli occhi del corpo, vedrebbe anche Dio, che è l’amore stesso, con gli occhi dello spirito, i soli con i quali Dio può essere veduto. Chi dunque non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che è l’amore stesso, se è privo di questo amore colui che non ama il proprio fratello? Perciò, fratelli carissimi, preghiamo il Signore che è amore, di darci la grazia di amare la povertà del mendìco Lazzaro, di aborrire le ricchezze del ricco, coperto di porpora, di non permettere che veniamo sepolti nell’inferno, ma di essere portati nel seno di Abramo. Ce lo conceda colui al quale è onore, gloria, magnificenza e potenza nei secoli eterni. E ogni vero povero risponda: Amen. Alleluia. Domenica II dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della seconda domenica dopo Pentecoste: "Un uomo diede una grande cena"; il vangelo si divide in tre parti. – Anzitutto, sermone sul combattimento dei demoni contro i giusti: "I filistei radunarono l’esercito". – Parte I: Sermone ai religiosi: "Anna allattò il suo figlio". – Sermone sul banchetto della gloria eterna: "Il Signore degli eserciti preparerà un banchetto". – Sermone ai penitenti: "Il Signore, Dio degli eserciti, in quel giorno vi chiamava". – Parte II: Sermone contro le preoccupazioni temporali: "Ho comprato una villa", e "L’arca dell’alleanza del Signore degli eserciti". – Sermone contro la voglia sfrenata di dominio: "Saul, spinto dalla necessità". – Sermone sulle cinque paia di buoi e il loro significato: "Ho comprato cinque paia di buoi". – Sermone sulla devastazione dei vizi e la mortificazione della carne: "Nacas l’Ammonita mosse all’attacco". – Parte III: Sermone contro il seguace del mondo il quale, abbandonato e disprezzato dal mondo stesso, viene accolto da Cristo: "Un giovane egiziano, schiavo di un amalecita". Esordio – Il combattimento tra i demoni e i giusti 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Un uomo diede una grande cena e invitò molti. All’ora della cena mandò il suo servo a dire agli invitati di venire" ( Lc 14,16-17 ). Leggiamo nel primo libro dei Re: "I filistei, radunate le loro schiere per combattere, si ammassarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azeka nel territorio di Dammin. Anche Saul e i figli d’Israele si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono in battaglia di fronte ai filistei" ( 1 Sam 17,1-2 ). Filistei s’interpreta "che cadono ubriachi di bevande", Soco "tende", Giuda "confessione", Azeka "rete" o "laccio", Dammin "rossa" di sangue. I filistei raffigurano i demoni i quali, ubriacati dalla bevanda della superbia, precipitarono dal cielo. Essi, radunate le loro schiere, si ammassano per la battaglia a Soco di Giuda, cioè per combattere contro quelli che militano nelle tende della penitenza; e si accampano tra Soco e Azeka, nel territorio di Dammin. Infatti i demoni perseguitano i giusti per farli cadere nella rete delle cattive suggestioni e con l’inganno li conducono fino al sangue del peccato. Si legge nel terzo libro dei Re che i cani leccarono il sangue di Acab ( cf. 1 Re 22,38 ). I cani sono i demoni che leccano il sangue di Acab – nome che significa "fratelli [ figli ] dello stesso padre" –, di colui cioè che era solito dimorare in fraternità con i penitenti, i quali hanno un solo Padre, Dio. Invece i figli d’Israele, cioè i veri predicatori, uniti nell’unica fede, devono dirigere la forza della mente e della predicazione al combattimento contro i demoni. E in quale luogo? Naturalmente nella valle del Terebinto, vale a dire nell’umiltà della croce, dalla quale emanò la preziosissima resina del sangue di Gesù Cristo, che dice nel vangelo di oggi: "Un uomo fece una grande cena". 2. In questo vangelo si devono considerare tre momenti. Primo, la preparazione della grande cena e gli inviti fatti per mezzo del servo: "Un uomo fece una grande cena". Secondo, le scuse degli invitati: "E incominciarono tutti insieme a scusarsi". Terzo, l’ingresso alla cena dei poveri, dei deboli, dei ciechi e degli zoppi: "Allora il padrone di casa, irritato …" Vedremo di concordare queste tre parti del vangelo con alcuni racconti del primo libro dei Re. In questa domenica si canta nell’introito della messa: "Il Signore è diventato il mio sostegno" ( Sal 18,19 ). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: "Non vi meravigliate se il mondo vi odia"; brano che divideremo in tre parti per vederne la concordanza con le tre parti del vangelo. La prima: "Non vi meravigliate"; la seconda: "Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio"; la terza: "Se uno ha ricchezze di questo mondo". I. La preparazione della cena e gli inviti 3. "Un uomo fece una grande cena". Considera che c’è una duplice cena: la cena della penitenza e la cena della gloria. E poiché senza la prima non si arriva alla seconda, prepariamo la prima e vediamo quali siano gli alimenti necessari. Qui abbiamo la concordanza con il primo libro dei Re, dove si racconta che Anna "allattò il figlio ( Samuele ) fino al tempo dello svezzamento. Dopo averlo svezzato, lo condusse con sé portando tre vitelli, tre misure di farina e un’anfora di vino; e lo condusse alla casa del Signore a Silo" ( 1 Sam 1,23-24 ). Anna, che s’interpreta "grazia", è figura della grazia dello Spirito Santo, la quale con le due mammelle della grazia preveniente e della grazia "susseguente" ( cooperante ), allatta il penitente finché lo svezza totalmente dal latte della concupiscenza della carne e della vanità del mondo. E osserva che come la madre che vuole svezzare il figlio si bagna le mammelle di liquido amaro, affinché il bambino che cerca il dolce trovi invece l’amaro e quindi venga distolto dal dolce, così la grazia dello Spirito Santo cosparge le mammelle dei beni temporali con il liquido amaro della tribolazione, affinché l’uomo rifugga da questa dolcezza cosparsa di amarezze, e ricerchi la dolcezza vera. "E dopo averlo svezzato lo prese con sé, insieme con tre vitelli". Ecco i cibi che si devono preparare per la cena della penitenza. La grazia porta con sé il penitente insieme con tre vitelli, nei quali è indicata la triplice offerta. Il vitello di un cuore contrito e afflitto, come dice il Salmo: "Allora porranno vitelli sopra il tuo altare" ( Sal 51,21 ). Sopra l’altare, cioè nella contrizione del cuore, i penitenti pongono i vitelli, vale a dire bruciano i piaceri e i pensieri immondi. Il vitello della confessione. Dice Osea: "Prendete con voi le parole, convertitevi al Signore e dite: Togli ogni iniquità e accetta il bene, e ti offriremo i vitelli delle nostre labbra" ( Os 14,3 ). Prende con sé le parole colui che si sforza di praticare ciò che ascolta, e così si converte al Signore. E al Signore dice anche: "Togli ogni iniquità", che io ho commesso, "e accetta il bene" che tu stesso hai dato. "Non a me, Signore, non a me, ma al tuo nome dà gloria" ( Sal 115,1 ). E così io ti renderò "i vitelli delle mie labbra", farò cioè la confessione del mio crimine e a te innalzerò la lode. Il vitello del corpo, castigato con la penitenza. "Vitello e vitella sono così chiamati per la loro "verde" età. Vitello e vitella sono figura della nostra carne, la quale nella verde età della giovinezza si sbizzarrisce spensieratamente per i prati di una colpevole sfrenatezza. Di essa dice Sansone: "Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste decifrato il mio enigma" ( Gdc 14,18 ). Sansone è figura dello spirito; la giovenca rappresenta la nostra carne: se ariamo su di essa, facendola soffrire con la penitenza, decifreremo l’enigma, che è questo: "Che cos’è più dolce del miele? Che cos’è più forte del leone" della tribù di Giuda? ( Gdc 14,18 ). Che cosa c’è di più dolce del miele, cioè della contemplazione? Che cosa c’è di più forte del leone, cioè del predicatore, al cui ruggito tutti gli animali devono fermare il passo? Che cos’è più dolce del miele della mansuetudine? Che cos’è più forte delle leone della severità? Giustamente quindi è detto: "E lo portò con sé, insieme con tre vitelli". "E con tre misure di farina". Il grano si macina e si riduce in farina. La farina, impastata con l’acqua, si solidifica in pane, il quale sostiene il cuore dell’uomo ( cf. Sal 104,15 ). Allo stesso modo il grano delle nostre opere dev’essere macinato per mezzo di una severa critica, triturato con un attento esame, per risultare purificato come la farina. Questo esame poi dev’essere triplice, come è indicato dalle tre misure. Si deve esaminare la natura dell’opera che compiamo, la sua origine e la sua finalità. Quindi l’opera dev’essere mescolata con l’acqua delle lacrime, per implorare l’irrigazione inferiore e l’irrigazione superiore ( cf. Gdc 1,15 ): e l’opera dev’essere offerta o per il riscatto delle opere cattive del passato, o per il desiderio dell’eterna felicità; e questo era prefigurato nelle due tortore che si offrivano sotto la Legge, una delle quali veniva offerta per il peccato, e l’altra veniva bruciata in olocausto ( cf. Lv 12,8 ). Quindi con la farina e con l’acqua si impasta il pane, che sostenta il cuore dell’uomo, perché con le opere buone mescolate alle lacrime si nutre e si arricchisce la coscienza dell’uomo. "E un’anfora di vino", la quale ha tre misure ( Glossa ). Nel vino è raffigurata la letizia della mente, che consiste in tre cose: nel testimonio della buona coscienza, nell’edificazione del prossimo e nella speranza della felicità eterna. Con tutte queste cose la madre Anna, vale a dire la grazia dello Spirito Santo, conduce il suo figlio, il giusto, alla casa del Signore a Silo, che significa "trasferita", lo guida cioè fino alla vita eterna, alla quale i santi vengono trasferiti dal pellegrinaggio di questo mondo, e alla cui cena di gloria banchettano insieme con gli spiriti beati. 4. La cena è una riunione di convitati: anticamente si mangiava tutti insieme una sola volta al giorno, alla sera ( Isidoro: Non erano in uso i pranzi ). La cena della gloria eterna sta ad indicare il convito nel quale i santi si sazieranno tutti insieme della visione di Dio, poiché sarà data un’unica ricompensa a coloro che lavorano nella vigna ( cf. Mt 20,2 ). Di questo convito della cena dice Isaia: "Il Signore degli eserciti farà su questo monte un convito per tutti i popoli, un convito di grasse vivande, un convito di vendemmia: un convito di carni succulente e di vini raffinati ( senza feccia )" ( Is 25,6 ). Le parole del vangelo concordano con quelle di Isaia: "Il Signore degli eserciti", eec. Dove il vangelo dice "grande cena", Isaia dice "convito di grasse vivande". Fa’ attenzione a queste quattro parole: convito, grasse vivande, carni succulente e vini raffinati. Nel convito, cioè "vitto, pasto di molti insieme", è indicata la gloriosa assemblea di tutti i santi; nelle grasse vivande la loro carità, cioè il loro amore verso Dio e verso il prossimo; nelle carni succulente la felicità di contemplare il volto di Dio; nei vini raffinati la glorificazione del corpo. Perciò in questo monte, cioè nella Gerusalemme celeste, il Signore degli eserciti, il Signore delle schiere angeliche, imbandirà un convito di grasse vivande: radunerà cioè tutti i santi, nutriti ed arricchiti dalla carità, ricolmi di ineffabile felicità nella visione di Dio e beati nella glorificazione del loro corpo. Allora ci sarà veramente la vendemmia senza feccia, cioè di uve che daranno vini raffinati. Vendemmia deriva dal latino vineae demptio, raccolta dell’uva, che è senza feccia quando viene selezionata e ripulita da ogni impurità. In quella vendemmia che è la risurrezione finale ci sarà la scelta accurata dei corpi dei santi, sarà eliminata ogni feccia di corruzione e di mortalità, ed essi saranno riposti nei granai del cielo. Giustamente quindi è detto: "Un uomo preparò una grande cena". Osserva che in quella "grande cena" mangeremo dei "grandi cibi"; mangeremo cioè quei frutti che i figli d’Israele portarono dalla Terra Promessa, vale a dire uva, fichi e melagrane, come è narrato nel libro dei Numeri ( cf. Nm 13,24 ). Nell’uva, dalla quale si spreme il vino, è indicato il gaudio che i santi proveranno nella visione del Verbo incarnato. L’uomo stesso vedrà l’Uomo-Dio, mentre gli angeli non vedranno l’angelo-Dio: l’uomo vedrà la sua natura esaltata al di sopra degli angeli. E di questo gaudio dice Abacuc: "Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore ( lett. Gesù mio )" ( Ab 3,18 ). Giustamente dice "mio salvatore", perché Gesù, per salvare me, prese sé da me, cioè la mia carne, e la esaltò al di sopra dei cori degli angeli. Allo stesso modo nel fico, così chiamato da "fecondità", e che il più dolce di tutti i frutti, è indicata la dolcezza che i santi proveranno nella visione di tutta la Trinità. In proposito dice il Profeta: "Quanto grande e profonda la tua dolcezza, Signore, che tu tieni nascosta per coloro che ti temono" ( Sal 31,20 ). La tieni nascosta perché venga ricercata con più ardore, cercandola venga trovata, e trovatala venga amata intensamente, e con l’amore venga posseduta in eterno. E ancora: "Nella tua dolcezza, o Dio, hai preparato al povero …" ( Sal 68,11 ). Non dice che cosa ha preparato, perché ciò che ha preparato non può essere detto a parole. Dice infatti l’Apostolo: "Ciò che occhio non vide", perché è nascosto, "né orecchio udì", perché è nel silenzio e non può essere espresso, "né mai entrò nel cuore dell’uomo" perché è incomprensibile ( 1 Cor 2,9 ), non può essere contenuto. Parimenti nelle melagrane è simboleggiata l’unità della chiesa trionfante e la diversità delle ricompense. Le melagrane sono chiamate così perché all’interno hanno dei grani gustosi e profumati. Osserva che, come nelle melagrane tutti i grani sono nascosti sotto la stessa corteccia e tuttavia ogni grano ha la sua piccola cella distinta, così nella vita eterna tutti i santi avranno la stessa gloria, e tuttavia ognuno di essi riceverà una ricompensa più o meno grande, a seconda delle proprie opere. Dice infatti il Signore: "Nella casa del Padre mio", ecco la corteccia, "vi sono molti posti" ( Gv 14,2 ), ecco le celle distinte. 5. Ecco dunque quali sono i cibi che mangeremo in quella grande cena, della quale è detto: "Un uomo imbandì una grande cena". Quest’uomo è Gesù Cristo, Dio e uomo, che imbandì la grande cena, la cena della penitenza e quella della gloria, alla quale ha chiamato molti, ma alla quale molti anche disdegnano di andare. E perciò dice: "Vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno vi ha fatto attenzione" ( Pr 1,24 ). Il Verbo del Padre ha chiamato di persona; chiama anche con le parole degli altri, ma gli invitati rifiutano di andare. Stende la sua mano sulla croce, pronto ad elargire tanti doni, ma non c’è chi vi ponga attenzione. Però verrà il tempo in cui della mano stesa farà il pugno, con il quale colpirà senza misericordia ( cf. Is 58,4 ). Il Signore chiama alla prima cena, cioè alla penitenza. Dice Isaia: "In quel giorno il Signore, Dio degli eserciti, vi chiamava al pianto, al lamento, a radervi il capo e a vestirvi di sacco" ( Is 22,12 ). In questi quattro atti consiste la penitenza. Nel pianto è indicata la contrizione, nel lamento la confessione, nella rasatura del capo la rinuncia alle cose temporali e nella veste di sacco l’esecuzione dell’opera penitenziale ordinata dal sacerdote. A questa cena chiama il Signore, ma non vi vogliono andare coloro che si preparano da se stessi ben altro convito, del quale è detto: "Ecco qual è il loro gaudio e la loro allegria: uccidere vitelli, sgozzare greggi, mangiare carni e bere vino: mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!" ( Is 22,13 ). Parimenti il Signore chiama alla cena della gloria celeste. Leggiamo nel libro di Esdra che Ciro "emanò in tutto il suo regno, a voce e anche con rescritti, quest’ordine: Chi di voi proviene dal popolo del Dio del cielo? Il suo Dio sia con lui; torni a Gerusalemme che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore, Dio d’Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme" ( Esd 1,1.3 ). Ciro s’interpreta "eredità" ed è figura di Gesù Cristo, che è la nostra eredità. Dice infatti il Profeta: "È molto preziosa la mia eredità" ( Sal 16,6 ), cioè più preziosa di tutti gli altri santi. Egli comanda a tutto il popolo di salire alla Gerusalemme celeste "che è costruita come una città" ( Sal 122,3 ) di pietre levigate, cioè delle anime dei giusti. Ma questo popolo risponde con le parole del profeta Aggeo: "Non è ancor giunto il tempo di ricostruire la casa del Signore" ( Ag 1,2 ). Il Signore, la cui misericordia non si può misurare ( cf. Gb 9,10 ), non chiama soltanto di persona, ma anche per mezzo dei predicatori, secondo ciò che segue nel vangelo: "All’ora della cena mandò il suo servo a dire agli invitati di venire, perché tutto era pronto" ( Lc 14,17 ). E la Glossa aggiunge: L’ora della cena raffigura la fine di questo mondo. Dice infatti l’Apostolo ai Corinzi: Siamo noi coloro "per i quali è arrivata la fine dei tempi" ( 1 Cor 10,11 ). Al momento di questa fine, a coloro che erano stati invitati per mezzo della Legge e dei Profeti, viene mandato il servo, cioè i predicatori, affinché, ritrattato il rifiuto, si preparino a gustare la cena, perché ormai tutto è pronto. Infatti dopo il sacrificio di Cristo, l’ingresso del regno è aperto. L’apertura del regno è operata dalla passione di Cristo; attraverso questa porta la chiesa, ossia tutti i giusti, entrati alla prima cena e ben disposti per entrare alla seconda, dicono con l’introito della messa di oggi: "Il Signore è divenuto il mio sostegno; egli mi ha portato al largo, mi ha salvato perché mi ha voluto bene" ( Sal 18,19-20 ). Il Signore è divenuto il mio sostegno quando, nella sua passione, ha steso le braccia sulla croce; mi ha portato al largo con l’invio dello Spirito Santo; mi ha salvato dalla devastazione dei nemici perché ha voluto che io entrassi alla cena della vita eterna. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi, nella quale il beato Giovanni parla ai commensali della cena della vita eterna: "Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli" ( 1 Gv 3,13-14 ). Il mondo, cioè gli amanti di questo mondo odiano i cittadini della vita eterna. E non c’è da meravigliarsi, perché odiano anche se stessi. E se uno è cattivo con se stesso, come può essere buono con gli altri? ( cf. Sir 14,5 ). E con questo concordano anche le parole del primo libro dei Re: "Saul fu nemico di Davide per tutti i suoi giorni. Da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide" ( 1 Sam 18,9.29 ). Non meravigliatevi dunque se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte del peccato alla vita e alla cena della penitenza perché amiamo i fratelli. L’amore ai fratelli costituisce veramente l’ingresso alla cena della vita eterna. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo che ci introduca alla cena della penitenza, e da essa poi ci faccia passare alla cena della gloria celeste. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen. II. Le scuse degli invitati 6. "Ma tutti, all’unanimità, incominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comperato un podere e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. Il secondo disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. Il terzo disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. Il servo, al suo ritorno, riferì tutto questo al suo padrone" ( Lc 14,18-21 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: il podere, le cinque paia di buoi e la moglie. "Ho comprato un podere, ( alla lett. ) una villa. Villa viene da vallo, cioè argine, terrapieno, o fossa, ed è figura della voglia sfrenata di dominare, della quale il beato Bernardo dice: "Non temo il fuoco, non temo la spada, quanto invece temo la voglia sfrenata di dominio": coloro che ne sono ossessionati, procedono come attorniati dal terrapieno delle ricchezze e dei beni terreni. È quello stesso podere, chiamato Getsèmani ( cf. Mt 26,36 ), nel quale Gesù fu tradito e catturato. Getsèmani s’interpreta "valle ingrassata" ( ben concimata ). Scende a valle il letame ( la grassa ) con il quale viene concimata. Quindi nella valle ( podere ) del Getsèmani, cioè in coloro che ardono dalla brama di dominare sugli altri, e non di giovare ad essi, e che se stanno tranquilli nella valle, vale a dire nei piaceri della carne, ingrassati come porci tra gli escrementi delle cose temporali, viene tradito Cristo, viene cioè distrutta la fede in Gesù Cristo. Infatti la fede rifiuta le cose temporali, non brama il dominio, desidera stare sottomessa, cresce in mezzo alle ingiurie. E questa villa ( podere ) del Getsèmani viene comperata, mentre non si dovrebbe accetarla neppure gratis, perché costringe ad uscire dall’interiore contemplazione di Dio e ad ingolfarsi nelle preoccupazioni esteriori. E concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che l’arca dell’alleanza del Signore degli eserciti, assiso sopra i cherubini, arrivò negli accampamenti e fu catturata dai filistei ( cf. 1 Sam 4,4-11 ). L’arca è figura dell’uomo contemplativo, nel quale c’è la manna della soavità, le tavole della duplice legge dell’amore e la verga della correzione. Il contemplativo è chiamato "arca dell’alleanza del Signore"; con il Signore infatti ha concluso il patto di servirlo in perpetuo; e il Signore è assiso sui cherubini ( Sal 80,2 ), nome che s’interpreta "pienezza della scienza": è assiso cioè su quell’anima che è ricolma di amore. Infatti "la pienezza della legge è l’amore" ( Rm 13,10 ). Quest’arca, sotto la spinta dei peccati, esce dal rifugio del volto di Dio, esce dal Santo dei santi e s’inoltra tra gli accampamenti, compera una villa e brama il dominio. Mentre così s’innalza, viene catturata dai demoni e portata ad Azoto, che s’interpreta "incendio", e simboleggia il fuoco della concupiscenza carnale. Dice dunque il primo invitato: "Ho comperato una villa". 7. "E devo uscire a vederla". Fa’ attenzione a questa parola: "devo". Chi acquista la villa del dominio terreno, si carica di obblighi e di costrizioni; era libero, e si è reso schiavo di una deplorevole schiavitù. Così fu di Saul che, come narra il primo libro dei Re, spinto dalla necessità, andò in cerca di un’indovina ( pitonessa ) che si trovava a Endor, e le disse: "Vi sono costretto ( a ricorrere a un’indovina ). I filistei combattono contro di me, e Dio si è allontanato da me e non ha voluto esaudirmi" ( 1 Sam 28,15 ). La villa e l’indovina simboleggiano la stessa cosa. Endor s’interpreta "sorgente della generazione", e con ciò intendiamo Adamo che fu la sorgente e l’origine della stirpe umana. Egli, pagato come prezzo il paradiso a danno della sua anima, volle comperare la villa del dominio, dando ascolto alla falsa promessa del serpente: "Sarete come dèi" ( Gen 3,5 ). Perciò quelli che cercano il dominio, camminano secondo l’uomo vecchio e non secondo l’uomo nuovo, Gesù Cristo ( cf. Col 3,9-10 ), il quale, come racconta Giovanni, quando si accorse che stavano arrivando degli uomini per rapirlo e proclamarlo re, fuggì sul monte ( cf. Gv 6,15 ). Dicono alcuni che il termine "pitone" indichi il potere di risuscitare i morti e quindi la donna che ha questo potere si chiama pitonessa. Ahimè, quanti sono i religiosi, morti al mondo, sepolti nei chiostri, che questa pitonessa, cioè la brama del dominio, ha destato dal sonno della contemplazione, del silenzio e della pace, e li ha portati fuori in pubblico! Per questo Isaia dice: "Sarai umiliato, parlerai dalla terra, e dalla polvere si sentiranno le tue parole; e dalla terra uscirà la tua voce come quella della pitonessa, e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio" ( Is 29,4 ). Ecco che cosa accade a colui che compera la villa, che consulta la pitonessa ed esce dal sepolcro del silenzio: "sarai umiliato", cioè sarai precipitato mentre credi di salire; "della terra", cioè delle cose terrene "parlerai", tu che prima eri solito parlare delle cose celesti; "e dalla polvere", cioè dal ventre e dalla gola ancora impregnata di cibi e di bevande, "si sentiranno le tue parole" che prima facevi uscire dalla soavità della tua mente e dall’astinenza della gola; "e la tua voce" che prima era di rinuncia e di umiltà, ora è "della terra come quella della pitonessa", parla cioè di prelature e di dignità; "e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio", cioè mormorerà, tu che prima avevi riposto la tua fortezza nel silenzio e nella speranza ( cf. Is 30,15 ). Ecco dunque quale costrizione e quanta perversità! È sempre il primo invitato dunque che dice: Ho comprato una villa e devo uscire per andare a vederla. "Devo uscire". A proposito troviamo nella Genesi che Esaù, coltivatore della terra, uscì per andare a caccia, mentre Giacobbe, uomo semplice, restando nella tenda tranquillo con i suoi pensieri, gli portò via la benedizione ( cf. Gen 25,27-33 ). Così quando uno, spinto dalla brama delle cose temporali, va alla ricerca di una villa, o va a consultare un’indovina, ed esce così dalla tranquillità della sua mente, senza dubbio viene privato della benedizione eterna. "Devo uscire – dice – per per andare a vederla", come dicesse: voglio vederla almeno una volta, prima di morire. Questo è l’unico frutto delle ricchezze. Infatti dice l’Ecclesiastico: "Dove ci sono molte ricchezze, ci sono anche molti che le divorano; e che vantaggio ne ha il proprietario, se non quello di contemplarle con i propri occhi?" ( Qo 5,10 ). Ecco, ora sai chiaramente che chi compera la villa del potere terreno non va alla cena del Signore, ma accampando una falsa scusa dice: "Ti prego, considerami giustificato". Nella voce c’è il suono dell’umiltà quando dice "ti prego", ma nel senso e nel sentimento c’è la superbia perché si rifiuta di andare. Così succede spesso che si dice al giusto: Prega per me, che sono un peccatore! In queste parole c’è appunto il suono dell’umiltà, perché si domanda la preghiera; ma resta poi la superbia nel cuore perché non ci si allontana dal peccato. E con questo concorda ciò che troviamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che Saul disse a Samuele: "Ora, ti prego, perdona il mio peccato, e torna indietro con me, affinché io adori il Signore" ( 1 Sam 15,25 ). 8. "Il secondo invitato disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vado a provarli" ( Lc 14,19 ). Osserva che nelle cinque paia di buoi vediamo raffigurati i cinque sensi del corpo. Infatti, come i buoi vengono appaiati sotto il giogo, così anche i nostri sensi funzionano con un doppio organo: due sono gli orecchi, due gli occhi, due le narici; per il gusto abbiamo la lingua e il palato; per il tatto le due mani. Questi sono i dieci "prìncipi" dei quali parla Salomone: "La sapienza rende il saggio più forte di dieci prìncipi della città" ( Qo 7,20 ). La sapienza, così chiamata da "sapore", consiste nell’amore e nella contemplazione di Dio, il quale sostiene il sapiente, cioè l’anima che gusta il sapore dell’amore più di dieci prìncipi della città, cioè più di tutti i piaceri che possono provenire dai "dieci" sensi ( dieci organi di senso ) del corpo. La sapienza appaga e sazia completamente, mentre il piacere lascia il vuoto. La sapienza procura dolcezza, il piacere lascia l’amarezza. Chi serve la sapienza è libero, chi serve il piacere è un misero schiavo. Quindi compera cinque paia di buoi colui che, con un disgraziato affare, disprezzato il gusto dell’amore divino, con deplorevole schiavitù si sottomette al miserabile piacere dei cinque sensi. Magari l’uomo prendesse su di sé il giogo del Signore, che è piacevole ( cf. Mt 11,29-30 ), e non quello del diavolo che è duro e pesante, e del quale Isaia dice: "Tu hai spezzato il suo giogo opprimente, la verga sulle sue spalle, e il bastone dell’aguzzino, come al tempo di Madian" ( Is 9,4 ). Ecco come concordano tra loro le parole del vangelo con quelle di Isaia. Dove il vangelo dice villa, Isaia dice verga; e dove il vangelo dice paia di buoi, Isaia dice giogo opprimente; e dove il vangelo dice moglie, Isaia dice bastone. Come Gedeone, che s’interpreta "che gira nel grembo", sconfisse Madian con trecento uomini – come racconta il libro dei Giudici – armati solo di trombe e di lanterne ( cf. Gdc 7,15-16 ), così il penitente, che deve girare nel grembo, cioè pentirsi sempre nella sua mente dei peccati che ha commesso e dei peccati di omissione, deve liberarsi dall’opprimente giogo del diavolo con trecento combattenti, vale a dire con la fede nella santa Trinità, con le trombe della confessione e le lucerne di una congrua penitenza; deve cioè rifuggire dal piacere dei cinque sensi, con il quale il diavolo opprime l’anima; deve liberare la spalla dalla sua verga, cioè dalla brama del dominio con il quale il diavolo tormenta l’uomo, come il contadino pungola il suo asino; deve liberarsi dal bastone dell’aguzzino, cioè dalla tracotanza della carne, che si manifesta con la gola e con la lussuria. Il bastone che comanda è la lussuria, che purtroppo spadroneggia quasi su tutti. L’aguzzino è la gola, la quale ogni giorno, sotto il pretesto della necessità, si abbandona al piacere del gusto. 9. E anche su questo abbiamo la concordanza del primo libro dei Re, dove si racconta che "Nacas l’ammonita si mosse e incominciò a combattere contro Iabes di Galaad. Allora gli uomini di Iabes dissero a Nacas: Consideraci tuoi alleati e noi ti serviremo. Ma Nacas rispose loro: Con voi farò solo questo patto: di cavare a tutti voi l’occhio destro e fare così di voi l’obbrobrio davanti a tutto il popolo d’Israele" ( 1 Sam 11,1-2 ). E aggiunge: "All’udire quelle parole, lo Spirito del Signore investì Saul, che si sentì riempire di furore. Prese un paio di buoi e li fece a pezzi" ( 1 Sam 11,6-7 ). Nacas s’interpreta "serpente", nome che si addice perfettamente al diavolo, il quale, sotto forma di serpente, ingannò i nostri progenitori. Ammoniti s’interpreta "popolo afflitto", o "oppressore", oppure "che dà angoscia". Nacas dunque è il re degli Ammoniti, perché l’antico serpente, cioè satana, è il principe dei malvagi, i quali sono nell’afflizione della tristezza, la quale – secondo l’Apostolo – produce la morte ( cf. 2 Cor 7,10 ). I malvagi dunque opprimono i giusti e riempiono di sofferenze la vita dei santi. Dice infatti l’Ecclesiastico: Ciò che fa la fornace all’oro, la lima al ferro, il correggiato al grano, lo fa la tribolazione al giusto ( cf. Sir 27,6; Pr 27,17.21 ). L’empio vive per il profitto, per il vantaggio spirituale del giusto, perché la compagnia dei cattivi è come la graticola, il tormento dei buoni. Nacas dunque combatte contro Iabes di Galaad. Iabes s’interpreta "disseccata", e Galaad "cumulo di testimonianze". Qui è simboleggiata l’anima che deve dapprima essere disseccata dei vizi e quindi venir riempita delle testimonianze della passione del Signore. Nacas combatte contro gli uomini di Iabes a Galaad per strappare ad essi l’occhio destro, ben sapendo che, senza quell’occhio, tutti saranno resi molto meno abili al combattimento. L’occhio destro simboleggia lo sguardo critico, lo sguardo del giudizio; il diavolo tenta di strapparlo e di lasciare invece l’occhio sinistro, quello dell’amore mondano, sapendo bene che coloro che non aspirano ai beni eterni ricercano la prosperità di questo mondo: e chi è trattenuto dalle cose terrene, facilmente viene sconfitto nella lotta per salvezza. Chi vuole liberare la sua anima dall’assedio e dalla devastazione del diavolo, è necessario che faccia quanto segue: "E lo Spirito del Signore investì Saul …". Saul s’interpreta "unto", consacrato, che all’inizio del suo regno, quando liberò la città di Galaad, era buono, e quindi è figura del giusto, unto con la grazia di Dio; il giusto, quando lo Spirito del Signore, cioè la contrizione del cuore, lo investe, si infuria contro i suoi peccati passati, e taglia a pezzi tutti e due i buoi. I due buoi simboleggiano i due occhi, i due orecchi, e così via. Taglia a pezzi i due buoi colui che consuma di lacrime gli occhi, con i quali ha concupito le cose illecite. Fa a pezzi i due buoi colui che custodisce gli orecchi perché non ascoltino più le calunnie o le adulazioni, e li circonda come di una siepe di spine. E così fa anche con gli altri sensi, affinché quanti sono stati i piaceri ai quali si è abbandonato, tanti siano i sacrifici che fa di se stesso. 10. Il terzo invitato si scusò dicendo: "Ho preso moglie, e quindi non posso venire" ( Lc 14,20 ). Non è certo il matrimonio, bensì il cattivo uso del matrimonio che tiene molti lontano e li distoglie dal partecipare alla cena del Signore. Infatti molti contraggono matrimonio non in vista della fecondità della prole, ma solo per i desideri della carne. Quindi è necessario ricordarsi che si deve prender moglie per tre scopi. Primo, per procreare della prole, come dice la Genesi: "Crescete e moltiplicatevi" ( Gen 1,28 ). Secondo, per avere un aiuto; dice sempre la Genesi: "Non è bene che l’uomo sia solo: facciamogli un aiuto che gli sia simile" ( Gen 2,18 ). Terzo, a motivo dell’incontinenza; dice l’Apostolo: Se uno non è in grado di vivere in continenza, si sposi, purché ciò sia fatto nel Signore ( cf. 1 Cor 7,9.39 ). Chi prende moglie per altri scopi, che non siano questi, guai a lui! Inoltre, benché il matrimonio sia in se stesso un bene, tuttavia comporta delle difficoltà e dei pericoli. Dice infatti l’Apostolo nella prima lettera ai Corinzi: "Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso" ( 1 Cor 7,33 ) tra due "preoccupazioni": quella che riguarda Dio e quella che riguarda la moglie. È difficile procedere nel giusto mezzo, e dividersi così perfettamente tra due impegni, in modo che nessuno dei due venga trascurato. Sta scritto infatti nel primo libro dei Re che "furono fatte prigioniere due mogli di Davide, e Davide ne fu grandemente rattristato" ( 1 Sam 30,5.6 ). Se non avesse avuto le mogli, senza dubbio non avrebbe sofferto così tanto. Osserva che, in questo passo del vangelo, per moglie s’intende la lussuria della carne: di essa il vangelo non dice che la comperò, ma che la "prese": questo perché ogni peccatore fin dal principio della sua esistenza ha con sé la tendenza al peccato della carne. Ma si domanda: come mai i due primi invitati pregarono di essere ritenuti giustificati, mentre il terzo non lo fece per niente? A questo proposito si deve dire che la passione carnale tiene l’uomo avvinto ai piaceri in modo tale che non desidera per nulla andare alla felicità eterna, e neppure si preoccupa di scusarsi; e così è chiaro che non ama per nulla Dio, quel Dio che invitato dalle preghiere dei padri dell’Antico Testamento ad unire a sé la natura umana, venne benignamente alle nozze. Ecco che con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio ( Figlio ); egli ha dato la sua vita per noi; e quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" ( 1 Gv 3,16 ). Fa’ attenzione, perché Giovanni tocca qui tre argomenti, cioè Dio, noi e i fratelli. Chi ama Dio non compera la villa del dominio; chi ama la sua anima si libera dal giogo dei cinque sensi; chi ama il prossimo, per il quale è tenuto a dare la vita, non prende certo "moglie" di lussuria, con la quale offenderebbe e scandalizzerebbe il prossimo stesso. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, di togliere da noi la villa di ogni potere umano, di aiutarci a fuggire i piaceri dei cinque sensi, e a vivere senza la maledetta moglie della concupiscenza, per essere così liberi di entrare alla tua cena. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. L’ingresso alla cena di coloro che il mondo disprezza 11. "Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, deboli, ciechi e zoppi" ( Lc 14,21 ). Poiché i tre primi invitati si sono rifiutati di andare alla cena del Signore, viene mandato il servo per far entrare poveri, deboli, ciechi e zoppi. Raramente peccano coloro che non si trovano tra gli allettamenti del peccato, e più prontamente si convertono alla grazia coloro che non hanno in questo mondo nulla di cui godere. Benedetta perciò è quella miseria che conduce alle cose migliori, e beata quella oscurità che produce poi lo splendore. Infatti coloro che non dispongono di abbondanza di beni terreni, come i poveri, che sono senza salute fisica, come i deboli, i ciechi e gli zoppi, ai quali manca anche l’incentivo a peccare, con maggior facilità vengono introdotti alla cena del Signore. Concorda con questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che un giovane egiziano, schiavo di un Amalecita, era stato abbandonato nel deserto dal suo padrone, perché si era ammalato. E Davide lo aveva trovato, lo aveva rifocillato e poi assunto come guida nei suoi viaggi ( cf. 1 Sam 30,11-15 ). Il giovane egiziano è figura di colui che ama questo mondo. Egli, coperto dalla negrezza dei suoi peccati, quando non è più in grado di correre, con le opere mondane, insieme con il mondo che corre, viene dal mondo disprezzato e abbandonato nella sua infermità. Cristo lo ritrova – perché, coloro che il mondo abbandona con disprezzo, egli li converte al suo amore, li ristora con il cibo della parola di Dio – e lo elegge come guida del suo cammino perché, non di rado, il Signore lo fa suo predicatore e apostolo. E osserva che il vangelo non senza motivo sono nominate in particolare queste quattro categorie di sfortunati, cioè i poveri, i deboli, i ciechi e gli zoppi. Il povero è così chiamato perché poco può e poco ha. Il debole deve questo nome alla bile, debilis, che lo ha reso cagionevole di salute: la bile infatti è una secrezione del fiele, che influisce dannosamente sul corpo; di qui viene debolezza e debilitare, cioè rendere debole. Il cieco è privo della vista, e nessuno dei suoi due occhi è in grado di vedere. Lo zoppo è così chiamato perché è come chiuso ( lat. claudus, clausus ), cioè impedito nel camminare. In queste quattro categorie di infermi sono raffigurati coloro che sono schiavi dei quattro vizi dell’avarizia, dell’ira, della lussuria e della superbia. L’avaro è povero: non è lui che comanda a se stesso, ma è il denaro che lo domina; non è possessore ma posseduto, e anche quando ha molto, è sempre convinto di avere troppo poco. Di lui dice il Filosofo: "Colui al quale i suoi averi non sembrano mai troppo grandi, anche se è padrone di tutto il mondo, è un miserabile". E anche: "Non reputo povero colui che, per quanto poco abbia, quel poco gli basta" ( Seneca ). Il debole raffigura l’iracondo il quale, intriso dell’amarezza del fiele, s’infiamma d’ira e in questo stato è incapace di operare la giustizia di Dio ( cf. Gc 1,20 ). Di lui dice Giobbe: "La collera fa morire l’insensato" ( Gb 5,2 ). Il cieco raffigura il lussurioso, che è privo della vista della grazia; è privo della vista di entrambi gli occhi, cioè della ragione e dell’intelletto. Lo zoppo raffigura il superbo che non è in grado di camminare rettamente sulla via dell’umiltà. Di questi vizi, e di altri simili, dice sempre il Filosofo: "Si deve evitare ad ogni costo e si deve strappare e separare col ferro e col fuoco, e con ogni altro mezzo, il languore dal corpo, l’ignoranza dalla mente, la lussuria dal ventre, la sedizione dalla città e l’incoerenza dall’uomo". Queste quattro categorie di peccatori, trattenuti nelle piazze, cioè dal piacere della carne, e nelle vie, cioè dalle vanità del mondo, il Signore misericordioso li chiama, per mezzo dei predicatori della santa chiesa, alla cena della patria celeste. Osserva ancora che la terza volta il padrone dice al servo: "Esci per le strade e lungo le siepi, e spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia" ( Lc 14,23 ). Questi che sono spinti ad entrare raffigurano coloro che vengono spronati ad entrare alla cena del Signore dai castighi e dalle avversità. Dice infatti Osea: "Ecco, io gli sbarrerò di spine la strada e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri; inseguirà i suoi amanti ma non li raggiungerà, li cercherà ma non li ritroverà. E allora dirà: Ritornerò al mio sposo di prima, perché allora ero molto più felice di adesso" ( Os 2,6-7 ). Il Signore sbarra con la siepe delle avversità e lo steccato della malattia le vie, cioè le opere cattive dell’anima peccatrice, con le quali essa corre dietro ai suoi amanti, cioè ai demoni: e il Signore fa questo perché si converta e ritorni al suo primo Sposo. Avendo sperimentato la dolcezza del suo amore, deve ammettere che era infinitamente più felice quando fruiva della sua contemplazione, che non ora, che abusa della miserabile voluttà della carne. 12. Con questa terza parte del vangelo, nella quale si parla dei poveri, concorda anche la terza parte dell’epistola: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità" ( 1 Gv 3,17-18 ). E il Signore: "Date in elemosina quello che avanza, ed ecco, tutto per voi sarà mondo" ( Lc 11,41 ). E commenta la Glossa: Ciò che vi avanza di quanto vi è necessario per il vitto e il vestito, datelo ai poveri. Chi dunque ha ricchezze di questo mondo, e dopo aver trattenuto da esse ciò che gli è necessario per il vitto e il vestito, vede che il suo fratello, per il quale Cristo è morto, si trova nel bisogno, deve dargli ciò che gli sopravanza. E se non glielo dà, se chiude il suo cuore di fronte al fratello che è nell’indigenza, io affermo che pecca mortalmente, perché non c’è in lui l’amore di Dio; se ci fosse in lui questo amore, darebbe volentieri al fratello povero. Guai perciò a coloro che hanno la cantina piena di vino e il granaio pieno di frumento, e che hanno due o tre paia di vestiti, mentre i poveri di Cristo con il ventre vuoto e il corpo seminudo gridano aiuto alla loro porta. E se qualcosa si dà loro, si tratta sempre di poco, e non delle cose migliori ma delle più scadenti. Verrà, sì, verrà l’ora, quando anch’essi grideranno, stando fuori alla porta: Signore, Signore, aprici!" ( Mt 25,11 ). Ed essi, che non vollero ascoltare i lamenti dei poveri, si sentiranno dire: "In verità, in verità vi dico: non vi conosco" ( Mt 25,12 ). "Andate, maledetti, nel fuoco eterno!" ( Mt 25,41 ). "Chi chiude l’orecchio per non sentire la voce del povero, dice Salomone, quando sarà lui a gridare, non otterrà risposta" ( Pr 21,13 ). Fratelli carissimi, preghiamo perciò il Signore Gesù Cristo, che ci ha chiamati con questa predicazione, perché si degni anche di chiamarci, con l’infusione della sua grazia, alla cena della gloria celeste, nella quale saremo saziati contemplando quanto è soave il Signore ( cf. Sal 34,9 ). Di questa soavità ci renda partecipi il Dio uno e trino, benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli eterni. E ogni anima fedele, introdotta a questa cena, dica: Amen. Alleluia! Domenica III dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della terza domenica dopo Pentecoste: "I pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù"; vangelo che si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa, che deve costruire il muro della chiesa e uccidere il leone nella cisterna: "Banaia, figlio di Ioiada, venne e colpì il leone". – Parte I: Sermone sui peccatori convertiti: "Si radunarono presso Davide". – Sermone sull’Annunciazione di Maria: "Il re Davide si alzò e andò alla porta della città". – Riconciliazione del peccatore con Dio: "Assalonne, chiamato, entrò dal re". – Ancora sulla riconciliazione del peccatore: "Merib-Baal ( Mifiboset ) mangiava alla mensa di Davide". – Parte II: Sermone sull’innocenza battesimale: "Chi tra di voi, che ha cento pecore …". – Pianto e dolore per la perdita dell’innocenza battesimale, e la sua reintegrazione: "Davide proruppe in un grande pianto". – Sermone sulla contrizione: "Se la rugiada cadrà soltanto sul vello". – Sulla confessione: "Vi darò piogge abbondanti". – Sulla soddisfazione: "Abramo piantò un boschetto". – Sermone sul penitente: "Issacar, asino robusto". – Gioia di Dio e degli angeli per un peccatore convertito: "Vi dico che ci sarà grande gioia". – Parte III: Sermone sull’anima penitente, sulla sua confessione e sulla mortificazione della carne: "Entrò dal re la donna di Tekoa". – La dramma, le sue suddivisioni e il loro significato: "Se una donna perde una dramma". – In che modo il diavolo uccide in noi l’amore di Dio e del prossimo: "Ioab, figlio di Sarvia". – Le quattro parti della lucerna e il loro significato: "Non accende forse la lucerna …" Esordio - Sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa 1. In quel tempo "si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo" ( Lc 15,1 ). Racconta il secondo libro dei Re che "Banaia, figlio di Ioiada, in un giorno di neve scese in una cisterna e uccise un leone" ( 2 Sam 23,20 ). Banaia s’interpreta "muratore del Signore" ed è figura del predicatore che con il cemento della divina parola unisce in unità di spirito le pietre vive, cioè i fedeli della chiesa. Di questo muratore dice il Signore al profeta Amos: "Che cosa vedi tu, Amos? Rispose: Vedo una cazzuola da muratore. E il Signore riprese: Ecco, io porrò in mezzo al mio popolo una cazzuola" ( Am 7,8 ). La cazzuola è una spatola di metallo, piuttosto larga, con la quale vengono spianati e livellati i muri. Si chiama in lat. trulla, da trudo, chiudere, perché con essa le pietre vengono unite e saldate tra loro con la calce o con la creta. La cazzuola è figura della predicazione, che il Signore ha posto in mezzo al popolo cristiano perché fosse a disposizione di tutti e con la sua larghezza si estendesse sia al giusto che al peccatore e con la calce dell’amore riunisse i credenti in Cristo. E questo muratore è detto figlio di Ioiada, nome che s’interpreta "che sa, che conosce". Il predicatore deve essere figlio della scienza e della conoscenza. In primo luogo deve sapere che cosa, a chi e quando predicare; in secondo luogo deve controllare se stesso per vedere se la sua vita è coerente con ciò che predica agli altri. Di questa conoscenza era privo quel Balaam che dice di se stesso: "Parola dell’uomo il cui occhio è otturato, parola di colui che ha ascoltato i discorsi di Dio, che conosce la scienza dell’Altissimo, e vede la visione dell’Onnipotente, e che cadendo ha aperto gli occhi" ( Nm 24,15-16 ). Così è otturato l’occhio del predicatore corrotto, il quale, pur conoscendo la scienza dell’Altissimo e vedendo le visioni dell’Onnipotente, tuttavia non le conosce per esperienza. Cadendo, poiché è privo di questa conoscenza, ha aperto gli occhi con la scienza. Ma Banaia, figlio di Ioiada, scese dalla contemplazione di Dio e si dedicò all’istruzione del prossimo e uccise il leone, cioè il diavolo, ossia il peccato mortale, che è dentro la cisterna, vale a dire nell’anima insensibile e gelida dei peccatori. E compie quest’opera nei giorni della neve, cioè quando il gelo della malizia e della perversità raggela le menti dei peccatori, dei quali è detto appunto nel vangelo di oggi: "Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani". 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo si devono considerare tre fatti. Primo, l’avvicinamento dei peccatori a Gesù e la mormorazione dei farisei; secondo, il ritrovamento della pecora smarrita; terzo, il ricupero della dramma perduta. Fa’ anche attenzione che in questa domenica e nella seguente vedremo – se Dio ce lo concede – la concordanza di alcuni racconti del secondo libro dei Re con le tre parti di questo vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta: "Volgiti a me Signore, ed abbi misericordia" ( Sal 25,16 ). Si legge quindi l’epistola del beato Pietro: "Umiliatevi sotto la potente mano di Dio" ( 1 Pt 5,6 ). Divideremo questo brano dell’epistola in tre parti e ne troveremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: "Umiliatevi". Seconda parte: "Siate temperanti". Terza parte: "Il Dio di ogni grazia". I. L’avvicinamento dei peccatori a Gesù 3. "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro" ( Lc 15,1-2 ). Tutto questo concorda con il primo libro dei Re, dove si racconta che "si radunarono presso Davide tutti coloro che erano in grandi strettezze ed erano carichi di debiti e con l’anima ricolma di amarezza: ed egli divenne il loro principe" ( 1 Sam 22,1-2 ), il loro capo. Fa’ attenzione a queste tre circostanze: erano in strettezze, carichi di debiti, con l’anima ricolma di amarezza. Davide è figura di Cristo, al quale devono avvicinarsi i peccatori che si trovano nelle strettezze della tentazione diabolica e della concupiscenza carnale, e sono carichi di debiti, sono cioè in peccato mortale, schiavi del denaro, inventato dal diavolo. E se avranno l’anima ricolma di amarezza, se cioè avranno l’amarezza della contrizione per i peccati commessi, Cristo stesso sarà il loro principe. Il principe è chiamato così perché primus capit, cioè prende per primo. Cristo infatti, quando il vero penitente muore, previene il diavolo, si impadronisce per primo della sua anima e la porta in paradiso. Giustamente quindi è detto: "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori", ecc. Fa’ attenzione a queste quattro parole: si avvicinavano, per ascoltare, accoglie e mangia. Nella parola "si avvicinavano" è indicata la contrizione del cuore; nella parola "per ascoltare" è indicata la confessione e l’esecuzione dell’opera penitenziale; nella parola "accoglie" è indicata la riconciliazione della misericordia divina con il peccatore; e nella parola "mangia" il banchetto dell’eterna gloria. "Si avvicina" a Gesù colui chi è contrito dei propri peccati. Troviamo nella Genesi: "Allora Giuda si avvicinò di più e disse fiduciosamente a Giuseppe: Ti prego, mio signore, sia permesso al tuo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore, e non si accenda la tua ira contro il tuo servo" ( Gen 44,18 ). Giuda s’interpreta "colui che confessa" ed è figura del penitente il quale, facendosi più vicino a Dio con la contrizione del cuore, fiducioso nella sua misericordia, fa sentire con fiducia la parola della confessione alle orecchie del suo confessore. Parimenti "ascolta" Gesù, colui che si sforza di riparare al peccato in tutto e per tutto. Dice infatti Giobbe: "Con le mie orecchie ti ho ascoltato, e ora il mio occhio ti vede. Perciò ora accuso me stesso e faccio penitenza in polvere e cenere" ( Gb 42,5-6 ). Similmente Gesù Cristo "accoglie" i peccatori, quando infonde nei penitenti la grazia della riconciliazione. Dice Luca: "Correndogli incontro, il padre si gettò al collo del figlio e lo baciò" ( Lc 15,20 ). Il bacio del padre simboleggia la grazia della divina riconciliazione. E finalmente Gesù "mangia" con loro, cioè con i penitenti, perché li sazierà con la sua gloria nella perfetta felicità. 4. Con questi quattro momenti concorda ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re. Primo: "Si avvicinavano". "Tutte le tribù d’Israele andarono a Ebron da Davide e gli dissero: Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne" ( 2 Sam 5,1 ). La tribù è chiamata così da tributo, o anche dal fatto che in principio il popolo di Roma fu da Romolo diviso in tre classi: senatori, soldati e plebe. Con l’espressione "tutte le tribù d’Israele" viene indicato l’insieme di tutti i penitenti, i quali ogni giorno versano a Dio il tributo del loro servizio, del loro dovere. E si dividono in tre categorie: senatori, cioè i contemplativi; soldati, cioè i predicatori; la plebe, il popolo, nel quale sono raffigurati coloro che fanno vita attiva. Tutti costoro devono ritrovarsi, in unità di mente, attorno a Davide, cioè a Gesù Cristo; devono radunarsi a Ebron, che s’interpreta "mio connubio"; devono cioè unirisi con la contrizione del cuore, nella quale lo Spirito Santo, come mistico sposo, si unisce per mezzo della grazia all’anima, come ad una sposa, pentita dei suoi peccati. Da questo connubio nasce l’erede della vita eterna. "Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne". Così i penitenti devono dire a Cristo: Abbi pietà di noi, perdona i nostri peccati, perché noi siamo tue ossa e tua carne. Per noi uomini ti sei fatto uomo, per redimerci. Da tutto ciò che hai patito, hai imparato ad aver pietà di noi ( cf. Eb 5,8 ). Ad un angelo non possiamo dire: Siamo tue ossa e tua carne. Ma a te che sei Dio, figlio di Dio, che non hai assunto gli angeli ma il seme di Abramo ( cf. Eb 2,16 ), possiamo dire in verità: Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne. Abbi dunque misericordia delle tue ossa e della tua carne! E chi mai ha avuto in odio la sua carne? ( cf. Ef 5,29 ). Tu sei nostro fratello e nostra carne ( cf. Gen 37,27 ), e quindi sei obbligato ad aver pietà e a compatire le miserie dei tuoi fratelli. Tu e noi abbiamo lo stesso Padre: ma tu per natura, noi per grazia. Tu, dunque, che nella casa del Padre hai ogni potere, non volerci privare di quella sacra eredità, perché noi siamo tue ossa e tua carne. I figli d’Israele trasportarono le ossa di Giuseppe dall’Egitto alla Terra Promessa ( cf. Gs 24,32 ): anche tu, dalle tenebre di questo Egitto, portaci, noi che siamo tue ossa, nella terra della beatitudine, perché siamo tue ossa e tua carne. Giustamente quindi è detto: "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i peccatori". I penitenti devono fare come le api. Leggiamo nella Storia Naturale che quando il loro "re" ( regina ) vola fuori dell’alveare, volano via con lui e lo circondano tutte ammassate: lui sta al centro e le api tutte all’intorno. E se il loro re non può volare, la massa delle api lo regge; e se muore, tutte muoiono con lui. Gesù Cristo, nostro re, è volato fino a noi, fuori dell’alveare, cioè fuori del seno del Padre. E noi, come buone api, dobbiamo seguirlo e volare con lui; dobbiamo metterlo al centro, cioè conservare nel cuore la fede in lui e difenderla con la pratica di tutte le virtù. E se in qualche suo membro cadesse nel peccato, lo dobbiamo sollevare e sostenere con la predicazione e con l’orazione. E con lui morto e crocifisso dobbiamo morire anche noi, crocifiggendo le nostre membra con il loro vizi e le loro concupiscenze ( cf. Gal 5,24 ). Giustamente quindi è detto: "Si avvicinavano a Gesù i pubblicani e i farisei". 5. "Per ascoltarlo". Anche su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Davide si alzò e andò ad insediarsi alla porta [ della città ] e a tutto il popolo fu annunziato che il re sedeva alla porta: e tutto il popolo si radunò alla presenza del re" ( 2 Sam 19,8 ). Gesù Cristo, re dei re, nostro Davide, che ci ha liberati dalla mano dei nostri nemici, si alzò quando uscì dal seno del Padre, e andò a sedersi alla porta, cioè si umiliò nel grembo della beata Vergine Maria, della quale dice il profeta Ezechiele: "Questa porta sarà chiusa e non sarà aperta, e nessuno vi passerà perché vi è passato il Signore, Dio d’Israele. E sarà chiusa al principe; il principe stesso sederà in essa, per mangiare il pane davanti al Signore" ( Ez 44,2-3 ). Osserva che dice: "sarà chiusa al principe" e "il principe stesso sederà in essa". Al principe di questo mondo, cioè al diavolo, fu chiusa ( cf. Gv 12,31 ), perché la sua mente non si aprì mai ad alcuna delle sue tentazioni; e solo il vero principe, Cristo, sedette in essa nell’umiliazione della carne che da lei assunse, per mangiare il pane davanti al Signore, cioè per compiere la volontà del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre mio ( cf. Gv 4,34 ). E a tutto il popolo fu annunciato per mezzo degli apostoli che il re stava seduto alla porta, vale a dire che aveva assunto la carne dalla beata Vergine Maria. E così tutto il popolo dei penitenti e dei fedeli si radunò davanti al re, pronto ad obbedire in tutto e per tutto ai suoi comandi. 6. "I farisei e gli scribi mormoravano: Costui accoglie i peccatori" ( Lc 15,2 ). Sbagliano doppiamente coloro che si credono giusti, mentre sono superbi, e giudicano colpevoli gli altri, che invece si sono già pentiti. "Costui accoglie i peccatori". Queste parole trovano un riscontro in ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Assalonne, chiamato, entrò dal re e si prostrò con la faccia a terra davanti a lui, e il re Davide baciò Assalonne" ( 2 Sam 14,33 ). Assalonne, nome che s’interpreta "pace del padre", in questo passo raffigura il penitente che, pentendosi, fa la pace con Dio Padre, che ha offeso con il peccato. Il peccatore, chiamato per mezzo della contrizione del cuore, entra dal re con la confessione, e lo adora, prostrato davanti a lui con la faccia a terra, quando fa la penitenza, castigando la terra della sua carne, ritenendosi spregevole e indegno; e questo davanti a Dio e non davanti agli uomini. E così il re accoglie il penitente come un figlio, con il bacio della riconciliazione. A proposito di questa accoglienza, il peccatore convertito, nell’introito della messa di oggi, dice: "Volgiti a me, Signore, e abbi misericordia perché sono solo e povero. Guarda la mia umiliazione e la mia sofferenza e perdona tutti i miei peccati, o mio Dio" ( Sal 25,16.18 ). "Volgiti a me" con occhio di misericordia, tu che hai guardato Pietro; "abbi pietà di me" perdonando i miei peccati; "perché sono solo", e tu accompagni chi è solo e abbandonato; "perché sono povero", cioè vuoto, affinché tu possa riempirmi. "Guarda la mia umiliazione" nella confessione, "e la mia sofferenza" quando faccio penitenza; "e perdona tutti i miei peccati, o mio Dio". 7. "E mangia con loro" ( Lc 15,2 ). Anche rispetto a questo troviamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si narra che "Merib-Baal mangiava alla mensa di Davide, come uno dei figli del re, e dimorava a Gerusalemme, appunto perché mangiava ogni giorno alla mensa del re ( cf. 2 Sam 9,11.13 ). Merib-Baal s’interpreta "uomo dell’umiliazione", e in questo passo sta ad indicare il penitente, che si umilia per i suoi peccati; e la sua umiliazione gli procurerà la gloria, quando abiterà nella Gerusalemme celeste e mangerà alla mensa del Re come uno dei santi apostoli, ai quali nel vangelo il Signore dice: "Io preparo per voi un regno, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa, nel regno dei cieli" ( Lc 22,29-30 ). Con questa prima parte del santo vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti nel tempo della tribolazione; gettate su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi" ( 1 Pt 5,6-7 ). Sotto la potente mano di Dio, che rovescia i potenti e innalza gli umili ( cf. Lc 1,52 ), affinché vi innalzi a quella mensa celeste, quando verrà a visitarvi, cioè al momento della morte e dell’ultimo giudizio. Gettate ogni vostra preoccupazione su di lui, perché è più sollecito della vostra salvezza, di quanto non lo siate voi stessi: perché è lui che ci ha fatti, e non noi ci siamo dati la vita ( cf. Sal 100,3 ). Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore nostro Gesù Cristo perché faccia avvicinare a sé noi peccatori, per ascoltarlo; si degni di accoglierci e di nutrici con sé alla mensa della vita eterna. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. Il ritrovamento della pecora smarrita 8. "E disse loro questa parabola: Quale uomo, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché la ritrova? Trovatala, tutto felice se la mette sulle spalle …" ( Lc 15,3-5 ). Poiché il Signore, con queste due parabole [ della pecora smarrita e della dramma perduta ], ha voluto insegnare ai peccatori che ritornano a lui, in quale modo possono ritrovare ciò che hanno perduto e conservare ciò che hanno ritrovato e fare penitenza dei peccati commessi, noi vedremo chi raffiguri l’uomo che ha cento pecore, quale sia il significato morale della pecora smarrita e che cosa voglia dire essere portato sulle spalle. Quest’uomo raffigura il penitente che incomincia a vivere come uomo nuovo e che reputa se stesso polvere. Egli ha cento pecore. Il numero cento è simbolo della perfezione. Le cento pecore raffigurano tutti i doni naturali e gratuiti, e chi li ha è perfetto, s’intende della perfezione possibile in questa vita. Giustamente i doni naturali e gratuiti sono chiamati pecore, perché come le pecore sono animali semplici, innocenti e mansueti, così i doni naturali e gratuiti rendono l’uomo semplice verso il prossimo, cioè senza l’insidia della frode, innocente con se stesso e sottomesso nei riguardi di Dio. "Se ne perde una, non lascia forse le novantanove nel deserto? …". La pecora smarrita raffigura la prima innocenza, che viene conferita all’uomo nel battesimo. E questa innocenza viene indicata dalle due cose che vengono consegnate al battezzato: il sacerdote gli consegna una veste bianca e una candela accesa. La veste bianca simboleggia l’innocenza, la candela accesa l’esempio della vita virtuosa. In tutte e due queste cose consiste l’innocenza dell’uomo, e questa è la pecora semplice e innocente. E l’uomo la perde quando macchia la sua veste battesimale e spegne la candela delle opere buone. E quando perde questa pecora, l’uomo deve dolersene in sommo grado. 9. Sullo smarrimento di questa pecora e sul dispiacere di questo smarrimento troviamo una concordanza nel secondo libro dei Re: "Davide pianse e fece questo lamento ( funebre ) su Saul e sul suo figlio Gionata: O monti di Gelboe, non più rugiada né pioggia cadano su di voi, né ci siano campi di primizie, perché qui fu avvilito lo scudo degli eroi, lo scudo di Saul, come se egli non fosse stato unto con olio" ( 2 Sam 1,17.21 ). Sia l’uomo delle cento pecore che Davide sono figura del penitente, che deve piangere su Saul e Gionata, sopra la pecorella smarrita, sopra la prima innocenza perduta. Saul s’interpreta "consacrato con l’unzione", e indica l’innocenza battesimale che viene conferita con l’unzione del crisma. Gionata s’interpreta "dono della colomba", e indica la grazia dello Spirito Santo, conferita con il battesimo. Poiché queste due cose ha perduto, l’uomo deve piangere dicendo: "O monti di Gelboe", ecc. Gelboe s’interpreta "discesa, crollo", o "mucchio che crolla", e raffigura la superbia che è sempre in pericolo di crollare, perché la superbia ha spesso dei crolli; e raffigura anche l’abbondanza delle ricchezze, le quali si accumulano come un mucchio di pietre contro il Signore. Sopra questi monti ( superbia e ricchezza ) non si trovano né rugiada, né pioggia, né campi di primizie. Nella rugiada è simboleggiata la contrizione, nella pioggia la confessione, e nei campi di primizie la soddisfazione, vale a dire l’opera penitenziale imposta dal confessore. Della rugiada della contrizione leggiamo nel libro dei Giudici: "Se la rugiada – diceva Gedeone al Signore – cadrà soltanto sul vello e tutto il terreno all’intorno sarà asciutto, saprò che per mia mano libererai Israele. E così avvenne. E alzatosi che era ancora notte, spremuto il vello, riempì di rugiada un catino" ( Gdc 6,37-38 ). È segno della liberazione di Israele, cioè dell’anima nostra, se la rugiada, vale a dire la grazia della compunzione, sarà solo sul vello, cioè nel cuore, e su tutto il terreno all’intorno, cioè in tutto il nostro corpo, ci sarà la siccità, cioè l’assenza di vizi. E mentre siamo nella notte di questo esilio, dobbiamo alzarci, applicarci cioè, spirito e corpo, alle opere di penitenza, e spremere il vello del cuore con l’amore della gloria eterna e il timore della geenna, come fossero le due mani, e riempire il catino degli occhi con l’acqua della compunzione, che zampilla per la vita eterna ( cf. Gv 4,14 ). Della pioggia della confessione parla il Levitico: "Io vi darò le piogge al loro tempo, e la terra produrrà i suoi germogli e le piante si caricheranno di frutti. La mietitura si congiungerà con la vendemmia e la vendemmia si congiungerà con la semina: mangerete il vostro pane fino alla sazietà" ( Lv 26,3-5 ). Quando il Signore concede ai penitenti la pioggia, cioè la grazia di una buona confessione, allora egli produce i suoi germogli, e non germogli estranei. Il germoglio raffigura l’inizio dell’opera buona, che viene fatta germogliare dalla pioggia della confessione. "E le piante si caricheranno di frutti". Albero deriva da forza ( in lat. arbor, robur ), frutto da fertilità ( in lat. poma, opimus ). Le piante simboleggiano la mente dei penitenti, fortificata nel fermo proposito di non ricadere nel peccato, e si carica di frutti, cioè della fecondità delle virtù. La mietitura, cioè la sofferenza del corpo, si congiungerà con la vendemmia, vale a dire con la letizia della mente, e la vendemmia si congiungerà con la semina, cioè con la vita eterna, nella quale mangeremo il pane a sazietà. Sta scritto infatti: "Mi sazierò quando apparirà la tua gloria" ( Sal 17,15 ). Ecco quanti effetti buoni produce la confessione! Similmente, del campo della "soddisfazione" ( l’opera penitenziale ) è detto nella Genesi: "Abramo piantò un boschetto a Bersabea e lì invocò il nome di Dio, l’Eterno. E fu forestiero, colono, nella terra dei filistei per molto tempo" ( Gen 21,33-34 ). Fa’ attenzione a questi tre momenti: piantò, invocò, e fu forestiero ( colono ). Abramo è figura del giusto, il quale a Bersabea, che s’interpreta "pozzo della sazietà", cioè nella sua mente, pianta il boschetto della carità. Il boschetto, così chiamato da nume ( lat. nemus, bosco; numen, divinità ), simboleggia la carità, per la quale amiamo Dio e il prossimo. E osserva ancora che la mente del giusto è detta "pozzo", a motivo dell’umiltà, e "della sazietà", a motivo della dolcezza della contemplazione divina. "E lì invocherà il nome di Dio, l’Eterno". Il nome di Dio, l’Eterno, è Gesù, che s’interpreta "salvatore". Il giusto quindi invoca il nome del Salvatore perché gli conceda la salvezza e gliela conservi in eterno. "E fu forestiero ( colono ) nella terra dei filistei", nome che, come è stato detto altre volte, s’interpreta "che cadono ubriachi"; i filistei raffigurano i cinque sensi del corpo i quali, mentre si inebriano bevendo alla vanità del mondo, cadono nel peccato. La terra di questi filistei è il corpo, che opera per mezzo dei cinque sensi. Di questa terra il giusto dev’essere il colono, per coltivarla con le veglie e le astinenze, con la sofferenza e con la fatica, affinché essa produca il frutto delle primizie. Giustamente quindi è detto: "Monti di Gelboe, né rugiada né pioggia cadano più sopra di voi, né vi siano campi di primizie". Nelle alture della superbia e nell’abbondanza delle cose temporali non si trova la rugiada della compunzione, né la pioggia della confessione, né vi sono i campi di primizie delle opere penitenziali; anzi lì viene avvilito lo scudo dei forti, lo scudo di Saul. Lo scudo è figura della fede. "Imbracciate", dice l’Apostolo, "lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere ( respingere ) tutti i dardi infuocati del maligno" ( Ef 6,16 ). La fede rifiuta le cose temporali, perché dalla loro abbondanza viene distrutta. È con questo scudo che i giusti combattono valorosamente. Leggiamo infatti nel libro di Giosuè, che il Signore gli disse: "Alza contro la città di Ai lo scudo che hai infilato nel braccio, perché io te la consegnerò. Come ebbe alzato lo scudo contro la città, quelli che erano in agguato balzarono subito dal loro nascondiglio, entrarono di corsa nella città, la conquistarono e la misero a fuoco" ( Gs 8,18-19 ). Lo scudo nel braccio raffigura la fede concretizzata nelle opere, e quando noi la innalziamo al di sopra delle cose terrene, la città di Ai, che s’interpreta "cumulo di pietre" ed è figura dell’abbondanza delle cose terrene, viene conquistata e messa a fuoco. Le cose terrene si possono accumulare solo per essere distribuite ai poveri, e vengono messe a fuoco quando nel fervore dello spirito sono considerate soltanto polvere e cenere. Alza con il braccio lo scudo contro Ai, colui che alimenta la sua fede con le opere, con le quali distrugge la superbia e le ricchezze del mondo, disprezzandole. Giustamente quindi è detto: "Perché lì è stato avvilito lo scudo dei forti, lo scudo di Saul, come se egli non fosse stato consacrato con l’olio". I superbi e gli avari avviliscono e gettano nel letamaio delle ricchezze la fede in Gesù Cristo e la grazia del battesimo, con la quale sono stati unti e consacrati, quando ricercano le cose temporali. A ragione quindi è detto: "Non lascia forse le novantanove nel deserto, e va dietro a quella perduta, finché la trova?" Tutto deve lasciare il penitente, tutto deve mettere in seconda linea; deve piangere sui monti di Gelboe, cioè sulla superbia e sull’eccesso delle cose temporali, nelle quali ha perduto la pecorella, si è spogliato della veste battesimale, e ha spento la candela del buon esempio; deve quindi perseverare nelle veglie e nelle astinenze, finché l’abbia ritrovata. 10. "E quando l’ha ritrovata, se la mette tutto contento sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta" ( Lc 15,5-6 ). Considera che le spalle raffigurano le fatiche della penitenza. Dice infatti la Genesi: "Issacar è un asino robusto, sdraiato in un doppio recinto. Ha visto che il luogo del riposo era bello e che la terra era ottima e ha piegato il dorso a portare la soma ( Gen 49,14-15 ). Issacar s’interpreta "ricompensa", ed è figura del penitente che si affatica solo in vista della ricompensa eterna. Egli è detto "asino robusto", capace cioè di sopportare per Cristo grandi tribolazioni "sdraiato in due recinti". I due recinti sono l’ingresso nella vita e l’uscita da essa, sui quali il penitente dimora, perché medita attentamente sul suo ingresso e sulla sua uscita dalla vita. Invece gli uomini carnali non dimorano nei due recinti, bensì tra i due recinti; a costoro dice Debora nel libro dei Giudici: "Perché te ne stai sdraiato tra i due recinti ad ascoltare il sibilo dei greggi?" ( Gdc 5,16 ). Se ne sta sdraiato in due recinti colui che non riflette sul suo misero ingresso alla vita e sulla tremenda conclusione della morte, ma si rende schiavo dei piaceri del proprio corpo. E così ascolta il sibilo dei greggi, cioè il sottile e suadente richiamo dei cinque sensi. La sensualità sembra infatti avere la voce dei greggi, mentre in realtà la sua suggestione è come il sibilo del serpente, che ostenta l’innocenza dei greggi e nasconde l’astuzia del lupo, e così riesce a far penetrare nell’anima il veleno dei serpenti. Questo Issacar vede con l’occhio della fede e con l’intuito della contemplazione che il riposo dell’eterna beatitudine è dolce e che la terra dell’eterna sicurezza è splendida, e quindi, pieno di gioia, piega le spalle per portare la pecorella che aveva perduta. "Tornando a casa", rientrando cioè nella propria coscienza, "chiama gli amici e i vicini", cioè i sentimenti della ragione che sono amici e vicini, e gioisce con essi dicendo: "Rallegratevi con me". Del bene comune dev’essere comune anche la gioia. Infatti quando viene restituita l’innocenza, viene ripristinata la grazia. Non c’è da meravigliarsi se l’uomo e la sua coscienza sono pieni di letizia, perché questo avviene anche in cielo, in Dio e nei suoi angeli. 11. "Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che fa penitenza, che non per novantanove giusti che di penitenza non hanno bisogno" ( Lc 15,7 ). Io, Verbo del Padre, vi dico che per un peccatore che fa penitenza, che ricupera l’innocenza, c’è grande gioia in cielo. E di questa gioia il Signore, in questo stesso vangelo, dice: "Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo; mettetegli al dito l’anello e i calzari ai piedi. Bisogna banchettare e rallegrarsi perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" ( Lc 15,22.32 ). Il vestito più bello simboleggia l’innocenza battesimale; l’anello è segno della fede perfetta, con la quale l’anima viene illuminata; i calzari raffigurano la mortificazione della carne, l’orrore per il peccato e il disprezzo del mondo. Tutto questo viene dato al figlio pentito, e per il suo pentimento c’è in cielo più gioia che non per novantanove giusti, cioè per i tiepidi che si credono giusti. Dice infatti l’Ecclesiaste: "Non presumere di essere troppo giusto" ( Qo 7,17 ). Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Siate temperanti, vegliate" nella preghiera, "perché il vostro nemico, il diavolo …", ecc. ( 1 Pt 5,8 ) Osserva che dice prima "siate temperanti" e poi "vegliate". Siate temperanti, cioè sobri, senza mai ubriacarvi, perché chi è in preda all’ubriachezza non in grado di vegliare. La sobrietà e la vigilanza sono necessarie perché il diavolo, nostro nemico, va in giro cercando la pecorella per divorarla. Resistiamogli con la fede che abbiamo ricevuto nel battesimo, custodiamo l’innocenza per meritare di giungere al gaudio degli angeli insieme con i veri penitenti. Ce lo conceda colui che strappò dalle fauci del lupo, del diavolo, le pecora smarrita, cioè Adamo con la sua discendenza, e la portò pieno di gioia, sulle sue spalle, appese alla croce, quando ritornò alla casa dell’eterna beatitudine. Per il suo ritrovamento fece anche grande festa con gli angeli: anch’essi esultano quando un peccatore si riconcilia con loro. Tutto questo deve infiammarci all’onestà, per far sempre ciò che agli angeli è gradito, ricercare la loro protezione e temere di offenderli. Ci conduca alla loro compagnia il Signore stesso, al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. III. Il ritrovamento della dramma perduta 12. "O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa, e cerca attentamente finché non la ritrova?" ( Lc 15,8-10 ). Senso morale: questa donna è figura dell’anima. Troviamo su questo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "la donna di Tekoa entrò dal re, si gettò con la faccia a terra, lo adorò e disse: Salvami, o re! Il re le disse: Che hai? Rispose: Ahimè, io sono una vedova, mio marito è morto. La tua serva aveva due figli, che fecero una lite tra loro nella campagna, e non c’era nessuno che li dividesse; e così uno colpì l’altro e lo uccise. Ed ecco che ora tutta la famiglia è insorta contro la tua serva, dicendo: Consegnaci colui che ha colpito il suo fratello, perché lo uccidiamo per vendicare il fratello che egli ha ucciso, ed eliminiamo l’erede. E così cercano di spegnere anche l’ultima scintilla che mi è rimasta" ( 2 Sam 14,4-7 ). Vediamo che cosa raffiguri il re, che cosa la donna di Tekoa e suo marito, i figli e la loro lite; che cosa significhi la morte di uno di loro, la parentela e la scintilla. Il re è Cristo, la donna di Tekoa è figura dell’anima penitente; il marito morto è figura del mondo; i due figli simboleggiano la ragione e la sensualità; la lite è la discordanza che c’è tra ragione e sensualità; la morte di uno raffigura la mortificazione dell’appetito carnale; la parentela simboleggia gli impulsi naturali e la scintilla è la luce della ragione. "La donna di Tekoa entrò dal re e si prostrò davanti a lui e lo adorò". Tekoa s’interpreta "tromba". La donna di Tekoa è figura dell’anima penitente che fa risuonare soavemente la tromba della confessione all’orecchio del suo creatore. E osserva che nell’Antico Testamento la tromba chiamava a tre partecipazioni: alla guerra, al convito sacro e alla celebrazione festiva ( cf. Nm 10,8-10 ). Anche la tromba della confessione chiama alla guerra contro i demoni: il diavolo infatti, scacciato per mezzo della confessione, si rifà vivo per mezzo degli scandali; ci chiama al sacro convito della penitenza e alla festosa celebrazione della gloria. Fa’ attenzione a queste tre parole: "entrò dal re", "si prostrò davanti a lui", "e lo adorò". Il re è Cristo che regge i popoli con scettro di ferro ( cf. Sal 2,9 ), cioè con inesorabile giustizia. L’anima entra alla presenza di questo re per mezzo della speranza, si prostra davanti a lui per mezzo dell’umiltà e lo adora per mezzo della fede. E dice: "Salvami, o re! Ahimè, io sono una donna vedova". Fa’ attenzione alle tre parole: Ahimè, donna e vedova. Dice "Ahimè", perché sente dolore dei peccati; dice "donna" perché si riconosce debole e fragile; dice "vedova" perché priva di ogni soccorso umano; e quindi: "Salvami, o re", sono una donna afflitta, fragile e spoglia di tutto. "Salvami", perché sono tua serva. "Salvami" perché mio marito è morto. Il marito dell’anima penitente era il mondo, che le muore quando anche lei muore al mondo. Per questo dice l’Apostolo: "Per me il mondo è morto, come lo sono io per il mondo" ( Gal 6,14 ). "La tua serva aveva due figli: tra loro scoppiò una lite". I due figli dell’anima sono le sue due componenti: quella superiore e quella inferiore, vale a dire la ragione e la sensualità, tra le quali è sempre in atto una grandissima lite, perché lo spirito ha desideri contrari alla carne, e la carne ha desideri contrari allo spirito ( cf. Gal 5,17 ). Di questa lite, racconta Mosè nella Genesi: "Scoppiò una lite tra i pastori dei greggi di Abramo e quelli di Lot. Allora Abramo disse a Lot: Ti prego, non vi sia discordia tra me e te, tra i miei pastori e i tuoi, perché noi siamo fratelli. Ecco, davanti a te sta tutto il territorio. Ti prego, allontanati da me: se andrai a sinistra, io andrò a destra; se andrai a destra, io andrò a sinistra" ( Gen 13,7-9 ). In Abramo vediamo raffigurata la ragione, in Lot la sensualità. I pastori rappresentano i loro sentimenti e impulsi naturali, tra i quali c’è rissa quotidiana. Ma Abramo dice: "Ti prego, non vi sia discordia tra me e te". E questo è il rimprovero e la raccomandazione della ragione nei confronti della sensualità: la ragione vuole pacificare con sé la sensualità, e quindi le dice: Siamo fratelli, non combattere contro di me, non voler attaccare lite. "Ecco, hai davanti a te tutta la terra" per vivere soddisfacendo le tue necessità, e non per il piacere. Sèrviti di quello che è lecito; vivi con discrezione, perché il Signore ha dato la terra ai figli dell’uomo ( cf. Sal 115,16 ), non ai figli delle bestie. Ma poiché vedo che i tuoi sensi e i tuoi pensieri sono inclini al male fin dalla tua adolescenza ( cf. Gen 8,21 ), ti prego, allontànati da me, perché due che sono così in contrasto tra loro non possono vivere insieme. Quale unione ci può essere tra la luce e le tenebre? E quale mai collaborazione tra un fedele e un infedele? ( cf. 2 Cor 6,14-15 ). Allontànati quindi da me perché, se non ti allontanerai, temo che dalla convivenza venga influenzato il comportamento. "L’uva sana prende la muffa dall’uva guasta che le sta vicino" ( Giovenale ). Il compagno cattivo, come dice il Filosofo, attacca la scabbia o la ruggine ( i vizi ) al compagno ingenuo e innocente. "Ti prego, dunque, allontànati da me. Se tu andrai a sinistra, io andrò a destra; se tu andrai a destra, io andrò a sinistra". Osserva che ciò che è destro per la carne, è sinistro per lo spirito, e ciò che è destro per lo spirito è sinistro per la carne. E questo è stato indicato dalla disposizione del corpo di Cristo sulla croce, sulla quale egli ebbe la destra rivolta all’aquilone ( settentrione ) e la sinistra all’austro ( mezzogiorno ), mostrando così che le avversità, che noi reputiamo sinistre, sono per lui destre, e che la prosperità di questo mondo, simboleggiata nel mezzogiorno, che per noi è destra, per lui è sinistra. Giustamente quindi è detto: "La tua serva aveva due figli tra i quali, mentre erano in campagna, è scoppiata una lite: e non c’era nessuno che potesse separarli". "E uno colpì l’altro e lo uccise". Se si fosse allontanato dal fratello, non sarebbe stato ucciso. Così il giusto che usa la ragione, deve uccidere, mortificandolo, l’appetito carnale. E su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Davide, chiamato uno dei suoi servi, gli disse: Avanza e gettati su di lui ( l’amalecita ). E il servo lo colpì e quello morì. Davide poi [ rivolto al morto ] disse: Il tuo sangue ricada sul tuo capo: la tua bocca infatti ha parlato contro di te, dicendo: Ho ucciso l’unto del Signore" ( 2 Sam 1,15-16 ). Davide è figura del giusto, i servi del giusto sono i retti sentimenti della ragione, con il cui accordo deve uccidere l’appetito carnale, che poco prima avevano ucciso l’unto del Signore, cioè l’anima consacrata dal sangue di Gesù Cristo. "Ed ecco che tutta la parentela è insorta contro di me". La parentela, crudele e perversa, simboleggia i moti istintivi i quali, per mezzo della parentela del sangue, sono legati alla sensualità della carne. Questi, vedendo il loro congiunto, l’appetito carnale della ragione, mortificato con una giusta severità, si rivoltano ogni giorno tutti insieme, bramosi di vendicare l’ingiuria fatta al congiunto e spegnere la scintilla della ragione. Infatti la donna di Tekoa grida al re: "Salvami, o re, perché cercano di spegnere la scintilla che mi è rimasta". E osserva che la scintilla è sottile, agile e veloce a provocare l’incendio. La scintilla raffigura la ragione, che è sottile nel discernimento, agile e veloce nel prevenire le tentazioni del diavolo, atta ad infiammare l’anima dell’amore di Dio. I moti istintivi, parentela stolta ed insipiente, tentano di spegnere questa scintilla con l’acqua della concupiscenza carnale. E dice giustamente "che mi è rimasta", perché, anche dopo aver praticato tutti i vizi, sempre viene lasciata all’anima peccatrice una certa scintilla di ragione, che la tormenti con il rimorso e la rimproveri aspramente dei suoi peccati. 13. Parliamo dunque di questa donna: "Quale donna, che ha dieci dramme", ecc. La Glossa ricorda che la dramma è una moneta di un certo valore, che porta impressa l’immagine del re. La dramma è la quarta parte dello statere [ moneta ebraica ]; invece il dramma ( lat. drama ) è un genere poetico, del quale dice la Liturgia: "Soavi sono i canti del dramma" ( Comune delle feste della Madonna ). Altro senso: la dramma è l’ottava parte dell’oncia. L’oncia è così chiamata perché la sua unità ( lat. uncia, unitas ) abbraccia tutte le altre monete. L’oncia vale otto dramme, ossia ventiquattro scrupoli. Così si ottiene il peso giusto, perché il numero degli scrupoli dell’oncia corrisponde a quello delle ore del giorno e della notte. Lo scrupolo pesava sei sìlique, vale a dire sei grani di carruba. La sìliqua vale quattro grani d’orzo: come a dire che ogni grano di sìliqua vale quattro grani d’orzo. L’oncia è figura di Cristo, il quale essendo uno con il Padre e lo Spirito Santo, abbraccia nella sua unità l’universo creato. Tutti gli esseri creati sono come il centro, in mezzo alla sfera, mentre lui è come il cerchio che tutto circonda e abbraccia. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Io sola feci tutto il giro del cielo" ( Sir 24,8 ). La dramma, ottava parte dell’oncia, è figura della beata Vergine Maria, la quale nell’anima e nel corpo possiede già la beatitudine di tutti i santi, e anche di gran lunga maggiore, che essi avranno nel giorno ottavo della risurrezione. I ventiquattro scrupoli raffigurano i dodici apostoli, dei quali il Signore ha detto: "Non sono forse dodici le ore del giorno?" ( Gv 11,9 ). Il giorno è Cristo, le dodici ore sono i dodici apostoli i quali, a motivo della loro santità e dell’infusione dello Spirito Santo, vengono indicati con il numero raddoppiato. Essi, come gli scrupoli, che sono i soldini del poverello, furono disprezzati in questo mondo, e ora non cessano mai di custodire e proteggere giorno e notte, come a dire per ventiquattro ore, la chiesa, che hanno fondato con il loro sangue. Le sei sìlique raffigurano tutti i martiri e i santi, confessori della fede, a motivo della perfezione delle loro opere buone; ma non li diciamo raffigurati dalle carrube per se stesse, bensì dal numero sei, che è numero perfetto. I quattro grani di orzo, cereale che è alimento degli animali, raffigurano tutti i fedeli della chiesa che, quasi come "animali", vengono nutriti con la dottrina dei quattro evangelisti. Osserva dunque la perfetta concatenazione: nell’oncia sono contenuti la dramma e gli scrupoli; negli scrupoli le silique, nelle silique i grani d’orzo. Così da Cristo discendono la beata Vergine Maria e gli apostoli, dagli apostoli i martiri e i confessori, da questi tutti i fedeli della chiesa. E dopo aver fatto questa piccola digressione, suggeritami dalla parola dramma, ritorniamo alla nostra materia, dalla quale del resto non ci siamo mai allontanati. 14. "Quale donna, se ha dieci dramme? …" Considera che nelle dieci dramme sono indicati i dieci precetti del decalogo, che la donna, cioè l’anima, ha ricevuto dal Signore, per osservarli: e se li avesse osservati, avrebbe conservato anche il possesso della dramma. Per questo il Signore, a quel giovane che gli domandava che cosa doveva fare per avere la vita eterna, rispose: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" ( Mt 19,17 ). L’osservanza dei comandamenti comporta l’ingresso alla vita. Ma poiché si è raffreddata la carità ed è aumentata la malizia ( cf. Mt 24,12 ), il Signore aggiunge: "E se perde una dramma". Perde la dramma colui che perde la carità, nella quale è impressa l’immagine del sommo Re, e senza la quale nessuno può giungere al "giorno ottavo", cioè all’eterna beatitudine. In che modo questa dramma si perda, è detto nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Ioab, figlio di Sarvia ( Zeruia ), uccise due capi dell’esercito d’Israele: Abner, figlio di Ner, e Amasa, figlio di Geter. Uccise Abner così: "Ioab lo condusse al centro della porta, fingendo di volergli parpare; invece lo colpì a tradimento nell’inguine, e Abner morì. Quando Davide seppe tale fatto, protestò e imprecò: Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffre di gonorrea, chi sia coperto di lebbra, chi maneggi il fuso, chi perisca di spada e chi sia senza pane" ( 2 Sam 3,27-29 ). E uccise anche Amasa in questo modo: "Ioab indossava una stretta tunica, confezionata su misura per lui, e sopra di questa portava la spada che gli pendeva dal fianco, infilata nel fodero. Questo era costruito ad arte, perché la spada potesse venir estratta con un minimo movimento e colpire. Disse dunque Ioab ad Amasa: Salve, fratello mio!, e allungò la mano destra al volto di Amasa, come per baciarlo. Amasa non si era accorto della spada che Ioab aveva nella mano sinistra. Questi lo colpì al fianco, e non ci fu bisogno di un secondo colpo" ( 2 Sam 20,8-9 ). Osserva che in questi due capi, Abner e Amasa, sono simboleggiati i due comandamenti della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. In Abner, che s’interpreta "lampada del padre", è indicato l’amore di Dio, dal quale siamo illuminati mentre dimoriamo quaggiù nelle tenebre. In Amasa, che s’interpreta "soccorre il popolo", è indicato l’amore del prossimo, che lo soccorre nelle sue necessità. Ioab, che s’interpreta "nemico", cioè il diavolo, nostro nemico, allo stesso modo uccide in noi questo duplice amore; nel primo modo l’amore di Dio, nel secondo l’amore del prossimo. "Ioab condusse Abner al centro della porta", ecc. Fa’ attenzione alle tre parole: al centro della porta, a tradimento, e nell’inguine. Il diavolo, per uccidere in noi l’amore di Dio, ci conduce prima di tutto al centro della porta. La porta è l’ingresso e l’uscita della nostra vita, il cui centro è la vanità del mondo. Il diavolo dunque non conduce alla porta, ma al centro della porta, perché acceca il peccatore affinché non consideri la sua miserevole entrata e uscita dalla vita, ma rivolga la sua attenzione piuttosto alla fallace vanità del mondo, nella quale, mentre essa gli parla ingannandolo, promettendogli i beni temporali, lo colpisce nell’inguine, cioè con il piacere della carne, e così l’anima muore e l’amore di Dio viene distrutto. Parimenti Ioab uccise Amasa così: "Ioab era vestito di una tunica stretta", ecc. La tunica stretta del diavolo sono tutti i malvagi, dei quali egli si riveste e li stringe a sé sulla sua misura, perché fa di tutto per portare la loro cattiveria, la loro malizia al livello della sua. La spada nel fodero raffigura la suggestione del diavolo nella mente dei malvagi. E poiché il diavolo per mezzo degli adulatori e dei detrattori è solito distruggere l’amore verso il prossimo, il testo biblico continua: "Disse Ioab ad Amasa: Salve, fratello mio!, e allungò la mano destra", ecc. La Glossa commenta: Allungare la destra verso il mento di una persona è come fare una affettuosa carezza; ma intanto porta la sinistra alla spada colui che, spinto dalla malvagità, colpisce di nascosto. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Il nemico ha il dolce sulle labbra, ma nel suo cuore trama insidie, per sprofondarti nella fossa" ( Sir 12,15 ). Precipitare nella fossa significa perdere la dramma della carità e, in conseguenza della sua perdita, viene fatta quell’imprecazione: "Nella casa di Ioab non manchi mai chi soffre di gonorrea", ecc. Considera i cinque castighi minacciati a Ioab: gonorrea, lebbra, chi maneggia il fuso, chi perisce di spada, chi manca di pane. La casa del diavolo è formata da tutti i malvagi, che non hanno né l’amore di Dio né quello del prossimo: essi sono sempre colpiti da gonorrea, cioè sono sempre pieni di concupiscenza e di lussuria; diventano lebbrosi, perché si macchiano di vari peccati; maneggiano il fuso, cioè seguono l’instabilità delle cose temporali; ed infine precipitano nella geenna, percossi dalla spada della vendetta divina, eternamente tormentati dalla fame e dalla sete. Ecco in che modo si perde la dramma della carità. Vediamo però anche in che modo la si ritrova. 15. "Non accende forse la lucerna?", ecc. Considera che nella lucerna ci sono quattro componenti: il vaso di creta, lo stoppino ruvido, l’olio morbido, la fiamma che illumina. Nel vaso di creta è indicato il ricordo della propria fragilità, nello stoppino l’austera penitenza, nell’olio la pietà verso il prossimo e nella fiamma l’amore di Dio. Fortunata quell’anima che si prepara tale lampada per ritrovare la dramma perduta. Alla luce di essa ognuno deve esplorare tutti gli angoli della sua coscienza e cercare diligentemente la dramma perduta della carità, finché la ritrovi. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: "Il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" ( 1 Pt 5,10 ). Dio Padre, dal quale discende ogni grazia operante, cooperante ed efficace, per mezzo di Gesù Cristo, Figlio suo, che con il vaso di creta della nostra umanità e la fiamma della sua divinità cercò diligentemente e trovò noi, la dramma perduta, e quindi ci chiamò alla gloria eterna nella quale, dopo che noi avremo sofferto brevemente in questo mondo, ci stabilirà con la duplice glorificazione dell’anima e del corpo, Dio Padre – dicevamo – ci confermerà con la sua eterna visione e ci renderà saldi e forti nella beata società della chiesa trionfante. Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore Gesù Cristo che, sull’esempio della donna santa, cioè dell’anima penitente, ci conceda di preparare la lucerna, vale a dire di tener vivo il ricordo della nostra fragilità, con la stoppa della penitenza. Ci conceda di accendere l’olio della misericordia con la fiamma dell’amore divino, e di esplorare con essa ogni angolo della nostra coscienza e di cercare con ogni diligenza la dramma della duplice carità, che da tanto tempo abbiamo perduto. E dopo averla trovata meritiamo di giungere fino a lui, che è carità perfetta ( cf. 1 Gv 4,8.16 ). Ce lo conceda egli stesso, al quale è onore e gloria, splendore e dominio per i secoli eterni. Ed ogni creatura risponda: Amen. Alleluia! Domenica IV dopo Pentecoste Temi del sermone - Vangelo della IV domenica dopo Pentecoste: "Siate misericordiosi"; vangelo che si divide in quattro parti. - Anzitutto sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa: "Davide che siede in cattedra". - Parte I: Sermone sulla triplice misericordia di Dio e dell'uomo: "Siate misericordiosi". Natura delle gru e il loro simbolismo. - Sermone contro coloro che fanno giudizi temerari su cose che sono nascoste: "Uzza protese la mano verso l'Arca". - Sermone contro coloro che godono della caduta o della morte del nemico: "Davide salì alla stanza superiore e pianse". - Sermone per educare alla pazienza: "Simei maledisse il re". - Parte II: Sermone sulla triplice misura e relativo significato: "Una misura buona, pigiata e traboccante". - Sermone contro coloro che si gloriano della bellezza, che si confessano una volta all'anno e non fanno mai la penitenza imposta dal confessore: "Non c'era uomo bello come Assalonne". - Sermone sulle quattro prerogative del corpo: "Una misura buona, pigiata e traboccante". - Parte III: Sermone contro i prelati ciechi della chiesa: "Bestie tutte della campagna". Natura dell'orso e suo significato morale. - Sermone sulla natività del Signore: "Ruben uscì al tempo della mietitura". - Sermone sulla passione del Signore: "Il re Davide attraversò il torrente Cedron". - Parte IV: Sermone contro coloro che sono immondi e pretendono di eliminare l'immondezza degli altri: "Tu che vedi la pagliuzza". - Sermone sugli occhi: loro descrizione e significato. Esordio - Sermone sul predicatore o sul prelato della Chiesa 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro" ( Lc 6,36 ). Leggiamo nel secondo libro dei Re: "Davide, che siede in cattedra, principe sapientissimo fra i tre; egli è come il delicatissimo tarlo del legno; in un solo assalto uccise ottocento uomini" ( 2 Sam 23,8 ). Davide è figura del predicatore, che deve sedere in cattedra, ecc. Fa’ attenzione alle varie parole. Nella "cattedra" è indicata l’umiltà della mente; in "sapientissimo" lo splendore; in "principe", la costanza; nei "tre" la vita, la scienza e l’eloquenza; nel "legno" l’ostinata malizia dei perversi; in "delicatissimo" la misericordia e la pazienza; nel "tarlo" la severa disciplina. Ecco dunque che il predicatore deve sedere sulla cattedra dell’umiltà, ammaestrato dall’esempio di Gesù Cristo, il quale umiliò la gloria della divinità nella cattedra della nostra umanità; dev’essere sapientissimo nella sapienza dell’amore, che sola conosce e gusta quanto è soave il Signore ( cf. Sal 34,9 ); dev’essere principe per la fermezza dello spirito, in modo da non temere l’incontro di alcuno, come il leone che è la più forte delle fiere; fra i tre, cioè nella vita, nella scienza e nell’eloquenza. Deve anche essere delicatissimo tarlo del legno: tarlo, per forare e corrodere il legno, vale a dire gli induriti nel male e gli sterili di opere buone; delicatissimo, cioè paziente e misericordioso con gli umili e i pentiti. Oppure: come nulla è più resistente del verme quando attacca il legno, e nulla è più molle quando viene toccato, così il predicatore, quando presenta la parola del Signore deve penetrare con forza nel cuore degli uditori; se invece egli stesso viene fatto oggetto di ingiurie, deve mostrarsi ed essere dolce e affabile. È detto di Davide che "in un solo assalto ne uccise ottocento". Dice "in un solo assalto" a motivo di certi che, dopo aver sconfitto la superbia, assecondano l’ingordigia. Nel numero "ottocento" sono compresi tutti i vizi del corpo e dello spirito. E il predicatore deve eliminarli tutti da se stesso, per poter compiere le opere buone prima nei propri riguardi e quindi nei riguardi degli altri. Appunto a questo proposito il vangelo di oggi dice: "Siate misericordiosi …". 2. In questo vangelo sono posti in evidenza quattro punti. Primo, la misericordia di Dio: "Siate misericordiosi …"; secondo, la misura della gloria eterna: "Una misura buona …"; terzo, la caduta dei ciechi nel fosso: "Disse loro anche una parabola: Può forse un cieco guidare un altro cieco?"; quarto, la pagliuzza del peccato nell’occhio del fratello: "Come puoi vedere la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello?". Troveremo in alcuni racconti del secondo libro dei Re delle concordanze con queste quattro parti del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta: "Il Signore è la mia luce" ( Sal 27,1 ). Si legge quindi un brano dell’epistola del beato Paolo ai Romani: "Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura", ecc. ( Rm 8,18 ). Divideremo il brano in quattro parti e ne vedremo la corrispondenza con le quattro parti del vangelo. Parte prima: "Io ritengo"; parte seconda: "L’attesa della creazione"; parte terza: "Sappiamo che tutta la creazione"; parte quarta: "Non solo la creazione". I. La misericordia di Dio 3. "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato" ( Lc 6,36-38 ). Osserva che in questa prima parte del vangelo sono evidenziati cinque comandi molto importanti: aver misericordia, non giudicare, non condannare, perdonare e dare. Vogliamo trovarne la concordanza con cinque racconti del secondo libro dei Re. Primo comando. È detto misericordioso chi soffre partecipando alla miseria degli altri. Questa compassione è chiamata misericordia, perché rende il "cuore misero" ( lat. misericordia, miserum cor ), soffrendo per l’altrui miseria. In Dio invece la misericordia è senza la miseria del cuore. Infatti la misericordia di Dio è detta miserazione, in lat. miseratio, come volesse dire "azione di misericordia" ( lat. misericordiæ actio ). In questo senso dunque il Signore dice: "Siate misericordiosi". E osserva che, come è triplice la misericordia del Padre celeste nei tuoi riguardi, così triplice dev’essere la tua misericordia nei riguardi del prossimo. La misericordia del Padre è graziosa, spaziosa, preziosa. Graziosa, perché con la grazia purifica l’anima dai vizi. Dice l’Ecclesiastico: "Piena di grazia è la misericordia di Dio nel tempo della tribolazione, come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità" ( Sir 35,24 ). Nel tempo della tribolazione, cioè quando è tormentata a motivo dei suoi peccati, l’anima viene irrorata dalla pioggia della grazia che la ristora e lava e cancella i peccati. Spaziosa, perché col tempo si allarga e si espande nelle opere buone. Dice infatti il salmo: "La tua misericordia è davanti ai miei occhi e mi compiaccio nella tua verità" ( Sal 26,3 ), perché mi è venuta in odio la mia iniquità. Preziosa, nelle delizie dell’eterna vita, della quale dice Anna nel libro di Tobia: "Chiunque ti onora ha la certezza che se la sua vita è stata messa alla prova, sarà coronato; se è passato attraverso le tribolazioni, sarà liberato; se è stato oppresso e perseguitato, gli sarà concesso di entrare nella tua misericordia" ( Tb 3,2 ). Su questo argomento, vedi anche il sermone della domenica XV dopo Pentecoste. parte II, dove è spiegato il vangelo: "Nessuno può servire a due padroni" ( Mt 6,24 ). Riferendosi alle tre prerogative della misericordia del Padre, il profeta Isaia dice: "Io mi ricorderò delle misericordie del Signore, e loderò il Signore per tutte le cose che ha fatto per noi e per la moltitudine dei benefici da lui fatti alla casa d’Israele, secondo la sua benignità e secondo la moltitudine dei suoi atti di misericordia" ( Is 63,7 ). E anche la tua misericordia verso il prossimo dev’essere triplice: devi perdonarlo se ha peccato contro di te; devi istruirlo, se ha deviato dalla via della verità; devi ristorarlo, se è affamato. Nel primo caso, dice Salomone: "Per mezzo della fede e della misericordia si espiano i peccati" ( Pr 15,27 ). Nel secondo caso, dice Giacomo: "Chi farà convertire un peccatore dalla sua vita di peccato, ne salverà l’anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati" ( Gc 5,20 ). Nel terzo caso, infine, dice il salmo: "Beato chi ha cura dell’indigente e del povero" ( Sal 41,2 ). Giustamente quindi è detto: "Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro". 4. Concorda con questo ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide disse a Merib-Baal: "Non temere, perché voglio trattarti con misericordia per amore di Gionata, tuo padre: ti restituirò tutti i campi di Saul, tuo avo, e tu mangerai sempre il pane alla mia mensa" ( 2 Sam 9,7 ). In questo passo è indicata la triplice misericordia che si deve avere con il prossimo. Primo, quando dice: "per amore di Gionata", vale a dire: per amore di Gesù Cristo, il quale disse: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" ( Lc 23,34 ). Con colui che pecca contro di te devi usare misericordia con il cuore e con la bocca, per perdonargli sia con le parole che con i fatti. Secondo, quando aggiunge: "Ti restituirò tutti i campi di Saul, tuo avo". Campo si dice in lat. ager, da àgere, fare, lavorare, perché in esso si fa qualcosa, si lavora, e simboleggia la grazia infusa con l’unzione nel battesimo: il battezzato la riceve per esercitarla poi nelle opere buone. Ma quando Saul, cioè l’anima unta con l’olio della fede, muore per il peccato, allora perde la grazia: e tu gliela restituisci, quando converti il battezzato dalla sua vita di peccato. Terzo, quando conclude: "E tu mangerai sempre il pane alla mia mensa". Dice infatti Salomone: "Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere" ( cf. Pr 25,21; Rm 12,20 ). Giustamente quindi è detto: "Siate misericordiosi". Siamo dunque misericordiosi, imitando le gru, delle quali si dice che, quando vogliono arrivare ad un dato luogo, volano altissime, come per meglio individuare da un punto più alto di esservazione il territorio da raggiungere. Quella che conosce il percorso precede lo stormo, ne scuote la fiacchezza del volo, lo incita con la voce; e se la prima perde la voce o diventa rauca, subito ne subentra un’altra. Tutte si prendono cura di quelle stanche, in modo che se qualcuna viene meno, tutte si uniscono, sostengono quelle stanche finché con il riposo ricuperano le forze. E anche quando sono in terra, la loro cura non diminuisce: si ripartiscono i turni di guardia, in modo che una ogni dieci sia sempre sveglia. Quelle sveglie stringono tra le zampe dei piccoli pesi che, quando eventualmente cadono a terra, le avvertono che stanno per addormentarsi. Uno strido dà l’allarme se c’è un pericolo da evitare. Le gru fuggono di fronte ai pipistrelli. Siamo dunque misericordiosi come le gru: posti in un più alto osservatorio della vita, preoccupiamoci per noi e per gli altri; facciamo da guida a chi non conosce la strada; con la voce della predicazione stimoliamo i pigri e gli indolenti; diamo il cambio nella fatica, perché senza alternare il riposo alla fatica, non si resiste a lungo; carichiamoci sulle spalle i deboli e gli infermi perché non vengano meno lungo la via; siamo vigilanti nell’orazione e nella contemplazione del Signore; teniamo strettamente tra le dita la povertà del Signore, la sua umiltà e l’amarezza della sua passione; e se qualcosa di immondo tentasse di insinuarsi in noi, subito gridiamo aiuto, e soprattutto fuggiamo i pipistrelli, vale a dire la cieca vanità del mondo. 5. Secondo comando: "Non giudicate e non sarete giudicati". Dice la Glossa: Dei mali evidenti, che certamente non possono essere fatti con retta intenzione, ci è permesso dare un giudizio. Ma ci sono delle cose intermedie, delle quali non si sa con quale intenzione vengano fatte: possono essere bene e male. E neppure sappiamo che cosa potrà diventare colui che oggi ci sembra cattivo: sarebbe temerario disperare della sua conversione e considerarlo rigettato da Dio. "Non giudicate, dunque, e non sarete giudicati". Abbiamo in proposito una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Uzza protese la mano verso l’arca di Dio e la tenne ferma perché i buoi scalciavano e l’avevano fatta piegare. Il Signore si adirò grandemente contro Uzza e lo colpì per la sua temerarietà: Uzza cadde morto vicino all’arca del Signore" ( 2 Sam 6,6-7 ). L’arca è figura dell’anima e i buoi raffigurano i sensi del corpo. Uzza, nome che s’interpreta "robusto", è figura di colui che è convinto di essere virtuoso e diffama gli altri. Quando dunque i buoi scalciano, quando cioè i sensi del corpo tormentano e si ribellano, l’anima si piega talvolta e acconsente a qualche colpa: se uno presume temerariamente di colpirla con la mano della diffamazione, sappia che incorrerà nel giudizio del Signore, il quale ha detto: "Non giudicate e non sarete giudicati". Dice il Filosofo: Vedi se anche tu sei cattivo, e perdona a quelli che sono come te. 6. Terzo comando: "Non condannate e non sarete condannati". Su questo concorda il secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide non volle condannare Assalonne, il quale invece voleva condannare lui ( Davide ); anzi "ordinò a Ioab, Abisai e Etai: Risparmiatemi il giovane Assalonne" ( 2 Sam 18,5 ). E dopo l’esecuzione di quel figlio, Davide "salì nella sua stanza singhiozzando e, con la disperazione nel cuore, diceva: Figlio mio, Assalonne; Assalonne, figlio mio. Chi mi concederà di morire al tuo posto, Assalonne, figlio mio, figlio mio, Assalonne!" ( 2 Sam 18,30 ). Non si deve quindi godere della morte del nemico, ma addolorarsi e piangere. Anche Cristo salì nella sua stanza, cioè sulla croce, e lì pianse su Adamo e su tutti i suoi discendenti, uccisi da Ioab, vale a dire dal diavolo, con tre lance, cioè con la gola, con la vanagloria e con l’avarizia. E anche Cristo pianse dicendo: Figlio mio, Adamo, chi mi concederà di morire per te? Cioè: che la mia morte ti sia di giovamento? Come dicesse: Nessuno volle concedermi di morire per lui. Cristo reputa un grande dono il fatto che il peccatore gli conceda che la propria morte gli sia di giovamento. 7. Quarto comando: "Perdonate e vi sarà perdonato". Anche su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Simei maledisse Davide, dicendo: "Vattene, vattene, sanguinario, scellerato! Il Signore ha fatto ricadere sul tuo capo tutto il sangue della casa di Saul, perché hai usurpato il suo regno; e ora il Signore ha messo il regno nelle mani di Assalonne, tuo figlio. Ed ecco che sei oppresso dalle sventure, perché sei un sanguinario. Allora Abisai, figlio di Sarvia, disse al re: Perché questo cane morto maledice il re, mio signore? Andrò io a troncargli la testa. Ma il re disse: Che cosa avete in comune con me voi, figli di Sarvia? Lasciatelo pure che lanci maledizioni. È il Signore che gli ha comandato di maledire Davide; chi oserà domandargli: perché fai così? Quindi il re, rivolto ad Abisai e a tutti i suoi ministri, disse: Ecco, se il mio figlio, il figlio uscito dalle mie viscere, cerca di togliermi la vita: quanto più lo cerca ora il figlio di Iemini ( cioè della tribù di Beniamino )! Lasciate che maledica, come gli ha comandato il Signore: forse il Signore guarderà alla mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi. Davide e quelli che erano con lui continuarono il cammino tutti insieme, mentre Simei camminava sul pendio del monte tenendosi all’altezza del re, continuando a lanciargli maledizioni e a scagliargli contro sassi e terra" ( 2 Sam 16,7-13 ). Commenta Gregorio: Chi non può o non si sente capace di conservare la pazienza quando è fatto oggetto di parole ingiuriose, richiami alla mente questo episodio di Davide, il quale, mentre Simei si ostinava con le villanie e i capi armati si contendevano l’onore di vendicarlo, disse: Che cosa avete in comune con me voi, figli di Sarvia?, ecc. E un po’ più avanti: Lasciatelo che maledica, come gli ha ordinato il Signore, ecc. Con queste parole fa capire che, mentre fuggiva dal figlio che era insorto contro di lui, Davide aveva richiamato alla mente il peccato che aveva commesso con Betsabea: pensò quindi che le parole ingiuriose non erano tanto insulti, quanto piuttosto rimedi, con i quali avrebbe potuto purificarsi e ottenere misericordia per se stesso. Anche noi infatti sopporteremo volentieri le ingiurie che ci vengono fatte, se nel segreto della mente riandiamo ai peccati commessi. Certamente ci sembrerà leggera l’offesa che ci colpisce, se guardiamo al castigo molto più severo che avremmo meritato. Di conseguenza di fronte alle ingiurie si deve piuttosto ringraziare che adirarsi: per mezzo di esse, al giudizio di Dio, viene evitata una pena più grave. 8. Quinto comando: "Date e vi sarà dato". Anche su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Sobi, figlio di Nacas, Machir, figlio di Ammiel, e Barzillai, il galaadita, portarono a Davide letti e tappeti, vasi di terracotta, frumento e orzo, farina, grano arrostito, fave e lenticchie, ceci tostati, miele, burro, pecore e vitelli ingrassati" ( 2 Sam 17,27-29 ). Questo è il "date". Sentiamo ora il "vi sarà dato". "Il re Davide disse a Barzillai: Vieni, ti riposerai e starai tranquillo con me a Gerusalemme" ( 2 Sam 19,33 ). Vediamo il significato morale di tutto questo. Machir s’interpreta "che vende", Ammiel "popolo di Dio", Barzillai "mia forza", Galaad "cumulo di testimonianze". I tre personaggi rappresentano tutti i penitenti che vendono i loro beni e ne distribuiscono il ricavato ai poveri, i quali sono il popolo di Dio, che il Signore si è scelto come erede ( cf. Sal 33,12 ); i poveri che, con la forza delle opere buone sbaragliano le tentazioni dell’antico avversario; i poveri, nei quali sono accumulate tutte le testimonianze ( prove ) della passione del Signore. Questi tre danno a Cristo i letti, sui quali si dorme, cioè la tranquillità di una coscienza pura, nella quale Cristo stesso riposa insieme con l’anima; danno tappeti di vari colori, cioè la varietà delle virtù; danno vasi di terracotta, cioè se stessi, quando si umiliano e si riconoscono fragili e impastati di fango; danno il frumento, cioè la dottrina del vangelo, e l’orzo, cioè gli insegnamenti dell’Antico Testamento; e la farina, che è la confessione, fatta con la precisazione di tutte le circostanze dei peccati; danno il grano arrostito della pazienza, le fave dell’astinenza, le lenticchie della propria pochezza; danno i ceci tostati della compassione verso il prossimo, il miele e il burro della vita attiva e di quella contemplativa; danno infine le pecore dell’innocenza e i vitelli ingrassati della macerazione del corpo troppo nutrito. Se tu darai queste cose, anche a te sarà dato, e sentirai il vero Davide che ti dirà: "Vieni, riposati tranquillo con me nella Gerusalemme" celeste. Considera ancora queste quattro parole: vieni, riposati, tranquillo con me, in Gerusalemme. A queste quattro parole corrispondono le altre quattro che vengono cantate nell’introito della messa di oggi: "Il Signore è mia luce e mia salvezza … Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò paura? I miei nemici che mi tormentano, sono essi a inciampare e cadere" ( Sal 27,1-3 ). "Il Signore è mia luce" corrisponde alla parola "vieni": non potrebbe camminare diritto verso il Signore, chi prima non venisse illuminato. "Mia salvezza" corrisponde a "riposerai": dove c’è salvezza c’è anche riposo. "Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?" corrisponde a "tranquillo con me": chi è difeso dal Signore, senza dubbio se ne sta tranquillo. "I miei nemici che mi tormentano, sono essi a inciampare e cadere" corrisponde a "in Gerusalemme": quando saremo nella Gerusalemme celeste non avremo più paura dei nemici che adesso ci tormentano: essi infatti sprofonderanno nella geenna, mentre noi saremo nella gloria. Ecco quindi che con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Ritengo infatti che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi" ( Rm 8,18 ). Appunto perché le sofferenze sono temporanee, leggere e transitorie, non sono paragonabili; la sofferenza passa, la gloria invece durerà nei secoli dei secoli. E allora, per poter giungere a quella gloria, preghiamo il Signore Gesù Cristo, che è padre misericordioso, perché infonda in noi la sua misericordia, affinché anche noi la usiamo verso noi stessi e verso gli altri, non giudicando mai nessuno, non condannando mai nessuno, perdonando sempre a chi ci offende e dando sempre noi stessi e le nostre cose a chi ce le domanda. Si degni di concederci tutto questo lo stesso Signore, che è benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen. II. La misura della gloria eterna 9. "Una misura giusta, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata in grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato anche a voi" ( Lc 6,38 ). Considera che ci sono tre misure: la misura della fede, la misura della penitenza e la misura della gloria. La misura della fede è giusta nel ricevere i sacramenti; è pigiata, cioè piena, nel compimento delle opere buone; è scossa nelle tribolazioni o nel sostenere il martirio per il nome di Cristo; ed è traboccante con la perseveranza finale. Di questa misura dice l’Apostolo: "Ciascuno secondo la misura della fede che Dio gli ha dato" ( Rm 12,3 ). La misura della penitenza è giusta nella contrizione, nella quale si conosce la bontà di Dio; è pigiata nella confessione, che dev’essere piena e completa; scossa nella soddisfazione, cioè nel compimento dell’opera penitenziale; traboccante nel perdono di ogni colpa e nella riconquistata purezza della coscienza. Di questa misura dice il libro della Sapienza: "Tutto hai disposto con misura, numero e peso" ( Sap 11,21 ). "Tutto", cioè tutta la salvezza dell’anima, per la quale si deve fare tutto ciò che si fa, e alla quale deve essere ordinato tutto ciò che l’uomo fa. "Hai disposto", tu, Signore Dio, la misura della penitenza la quale, per essere vera, deve avere "numero e peso": il numero riguarda la confessione, nella quale devono essere numerati con precisione tutti i peccati e le loro circostanze; il peso riguarda la soddisfazione, cioè l’opera penitenziale imposta dal confessore, che deve corrispondere alla gravità della colpa commessa. Questo è "il peso del santuario", non "il peso comune". 10. Abbiamo su questo un riferimento nel secondo libro dei Re: "Ora in tutto Israele non vi era uomo che fosse bello come Assalonne, e come lui elegante: dalla pianta dei piedi alla sommità del capo non vi era in lui alcun difetto. E quando si tagliava i capelli" gli crescevano ancora più folti. "E se li tagliava una volta all’anno perché gli pesavano troppo; e pesava i capelli della sua testa, e il peso era di duecento sicli, a peso ufficiale" ( 2 Sam 14,25-26 ). La bellezza di Assalonne, che parte dalla pianta dei piedi e arriva fino alla sommità del capo, simboleggia quella bellezza che proviene dalle cose terrene; si pensa che in essa non ci sia alcun difetto finché la sua floridezza non viene compromessa da alcun malanno. Invece la bellezza che scende dalla sommità del capo simboleggia quella bellezza che proviene dalla conoscenza delle cose celesti, come troviamo nel vangelo, dove il Signore dice: Perché "salgono" questi pensieri nel vostro cuore? ( cf. Lc 24,38 ). Infatti i pensieri che salgono nel cuore provengono dalle cose terrene, quelli invece che scendono provengono dalle cose celesti. "Si tosava una volta all’anno". Il taglio dei capelli troppo lunghi raffigura l’accusa dei peccati nella confessione, che molti fanno una sola volta all’anno, quando invece sarebbe necessario confessarsi anche ogni giorno. Essendo l’uomo fragile per natura e incline al peccato, e macchiandosi di peccati ogni giorno, e avendo poi una memoria così debole, che a mala pena si ricorda alla sera di ciò che ha fatto al mattino dello stesso giorno, perché – sventurato! – rimanda la confessione di un anno? Anzi, perché la rimanda anche di un sol giorno, se non sa che cosa porterà il giorno seguente? Oggi sei, domani forse non sarai. Vivi dunque oggi, come se oggi tu dovessi morire. Niente infatti è più certo della morte, niente più incerto dell’ora della morte. Tu dunque, che ogni giorno bevi il veleno del peccato, ogni giorno devi anche prendere il contravveleno della confessione. Dice il Filosofo: Non vive, colui che ha nella mente la sola preoccupazione di vivere. "Pesava i capelli della sua testa: il loro peso era di duecento sicli, a peso ufficiale". Il peccatore invece sovrebbe stimare il peso dei suoi peccati trecento sicli, cioè reputarli meritevoli di triplice castigo; deve pesarli con una perfetta contrizione, con una perfetta confessione e con una perfetta opera penitenziale; e invece ne stima il peso a duecento sicli, perché sono molti coloro che, veramente contriti, fanno una perfetta confessione, ma poi vengono meno nel "terzo siclo" ( terzo centinaio ), quello della soddisfazione: non fanno cioè una penitenza proporzionata alla colpa. E non pesano i loro peccati con il "peso del santuario", cioè non li ritengono gravi nella misura in cui li ritengono tali Dio e i santi, ma li pesano con il peso comune, cioè li sottovàlutano seguendo il giudizio della gente. E che questo non basti, lo afferma Giovanni Battista: "Razza di vipere", cioè velenosi, figli di velenosi, "chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira che vi sovrasta?" ( Lc 3,7 ). Come dicesse: Non avete imparato bene a fuggire, perché non si sfugge all’ira quando avete trascurato la soddisfazione, la riparazione dovuta per il peccato. E quindi continua: "Fate frutti degni di penitenza" ( Lc 3,8 ). E fa’ attenzione che dice "frutti". Ci sono tre cose nella pianta: il germoglio, il fiore e il frutto. Il germoglio è la contrizione, il fiore è la confessione, il frutto è la soddisfazione: e chi non ha quest’ultima, non ha neppure la penitenza perfetta. 11. La misura della gloria. Dice il vangelo di oggi: "Una misura giusta, pigiata, scossa e traboccante". In queste quattro parole dobbiamo vedere le quattro doti del corpo ( glorificato ), che sono l’agilità, la sottigliezza, la luminosità e l’impassibilità; perché, come è detto, il corpi saranno più luminosi del sole, più agili del vento, più sottili delle scintille, non più passibili di alcun danno. Sta scritto infatti: Il Signore assunse la luminosità sul monte Tabor ( cf. Mt 17,2 ), l’agilità quando "camminò sulle acque" ( cf. Mt 14,25 ), la sottigliezza quando "se ne andò via passando in mezzo a loro" ( Lc 4,30 ), l’impassibilità quando fu assunto come cibo ( cf. Lc 22,19 ) dai discepoli sotto la specie del pane, senza averne alcuna sofferenza. Parimenti: "I giusti splenderanno come il sole", ecco la luminosità; "e come scintille", ecco la sottigliezza; "guizzeranno qua e là", ecco l’agilità; e i loro nomi vivranno in eterno, ecco l’impassibilità, perché non potranno né morire, né venir meno ( Sap 3,7; cf. Sir 44,14 ). Oppure: "una misura giusta", la gioia senza alcuna sofferenza; "pigiata", la pienezza di tutto senza alcun vuoto; "scossa", vale a dire la stabilità e la saldezza senza alcuna disgregazione, perché ciò che viene scosso e agitato diventa compatto e stabile; "traboccante", cioè amore senza alcuna finzione ( cf. Rm 12,9 ): ognuno infatti godrà del premio dell’altro, e così il suo amore traboccherà nell’altro. Questa misura la daranno i poveri, cioè saranno loro la causa per la quale Dio la darà: essi infatti hanno dato l’occasione di meritarla. "Vi sarà versata in grembo". Dice Giobbe: "Questa speranza è riposta nel mio seno" ( Gb 19,27 ). Il seno rappresenta una specie di rifugio ( in lat. sinus, porto ), ed è figura del riposo eterno, nel quale i santi, liberati dalla burrasca di questo mondo, saranno, per così dire, accolti nella tranquillità del porto. O anche: come il figlioletto piangente ritorna al seno della madre, che accarezzandolo gli asciuga le lacrime, così i santi dal pianto di questo mondo ritorneranno in seno alla gloria, nella quale Dio asciugherà le lacrime da ogni volto ( cf. Ap 7,17 ). "Con la stessa misura con cui avrete misurato, sarà misurato anche a voi". Dice in proposito Agostino: Il giusto misura le sue buone azioni in rapporto alla sua volontà, la quale perciò sarà pure misura della sua felicità. Allo stesso modo il malvagio misura le sue azioni cattive in rapporto alla propria volontà, che sarà quindi la misura della sua infelicità. Vengono perciò inflitti castighi eterni alle cattive azioni, quantunque non siano eterne, in modo che colui che avrebbe voluto provare un godimento eterno nella colpa, subisca un castigo eterno nel rigore della pena. 12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola di oggi: "La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Anche la creazione infatti è soggetta alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, pur lasciandole la speranza. La creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" ( Rm 8,19-21 ). Osserva che, in questo brano dell’epistola, per ben tre volte c’è la parola "creazione", e questo corrisponde alle tre suddette misure: della fede, della penitenza e della gloria. Creazione sta qui per "chiesa dei fedeli". Dice dunque: "La creazione", vale a dire tutta la chiesa, "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio". Cioè: coloro che per la fede sono figli di Dio nella chiesa, aspettano la gloria nella quale, quando si rivelerà, contempleranno Dio faccia a faccia, essi che ora lo contemplano come sotto un velo, in maniera confusa come in uno specchio ( cf. 1 Cor 13,12 ). Questa creazione è soggetta alla caducità, cioè alla volubilità e all’incostanza: infatti, come dice Salomone, il giusto cade sette volte ( cf. Pr 24,16 ): non per sua volontà tuttavia, perché il giusto non ha il peccato nella volontà, essendogli stato detto: "Va’ e non voler più peccare" ( Gv 8,11 ); egli sopporta questa caducità nella pazienza, per amor di Dio, che ve lo ha sottoposto, cioè che ha voluto, o permesso, che vi fosse sottoposto, e questo nella speranza della vita eterna. E aggiunge in proposito: "La creazione stessa ( la chiesa ) sarà liberata dalla schiavitù di questa corruzione, di questa volubilità e incostanza, che sarà trasformata nella libertà della gloria dei figli di Dio, nella quale riceverà la "misura giusta" nella piena maturità di Cristo ( cf. Ef 4,13 ); "pigiata" per la completa felicità delle anime; "scossa" per il conferimento della duplice stola ( veste ), e "traboccante" nella felicità di tutti, che durerà in eterno. Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di distribuirci i carismi dello Spirito Santo nella misura della fede; di riempirci della misura della penitenza, per saziarci poi con la misura della gloria nella visione del tuo volto. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. La caduta dei ciechi nella fossa 13. "Disse loro anche una parabola: Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in una fossa? Non c’è discepolo da più del maestro; ma ognuno sarà perfetto, se sarà come il suo maestro" ( Lc 6,39-40 ). Vedremo che cosa raffigurino allegoricamente i ciechi, la fossa, il discepolo e il maestro. Il cieco raffigura il prelato o il sacerdote, indegni o corrotti, privi della luce della vita e della scienza. Dei prelati ciechi della chiesa, dice Isaia: "Voi tutte, bestie della campagna, venite a mangiare, e anche voi tutte, bestie della foresta. I suoi [ di Israele, della chiesa ] sorveglianti sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare, visionari, sonnolenti e amanti dei sogni; sono cani avidissimi, non conoscono sazietà. Gli stessi pastori sono incapaci di comprendere: tutti vanno per la loro strada, ciascuno ai propri interessi, dal più elevato al più basso. Venite, beviamo vino e ubriachiamoci: come è oggi, così sarà anche domani, e molto di più" ( Is 56,9-12 ). Nelle bestie della campagna sono indicati i demoni; in quelle della foresta gli istinti della carne, i quali divorano la chiesa e l’anima fedele. E questo perché? Appunto perché i sorveglianti della chiesa sono tutti ciechi, privi della luce della vita e della scienza; cani muti, che hanno in bocca il "rospo" del diavolo, e perciò sono incapaci di latrare contro il lupo. Sono visionari, perché predicano per denaro, e credono di richiamare le anime al pentimento dicendo quasi per burla: "Pace, pace, e pace non c’è" ( Ger 6,14; Ez 13,10 ). Dormono nei peccati, amano i sogni, cioè le cose temporali che poi deludono amaramente coloro che le amano. Sono cani avidissimi, sfrontati come una prostituta, e non vogliono arrossire ( cf. Ger 3,3 ). Non conoscono sazietà; dicono sempre: Porta, porta!, e mai: Basta! ( cf. Pr 30,15 ). I pastori stessi pascono se stessi ( cf. Gd 12 ), sono privi di quella intelligenza della quale dice il Profeta: "Agirò con intelligenza nella via dell’innocenza" ( Sal 101,2 ). Tutti camminano per la loro strada, non sulla strada di Gesù Cristo, ciascuno pensando ai propri interessi. È quella strada buia e scivolosa ( cf. Sal 35,6 ) sulla quale tutti procedono, dal più elevato al più basso, dal porco padrone fino al porcellino più piccolo. Essi stessi si invitano: "Venite, beviamo vino", "il quale porta alla lussuria" ( Ef 5,18 ), "e diamoci all’ubriachezza", la quale toglie cuore e cervello ( cf. Os 4,11 ), "e tutto sarà come oggi". Ma, credete a me: domani non sarà come oggi. Leggiamo infatti nel primo libro dei Maccabei: "La gloria del peccatore è sterco e vermi. Oggi è esaltato e domani non si trova più, perché è ritornato alla polvere e i suoi progetti sono falliti" ( 1 Mac 2,62-63 ). "Domani risponderà per me la mia giustizia" ( la mia onestà ), dice Giacobbe nella Genesi ( Gen 30,33 ). Oggi, cani sfrontati, siete pieni di ubriachezza, ma domani, vale a dire nel giorno del giudizio, vi troverete di fronte alla morte eterna. Dice l’Apocalisse: "Quanto si innalzò e si circondò di piaceri, tanto dategli di tormenti" ( Ap 18,7 ). 14. Inoltre, questi ciechi ci danno la prova della loro malizia dicendo, sempre con le parole di Isaia: "Come ciechi abbiamo tastato la parete, e come privi di occhi vi ci attacchiamo; abbiamo inciampato a mezzogiorno come nelle tenebre; siamo come i morti nei luoghi oscuri: noi tutti ruggiamo come orsi" ( Is 59,10-11 ). Fa’ attenzione a queste quattro parole: parete, privi di occhi, a mezzogiorno, come orsi. Nella parete è simboleggiata l’abbondanza delle cose temporali, negli occhi la vita e la scienza, nel mezzogiorno l’eccellenza delle dignità ecclesiastiche e negli orsi la gola e la lussuria. Questi ciechi dunque tastano la parete, cioè le ricchezze, come fossero una cosa morbida e liscia, mentre sono spine pungenti; ed essendo privi degli occhi della vita e della scienza, vi si attaccano, le eleggono a scopo e norma della loro vita, essendo senza la guida della ragione. Nel mezzogiorno, nella luce della dignità ecclesiastica, inciampano come fossero nelle tenebre, perché vengono accecati proprio da ciò che dovrebbe invece illuminarli. E come orsi, perché golosi e lussuriosi, urlano e ringhiano, cioè si avventano sul miele, vale a dire sui piaceri temporali. L’orso è così chiamato perché con la sua bocca completerebbe un feto, appena abbozzato, ( lat. orsus ) iniziato. Raccontano infatti che gli orsi, al trentesimo giorno di gravidanza, partoriscono esseri informi. È appunto questa affrettata, precipitosa fecondità che produce esseri informi. Le orse emettono una piccola massa carnosa di color bianco, senza occhi, che mentre va celermente maturando, si copre tutta di marcio, eccetto l’abbozzo delle unghie. Lambendo quella massa informe, le danno gradatamente forma, e intanto la tengono al petto, come covandola e riscaldandola, per attivarne il respiro vitale. Nel frattempo niente cibo. Nei primi quattordici giorni le madri cadono in un sonno così profondo, da non poter essere svegliate neppure ferendole. Dopo aver partorito restano nascoste quattro mesi. Poi, quando escono all’aperto in un giorno sereno, soffrono talmente per l’incapacità di sopportare la luce, che le crederesti colpite da cecità. Gli orsi hanno la testa debole, senza forze, mentre la forza più grande ce l’hanno negli arti superiori e nei fianchi. Vanno in cerca degli alveari delle api, s’impadroniscono soprattutto dei favi e nulla mangiano più avidamente del miele. Se assaggiano i frutti della mandragola, muoiono; però reagiscono vagando qua e là perché il male non si aggravi a morte, e divorano le formiche per ricuperare la guarigione. Le orse del nostro tempo, cioè i prelati corrotti, partoriscono carni morte, cioè i figli carnali, che sono di colore bianco, come i sepolcri imbiancati, pieni di putridume ( cf. Mt 23,27 ), ma sono senza occhi e perciò non vedono né Dio né il prossimo. Non c’è in essi alcuna forma di virtù, non c’è onestà di costumi, ma solo marciume di peccati; fa eccezione la formazione delle unghie, con le quali arraffano i beni dei poveri. Le orse lambendo queste carni, cioè adulando, gradatamente danno ad esse una forma, una figura: quella figura della quale è detto: "Passa la figura di questo mondo" ( 1 Cor 7,31 ); e con il calore di un costante cattivo esempio, ne suscitano il respiro, lo spirito della vita naturale, di cui dice l’Apostolo: L’uomo naturale non comprende le cose dello spirito ( cf. 1 Cor 2,14 ). E così, animali con animali, ciechi con ciechi, "cadono nella fossa" ( Mt 15,14 ). C’è inoltre da osservare che, come gli orsi non hanno alcuna forza nella testa, così questi indegni prelati della chiesa non hanno alcuna energia spirituale, non essendo capaci di resistere alle tentazioni del diavolo: ma tutta la forza l’hanno nelle braccia e nei fianchi, forza di rapina e di lussuria. Tendono insidie agli alveari delle api, cioè alle case dei poveri; bramano in sommo grado i dolci favi della lode e della vanagloria, cioè i saluti nelle piazze, i primi posti nelle cene, i primi seggi nelle sinagoghe ( cf. Mt 23,6-7 ), essi che, alla fine, saranno privati anche dei secondi. Costoro, dopo aver assaggiato i frutti della mandragola, muoiono. 15. La mandragola è un’erba aromatica; i suoi frutti hanno un buonissimo profumo, come quello delle mele maziane. I frutti della mandragola raffigurano le opere dei giusti; al profumo della loro vita gli orsi muoiono ringhiando: per essi, dice l’Apostolo, sono odore di morte per la morte ( cf. 2 Cor 2,16 ). Di queste mandragole dice la sposa del Cantico dei Cantici: "Le mandragole hanno dato il loro profumo alle mie porte" ( Ct 7,13 ). Alle porte della chiesa i santi spandono il profumo della loro santa vita. Di essi dice anche la Genesi: "Ruben, uscito nel campo al tempo della mietitura dell’orzo, trovò le mandragole" ( Gen 30,14 ). Ruben, che s’interpreta "figlio della visione", è figura di Gesù Cristo, Figlio di Dio Padre, "nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo" ( 1 Pt 1,12 ). Egli, uscito dal seno del Padre, venne nel campo di questo mondo al tempo della mietitura dell’orzo, cioè nella pienezza dei tempi, nel quale il frumento, per opera di Giuseppe, doveva essere serbato nel "granaio" della beata Vergine, perché l’intero Egitto non morisse di fame; e trovò le mandragole, cioè gli apostoli e i seguaci degli apostoli, al cui profumo muoiono, ringhiando, gli orsi. Dicono infatti, come è scritto nel libro della Sapienza: Sono contrari alle nostre opere, ci rimproverano le colpe contro la legge e ci rinfacciano le mancanze contro l’educazione ricevuta. Sono diventati per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci sono diventati insopportabili solo al vederli, perché la loro vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le loro strade. Siamo da loro stimati frivoli e vani e schivano le nostre abitudini come immondezze. La pensano così, quegli sventurati, ma si sbagliano ( cf. Sap. 2,12.14-16.21 ). E quindi si sono gettati sulle formiche, vale a dire sulle vanità e sulle astuzie del mondo e credono che il loro falso piacere possa essere il loro rimedio. Ma ecco, viene il formichiere, il leone delle formiche ( grecolat. mirmicoleo ), cioè il diavolo, che divorerà sia gli orsi ciechi che le formiche. A proposito di questi ciechi abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che Davide stabilì di dare un premio a colui "che avesse battuto i Gebusei e fosse passato per i canali delle case, avesse cacciato i ciechi e gli zoppi, che avevano in odio la vita di Davide. Per questo è invalso il detto: I ciechi e gli zoppi non entreranno nel tempio" ( 2 Sam 5,8 ). Fa’ attenzione alle tre parole: avesse battuto, fosse passato, avesse cacciato. Il vero Davide, Gesù Cristo, darà il premio dell’eterna vita a colui che avrà battuto il Gebuseo che abita sulla terra, vale a dire l’appetito carnale, e sarà passato per i canali delle case, che sono i condotti degli edifici, avrà cioè imitato gli esempi dei santi, e avrà scacciato gli zoppi e i ciechi, cioè i prelati e i sacerdoti che zoppicano da entrambi i piedi, vale a dire nei sentimenti e nelle opere, e che sono ciechi da entrambi gli occhi, cioè nella vita e nella scienza: questi hanno in odio la vita di Gesù Cristo, poiché vendono al diavolo la loro anima, per la quale Cristo ha dato la sua vita ( cf. 1 Gv 3,16 ). Tali ciechi e zoppi non dovrebbero entrare nel tempio, quel tempio che oggi è dato loro in custodia, e dalla cui cieca custodia invece vengono accecati molti e sono con loro parimenti travolti nella fossa della dannazione. Giustamente quindi è detto: Se un cieco guida un altro cieco, cadranno tutti e due nella fossa ( cf. Lc 6,39 ). 16. "Non c’è discepolo che sia superiore al maestro". Dice la Glossa: Se il maestro, che è Dio, non si vendica delle ingiurie ricevute, ma sopportandole vuole rendere più miti i persecutori, anche i discepoli, che sono uomini, devono seguire questa regola di perfezione. Abbiamo proprio su questo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "il re Davide attraversava il torrente Cedron, e tutto il popolo camminava sulla via degli ulivi verso il deserto. Davide saliva l’erta degli ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e i piedi nudi; e anche tutto il popolo che era con lui saliva con il capo coperto e piangendo" ( 2 Sam 15,23.30 ). Senso allegorico. Davide è figura di Cristo. Cedron s’interpreta "triste afflizione". Quindi il Cedron che Davide attraversò raffigura la tristezza della passione, attraversata da Cristo. Infatti dice Giovanni: "Gesù uscì con i suoi discepoli e passò al di là del torrente Cedron" ( Gv 18,1 ). E dietro a lui il popolo, sulla via degli ulivi: infatti il popolo segue Cristo, il quale precede sulla via della passione, e i discepoli seguono il maestro, per meritarsi la sua misericordia. Il re dunque camminava a capo coperto, perché Cristo salì al monte degli Ulivi nascondendo la sua divinità sotto la sua umanità, e coi i piedi nudi, perché allora rese manifesta la sua umanità. Anche il popolo camminava a capo coperto, ma non leggiamo che andasse a piedi nudi. Infatti non dobbiamo scoprire il segreto della mente con l’arroganza della voce, e i piedi non devono essere nudi, ma calzati e difesi con gli esempi dei santi. Dice Geremia: "Preserva il tuo piede dalla nudità e la tua gola dalla sete" ( Ger 2,25 ). Dalla nudità, vale a dire dalla mancanza di virtù dobbiamo preservare il piede, cioè i sentimenti, e dalla sete dell’avarizia la gola. Spengono questa sete soltanto il fiele e l’aceto della passione del Signore. Ciò che per primo ha bevuto il medico e ciò che per primo ha gustato il maestro, non lo aborrisca il discepolo, al quale è sufficiente essere come il suo maestro ( cf. Mt 10,25 ). 17. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Sappiamo che tutta la creazione geme e partorisce nella sofferenza fino ad oggi" ( Rm 8,22 ). Fa’ attenzione alle due parole: geme e partorisce nella sofferenza. Il maestro gemette nell’operare miracoli; infatti leggiamo in Marco: "Guardando verso il cielo, sospirò ( lat. ingemuit ) e disse: Effatà!, che vuole dire: Ápriti!" ( Mc 7,34 ). Partorì nel dolore della passione. Dice infatti Isaia: "Io, che faccio partorire gli altri, non partorirò io stesso?" ( Is 66,9 ). Così anche i discepoli del maestro, che sono sua creazione, devono gemere nella contrizione, partorire nella confessione. È sufficiente infatti che il discepolo sia come il suo maestro. Ti preghiamo, dunque, Maestro e Signore, buon Gesù, di illuminare i ciechi, di istruire i tuoi discepoli e di mostrare loro la via della vita, per la quale possano giungere a te, che sei la via e la vita. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. La pagliuzza del peccato nell’occhio del fratello 18. "Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio, e allora potrai vederci bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello" ( Lc 6,41-42 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: la pagliuzza, l’occhio e la trave. Nella pagliuzza viene indicata una colpa leggera, nell’occhio la ragione o l’intelletto, nella trave la colpa grave. E la Glossa avverte: In verità, chi pecca non ha diritto di rimproverare un altro peccatore. Su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove si racconta che il Signore proibì a Davide di edificargli un tempio ( cf. 2 Sam 7,12-13 ). Dice Gregorio: Dev’essere assolutamente esente da vizi, colui che si preoccupa di correggere i vizi degli altri: non deve pensare alle cose terrene, non deve accondiscendere a desideri abietti, e quanto più vuol vedere chiaramente negli altri ciò che è da fuggire, tanto più diligentemente deve evitarlo egli stesso sia nella teoria che nella pratica. Un occhio accecato dalla polvere non vede distintamente una macchia in una parte del corpo, e le mani sporche di fango non sono in grado di pulire alcuna lordura. Se vuoi rimproverare qualcuno, vedi prima se tu non sia come lui. E se lo sei, piangi insieme con lui, non pretendere che egli ti obbedisca, ma comandagli e ammoniscilo che insieme con te si sforzi di emendarsi. Se invece non sei come lui, ricordati che forse lo sei stato in passato o saresti potuto esserlo, e quindi sii indulgente, e rimproveralo non spinto dall’odio ma dalla misericordia. I rimproveri e le correzioni dunque non si devono fare se non raramente e quando sono assolutamente necessari e solo nell’interesse di Dio, dopo però aver rimosso la trave dal proprio occhio. Giustamente quindi è detto: "Perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello…?", ecc. 19. Considera ancora che gli occhi sono così chiamati, o perché l’ombra delle ciglia li nasconde ( lat. occulit ), li protegge, perché non subiscano lesioni o non vengano danneggiati incidentalmente; oppure perché hanno una luce nascosta ( lat. occulta ), cioè segreta o interposta ( indiretta ). Tra tutti i sensi, gli occhi sono i più vicini all’anima. Dagli occhi infatti traspare ogni giudizio della mente: infatti il turbamento o la gioia dell’anima si manifesta negli occhi. Gli occhi sono collocati nel viso, dentro due profonde cavità, dalle quali prende nome la fronte ( lat. foratus, foro; frons, fronte ). Gli occhi, che sembrano delle gemme, sono coperti da membrane trasparenti, attraverso le quali, come attraverso il vetro, la mente vede in trasparenza quello che c’è all’esterno. Al centro delle orbite ci sono quelle che chiamiamo pupille, per le quali abbiamo la facoltà di vedere. E dobbiamo anche sapere che gli occhi possono essere o grandi o piccoli o medi. L’occhio medio rivela buona disposizione alla discrezione, all’intelligenza e all’erudizione. E ci possono essere anche occhi prominenti, profondi o medi. Gli occhi profondi hanno vista acuta; quelli prominenti indicano disturbi nella valutazione, e disposizione alla cattiveria; chi li ha in posizione intermedia è fortunato, perché sono segno di bontà. E ci sono occhi molto chiusi, e occhi molto aperti e poco mobili, e occhi con caratteristiche intermedie. Se sono molto aperti e poco chiusi, manifestano stoltezza e inverecondia. Se sono molto chiusi, indicano grande volubilità, poca discrezione e incostanza nell’agire. Invece l’occhio che ha caratteristiche intermedie indica disposizione alla bontà e giusto equilibrio in ogni attività. 20. "Ipocrita, togli dapprima la trave dal tuo occhio", ecc. Infatti non c’è medico capace di guarire gli altri, se non sa prima guarire se stesso. L’ipocrita è colui che ha l’occhio perfidamente aperto per vedere i delitti altrui, e non vede la sua presunzione. Dice infatti il poeta: Se tu, o cisposo, vedi i tuoi vizi con occhi malati, come mai hai la vista così acuta nello scoprire i vizi degli amici? ( Orazio ). Volesse il cielo, che l’occhio che tutto vede, vedesse anche se stesso! Con questa quarta parte del vangelo si accorda anche la quarta parte dell’epistola: "Non solo la creazione, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli di Dio" ( Rm 8,23 ). Le primizie dello Spirito sono la contrizione e l’amarezza per i peccati, che per prima cosa devono essere offerte al Signore. I santi che le hanno, non guardano la trave nell’occhio altrui, non giudicano nessuno, non condannano nessuno, ma gemono e sospirano dentro se stessi nell’amarezza della loro anima, aspettando l’adozione, vale a dire l’immortalità del corpo. Di questa immortalità ci faccia partecipi colui che è morto per noi, che veramente risuscitò, Gesù Cristo, Signore nostro, al quale è onore e gloria, con il Padre e lo Spirito Santo, nei secoli eterni. E ogni anima misericordiosa risponda: Amen. Alleluia! Domenica V dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della V domenica dopo Pentecoste: "Mentre la folla faceva ressa intorno a Gesù"; vangelo che si divide in quattro parti. – Anzitutto sermone sui prelati e i predicatori della chiesa, e quale dev’essere la loro condotta: "Il re Salomone scolpì sulle porte del tempio". – Parte I: Sermone sull’incarnazione e sulla passione di Cristo, sul comportamento del giusto, sui tre alberi che erano nel paradiso terrestre, sulla natura del cedro e dell’issopo, e il loro significato: "Salomone parlò di piante …". – Sermone sulle due prostitute e i loro figli, e quale sia il loro significato: "Vennero due prostitute". – Sermone sulla barca di Pietro e quale sia il significato della sua attrezzatura: "Siate tutti concordi". – Parte II: Sermone allegorico e morale sulla flotta di Salomone, e quale sia il significato allegorico e morale dell’oro, dell’argento, dei denti di elefante, delle scimmie e dei pavoni: " La flotta di Salomone". – Natura degli elefanti e dei pavoni: il loro significato. – Sermone contro i prelati e i sacerdoti della chiesa: "Lo pregò di scostarsi un poco da terra". – Sermone allegorico sulla santa chiesa: "Il re Salomone si costruì un trono". – Sermone morale sull’anima fedele: "Il re Salomone si costruì un trono". Si parla anche della natura degli elefanti, del loro significato morale; dei quattro elementi: fuoco, aria, acqua e terra, e il loro significato. – Sermone sulla beata Vergine Maria: "Il re Salomone si costruì un trono", e sui sette gradini del trono. Sermone contro i sacerdoti: "Ascoltate, sacerdoti! …". Parte III: Sermone sul disprezzo delle cose temporali, che sono un nulla: "Ho guardato la terra". – Sermone sul dovere che abbiamo di non attribuire nulla a noi stessi ma tutto a Dio, per poter prendere una grande quantità di pesci: "Elia salì sul monte Carmelo". – Parte IV: Sermone sulle due mammelle di Cristo, l’incarnazione e la passione: "Sul suo seno sarete portati". – Sermone sui quattro mali che sono sulla terra e il loro significato: "Santificate il Signore Gesù Cristo nei vostri cuori". Esordio - Sermone sui prelati e i predicatori della Chiesa 1. In quel tempo: "La turba faceva ressa intorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio, ed egli stava presso il lago di Genesaret" ( Lc 5,1 ). Nel terzo libro dei Re si racconta che Salomone, sulle porte della "cella" ( la parte più segreta del tempio ), che erano di legno di ulivo, "scolpì figure di cherubini, palme e bassorilievi molto rilevati, e li rivestì d’oro; e rivestì d’oro anche i cherubini e le palme" ( 1 Re 6,32 ). Le porte, dette in latino ostia, perché impediscono il passaggio ai nemici ( lat. hostes ), sono figura dei predicatori, i quali devono opporsi ai nemici come un muro a difesa del santuario del Signore ( cf. Ez 13,5 ), cioè della chiesa militante. E queste porte devono essere di legno di olivo, nel quale ci sono due qualità che simboleggiano la costanza e la misericordia; la costanza è simboleggiata dalla compattezza e dalla durata dell’olivo, e la misericordia dal suo nome greco, élaios, che assomiglia a éleos, termine che significa pietà, misericordia. Nei predicatori e nei prelati della chiesa, per opera dei quali viene aperto l’ingresso al Regno, ci devono essere queste due virtù; infatti il nostro Salomone, Gesù Cristo, che annuncia la pace ai vicini e ai lontani ( cf. Ef 2,17 ), ha scolpito in essi dei cherubini, che simboleggiano la pienezza della scienza, delle palme e dei lavori d’intaglio ( bassorilievi ). Nei cherubini è indicata la vita angelica e la scienza perfetta; nelle palme la vittoria sul triplice nemico ( demonio, mondo e carne ); nei bassorilievi, o lavori d’intaglio, l’esempio delle opere buone. Ma prima dobbiamo considerare che, per comando del Signore, Mosè fece due cherubini d’oro, lavorati a martello, come è detto nell’Esodo ( cf. Es 25,18 ). Invece Salomone li fece di legno di ulivo, come è detto nel terzo libro dei Re ( 1 Re 6,32 ). Di questo fatto possiamo trovare tre ragioni. La prima, per indicare che fino a quando i figli d’Israele furono sotto Mosè nel deserto, furono colpiti da molti castighi, perché lo meritavano; mentre nella Terra Promessa, sotto Salomone, furono in pace e in sicurezza. Salomone stesso infatti, nel terzo libro dei Re, dice: Ora il Signore, mio Dio, mi ha dato pace tutto intorno, e non ho né avversari né particolari difficoltà ( cf. 1 Re 5,4 ). La seconda, perché il predicatore, mentre è occupato nell’esercizio della predicazione, come battuto dai colpi delle tribolazioni, si estende nella larghezza della carità e nella lunghezza della comprensione; invece mentre, lasciata la folla nella valle, ritorna al monte della contemplazione, s’immerge in Dio nella quiete della mente e nella tranquillità della coscienza. La terza, perché il giusto, nel deserto di questo corpo, è colpito da molte sventure, ma nella celeste Gerusalemme, come i cherubini della gloria, contemplerà faccia a faccia, immortale l’Immortale. Nei cherubini, dunque, è indicata la vita angelica e la scienza perfetta, due qualità che il predicatore deve avere per vivere santamente e predicare con franchezza, cioè senza risparmiare nessuno né per timore né per amore, né per deferenza né per vergogna. Nella palma è indicata la vittoria sul mondo, sulla carne e sul diavolo: la palma infatti è l’ornamento della mano vittoriosa. Gli intagli in legno ben rilevati ( bassorilievi ) simboleggiano i sicuri esempi delle opere buone che si devono scolpire negli occhi di tutti così profondamente da non poter mai essere giudicati in modo errato o sfavorevole. E considera ancora che questi tre lavori devono essere ricoperti d’oro: i cherubini della scienza devono essere ricoperti con l’oro dell’umiltà, altrimenti la scienza gonfia ( cf. 1 Cor 8,1 ); la palma della vittoria con l’oro della misericordia divina, perché la vittoria venga attribuita non a te stesso ma al Signore, il quale dice: "Abbiate fiducia", perché "io ho vinto il mondo!" ( Gv 16,33 ); i bassorilievi delle opere con l’oro della carità fraterna, per cercare non la propria gloria ma quella degli altri. Se nelle porte del luogo della preghiera saranno scolpite queste tre figure, per ammirare sì grande meraviglia di scultura si precipiteranno le folle al suo ingresso, bramose di ascoltare la parola del Signore. Infatti è detto nel vangelo di oggi: "Le folle facevano ressa intorno a Gesù …", ecc. 2. Considera che in questo vangelo sono quattro i momenti degni di nota. Primo, la sosta di Gesù Cristo al lago di Genesaret, dove stanno le due barche, quando dice: "Gesù stava presso il lago di Genesaret e vide due barche ormeggiate alla sponda". Secondo, Gesù stesso che sale sulla barca di Simone: "Gesù salì sulla barca che era di Simone". Terzo, la cattura della grande quantità di pesci: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte", ecc. Quarto, lo stupore di Pietro e dei suoi compagni, e l’abbandono di tutto ciò che avevano: "Al veder questo, Simone Pietro", ecc. Osserva anche che in questa domenica e nella seguente metteremo a confronto, se Dio ce lo concederà, alcuni racconti del terzo libro dei Re con le varie parti di questo vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta: "Ascolta, Signore, la mia voce" ( Sal 27,7 ). Si legge poi l’epistola del beato Pietro: "Siate tutti concordi" ( 1 Pt 3,8 ). Noi la divideremo in quattro parti e la metteremo a confronto con le quattro parti del vangelo. Prima parte: "Siate tutti concordi". Seconda parte: "Chi vuol amare la vita". Terza parte: "E chi vi potrà fare del male?". Quarta parte: "Adorate il Signore, Cristo". I. Le due barche ferme al lago di Genesaret 3. "Un giorno Gesù, mentre ritto in piedi stava presso il lago di Genesaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla riva: i pescatori era scesi e pulivano le reti" ( Lc 5,1-2 ). Concorda con questo ciò che troviamo nel terzo libro dei Re, dove si racconta che "Salomone dissertò sulle piante, dal cedro che è sul Libano fino all’issopo che sbuca dal muro; e trattò dei quadrupedi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci. Veniva gente da tutte le nazioni per ascoltare la sapienza di Salomone; e venivano messaggeri da tutti i re della terra, presso i quali si era diffusa la fama della sua sapienza" ( 1 Re 5,34 ). L’issopo, piccola pianta, attaccata al sasso, simboleggia l’umiltà di Cristo, il quale dissertò dal cedro del Libano fino all’issopo, perché dalle altezze della gloria celeste discese fino all’umiliazione della carne. In altro senso: Nel cedro è raffigurata la superbia dei malvagi; infatti è detto: "La voce del Signore schianterà i cedri" ( Sal 29,5 ). Cristo dunque discute dal cedro fino all’issopo, perché giudica i cuori dei superbi e degli umili. E discusse anche sulle piante, mentre era appeso sull’albero della croce. E in quel momento piegò il cedro, cioè l’arroganza del mondo, fino all’abbassamento dell’issopo, cioè fino alla stoltezza della croce. "Infatti la parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, mentre per quelli che si salvano è potenza di Dio" ( 1 Cor 1,18 ). Senso morale. "Salomone disputò sulle piante …". Osserva che nel paradiso terrestre c’erano tre alberi: l’albero dal quale mangiava Adamo, l’albero della vita e l’albero della scienza del bene e del male. In questi tre alberi sono raffigurate tre facoltà: la memoria, la volontà e la ragione ( intelletto ). Il frutto della memoria è il godimento, il frutto della volontà è l’opera buona, il frutto della ragione è la distinzione tra il bene e il male. Disputare vuol dire ricercare con la mente i vari criteri della ragione per poter giungere alla verità sostanziale. Perciò il giusto disputa su questi tre alberi, cioè ricerca con la ragione e la mente varie cose: se ha riposto nel tesoro della memoria i beni del Signore, che sono l’umiltà e la povertà della sua incarnazione, la dolcezza della sua predicazione, e la passione di Cristo, che fu obbediente fino alla croce; e se questi beni li ha custoditi con diligenza. Ricerca poi se con la volontà ama Dio e il prossimo, e se con la sua ragione sa distinguere il bene dal male. Questa è la disputa del giusto, e anche lui disputa dal cedro che sta sul Libano fino all’issopo che sbuca dalla parete. Considera che il cedro è un albero alto; il suo legno ha un profumo gradevole ed è incorruttibile, e non è mai intaccato dal tarlo. Con il suo profumo mette in fuga i serpenti e messo nel fuoco si restringe. Il cedro simboleggia la vita del giusto: è alta per la sublimità della sua santa condotta; profumata dall’esempio del suo buon nome, incorruttibile per la fermezza del suo santo proposito, inattaccabile dal tarlo della concupiscenza che dà morte; mette in fuga i demoni con la compunzione della mente e reprimendo con la mortificazione gli stimoli della carne; si restringe, cioè rinuncia alla propria volontà, nel fuoco dell’obbedienza. E questo cedro è sul Libano, che s’interpreta "candore", perché la vita del giusto si svolge nel candore della purezza interiore ed esteriore. Il giusto quindi disputa dal cedro fino all’issopo che sbuca dalla parete. Nell’issopo è simboleggiata l’umiltà; e nella parete, che deve il suo nome a "parità", in quanto è tutta livellata nella sua superficie, è indicata l’unione dei santi. Quindi il giusto disputa dal cedro della sua vita, considera cioè con la mente se la sua vita è arrivata all’umiltà e all’unione con i santi. 4. Continuiamo parlando di Cristo: "E parlò dei quadrupedi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci". Nei quadrupedi sono raffigurati i golosi e i lussuriosi, negli uccelli i superbi, nei rettili gli avari, nei pesci i curiosi. Cristo parlò dei quadrupedi quando disse: "State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita" ( Lc 21,34 ). Parlò degli uccelli quando disse: "Gli uccelli del cielo hanno i loro nidi; invece il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo" ( Mt 8,20 ). Parlò dei rettili quando disse: "Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano" ( Mt 6,19 ), ecc. Infine parlò dei pesci quando disse: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra", cioè tutto il mondo, "per fare anche un solo proselito" – i proseliti sono i pagani accolti nella sinagoga – "e ottenutolo, lo rendete figlio della geenna il doppio di voi" ( Mt 23,15 ). Quando infatti scopre i vostri vizi, ridiventa pagano, e per la sua prevaricazione si rende meritevole di un castigo ancora più grande. "E veniva gente da tutte le nazioni per ascoltare la sapienza di Salomone". È la stessa cosa che dice il vangelo di oggi: "Gesù stava ritto in piedi presso il lago di Genesaret, e una gran folla faceva ressa intorno a lui, per ascoltare la parola di Dio". Genesaret deve il suo nome alla caratteristica di questo lago che dalle sue onde increspate sembra mandar fuori una brezza: in lat. generans auram, che genera brezza. In questo passo il vangelo chiama il lago stagno, che è un lago la cui acqua non scorre, ma sta ferma; ed è figura del secolo presente, nel quale ci sono dei ribollimenti che producono le bolle, l’aria della lode del mondo, che presto svanisce. Infatti il salmo dice: "La loro memoria svanì con il suono" ( Sal 9,7 ), cioè con il plauso e con il favore del mondo. E come le acque sono costrette nello stagno perché non scorrano, così nel mondo la libertà dei peccatori viene limitata affinché non godano dei loro piaceri quanto vorrebbero. Leggiamo infatti in Luca che il figlio prodigo bramava riempirsi il ventre delle carrube dei porci, ma nessuno gliene dava ( cf. Lc 15,16 ). Nelle carrube dei porci possiamo individuare i vari piaceri dei peccati, con i quali gli spiriti maligni si ingrassano come i porci; piaceri che talvolta non vengono concessi a chi li brama. Spesso infatti l’uomo pecca più di quanto il diavolo non gli suggerisca; e l’uomo spesso previene il diavolo, quando dal diavolo non è prevenuto. Per questo dice Ezechiele: "Ti darò in mano alle figlie dei filistei, le quali si vergognano vedendo la tua condotta sfrontata" ( Ez 16,27 ). Vergogna quanto mai sorprendente, che il diavolo debba arrossire di un peccato dell’uomo, peccato che egli non gli ha suggerito, quando l’uomo stesso, disgraziato, di quel suo peccato non arrossisce! 5. "Stava dunque Gesù vicino allo stagno", cioè in questo mondo, per predicare la parola di Dio agli amatori di questo mondo. Stava presso lo stagno colui che in questo mondo disprezzò e insegnò a disprezzare la gloria di questo mondo, la quale è come uno stagno che ingoia. E su questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Elia "incontrò Eliseo, figlio di Safat, che arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il proprio mantello. Quegli abbandonò subito i buoi e corse dietro a Elia, dicendo: Vado a baciare mio padre e mia madre e poi ti seguo. Elia gli rispose: Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te. Quando tornò, Eliseo prese un paio di buoi, li uccise e con il legno dell’aratro fece cuocere la carne dei buoi e la distribuì alla gente e tutti ne mangiarono" ( 1 Re 19,19-21 ). Senso morale. Il nostro Redentore, disceso dal cielo, per divino decreto si acquistò un popolo che ancora bramava avidamente le cose terrene, operò in esso la salvezza quando lo convertì alla fede. Infatti Elia s’interpreta "Signore Dio", Safat "decreto", ed Eliseo "salvezza del mio Dio". Su Eliseo il profeta gettò il suo mantello, quando il Signore rivestì il popolo della fede cattolica. Dice l’Apostolo: "Voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" ( Gal 3,27 ). "Abbandonati i buoi, andò dietro a Elia". Infatti il coro degli eletti, avendo sentito che se uno non rinuncia a tutto quello che possiede, non può essere mio discepolo ( cf. Lc 14,33 ), smise immediatamente di correre dietro alle ricchezze terrene e a farsi schiavo delle brame mondane, e in questo modo annunciò anche agli altri la parola di vita. Baciare il padre e la madre significa esattamente voler convertire con la parola tutti quelli che è possibile, sia dei giudei che dei pagani. "Prese un paio di buoi", ecc. Con questo intendiamo il corpo e lo spirito: dobbiamo cuocere le loro carni, vale a dire le concupiscenze della carne, con il legno dell’aratro, cioè con la contrizione del cuore, e distribuirle al popolo perché mangi: così riedifichiamo con l’esempio della vera penitenza coloro che abbiamo scandalizzato con la nostra vita dissoluta. 6. "Gesù vide due barche ormeggiate alla riva del lago". Considera che queste due barche raffigurano Gerusalemme e Babilonia, il Paradiso e l’Egitto, Abele e Caino, Giacobbe ed Esaù, in una parola la schiera dei veri penitenti e la massa vergognosa dei mondani. Tutti gli uomini infatti appartengono all’uno o all’altro di questi due gruppi. Tutto ciò trova un valido riscontro nelle due prostitute delle quali nel terzo libro dei Re si racconta che "due prostitute si presentarono al re Salomone". Ben a ragione, si presentano due prostitute a Salomone, il quale in seguito si lasciò da loro corrompere. "Una di esse raccontò: Ascoltami, signore! Io e questa donna abitavamo nella stessa casa; io ho partorito nella camera vicino a lei. Tre giorni dopo che avevo partorito io, partorì anche lei. Eravamo insieme, e nessun altro, all’infuori di noi due, c’era nella casa insieme con noi. Durante la notte morì il figlio di questa donna, perché ella, mentre era addormentata, l’aveva schiacciato. Alzatasi allora nel silenzio della notte, prese il bambino dal mio fianco – io, tua schiava, dormivo profondamente – e se lo mise in seno; pose poi al mio seno il figlio suo che era morto. Quando al mattino mi alzai per dare il latte al mio figlio, me lo vidi morto. Ma poi, guardandolo più attentamente alla luce del giorno, mi accorsi che quello non era il mio bambino, quello che io avevo generato. L’altra donna intervenne: "Non è come dici tu; è il figlio tuo che è morto: il mio è quello vivo. Ma la prima ripeteva il contrario: Sei falsa, il mio figlio è vivo, quello morto è il tuo! E continuavano così a litigare davanti al re. Allora il re disse: Portatemi una spada! E dopo che gli ebbero portata la spada: Tagliate in due il bambino vivo – ordinò –, e datene metà a ciascuna delle due donne. Allora la madre del bambino vivo, poiché le sue viscere si erano sconvolte per suo figlio, si rivolse al re: Ti scongiuro, signore, da’ pure a lei il bambino vivo e non ucciderlo. Al contrario, l’altra donna diceva: Giusto, non sia né mio né tuo; sia diviso in due! Il re sentenziò: Date alla prima il bambino vivo, e non venga ucciso. Essa infatti è sua madre!" ( 1 Re 3,16-27 ). Le prostitute sono dette anche meretrici, dal lat. mereo, guadagnare, perché guadagnano lo stipendio della libidine. Queste due prostitute simboleggiano due generi di vita, la vita dei veri penitenti e quella dei carnali. Fa’ però attenzione a una cosa: abbiamo detto che la vita dei veri penitenti è simboleggiata da una prostituta, non in quanto prostituta – infatti il vero penitente ha già fatto ritorno al suo sposo –, ma per il fatto che era prostituta quando aderiva al diavolo. Leggiamo infatti qualcosa di simile anche nel vangelo di Matteo: "Gesù si trovava nella casa di Simone, il lebbroso" ( Mt 26,6 ), non perché fosse lebbroso allora, ma perché lo era stato. Le due "vite" sono raffigurate da quelle due verghe delle quali parla il profeta Zaccaria: "E mi presi due verghe: una la chiamai ornamento, l’altra funicella" ( Zc 11,7 ). Osserva che la vita dei penitenti viene chiamata verga e ornamento; verga, perché sottoposta al rigore della disciplina; ornamento perché purificata con le lacrime da ogni lebbra di peccato. Invece la vita dei carnali viene detta funicella, perché essi sono legati con le funi dei loro peccati. Quanti danni poi procurino Caino ad Abele, Esaù a Giacobbe e i carnali ai penitenti lo dimostra il racconto riportato sopra: "Io e questa donna abitavamo nella stessa casa", ecc. Ecco le due barche ferme nello stagno. Lo stagno e la casa sono figura del mondo, nel quale queste due donne vivono. Partoriscono i penitenti, e partoriscono anche i carnali. Ma nel terzo giorno i penitenti, nell’amarezza del cuore, partoriscono opere di luce, l’erede della vita eterna; e del loro parto è detto: "La donna, quando partorisce, è nella tristezza" ( Gv 16,21 ). Anche i carnali, nel piacere della carne, partoriscono, ma opere di tenebre, figli della geenna; e di essi dice Salomone: "Si rallegrano quando compiono il male e gioiscono delle loro opere perverse" ( Pr 2,14 ). E questo nel terzo giorno: dall’adulterina suggestione del diavolo, prima concepiscono con il consenso della mente, poi hanno come una gestazione nel proposito della volontà perversa; e quindi partoriscono il peccato con il compimento dell’opera cattiva. "E stavamo insieme e, oltre a noi due, non c’era nessuno con noi". Nel mondo, buoni e cattivi si trovano insieme. Dice infatti Giobbe: "Fui fratello dei dragoni e compagno degli struzzi" ( Gb 30,29 ). Nell’aia c’è il grano insieme con la paglia; nel torchio c’è il vino insieme con le vinacce, e nel frantoio c’è l’olio insieme alla morchia. "Il figlio di questa donna morì". Le opere dei carnali muoiono, quando vengono come soffocate dal peccato che segue. Nella notte della cattiva intenzione, della cecità della mente, viene ucciso il figlio di questa donna: Nel sonno lo schiacciò. "Quelli che dormono, infatti, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, sono ubriachi di notte" ( 1 Ts 5,7 ). "E alzatasi nel silenzio della notte", ecc. Il testo latino dice: intempestae noctis silentio. Intempestivo significa inopportuno, quando nulla si può fare e tutto è tranquillo; invece ciò che è tempestivo è opportuno. Altro senso: nox intempesta, notte alta e oscura, o anche mezza notte. Il beato Gregorio commenta questo passo parlando dei dottori carnali, dei maestri mondani: essi, mentre omettono di fare quello che dicono, uccidono i loro uditori con il sonno del corpo, li trascurano e li tiranneggiano, mentre fingono di nutrirli con il latte delle parole. Perciò, vivendo in modo riprovevole e non potendo avere discepoli di vita esemplare, si sforzano di attirare a sé i discepoli degli altri, di modo che, dando l’impressione di avere dei buoni seguaci, giustificano presso l’opinione degli uomini il male che fanno e mascherano con la vita dei sudditi la loro criminale negligenza. Quindi la donna che aveva ucciso il proprio figlio, si prese quello non suo. Ma la spada di Salomone scoprì la madre vera, perché nell’ultimo giudizio, l’ira del giudice esaminerà, ossia dimostrerà quali e di chi siano i frutti, cioè le opere destinate a vivere o a perire. Da notare che dapprima viene ordinato che il figlio vivo venga tagliato in due, e che venga reso alla vera madre soltanto dopo, perché in questo mondo è ammissibile che la vita di un discepolo sia per così dire divisa, in quanto si permette che uno si guadagni con essa il merito presso Dio, e un altro la lode dagli uomini. Ma la madre falsa non aveva alcuna preoccupazione che venisse ucciso il bambino che non aveva generato, perché i maestri presuntuosi e incuranti della carità, se non riescono a conquistarsi una fama di totale ammirazione dai discepoli degli altri, attentano spietatamente alla loro vita. Accesi di invidia non vogliono che vivano per gli altri, quelli che vedono di non poter possedere. E quindi: "Non sia né mio né di altri". Non tollerano che vivano per gli altri nella verità, coloro che non vedono proni davanti a sé per la propria gloria temporale. Invece la madre vera fa di tutto perché il suo figlio stia almeno presso gli estranei e viva, perché i veri maestri permettono che altre scuole traggano fama dai loro discepoli, purché naturalmente non perdano l’onestà della vita. Sono gli stessi sentimenti di pietà, dai quali viene riconosciuta la vera madre, poiché si riconosce il vero insegnamento soltanto alla prova della carità. Poté ricevere "tutto intero" ( integro ) il figlio solo colei che tutto intero, per così dire, l’aveva ceduto. Parimenti, i superiori fedeli al loro compito, per il fatto che non solo non invidiano agli altri la gloria che loro viene dai buoni discepoli, ma ne auspicano anche utilità e vantaggio, riavranno i figli vivi e integri, quando nell’ultimo giudizio conseguiranno dalla loro vita il premio perfetto. Esposto tutto questo sulle due barche e sulle loro analogie, procediamo ai temi seguenti. 7. "I pescatori erano scesi e ripulivano le reti". Considera che da entrambe le barche, quella dei penitenti e quella dei carnali, scendono i pescatori. I penitenti infatti scendono da ciò che sono per grazia a ciò che sono per natura; scendono cioè dalla dignità della vita più perfetta alla considerazione della propria fragilità. I carnali pure discendono dal sussiego della loro superbia alla cenere della penitenza. "E ripulivano ( lavavano ) le reti". Commenta la Glossa: "Ripiega le reti ripulite colui che, sospendendo l’impegno della predicazione, si sforza di mettere in pratica ciò che ha insegnato agli altri. Infatti nell’introito della messa di oggi, il penitente prega dicendo: "Ascolta, Signore la mia voce, con la quale grido a te. Sii tu il mio aiuto; non abbandonarmi, non rigettarmi, Dio della mia salvezza" ( Sal 27,79 ). Osserva che la barca di Pietro, cioè la vita dei penitenti, giustamente ritornata allo sposo, implora tre cose: essere esaudita, non essere abbandonata, non essere rigettata. Essere esaudita al momento della preghiera, non essere abbandonata alla persecuzione dei nemici, non essere rigettata a motivo della passata perversità. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi, nella quale il beato Pietro parla ai figli della barca che gli è stata affidata: "Siate tutti concordi, compassionevoli a vicenda, animati da affetto fraterno, misericordiosi, modesti, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione" ( 1 Pt 3,8-9 ). Pietro, quale saggio armatore, con il suo mirabile magistero attrezzò la barca affidatagli, destinata ad essere sbattuta tra i flutti del mare in tempesta ed esposta ai venti e ai pericoli; l’attrezzò di albero e vele, di timone e àncora, e di remi da entrambi i lati, perché potesse giungere incolume al porto della tranquillità. Dice infatti "tutti concordi": ecco l’albero al centro della barca, cioè la concordia della fede e del cuore nella chiesa: "Erano tutti un cuor solo e un’anima sola" ( At 4,32 ). "Compassionevoli a vicenda": ecco la vela. Infatti, come la vela trascina la barca, così il reciproco compatimento ti trascina a partecipare alle necessità del tuo prossimo. Dice infatti l’Apostolo: "Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme" ( 1 Cor 12,26 ). "Animati da affetto fraterno": ecco il timone. Come infatti il timone tiene la barca nella giusta direzione e non le permette di deviare, ed esso costituisce lo strumento essenziale per condurre in porto la barca, così l’amore fraterno guida la comunità dei fedeli affinché non devii, e la conduce al porto della sicurezza: perché dov’è carità e amore, lì c’è anche la comunità dei santi. "Misericordiosi": ecco l’àncora. Àncora suona quasi come ( lat. ) anca, cioè curva. Infatti come l’àncora con la sua curvatura prende, e mentre prende è presa, e quando è presa trattiene la barca, così la misericordia, quando dal profondo del cuore cattura il prossimo, dal prossimo è catturata, e mentre trattiene viene anche trattenuta, mentre lega viene legata. E da questo legame la barca, cioè l’anima, non viene più scossa dalla sicurezza della sua pace né dalle onde della tentazione né dai venti delle suggestioni diaboliche. "Modesti e umili": ecco i remi di destra; "non rendete male per male, ma, al contrario, rispondete benedicendo": ecco i remi di sinistra. Se la nostra barca sarà così allestita e attrezzata con questi otto strumenti, potrà certamente giungere, sulla rotta giusta, alla benedizione dell’eterna eredità, al porto dell’eterna tranquillità. Tutto questo si degni di concederci colui che è benedetto e glorioso nei secoli eterni. Amen. II. Cristo sale sulla barca di Simone 8. "Gesù salì su una barca, quella che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra, e seduto ammaestrava la folla dalla barca. Quando finì di parlare, disse a Simone: Prendi il largo e calate le vostre reti per la pesca" ( Lc 5,3-4 ). Troviamo su questo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che "la flotta del re Salomone solcava il mare verso Tarsis, portando da lì oro, argento, denti di elefante, scimmie e pavoni" ( 1 Re 10,22 ). La flotta di Salomone e la barca di Pietro raffigurano la stessa cosa. La barca è chiamata in lat. navis, in quanto richiede il navus, l’esperto, cioè uno che sa manovrarla, uno che sa governarla tra i pericoli e i frangenti del mare. Di qui la sentenza dei Proverbi: "L’esperto starà al timone" ( Pr 1,5 ). La barca è figura della chiesa di Gesù Cristo, affidata alla cura di Pietro; essa ha bisogno non di un incapace, ma di un esperto; non di un pirata, ma di una guida che sia in grado preservarla dai pericoli. Questa è la flotta di Salomone la quale, attraverso il mare di questo mondo, salpa per Tarsis, nome che s’interpreta "ricerca del godimento"; salpa cioè verso coloro che cercano i piaceri del mondo, per godere mentre sono quaggiù. Nell’oro è simboleggiata la sapienza umana, nell’argento il linguaggio filosofico, nei denti degli elefanti sono raffigurati i dottori coraggiosi, che masticano il cibo della parola per i piccoli; nelle scimmie coloro che imitano le azioni umane ma poi vivono come le bestie: vengono alla fede dal paganesimo e fingono di vivere secondo la fede, ma poi la rinnegano con le opere; nei pavoni, la cui carne, se viene seccata, diventa incorruttibile – almeno così dicono – e che sono coperti di penne meravigliose, sono raffigurati i perfetti, purificati dal fuoco delle tribolazioni e quindi adorni di grande varietà di virtù. Tutto questo viene portato, per mezzo della predicazione della chiesa, da Tarsis, cioè dagli insidiosi flutti del mondo, al nostro Salomone, cioè a Gesù Cristo. 9. Senso morale. La flotta di Salomone è la mente del penitente, la quale attraverso il mare, vale a dire nell’amarezza della contrizione, si reca a Tarsis, va cioè alla ricerca dei peccati commessi e delle circostanze del peccato; si domanda da dove viene, dove si trova, dove è diretto; considera quanto sia misera e fragile questa carne e quanto sia falsa e caduca la prosperità del mondo. Infatti Giuseppe disse ai suoi fratelli: "Voi siete degli esploratori ( delle spie ): siete venuti per scoprire i punti deboli del paese" ( Gen 42,9 ); i penitenti cioè meditano ogni giorno, nell’amarezza della loro anima, sulla fragilità e la debolezza della loro carne. Essi sono gli esploratori di Giosuè, ai quali egli disse: "Andate e osservate bene tutto il territorio e la città di Gerico" ( Gs 2,1 ). Gerico s’interpreta "luna" e raffigura l’ingannevole prosperità del mondo: i giusti, quando la esplorano per disprezzarla, non vi trovano se non amarezza e dolore. Perciò dalla loro esplorazione portano con sé oro, argento, denti di elefante ( avorio ), scimmie e pavoni. L’oro rappresenta la purificazione della coscienza; l’argento la proclamazione della lode; i denti degli elefanti ( cioè l’avorio ) raffigurano l’accusa e la riprovazione di se stessi; le scimmie la considerazione della propria indegnità; i pavoni l’abiezione della gloria passata. Dell’oro e dell’argento Giobbe dice ( trad. lett. ): "L’argento ha gli inizi delle sue vene" ( l’argento proviene dai filoni, dalle vene argentifere ), e l’oro ha il luogo dove viene fuso e raffinato" ( Gb 28,1 ). Il principio delle vene nell’uomo è il cuore. Quindi dal cuore dell’uomo deve uscire l’argento, cioè la proclamazione della lode di Dio. Ma dice Geremia: "Tu, o Signore, sei vicino alla loro bocca, ma lontano dalle loro reni" ( Ger 12,2 ). Il cuore dei carnali sta nelle reni, cioè nella lussuria, e la lode di Dio è soltanto sulle loro labbra. "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me" ( Mt 15,8 ). Il principio delle vene, dal quale deve scorrere l’argento, è lontano da Dio. In che modo allora l’argento della confessione risuonerà dolcemente all’orecchio dell’Onnipotente, il quale dice: Figlio, dammi il tuo cuore ( cf. Pr 23,26 ), e Dio guarda il cuore? ( cf. Sal 7,10 ). "E l’oro ha il luogo dove viene fuso e raffinato". I sentimenti della nostra coscienza vengono purificati nel crogiolo di un severo esame di sé. Questo è il luogo dove l’oro deve venir fuso e purificato, non la lingua degli uomini, perché l’oro fuso nella loro lingua viene distrutto. Sventurato colui che crede più alla lingua degli altri che a alla sua coscienza: molti hanno paura dell’opinione pubblica, pochi della propria coscienza. Che gran cosa, invece, essere degni di lode e non venir lodati da nessuno! 10. Dei denti dell’accusa e del rimprovero dice Giobbe: "Con i miei denti strazio le mie carni" ( Gb 13,14 ). Si strazia le carni con i denti colui che, con una giusta condanna, mette sotto accusa la sua carnalità. E osserva che giustamente i penitenti sono raffigurati negli elefanti, i quali hanno una natura mite. Infatti se si imbattono in un uomo sperduto nel deserto, lo guidano fino alla strada che conosce; o se vengono a trovarsi davanti a un fitto gregge di pecore, si fanno la strada muovendo con calma e pazienza la proboscide. Il più vecchio guida il gruppo, e quello che lo segue in ordine di età incalza gli altri. Quando devono attraversare un fiume, mandano avanti i più piccoli, perché i più grossi, passando per primi, non facciano sprofondare il fondale, provocando così dei gorghi pericolosi. Allo stesso modo, i giusti hanno il dono della clemenza: riconducono gli erranti sulla retta via; alle pecore, cioè ai semplici, insegnano con bontà e pazienza la strada per la quale procedere con sicurezza; guidano gli altri con la parola e con gli esempi; attraversando il fiume di questa vita diretti verso la patria, mandano avanti i più piccoli, partecipano cioè con comprensione alle difficoltà dei principianti, che non sono ancora giunti al vigore della santità: se i più deboli dovessero procedere sull’austera via dei perfetti, si stancherebbero e si ritirerebbero dal cammino intrapreso. Parimenti nelle scimmie è indicata la considerazione delle indegnità e delle nefandezze compiute, giacché le scimmie sono senza la coda, con la quale coprire le proprie vergogne. Così i veri penitenti non cercano motivi per scusare o per mascherare i propri peccati, ma manifestano apertamente e con semplicità le nefandezze compiute, vergognandosi non dello sguardo degli uomini, ma solo di quello di Dio. Infine, nei pavoni è indicato il disprezzo, il rifiuto della gloria temporale. C’è da osservare che il pavone perde le penne quando gli alberi incominciano a perdere le foglie. Dopo, gli rispuntano le piume quando gli alberi ricominciano a mettere le foglie. Il primo albero fu Cristo, piantato nel giardino delle delizie, vale a dire nel grembo della beata Vergine. Le foglie di quest’albero sono le sue parole: quando il predicatore le sparge con la predicazione e il peccatore le accoglie, quest’ultimo perde le penne, cioè abbandona e disprezza le ricchezze. Poi, nella risurrezione finale, quando tutti gli alberi, cioè tutti i santi, ricominceranno a sbocciare e verdeggiare, allora colui che ha rifiutato le penne delle cose temporali, riceverà le piume dell’immortalità. E come nelle penne del pavone sta la sua bellezza, e nelle zampe la sua bruttezza, in modo che guardandogli le zampe, la sua bellezza ne viene per così dire sminuita, così i penitenti rigettano la gloria di questo mondo, ripensando alla propria abiezione e alla propria corruzione. E i penitenti recano tali merci, finché sono costanti nel controllo quotidiano di se stessi e delle proprie cose. 11. "Gesù salì in una delle due barche, quella di Simone, e lo pregò di scostarsi un po’ da terra". Il Signore prega il prelato della sua chiesa, perché la allontani un po’ dalla terra, allontani, cioè, un poco dall’amore delle cose terrene coloro che sono stati affidati alle sue cure. Ma se lui stesso è attaccato alla terra, se è gobbo e piegato verso terra, come potrà staccare dalla terra gli altri? Quando Mosè, come racconta l’Esodo, si avviò con moglie e figli verso l’Egitto per andare a liberare il popolo d’Israele, un angelo voleva ucciderlo; solo quando rimandò indietro moglie e figli, l’angelo lo lasciò proseguire ( cf. Es 4,24-26 ). Così i prelati e i sacerdoti del nostro tempo, raffigurati appunto in Mosè, hanno realmente moglie e figli, serpenti che gridano dietro ai sacerdoti: Guai, guai! Di essi dice Isaia: "I nati degli asini mangeranno una mistura di migma" ( Is 30,24 ). Migma è un termine ebraico ( in realtà è greco ) che significa appunto un miscuglio di paglia tritata con frumento. Le sostanze del sacerdote risultano dalla mescolanza di due cose: dalla paglia del commercio terreno e dal frumento delle offerte della chiesa. Questo miscuglio lo mangiano i nati degli asini, cioè i figli dei sacerdoti. Costoro, con moglie e figli, pretendono di liberare il popolo di Dio dalla schiavitù del demonio. Ma li affronterà il Signore e li ucciderà, se non si separeranno dalla moglie e dai figli. E dopo questa separazione, il Signore dirà: Allontana un po’ la barca da terra. 12. "E sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca". E anche su questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re: "Il re Salomone costruì un grande trono di avorio e lo rivestì di oro lucente. Il trono aveva sei gradini; la sua sommità, nel lato posteriore era rotonda; il sedile aveva due bracci laterali, ai cui fianchi si ergevano due leoni; e altri dodici leoni più piccoli erano disposti da una parte e dall’altra sui sei gradini. Non fu mai realizzata opera simile in alcun altro regno" ( 1 Re 10,18-20 ). Questo passo della Scrittura può essere commentato in tre maniere: applicandolo cioè alla chiesa, all’anima e alla beata Vergine Maria. La chiesa. Nel trono di Salomone si può veder raffigurata la chiesa, nella quale il nostro re di pace pronuncia, regnando, i suoi giudizi. Giustamente ci viene ricordato che è fatto di avorio, perché l’elefante, dal quale proviene l’avorio, spicca tra gli altri quadrupedi per il suo sentimento: si unisce alla sua femmina con misura, e mai si unisce ad altre. E questo si applica agli astinenti, che in castità osservano i precetti di Cristo. L’ha rivestita d’oro, poiché per mezzo dei miracoli ha fatto risplendere in essa il fulgore della sua gloria. Dio portò a termine lo splendore del creato in sei giorni, e questo numero nella sua perfezione sta ad indicare la perfezione delle opere compiute. Il settimo giorno Dio si riposò. E poiché il mondo enumera sei periodi nei quali è possibile operare, chiunque aspira alla patria celeste deve affrettarsi a raggiungerla con le opere buone. La rotondità della parte posteriore del trono raffigura la pace eterna, della quale i santi godranno dopo questa vita: chi fatica quaggiù nel modo giusto, riceverà la giusta mercede e godrà della pace perenne. I bracci posti a fianco del trono come per sorreggerlo simboleggiano il soccorso della grazia divina che fa avanzare la chiesa verso il regno celeste. E sono due, perché questo viene proclamato in tutti e due i Testamenti: infatti nulla di buono può essere fatto se non con l’aiuto divino. Nei due leoni sono raffigurati i "padri", i patriarchi dei due Testamenti, i quali con la fortezza dell’animo impararono a comandare a se stessi e agli altri. I leoni erano posti presso le impugnature dei bracci, presso le mani, perché i santi patriarchi attribuivano a Dio, e non a se stessi, tutto quello che facevano: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria" ( Sal 115,1 ). Infine, nei dodici leoni più piccoli sono raffigurati i predicatori, che seguono l’insegnamento apostolico. Essi sono disposti da una parte e dall’altra dei sei gradini del trono, perché si sforzano di difendere da ogni parte e rafforzare il cammino delle opere buone con l’insegnamento e con l’esempio. 13. L’anima. "Il re Salomone si costruì un trono". Da notare che per intraprendere un’opera sono necessarie due cose: intelligenza e impegno; con l’intelligenza si progetta, con l’impegno si realizza. Gesù Cristo, che è sapienza e potenza di Dio ( cf. 1 Cor 1,24 ), si costruì un trono sul quale riposare. Il trono è l’anima del giusto, che Gesù Cristo con la sua sapienza ha creato, quando non esisteva; con la sua potenza l’ha ri-creata, cioè redenta, quando era andata in rovina. Si costruì dunque un trono nel quale riposare, perché l’anima del giusto è la sede della sapienza ( cf. Sap 7,27 ), e per bocca di Isaia disse: Su chi volgerò lo sguardo, se non sull’umile, sul pacifico e su chi teme le mie parole? ( cf. Is 66,2 ); e Salomone: "Il re che siede in trono dìssipa ogni male con il suo sguardo" ( Pr 20,8 ). Così Gesù Cristo, re dei re, siede in trono, cioè riposa nell’anima: distrugge ogni male della carne, del mondo e del diavolo con il suo sguardo, cioè con lo sguardo della sua grazia. "Costruì un grande trono d’avorio", ecc. Vediamo quale sia il significato dell’avorio, dell’oro lucente, dei sei gradini, della sommità arrotondata, della parte posteriore, dei due bracci e del sedile, dei due leoni e dei dodici leoni più piccoli. Avorio, in lat. ebur, viene da barrus ( parola indiana ), elefante. C’è da osservare che tra gli elefanti e i draghi c’è un’eterna lotta, e vengono tesi gli agguati con questo stratagemma. I draghi, questi grossi serpenti, si nascondono vicino ai sentieri solitamente battuti dagli elefanti; lasciano passare i primi e assalgono gli ultimi affinché i primi non possano correre in aiuto. Dapprima li allacciano ai piedi perché, legate le zampe, impediscono loro di camminare. Allora gli elefanti si appoggiano ad alberi o a massi per uccidere i draghi schiacciandoli con il loro peso immane. Il motivo principale di questa lotta sta nel fatto che gli elefanti hanno il sangue piuttosto freddo, e quindi i draghi li assaltano con grandissima avidità quando il clima è torrido. E per questo motivo li assaltano soltanto quando gli elefanti sono appesantiti dall’aver bevuto a sazietà: le loro vene sono allora molto turgide e quindi, dopo averli atterrati, possono succhiare a sazietà. E si attaccano soprattutto agli occhi, che sono i più vulnerabili, oppure anche all’interno delle orecchie. Gli elefanti sono figura dei giusti e i draghi dei demoni, tra i quali ci sarà eterna guerra. I demoni tendono agguati ai piedi dei giusti, cioè ai loro sentimenti, e i giusti proprio con i sentimenti uccidono i draghi, e così questi vengono uccisi proprio là dove volevano inoculare il veleno. La focosa lussuria dei demoni tende a distruggere la castità dei santi; i demoni li assalgono specialmente se li vedono abbandonarsi ai piaceri della gola, la quale riesce a dar fuoco anche ai rigori della castità. E attaccano soprattutto gli occhi, perché sanno che gli occhi sono i primi strali della lussuria. Oppure: attaccano prima gli occhi, cioè la ragione e l’intelletto che sono gli occhi dell’anima, per estirparli, e tentano di chiudere gli orecchi, perché non possano sentire la parola di Dio. Giustamente quindi è detto: "Costruì un grande trono di avorio": di avorio, in riferimento alla castità; grande, in riferimento alla sublimità della contemplazione. "Lo rivestì di oro splendente". La veste dell’anima è la fede, che è d’oro se è illuminata dalla luce della carità. Di questa veste leggiamo nel libro della Sapienza: "Nella veste talare di Aronne c’era ( disegnato ) tutto l’orbe terracqueo" ( Sap 18,24 ). Nella veste della fede, che opera per mezzo della carità, ci devono essere i quattro elementi, di cui tutto il mondo è formato: il fuoco della carità, l’aria della contemplazione, l’acqua della compunzione e la terra dell’umiltà. "E il trono aveva sei gradini", che sono il ripudio del peccato, l’accusa del peccato stesso, il perdono dell’offesa ricevuta, la partecipazione alle sofferenze del prossimo, il disprezzo di sé e del mondo, il conseguimento della perseveranza finale. "La sommità del trono, sul lato posteriore, era rotonda". La sommità del trono simboleggia il desiderio, di cui l’anima arde, di vedere Dio; l’anima sarà rotonda ( cioè perfetta ) nel lato posteriore, vale a dire alla fine della vita, perché passerà dalla speranza alla visione. Dice il salmo: "L’estremità del dorso della colomba splende di rilessi d’oro" ( Sal 68,14 ). L’estremità del dorso della colomba, cioè dell’anima, è l’eterna beatitudine: splenderà di riflessi d’oro, splenderà cioè nella contemplazione della maestà divina. "E aveva due bracci, uno per parte, come per sostenere il sedile", cioè lo sgabello che era d’oro. Il sedile è il simbolo dell’obbedienza, sorretta come da due braccia che sono la memoria della passione del Signore, e il ricordo della propria cattiveria. Alla fine di questi bracci stanno due leoni, vale a dire la speranza e il timore. La speranza sta presso il braccio della passione del Signore, sul cui esempio volentieri obbedisce, e per mezzo del quale spera di conseguire ciò in cui crede. E presso il braccio del ricordo della propria cattiveria sta il leone del timore, il quale, se manca l’obbedienza, minaccia il pericolo della morte eterna. "E da una parte e dall’altra dei sei gradini erano disposti sei piccoli leoni". Essi raffigurano quelle dodici virtù che l’apostolo Paolo enumera nella sua lettera ai Galati: "Il frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la longanimità, la bontà, la benignità, la mansuetudine, la fede, la modestia, la castità e la continenza" ( Gal 5,22-23 ). Lo spirito del giusto, che è come il primo dei sei piccoli leoni, coltiva in se stesso queste dodici virtù. 14. La beata Vergine Maria. "Il re Salomone si costruì un trono", ecc. La beata Maria è chiamata "il vero trono di Salomone". Infatti dice l’Ecclesiastico di lei: "Io abito nei cieli altissimi e il mio trono è in una colonna di nubi" ( Sir 24,7 ). Come dicesse: Io che abito nei cieli altissimi, presso il Padre, ho scelto il mio trono in una madre poverella. Osserva che la beata Vergine, trono del Figlio di Dio, è chiamata "colonna di nubi": colonna, perché sorregge la nostra fragilità; di nubi, perché immune dal peccato. E questo trono fu di avorio, perché la beata Maria fu candida per l’innocenza, e fredda perché esente dal fuoco della concupiscenza. In Maria ci furono i sei gradini, come è scritto nel vangelo di Luca: L’angelo Gabriele fu mandato … ad una vergine, ecc. ( cf. Lc 1,26-38 ). Il primo gradino fu la verecondia ( il pudore ): "A queste parole ella rimase turbata". Di qui il detto: All’adolescente viene raccomandata la verecondia, al giovane la giovialità, all’anziano la prudenza. Il secondo gradino fu la prudenza: sul momento non disse né sì né no, ma incominciò a riflettere: "Si domandava che senso avesse un tale saluto". Il terzo gradino fu la modestia; infatti domandò all’angelo: "Come è possibile questa cosa?" Il quarto gradino fu la costanza nel suo santo proposito: "Io non conosco uomo". Il quinto gradino fu l’umiltà: "Ecco, sono la serva del Signore". Il sesto gradino fu l’obbedienza: "Avvenga di me quello che hai detto". E questo trono fu rivestito dell’oro della povertà. O aurea povertà della Vergine gloriosa, che hai avvolto in misere fasce il Figlio di Dio e l’hai adagiato in una mangiatoia! E giustamente è detto che Salomone rivestì d’oro il trono: infatti la povertà riveste l’anima di virtù, invece la ricchezza la spoglia. "E la sommità del trono era rotonda nel suo lato posteriore". Il culmine della perfezione della beata Vergine Maria fu la carità, per la quale, nel suo lato posteriore, cioè nell’eterna beatitudine, è assisa nel posto più eccelso, è rivestita della gloria più fulgente che non ha né principio né termine. "E da una parte e dall’altra due bracci, quasi a sorreggere il seggio". Il seggio, cioè lo sgabello d’oro, fu l’umiltà della Vergine Maria, sorretta come da due braccia, cioè la vita attiva e la vita contemplativa. Ella fu ad un tempo Marta e Maria. Fu Marta quando andò in Egitto e poi ritornò in Galilea; fu Maria quando serbava tutte queste parole e le meditava nel suo cuore ( cf. Lc 2,19 ). "E due leoni", cioè Gabriele e Giovanni Evangelista, oppure Giuseppe e Giovanni Battista, "stavano in testa ai due bracci": Giuseppe in riferimento alla vita attiva, Giovanni a quella contemplativa. "E dodici leoni più piccoli", cioè i dodici apostoli, da una parte e dall’altra in atto di ossequio e venerazione davanti a lei. In verità, in verità, in nessun altro regno fu mai costruita un’opera simile, perché "come Maria mai ci fu donna al mondo, né mai ci sarà in futuro" ( Liturgia ). Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma la beata Vergine Maria le ha superate tutte ( cf. Pr 31,29 ). E un altro autore dice di lei: "Se anche la Vergine tacerà, nessun’altra voce al mondo potrà risuonare". 15. "Quando ebbe finito di parlare, Gesù disse a Simone: "Prendi il largo e calate le reti per la pesca" ( Lc 5,4 ). In latino è detto duc in altum, alla lettera: conduci dove è profondo. Altus significa sia profondo che alto, e quindi può riferirsi tanto a ciò che sta sopra come a ciò che sta sotto. Si può dire sia alto cielo, che alto mare. A Simone, come ad ogni vescovo, viene detto: "Prendi il largo!", e subito dopo, ai loro suffraganei, ai loro collaboratori: "Calate le reti per la pesca". Infatti, se la barca della chiesa non viene dal presule condotta al largo, cioè alle altezze della santità, i sacerdoti non calano le reti per la pesca, ma fanno cadere le vittime nel profondo. Leggiamo in Osea: "Ascoltate questo, o sacerdoti, contro di voi si fa il giudizio, perché siete diventati un laccio, invece di sorvegliare, e come una rete tesa sul Tabor. E avete fatto cadere le vittime nel profondo" ( Os 5,1-2 ). Fa’ attenzione alle tre parole: laccio, rete e fatto cadere, perché esse indicano i tre vizi dei sacerdoti: la negligenza, l’avarizia, e la gola unita alla lussuria. La negligenza: "Siete diventati un laccio, invece di sorvegliare". I sacerdoti hanno il compito di sorvegliare, ma, per la loro negligenza, i sudditi che sono loro affidati cadono nel laccio del diavolo ( cf. 1 Tm 6,9 ). L’avarizia: "E come una rete tesa sul Tabor". Sul Tabor si trasfigurò il Signore, e il nome s’interpreta "luce che viene", e sta a indicare l’altare sul quale avviene la trasfigurazione, cioè la transustanziazione delle specie del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo, e per mezzo di questo sacramento entra la luce nelle anime dei fedeli. Su questo monte Tabor i sacerdoti, anzi per meglio dire, i mercanti, tendono la rete della loro avarizia per ammassare denaro. Celebrano la messa per denaro, e se non fossero sicuri di ricevere i soldi, certamente non celebrerebbero la messa; e così il sacramento della salvezza lo fanno diventare strumento di cupidigia. La gola e la lussuria: "Avete fatto cadere le vittime nel profondo". Le vittime sono le offerte dei fedeli, che essi fanno cadere nel profondo, che vuol dire procul a fundo, cioè lontano dal fondo, vale a dire le impiegano per soddisfare la gola e la lussuria. La vittima è così chiamata perché cade percossa da un colpo ( lat. victima, ictu percussa cadit ). Infatti con le offerte dei fedeli, che spellano, i sacerdoti ingrassano i loro cavalli e puledri, le loro concubine e i loro figli. La Legge comandava che il mamzer, cioè il figlio di una prostituta, non venisse ammesso al servizio della casa del Signore ( cf. Dt 23,2 ). Ed ecco invece che i figli delle prostitute non solo entrano nella casa del Signore, ma perfino ne mangiano i beni. 16. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra da parole d’inganno …; il volto del Signore è contro coloro che fanno il male" ( 1 Pt 3,10-12 ). Il beato Pietro prese queste parole dal salmo di Davide ( cf. Sal 34,13-15 ), nel quale sono poste in evidenza tre cose: la gloria eterna dei giusti, la vita dei penitenti, e il castigo di chi fa il male. La gloria eterna: "Chi vuole amare la vita"; la vita dei penitenti: "trattenga la sua lingua"; il castigo di chi fa il male: "Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male". La vera penitenza consiste in queste sei pratiche: trattenere la lingua dal male: "Credo che la prima delle virtù consista nel tenere a freno la lingua; imponendo silenzio si corregge una mala lingua" ( Catone ). Non dire parole d’inganno. Sta scritto: "Signore, chi abiterà nella tua tenda?" Certamente "chi non ha tramato inganni con la sua lingua" ( Sal 15,1.3 ). Evitare il male. Ma questo non basta, bisogna poi fare il bene. Cerca la pace: cerca la pace dentro, in te stesso; e se la troverai, avrai senza dubbio la pace anche con Dio e con il prossimo; e persèguila ( conquistala ) con la perseveranza finale. Sopra coloro che fanno tutto questo si posano gli occhi della misericordia del Signore, e gli orecchi della sua benevolenza sono aperti alle loro preghiere. Il castigo degli empi: "Il volto del Signore è contro coloro che fanno il male" ( cf. Sal 34,16-17 ). La parola latina vultus si può intendere come vultuositas, volto corrucciato e severo. Queste tre cose, cioè la gloria, la penitenza e il castigo, Gesù Cristo le proclamò alle turbe, dopo essere salito sulla barca, e il suo vicario non cessa di proclamarle ogni giorno a tutti i fedeli. Fratelli carissimi, preghiamo dunque lo stesso Signore Gesù Cristo, che faccia salire anche noi, per mezzo dell’obbedienza, sulla barca di Simone, ci faccia sedere sul trono d’avorio dell’umiltà e della castità, ci faccia condurre la nostra barca in alto mare, cioè alle altezze della contemplazione, ci faccia gettare le nostre reti per la pesca, per poter giungere con la maggior quantità possibile di buone opere a lui che è Dio sommamente buono. Ce lo conceda egli stesso, che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen. III. La cattura di una grande quantità di pesci 17. "Simone rispose: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti. E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni che erano nell’altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano" ( Lc 5,5-7 ). Notte, in lat. nox, è così chiamata perché nuoce agli occhi: infatti impedisce agli occhi di vedere. Chi lavora di notte non prende niente, anzi qualche volta viene preso. Dice il salmo: "Mandi le tenebre e scende la notte, e nella notte vagano tutte le bestie della foresta" ( Sal 104,20 ). Quando la notte, cioè l’oscurità del peccato, scende in un’anima, allora tutte le bestie, vale a dire i demoni, entrano in essa e la dilaniano. Chi lavora nella notte, cioè fatica nell’oscurità di questa vita per impadronirsi di qualcosa di transitorio, non prende niente: tutte le cose temporali infatti sono un nulla. Dice infatti Geremia: "Guardai la terra, ed ecco era vuota, era come un nulla" ( Ger 4,23 ). Nulla, in lat. nihilum, è composto da nihil, nulla e illum, lui. Il nulla segue colui che abbraccia quaggiù la terra vuota. Nihil è termine astratto, un non essere, ed è composto da non e illum, e la parola illum si scriveva in antico ullum. Di questo nihil, niente, dice Isaia: "Tutte le genti sono davanti a me come non esistessero; sono considerate come un nulla e cosa vana" ( Is 40,17 ). Tutte le genti, cioè quelli che vivono come i gentili ( i pagani ), sono davanti a Dio come non esistessero. Esistono nel mondo della natura, ma non in quello della grazia, perché esistere male equivale a non esistere; e chi è fuori della vera esistenza, può essere reputato un nulla e una cosa vana. Hanno vera e propria esistenza quelle cose che né possono aumentare nella loro intensità ( densità ), né possono diminuire per contrazione, né possono cambiare variando. L’essere ha come suo contrario soltanto il non essere ( Agostino ). Quindi colui che cresce nell’attenzione e nella preoccupazione per le cose temporali, che diminuisce restringendosi perché gli viene a mancare la carità, e cambia variando, vale a dire è instabile nella sua mente, decade dalla vera esistenza, e quindi "è reputato quasi un nulla e come cosa vana". "Ma sulla tua parola getterò le reti". Commenta la Glossa: Se gli strumenti della predicazione non vengono gettati sulla parola della superna grazia, cioè per ispirazione interiore, invano il predicatore lancia la rete della sua voce, perché la fede dei popoli non nasce dalla sapienza di un forbito discorso, ma per opera della divina chiamata. O stolta presunzione, o umiltà feconda! Quelli che prima non avevano preso nulla, sulla parola di Cristo catturano una grande moltitudine. Si rompono le reti per la grande quantità di pesci perché adesso, in questo mondo, insieme con gli eletti entrano tanti reprobi, che lacerano persino la chiesa con le loro eresie. Si rompono le reti, ma non si perde il pesce, perché il Signore salva i suoi anche in mezzo alle persecuzioni e agli scandali. "Ma sulla tua parola", non sulla mia, "getterò le reti". Ogni volta che le ho gettate sulla mia parola, non ho preso mai niente. Ahimè, ogni volta che le ho gettate sulla mia parola, l’ho attribuito a me, non a te; ho predicato me stesso, e non te; ho predicato cose mie, non le tue. E quindi nulla ho preso; e se ho preso qualcosa, si trattava non di un pesce ma di una rana gracidante, perché mi lodasse; e anche questo era un niente! "Ma sulla tua parola getterò le reti". Getta le reti sulla parola di Gesù Cristo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto a lui; colui che vive secondo ciò che predica. E se così farà, prenderà veramente una grande quantità di pesci. 18. Su tutto questo troviamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che "Elia salì sulla cima del Carmelo e, prostrato fino a terra, piegò il viso tra le ginocchia. Disse quindi al suo servo: àlzati e guarda verso il mare. Quegli andò, guardò e disse: Non c’è nulla! Elia disse: Tornaci ancora per sette volte. La settima volta, ecco una nuvoletta, piccola come l’orma di un piede umano, saliva dal mare. E ben presto tutto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e cadde una grande pioggia" ( 1 Re 18,42-45 ). Vediamo quale significato abbiano Elia e la cima del Carmelo; che cosa significhi "prostrato" e "terra"; e che cosa voglia dire "il viso tra le ginocchia"; che cosa significhino il servo, le sette volte, la nuvoletta, l’orma di un uomo, il mare, le nubi, il vento e la pioggia. Elia è figura del predicatore, il quale deve salire sulla cima del Carmelo, nome che s’interpreta "scienza della circoncisione", e sta a indicare la perfezione della vita santa, nella quale l’uomo impara molto bene a tagliare da se stesso tutte le cose superflue. "Prostrato", ecco l’umiltà; "fino a terra", ecco il ricordo della propria fragilità; "piegò il viso tra le ginocchia", ecco il dolore delle passate iniquità. "E disse al suo servo: Àlzati e guarda verso il mare". Servo, in lat. puer, viene da purezza, e sta a indicare il corpo del predicatore: egli deve mantenerlo nella più assoluta purezza. E questo servo deve guardare verso il mare, cioè verso i mondani contaminati dall’amarezza del peccato. E guarda verso di essi quando nella sua predicazione presenta i rimedi contro i loro vizi. E deve "guardare sette volte", cioè presentare e spiegare i sette articoli della fede, che sono: l’incarnazione, il battesimo, la passione, la risurrezione, l’ascensione, la discesa dello Spirito Santo e il ritorno di Gesù Cristo per il giudizio finale, nel quale i peccatori, giudicati e condannati, saranno gettati nello stagno di fuoco ardente, dove sarà pianto e stridore di denti ( cf. Mt 13,42; Ap 21,18 ). E in questo settimo articolo, che corrisponde alla settima volta, mentre la massa dei mondani sarà in preda allo spavento per la minaccia delle pene eterne, dal mare, cioè dal loro cuore, il predicatore vedrà alzarsi una nuvoletta, cioè un po’ di compunzione, piccola come l’orma di un uomo: e in questo è simboleggiata la grazia di Gesù Cristo. E quando la grazia di Cristo viene infusa nella mente del peccatore, allora senza dubbio la nuvoletta della compunzione incomincia a salire, a poco a poco cresce e diventa una grande nuvola che oscura tutto il falso splendore delle cose temporali. Poi si alza il vento impetuoso della confessione, che strappa dalle radici tutti i vizi, e incomincia a cadere la grande pioggia della soddisfazione ( le opere della penitenza ), che inonda la terra e la fa germogliare. E in questo modo il predicatore prende veramente una grande quantità di pesci. "E fecero cenno ai compagni che stavano nell’altra barca", ecc. Abbiamo detto più sopra che queste due barche raffigurano le due forme di vita: dei penitenti e dei carnali ( vedi n. 6 ). Quelli che sono nella barca di Simone, che vivono cioè nell’obbedienza e nella penitenza, e chiamano quelli che fanno una vita dedita ai piaceri carnali perché vengano ad aiutarli ( cioè cambino vita ). Troviamo un caso analogo nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Salomone mandò a dire a Chiram, re di Tiro, di prestargli aiuto per costruire il tempio del Signore ( cf. 1 Re 5,1-6 ). Così questi chiamano i carnali con la predicazione, perché vengano, perché si allontanino dalla vanità del mondo, e li aiutino, si diano cioè alle opere di penitenza. Così riempiranno entrambe le barche e costruiranno il tempio del Signore: con i primi e con i secondi si costruirà così, con pietre vive, il tempio della Gerusalemme celeste. 19. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "E chi vi potrà fare del male, se sarete bravi imitatori ( di chi fa il bene )? E se anche dovrete soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro e non turbatevi" ( 1 Pt 3,13-14 ). Pietro così parla ai penitenti, presi dal mare del mondo con la rete della predicazione: Se sarete dei bravi imitatori di coloro che vi hanno chiamato alla penitenza, chi potrà farvi del male? Come dire: Nessuno, né uomo né diavolo! E se dovrete soffrire qualcosa per la giustizia, non per i peccati, beati voi, cioè "bene aumentati" ( lat. beati, bene aucti ), perché aumenterà la corona del premio. E non vi sgomentate per paura di loro, perché "chi ha paura non è perfetto nella carità" ( 1 Gv 4,18 ). Fa’ attenzione, che dice: "Non abbiate timore". C’è un duplice timore: il timore delle cose e il timore dei corpi. Chi ama Dio disprezza entrambi questi timori. "Non vi conturbate", per non distogliervi dalla fermezza della vostra mente. Non dice "turbate" ma "conturbate" perché, anche se il corpo qualche volta si turba esteriormente, tuttavia la mente deve restare salda e stabile interiormente. Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Verbo di Dio Padre, per potere calare le reti sulla sua parola e non sulla nostra; per poter tirar fuori dal profondo dei vizi i peccatori e salire a lui insieme con loro. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Lo stupore di Pietro e dei suoi compagni, e l’abbandono di tutto ciò che possedevano 20. "Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontànati da me, che sono un peccatore. Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono" ( Lc 5,8-11 ). Pietro, riconoscendosi peccatore, temette di essere schiacciato dalla presenza di tanta maestà, e quindi disse: "Allontànati da me, che sono un peccatore". Chi si riconobbe peccatore, si gettò ai piedi di Gesù. E in questo fatto dobbiamo considerare due momenti: il timore causato dai peccati, quando è detto "si gettò", e la speranza nella misericordia del Redentore quando è detto "alle ginocchia di Gesù". E in proposito il Signore, per bocca di Isaia, promette ai penitenti: "Sarete portati al seno e, seduti sulle ginocchia, sarete accarezzati" ( Is 66,12 ). In lat. è detto ad ubera, alle mammelle. Sono chiamate ubera perché sono uvida, cioè bagnate, molli, a motivo del latte. Considera che le mammelle sono due: l’incarnazione e la passione; la prima fu di consolazione, la seconda di riconciliazione. I penitenti, da poco convertiti, come i lattanti vengono portati alle mammelle per essere consolati con il latte dell’incarnazione, e per essere riconciliati con il sangue che uscì dalla mammella aperta dalla lancia sul monte Calvario, e venir così incoraggiati ad affrontare la passione. Vengono anche presi sulle ginocchia della benevolenza paterna, come fa la madre con il figlio, e vengono accarezzati affinché abbiano la certezza che, chi ha loro offerto le mammelle dell’incarnazione e della passione, non ha certo negato loro la remissione dei peccati e la beatitudine del Regno. "Allontànati da me". Dove si trova oggi uno che abbia paura di essere schiacciato da un beneficio troppo grande? Pietro ebbe paura. Noi invece, pur consci di tanti peccati, ci mettiamo alla presenza della maestà divina senza alcun riguardo, e senza alcun timore. La maestà divina, infatti, è presente dove c’è il corpo di Cristo, gloria degli angeli, dove ci sono i sacramenti della chiesa, dove si amministrano i santi misteri. Certamente noi crediamo a tutte queste cose e ciononostante, ostinati nella nostra malizia, non smettiamo mai di peccare. Perciò il Signore, per bocca di Geremia, dice: "Com’è che il mio diletto, nella mia casa ha commesso tante scelleratezze? Forse che le carni dei sacrifici ti libereranno dai tuoi peccati?" ( Ger 11,15 ). No, di certo, anzi ne aggiungeranno altri. "Grande stupore infatti aveva preso lui e quelli che erano insieme", ecc. Restano stupefatti, Pietro e i suoi compagni, di fronte ad una pesca così abbondante! Anche noi dobbiamo meravigliarci di fronte alla conversione dei peccatori, come facevano coloro dei quali si racconta nel libro dei Giudici, che "Sansone colpì i filistei e ne fece una tale strage che essi, per lo stupore, se ne stavano lì seduti con le gambe accavallate" ( Gdc 15,8 ). Il testo latino dice letteralmente: "Mettevano il polpaccio sulla coscia". Il polpaccio è il muscolo che copre la tibia. Quando il Signore colpisce i filistei, cioè i demoni, e libera dalle loro mani Israele, cioè l’anima, dobbiamo anche noi restare stupefatti e mettere il polpaccio sopra la coscia. Nella coscia è simboleggiato il piacere carnale e noi mettiamo sopra di esso il polpaccio quando , sull’esempio del peccatore convertito, reprimiamo il piacere della carne proprio con la mortificazione della carne stessa. "Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini". E questo spetta in modo particolare a Pietro, al quale appunto Gesù spiega che cosa significhi la cattura dei pesci. Come allora catturava i pesci con le reti, così in seguito avrebbero catturato gli uomini con le parole. O anche: Perché sei stato umile, ti sei vergognato delle macchie che c’erano nella tua vita, ma questa vergogna non ti ha impedito di confessarle, anzi, messa a nudo la piaga, hai cercato il rimedio: d’ora in poi sarai pescatore di uomini. "Tirate le barche a terra, lasciato tutto, lo seguirono". Cristo, il gigante che ha in sé due nature, l’agile corridore che divora le sue strade, esultò come un gigante che percorre la via ( cf. Sal 19,6 ), e si affretta a compiere la missione per la quale era venuto. Quindi chi vuole seguirlo deve necessariamente lasciare tutto, tutto deporre e tutto posporre, perché chi è carico non può star dietro a uno che corre. Dice infatti il terzo libro dei Re: "La mano del Signore fu sopra Elia il quale, cintosi i fianchi, incominciò a correre" ( 1 Re 18,46 ). La mano, in lat. manus, che suona quasi come munus, servizio, aiuto, è la grazia di Dio, e quando è sopra l’uomo, gli infonde un così grande aiuto che, cinti i fianchi, può correre per mezzo della castità, e seguire Cristo nudo e povero, anche lui nudo e povero per la povertà. 21. Infine con questa quarta parte del vangelo concorda la quarta parte dell’epistola: "Santificate il Signore Cristo nei vostri cuori" ( 1 Pt 3,15 ). Fa’ attenzione a queste tre parole: il Signore, Cristo, santificate. Signore, in lat. Dominus, da dominio ( it. signore, signoria, signoreggiare ). Cristo viene da crisma, olio misto a balsamo profumato. Santo, si dice in greco àgios, e significa "senza terra" ( a, senza, gès, terra ), nella quale ci sono quattro brutture: l’impurità, l’insaziabilità, l’oscurità e la fragilità. Quindi chi è senza terra, chi cioè è senza attaccamento alle cose terrene, nelle quali c’è l’impurità della lussuria, l’insaziabilità dell’avarizia, l’oscurità dell’ira e dell’invidia, e la fragilità dell’incostanza, costui senza dubbio santifica nel suo cuore il Signore come un umile servo, santifica nel suo cuore Cristo come un vero cristiano. Fratelli carissimi, rivolgiamo le nostre preghiere allo stesso Gesù Cristo, perché, lasciate tutte le nostre cose, ci conceda di poter correre con gli apostoli, di santificarlo nel nostro cuore, per poter giungere a lui che è il Santo dei santi. Ce lo conceda egli stesso, che è degno di lode e di amore, che è dolce e mite. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. E ogni anima penitente, tratta fuori dal lago di Genesaret, risponda: Amen, alleluia! Domenica VI dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica VI dopo Pentecoste: "Se la vostra giustizia non supererà quella dei farisei"; vangelo che si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sui prelati della chiesa e sui predicatori, e come dev’essere la loro vita: "Sulle basi del tempio erano scolpiti cherubini, leoni, buoi e corde pendenti". – Parte I: Sermone sulla giustizia degli ipocriti e su quella dei veri penitenti: "Se la vostra giustizia non supererà", e "Sceglietevi un bue". – Contro il religioso superbo: "Se il bue è solito cozzare con le corna". – La giustizia dei penitenti: "Elia costruì un altare". – La passione di Cristo: "Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù". – Il disprezzo del mondo e la fuga nel deserto: "Fuggi, mio diletto!". – Parte II: Sermone contro gli iracondi: "Adonia, figlio di Agghit". Natura del basilisco e suo simbolismo. – Parte III: Sermone sul quadruplice altare: "Se stai presentando la tua offerta". – Sermone sulla devozione della mente: "Farai un altare sul quale bruciare gli incensi". – Sermone sul quadruplice ufficio e sul quadruplice fratello: "Se stai presentando la tua offerta, e ti ricordi che il tuo fratello". Esordio - Sermone sui prelati e i predicatori della Chiesa 1. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" ( Mt 5,20 ). Si narra nel terzo libro dei Re che sulle basi del tempio c’erano scolpiti cherubini, leoni, buoi e corde pendenti ( cf. 1 Re 7,27-29 ). Considera che tre sono gli elementi atti a reggere la costruzione della casa: i capitelli, le colonne e le basi. I capitelli, così chiamati perché sono il capo della colonna, raffigurano i profeti, dei quali nel terzo libro dei Re è detto: "I capitelli che erano sulla sommità delle colonne, erano lavorati a forma di giglio" ( 1 Re 7,19 ). Nel giglio è raffigurato il supremo splendore della patria eterna e dell’immortalità, nonché l’incanto del paradiso, olezzante del profumo dei fiori: cose che i profeti, padri degli apostoli, ci hanno svelato nelle loro profezie. Le colonne raffigurano gli apostoli, dei quali è detto: "Io ho reso ferme le sue colonne" ( Sal 75,4 ). Nel terzo libro dei Re si racconta che Salomone eresse due colonne: una la chiamò Iachin, nome che significa "solidità", e la seconda la chiamò Booz ( Boaz ), cioè "vigore" ( cf. 1 Re 7,21 ). In queste due colonne sono raffigurati gli apostoli, che a buon diritto sono detti "due colonne", perché per ben due volte, dopo la risurrezione di Cristo, hanno ricevuto lo Spirito Santo: dapprima in terra, per indicare che doveva essere amato il prossimo; quindi dal cielo, per indicare che doveva essere amato Dio. Nella risurrezione di Cristo ricevettero la solidità, e nell’infusione dello Spirito Santo il vigore che non sarebbe mai venuto meno. Le basi raffigurano i prelati e i predicatori del nostro tempo, sui quali devono essere scolpite queste quattro figure: i cherubini, i leoni, i buoi e le corde. Nei cherubini è simboleggiata la pienezza della scienza e della dottrina, nei leoni il terrore della potenza, nei buoi la mansuetudine della misericordia e nelle corde i legami della disciplina. Nelle basi del tempio ci siano, vi prego, queste sculture: cioè la conoscenza della dottrina, per insegnare; il terrore della potenza, per rimproverare; la mansuetudine della misericordia, per confortare; i legami della disciplina, per limitare e frenare. Di queste quattro virtù si parla nel quarto libro dei Re, dove è scritto che Eliseo gridava: "Padre mio, padre mio, cocchio d’Israele e suo cocchiere!" ( 2 Re 2,12 ). "Padre mio" si riferisce all’insegnamento; "padre mio" alla correzione e al rimprovero; "cocchio" al conforto; "cocchiere" alle limitazioni e al frenare. Se i prelati della chiesa e i predicatori scolpiranno in se stessi queste quattro capacità, in verità potranno avere quella giustizia superiore, della quale il vangelo di oggi dice: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei", ecc. 2. Osserva ancora che in questo vangelo vengono poste in evidenza tre esortazioni. Primo, la giustizia degli apostoli, dove dice: "Se la vostra giustizia non supererà", ecc. Secondo, la condanna di colui che si adira contro i fratello e lo offende: "Avete udito che cosa è stato detto agli antichi". Terzo, la riconciliazione tra i fratelli: "Se stai presentando la tua offerta". Con queste tre parti del vangelo confronteremo alcuni racconti del terzo libro dei Re. Nell’introito della messa di questa domenica si canta: "Il Signore è la forza del suo popolo" ( Sal 28,8-9 ). Si legge quindi l’epistola del beato Paolo ai Romani: "Quanti siamo stati battezzati in Cristo", ecc. ( Rm 6,3-11 ). La divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: "Quanti siamo stati battezzati". Seconda parte: "Sappiate che il nostro uomo vecchio". Terza parte: "Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, più non muore". I. La giustizia degli apostoli 3. "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" ( Mt 5,20 ). La giustizia dei farisei consisteva nel trattenere dal male la mano, non l’animo. I giudei credevano che non ci potesse essere peccato nel pensiero, ma solo nelle opere. Invece la giustizia degli apostoli è molto superiore per lo spirito del consiglio e per la grazia della misericordia divina, e consiste non solo nel trattenere la mano dalle opere cattive ma anche l’animo dai pensieri cattivi. Gli scribi e i farisei, quest’ultimo nome significa "separati", sono gli ipocriti ( cf. Mt 23 passim) i quali, scrivendo dinanzi agli occhi degli uomini, hanno scritto l’ingiustizia; e sono anche alcuni religiosi presuntuosi, i quali reputano giusti se stessi e disprezzano gli altri ( cf. Lc 18,9 ). La giustizia di costoro consiste nel lavarsi le mani e nel lavare i vasi, nella disposizione delle vesti, nella costruzione di eleganti sinagoghe ( edifici ), nella grande quantità di istituzioni e di prescrizioni. Invece la giustizia dei veri penitenti consiste nello spirito di povertà, nell’amore fraterno, nel pianto della contrizione, nella mortificazione del corpo, nella dolcezza della contemplazione, nel disprezzo della prosperità terrena, nella paziente accettazione delle avversità, nel proposito della perseveranza finale. Sulla giustizia di quelli e di questi, abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che "Elia disse ai profeti di Baal: Sceglietevi un bue e cominciate voi, perché siete più numerosi. Invocate i nomi dei vostri dèi, ma senza appiccare il fuoco. Essi invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: Baal, ascoltaci! Ma non si sentiva una voce né una risposta. Essi continuavano a saltare intorno all’altare che avevano eretto. Essendo già mezzogiorno, Elia incominciò a beffarsi di loro dicendo: Gridate con voce più alta: egli è il vostro signore, forse sta parlando, forse è nella sua stanza, o in viaggio; forse dorme e bisogna svegliarlo. Gridarono con voce più forte e si fecero delle incisioni con coltelli e piccole lance, come è loro costume, fino a bagnarsi tutti di sangue" ( 1 Re 18,25-28 ). Ecco qual è la giustizia dei farisei! Invece quale sia la giustizia dei veri penitenti, lo dimostra il seguito del racconto. "Elia, nel nome del Signore, costruì un altare di pietre, scavò intorno all’altare un canaletto, capace di contenere due misure di semente; quindi dispose la legna e squartò il bue". Comandò poi di versare dell’acqua sull’olocausto e sulla legna, una, due e tre volte. "E l’acqua scorreva attorno all’altare e anche il canaletto si riempì d’acqua". E quando Elia ebbe innalzato al cielo la sua preghiera "cadde il fuoco del Signore e divorò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e gridò: Il Signore è Dio, il Signore è Dio!" ( 1 Re 18,32-39 ). 4. Gli ipocriti presuntuosi, i profeti di Baal, nome che significa "superiore" o "divoratore", si scelgono un bue, cioè la concupiscenza carnale. Questo è il bue avvezzo a cozzare di corna, del quale è detto nell’Esodo: "Se il bue era solito cozzare con le corna già da prima, e il padrone ne era stato avvertito e non lo aveva custodito, se ha causato la morte di un uomo o di una donna, il bue sarà lapidato e anche il suo padrone dovrà essere messo a morte" ( Es 21,29 ). Il bue avvezzo a colpire con le corna è figura dell’appetito carnale il quale, con il corno della superbia, uccide un uomo o una donna, ossia la ragione o la buona volontà. E poiché il suo padrone, cioè lo spirito, non ha voluto custodirlo, cioè tenerlo a freno, sarà messo a morte insieme con il bue: infatti saranno puniti eternamente sia il corpo che l’anima. E ascoltino questo anche gli abati e i priori, perché se essi hanno un bue avvezzo a colpire con le corna, vale a dire un monaco o un canonico superbo, ubriacone e lussurioso, e non si sono preoccupati di custodirlo affinché con il suo cattivo esempio non scandalizzasse uomini o donne, il bue sarà lapidato perché egli morirà nei suoi peccati, ma anche l’abate o il priore, che non l’hanno custodito, saranno puniti eternamente. "E invocate i nomi dei vostri dèi", ecc. Quanti sono i peccati mortali che fanno, tanti sono gli dèi che essi invocano e adorano. E di essi dice l’Esodo: "Questi sono i tuoi dèi, Israele, che ti hanno fatto uscire dal paese d’Egitto!" ( Es 32,4 ). Ahimè, quanti sono oggi i religiosi che anche nel deserto, cioè nella religione o nel chiostro, adorano gli dèi che avevano adorato in Egitto, cioè nel mondo. E poiché sono privi del fuoco della carità, il loro sacrificio è divenuto inutile per essi. Dal mattino fino a mezzogiorno gridano dicendo: Baal, ascoltaci! Che cosa significa invocare Baal, se non smaniare per diventare superiori? Ma non si sente una voce, né si trova chi vada incontro alle loro brame. Allora di nuovo gridano a voce più alta. Gridare vuol dire desiderare. Si tagliano con coltelli e piccole lance, si tormentano cioè con digiuni e flagelli; si sfigurano il volto ( cf. Mt 6,16 ), digiunano prima nelle vigilie, per poi meglio celebrare la festa del ventre. Al tempo di Elia, i profeti di Baal gridavano ma non venivano esauditi. Invece ai nostri tempi gridano e sono esauditi. Vengono promossi a cariche superiori per poi precipitare in una caduta più rovinosa. Prima la loro voce era umile, le loro vesti erano modeste, il ventre incavato, il viso pallido, la preghiera assidua in pubblico. Adesso invece tuonano minacce, incedono cappati e infulati, protendendo in avanti il ventre, col viso rubicondo e raggiante; dormono molto e non pregano mai. Verrà, verrà Elia, catturerà i profeti di Baal e li ucciderà nel torrente Kison ( cf. 1 Re 18,40 ). Verrà Salomone e ucciderà Adonia che voleva regnare ( cf. 1 Re 2,24 ), e Simei che aveva scagliato le sue maledizioni contro Davide, e Ioab che aveva ucciso due principi di Israele, che erano migliori di lui ( cf. 1 Re 2,24.44-46.31-32 ). 5. La giustizia dei penitenti. "Elia costruì un altare". Elia è figura del penitente che, con le pietre delle virtù, ricostruisce l’altare della fede, distrutto dai peccati, e su di esso offre il sacrificio della lode come profumo a Dio gradito. "Scavò un canaletto": il penitente, dal suo cuore contrito e dallo spirito umiliato fa scaturire fiumi di lacrime per il timore della geenna e per il desiderio della vita eterna. E vi dispone anche la legna, perché prende come esempio per sé le parole e le opere dei santi. Squarta poi il bue e lo colloca sulla legna, quando si sforza di conformare tutti i suoi atti all’esempio dei santi padri. Versa una volta, due e tre l’acqua sopra l’olocausto e sopra la legna perché in ogni tempo custodisce i pensieri, le parole e le opere nella purezza della coscienza e nella compunzione delle lacrime. E non desiste se prima i canaletti non sono pieni, cioè finché non sarà nella perfezione della felicità futura, che segue alle sofferenze della vita presente. E così si avvereranno le parole che seguono: "Discese il fuoco dal cielo e consumò l’olocausto", ecc., quando la sentenza del giudice supremo, dopo aver ponderato alla perfezione le parole, le azioni e tutta la nostra vita, saggiandoci come si saggia l’argento con il fuoco, dopo averci resi immortali e beati, ci collocherà nella nostra sede definitiva affinché, come il popolo degli Israeliti, cantiamo in eterno, riconoscenti: Il Signore è Dio, il Signore è Dio! Questa è la giustizia che giustifica i penitenti, della quale appunto dice il Signore: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei…". Ricordati che la giustizia è quella virtù, per la quale, con retto giudizio, viene dato a ciascuno il suo. Giustizia è come dire ( in lat. ) iuris status, stato di diritto. Ognuno è tenuto a praticare la giustizia verso cinque entità: verso Dio con l’onore, verso se stesso con la cautela ( la diffidenza ), verso il prossimo con l’amore, verso il mondo con il disprezzo, verso il peccato con l’odio. E a queste cinque entità fanno riscontro le cinque espressioni contenute nell’introito della messa di oggi: "Il Signore è forza del suo popolo; rifugio di salvezza del suo consacrato. Salva il tuo popolo, Signore; benedici la tua eredità; guidali e sostienili per sempre" ( Sal 28,8-9 ). Se darai onore al Signore, il Signore sarà la tua forza. Se con te stesso, per quanto è possibile, userai cautela e diffidenza, egli sarà tuo rifugio di salvezza. Se amerai il prossimo, egli salverà te e lui. Se disprezzerai il mondo, il Signore benedirà te, che sei la sua eredità. Se odierai il peccato, ti guiderà e ti sosterrà Colui con il quale vivrai in eterno. 6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo stati dunque sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione" ( Rm 6,3-5 ). Ecco la giustizia ripartita tra le cinque entità. Ricòrdati che dal fianco di Cristo uscì sangue e acqua: l’acqua del battesimo e il sangue della redenzione ( cf. Gv 19,34 ). L’acqua per il corpo, perché tante acque simboleggiano tanti popoli ( cf. Ap 17,15 ); il sangue per l’anima, perché l’anima vive nel sangue ( cf. Dt 12,23 ). Diamo quindi tutto a Dio, il quale tutto ha redento ( lat. redemit, ricomprò ) per tutto possedere. "Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù", cioè nella fede di Cristo Gesù, siamo stati purificati "nella sua morte", cioè nel suo sangue. Dice infatti l’Apocalisse: "Egli ci ha amati, e nel suo sangue ci ha lavati dai nostri peccati" ( Ap 1,5 ). Ricorda che "il sangue fatto sgorgare dal fianco della colomba, cancella la macchia di sangue dall’occhio" ( Plinio ). Dobbiamo perciò tributare onore e adorazione, tutto ciò che siamo e possiamo, a colui che con il suo sangue ha cancellato dall’occhio dell’anima nostra la macchia di sangue, cioè la macchia del peccato. La nostra colomba, Gesù Cristo, privo di fiele, il cui canto è pianto e gemiti, volle che il suo fianco venisse aperto per cancellare la macchia di sangue ai ciechi e aprire agli esuli la porta del paradiso. E con noi stessi dobbiamo usare cautela e diffidenza. Infatti l’epistola soggiunge: "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte", cioè nella mortificazione dei vizi. Come Cristo, subendo il supplizio della croce, ebbe le membra straziate e inchiodate, riposò nel sepolcro e fu sottratto agli sguardi umani, così anche noi, sopportando la croce della penitenza, dobbiamo avere le membra inchiodate per mezzo della continenza, per non ritornare ai peccati passati, dai quali dobbiamo desistere in modo tale da non aver più né la loro immagine né il loro ricordo. Parimenti dobbiamo offrire al prossimo il nostro amore. "Come Cristo fu risuscitato dai morti …". Come Cristo, dopo la sua risurrezione, apparve ai discepoli e cambiò la loro tristezza in gioia, così noi, risorgendo dalle opere di morte alla gloria del Padre, dobbiamo rallegrarci con il prossimo e camminare insieme nella vita nuova. E qual è la vita nuova se non l’amore e la carità verso il prossimo? "Io vi do un comandamento nuovo – dice il Signore – che vi amiate a vicenda" ( Gv 13,34 ). E nel Levitico: "Quando arriverà il raccolto nuovo, dovete gettare via le cose vecchie" ( Lv 26,10 ); e le cose vecchie sono l’ira, l’invidia, e tutti gli altri vizi enumerati dall’Apostolo ( cf. Gal 5,20-21 ). 7. Parimenti dobbiamo mostrare al mondo il nostro disprezzo e nutrire l’odio contro il peccato. Continua l’epistola: Se siamo stati "piantati insieme" con Cristo", ecc. Se dal frutteto di Babilonia, dove i falsi giudici sorpresero Susanna ( cf. Dn 13,5-7 ), saremo trapiantati; e se saremo "piantati insieme" nell’orto dello sposo, nel quale egli fu sepolto, allora veramente disprezzeremo il mondo. E poiché dal disprezzo del mondo nasce anche l’odio al peccato, l’Apostolo continua: "a somiglianza della sua morte". Dove c’è la somiglianza della morte di Cristo, lì c’è anche il ribrezzo per il peccato. Sta scritto nel Cantico dei Cantici: "Fuggi, o mio diletto, simile a una capretta o ad un cerbiatto, fuggi sopra i monti degli aromi" ( Ct 8,14 ). "Fuggi, mio diletto", ecco il disprezzo del mondo. Dice infatti Giovanni: Volevano rapire Gesù per proclamarlo re, ma egli fuggì sul monte ( cf. Gv 6,15 ). E invece, quando lo cercarono per condurlo alla morte, andò incontro a quelli che lo cercavano ( cf. Gv 18,4 ). "Fuggi, dunque, mio diletto!" Si racconta nell’Esodo che il faraone "cercava di uccidere Mosè, ma egli fuggì dalla sua presenza, si fermò nella terra di Madian e si sedette vicino a un pozzo" ( Es 2,15 ). Fuggi anche tu, mio diletto, perché il diavolo cerca di ucciderti, e fermati nella terra di Madian, che s’interpreta "del giudizio", per giudicare la tua terra ( te stesso ) in modo da non essere giudicato dal Signore; e siediti presso il pozzo dell’umiltà, dal quale potrai attingere l’acqua che zampilla per la vita eterna ( cf. Gv 4,14 ). Fuggi, dunque, mio diletto. Trovi nella Genesi che Rebecca disse a Giacobbe: "Ecco che Esaù, tuo fratello, minaccia di ucciderti. Adesso, figlio, ascolta la mia voce, àlzati e fuggi a Caran, presso Làbano, mio fratello: abiterai presso di lui" ( Gen 27,42-44 ). Il peloso Esaù è figura del mondo coperto dal pelo di innumerevoli vizi. Il mondo, o figlio, minaccia di ucciderti. Fuggi, dunque, mio diletto, da Làbano, nome che s’interpreta "bianchezza", cioè rifugiati presso Gesù Cristo, che ti renderà più bianco della neve ( cf. Sal 51,9 ), cancellando i tuoi peccati; rifugiati presso Cristo che sta in Caran, che significa "eccelsa", e lì abiterai con lui, perché il Signore abita nel più alto dei cieli ( cf. Sal 113,5 ). Fuggi, dunque, mio diletto! "Simile a una capretta o ad un cerbiatto". La capretta ( lat. caprea ), che prende ( in lat. capit ) le cose ardue, difficili, ha la vista acuta e si sforza di raggiungere le cose alte. I cerbiatti, figli del cervo, sono chiamati in lat. hinnuli, da innuo, far cenno, perché ad un cenno della madre, corrono a nascondersi. Questi due animali simboleggiano Gesù Cristo, Dio e uomo. Nella capretta è simboleggiata la sua divinità, che tutto vede; nel cerbiatto la sua umanità la quale, ad un cenno della madre sua, rinviò fino ai trent’anni la sua opera, che aveva iniziato a dodici, e tornò con lei a Nazaret, restandole sempre sottomesso ( cf. Lc 2,51 ). Questo cerbiatto è detto "figlio dei cervi", discendente cioè dagli antichi patriarchi, dai quali ebbe la sua origine secondo la carne. Renditi simile, mio diletto, a questa capretta e a questo cerbiatto, affinché piantato insieme con lui a somiglianza della sua morte, tu possa salire sui monti degli aromi. È ciò che dice l’Apostolo: "Saremo simili anche alla sua risurrezione". I monti degli aromi raffigurano la perfezione delle virtù: chi ne sarà in possesso sarà beato con Cristo nella risurrezione finale. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di farci abbondare nelle opere della giustizia, in modo da essere capaci di disprezzare il mondo, di mostrare in noi la somiglianza della tua morte, di salire con te ai monti degli aromi e di essere felici con te nel gaudio della risurrezione. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. Condanna di chi si adira contro il fratello e lo offende 8. "Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna" ( Mt 5,21-22 ). Il comandamento di Cristo non è contrario alla Legge, ma contiene in sé un ampliamento della Legge. Chi non si adira, non uccide: ma non al contrario; la libertà di adirarsi può essere causa di omicidio. Elimina l’ira e non ci sarà omicidio. L’ira consiste in ogni cattivo impulso a far del male; l’impulso improvviso, al quale non si acconsente, è una pre-passione, cioè una malattia interiore. Se vi si aggiunge il consenso, diventa passione, ed è la morte in casa. "Chiunque si adira con il proprio fratello". In questi peccati c’è una gradazione. Il primo stadio consiste nell’arrabbiarsi e nel conservare quest’impulso dell’animo. Il secondo, quando questo impulso fa alzare la voce e dire cose che feriscono colui con il quale si è arrabbiati. Il terzo, quando si arriva a veri e propri insulti e ingiurie. Parimenti c’è una gradazione anche nella pena. Infatti il giudizio è la pena più piccola, perché ancora si tratta con il colpevole e c’è la possibilità della difesa. Poi viene il sinedrio, quando cioè i giudici discutono tra loro quale sia la pena da infliggere a colui che è stato giudicato degno di condanna. E la massima pena è la geenna, dove non c’è più alcuna possibilità di revoca. In questo modo, ciò che non poteva essere espresso con modalità più appropriate e sicure, è stato indicato con alcuni esempi. Con questi tre gradi – giudizio, sinedrio e geenna – sono stati indicati singolarmente i diversi stati che ci sono anche nella dannazione eterna, a seconda dei peccati commessi. Considera che tra l’ira e l’iracondia c’è questa differenza: l’ira è momentanea e si accende in certe circostanze; invece l’iracondia è un vizio della natura, e quindi permanente. È detto iracondo uno che, quando il sangue gli ribolle, monta in furore. Ira viene dal latino uro, che significa ardo: l’ira è come una fiamma, un fuoco. I due insulti riportati dal vangelo sono: raca e fatuo. Raca è una parola ebraica, tradotta in greco kenòs, che significa vuoto, incapace; corrisponde all’insulto popolare: senza cervello. Chi dunque rivolgerà quest’ingiuria al suo fratello, che è pieno di Spirito Santo, dovrà scontare una pena a giudizio dei santi giudici. Fatuo è colui che non sa quello che dice e neppure comprende quello che dicono gli altri. Stolto poi è un ottuso di sentimenti. 9. A proposito di tutto questo abbiamo una concordanza nel terzo libro dei Re, dove si racconta che Salomone fece uccidere Adonia, Simei e Ioab. "Adonia, figlio di Agghit, gonfio di superbia, diceva: Sarò io il re! Si procurò carri, cavalli e cinquanta uomini che lo precedessero" ( 1 Re 1,5 ). In Adonia, nome che significa "padrone che domina", vediamo personificato l’iracondo che, come un padrone, vuol dominare sugli altri. Costui è figlio di Agghit, che s’interpreta "riflessione". Infatti da una riflessione perversa nasce l’iracondia, per mezzo della quale il peccatore si insuperbisce e dice: "Io sarò il re". Quale stoltezza! Chi non sa ancora guidare bene se stesso, brama comandare agli altri. "Si procurò carri, cavalieri e cinquanta uomini". Il carro raffigura la lingua, i cavalieri raffigurano le parole e i cinquanta uomini i cinque sensi del corpo. Sul carro maledetto di una lingua tagliente, che dovrebbe essere troncata con la spada e bruciata con il fuoco, si insuperbisce l’animo del peccatore, quando si infiamma d’ira. Corrono e trascorrono le parole come cavalieri all’attacco. E obbediscono anche i cinque sensi del corpo, avvelenati dal fiele dell’iracondia: ciechi gli occhi, sordi gli orecchi, crudeli le mani, e così gli altri sensi. Questi è Zimri, l’omicida, del quale il terzo libro dei Re dice che "entrato nel palazzo, si diede fuoco insieme con la casa del re; morì nei peccati che aveva commesso, facendo ciò che è male agli occhi del Signore" ( 1 Re 16,18-19 ). Zimri s’interpreta "aggressore" e "che provoca all’ira", e raffigura l’iracondo che con il fuoco dell’iracondia incendia se stesso e la casa del re, cioè la sua anima, riscattata con il sangue del Re; e così peccando mortalmente muore davanti al Signore. Perciò giustamente l’iracondo è raffigurato nel basilisco. Osserva che il basilisco, un rettile di mezzo piede di lunghezza, è un terribile flagello per la terra: con il suo soffio fa inaridire le erbe, dissecca le piante, uccide gli animali, stermina e incendia tutto il resto; contamina perfino l’aria, così che neppure un uccello può sorvolarlo impunemente, perché sarebbe avvelenato dalle sue pestilenziali esalazioni. Perfino gli altri rettili inorridiscono al suo sibilo, e tutti si danno alla fuga e si precipitano ovunque possono. Nessuna bestia si nutre di ciò che viene ucciso dal suo morso, né alcun uccello vi si avvicina. Tuttavia viene sconfitto e vinto dalle donnole, e gli uomini introducono questi animaletti nelle caverne in cui il basilisco si rintana. Anche un certo tiranno di questo tempo, avvelenato dal tossico dell’iracondia, come il basilisco, stermina le erbe con il soffio della sua cattiveria, opprime cioè i poveri; fa morire le piante, vale a dire i ricchi di questo mondo, i mercanti, gli usurai; sopprime e dà alle fiamme gli animali, cioè i suoi familiari. Contamina perfino l’aria, stravolge cioè anche la vita dei religiosi: leva la sua bocca fino al cielo e la sua lingua percorre la terra ( cf. Sal 73,9 ). Il suo sibilo fa inorridire perfino gli altri rettili, cioè i suoi amici e compagni, che ben conoscono la sua crudeltà. E quando la sua ira esplode, tutti si danno alla fuga e si precipitano a nascondersi ovunque sia, fosse pure nella stalla dei porci. Un tiranno sì feroce e forsennato, infiammato di spirito diabolico, viene tuttavia sconfitto dalle donnole, cioè dai poveri nello spirito, che non ne hanno alcun timore perché nulla temono di perdere. E gli uomini, oppressi dalla terra delle ricchezze, non avendo il coraggio di avvicinarlo, mandano i poveri nel covo dove il tiranno si nasconde. Parlategli voi – dicono – perché noi non osiamo farlo! In Simei, che scagliò le sue maledizioni contro Davide, è raffigurato colui che dice al suo fratello: raca, senza cervello; e in Ioab chi gli dice: fatuo. Salomone mise a morte questi tre: Adonia perché voleva farsi re, ecco l’ira; Simei perché maledisse Davide, ecco l’insulto raca; Ioab perché aveva ucciso di spada quelli che contavano più di lui, ecco colui che dice al suo fratello fatuo, che lo colpisce ciò con la spada della lingua. Ahimè, quante volte pecchiamo mortalmente in questi tre modi, e mai ce ne confessiamo. 10. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso insieme con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti insieme con Cristo, crediamo che vivremo anche con lui" ( Rm 6,6-8 ). Osserva che in questo brano per ben tre volte è nominato il peccato; e quando viene distrutto in noi questo triplice peccato, vengono eliminate anche le tre offese suddette: chi si abbandona all’ira, chi dice raca, e chi dice fatuo; allora, ripristinato il dominio della ragione, viene distrutto il corpo del peccato, cioè il cumulo di delitti originati dall’ira e dall’invidia. Se il nostro uomo vecchio, cioè gli impulsi dell’animo, viene crocifisso con i chiodi dell’amore di Dio, una volta crocifisso, non saremo più schiavi del peccato, cioè dello sdegno e della rabbia, perché non ci arrabbieremo più contro il nostro fratello ma lo rispetteremo e lo onoreremo nello stesso Cristo crocifisso. Infatti chi è morto, chi cioè è padrone della sua volontà, è giustificato da quel peccato, di aver detto al suo fratello fatuo, vale a dire è libero e giusto. Quando cessa la causa, cessa anche l’effetto. Fratelli carissimi, preghiamo allora Gesù Cristo che estirpi dal nostro cuore l’ira, che infonda nella nostra coscienza la tranquillità per poter amare il nostro prossimo con la bocca, con le opere e con il cuore, e giungere così a lui, che è la nostra pace. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. La riconciliazione fraterna 11. "Se dunque presenti la tua offerta sull’altare, e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" ( Mt 5,23-24 ). Altare è come dire alta ara, e si dice ara perché vi si bruciano le vittime ( lat. uro, ardo ). Fa’ attenzione, perché ci sono quattro specie di altari: l’altare superiore, quello inferiore, quello interiore e quello esteriore. L’altare superiore è la Trinità; di esso il Signore dice nell’Esodo: "Non salirai sul mio altare per mezzo dei gradini, perché là non venga svelata la tua infamia" ( Es 20,26 ). Nella Trinità infatti non si devono istituire dei gradi, ritenendo il Padre maggiore del Figlio, o il Figlio minore del Padre, o lo Spirito Santo minore di entrambi: ma si deve credere con semplicità alla loro perfetta uguaglianza: "Quale il Padre tale il Figlio, e tale lo Spirito Santo" ( Simbolo atanasiano ). "Perché non venga svelata la tua infamia", come fu svelata quella di Ario, che finì la sua vita sconciamente, spargendo a terra le interiora, per aver voluto salire all’altare per mezzo dei gradini. L’altare inferiore è l’umanità di Gesù Cristo; e di questo, sempre con le parole dell’Esodo, Cristo stesso dice: "Farete per me un altare di terra" ( Es 20,24). Fa un altare di terra per Gesù Cristo, chi crede ch’egli ha ricevuto vera carne dalla Vergine Maria, la quale fu "terra benedetta". 12. L’altare interiore è la devozione della mente. Ne parla il Signore a Mosè, dicendo: "Farai un altare sul quale bruciare i profumi: lo farai di legno di Setim. Avrà un cubito di lunghezza, uno di larghezza e due di altezza: da esso si dipartiranno i suoi corni ( cioè saranno tutt’uno con l’altare ). Lo rivestirai di oro purissimo" ( Es 30,1-3 ). Il legno di Setim viene da una specie di alberi spinosi ( le acacie ), ed è un legno che non marcisce, e quanto più si brucia tanto più indurisce. Questo legno è figura dei pensieri, dei sentimenti del cuore, i quali devono avere tre qualità: devono essere come le spine, che pungono per il ricordo dei peccati; non devono mai marcire, cioè mai acconsentire alle cattive suggestioni; e quanto più vengono arsi dal fuoco delle tribolazioni, tanto più devono restare saldi nel loro proposito. Con questi legni si costruisce l’altare al Signore, nelle misure indicate. Nella lunghezza è raffigurata la perseveranza, nella larghezza l’amore del prossimo, nell’altezza la contemplazione di Dio. Il cubito cosiddetto naturale va dalla punta delle dita al gomito: questa misura ha usato Mosè nella costruzione dell’arca e dell’altare. È detto cubito dal lat. cubo, mi appoggio sopra, perché ci appoggiamo al gomito quando prendiamo il cibo, in quanto il gomito termina con la mano. Nel cubito è simboleggiato il retto agire. Quindi l’altare, cioè la devozione della mente, deve tendere al retto agire nella lunghezza della perseveranza per quanto riguarda se stessa, nella larghezza della carità per ciò che riguarda il prossimo, nell’altezza della contemplazione, che è di due cubiti, vale a dire di una duplice perfezione, nei riguardi di Dio: dobbiamo cioè attribuire a lui sia la lunghezza della perseveranza, che la larghezza della carità superna; a lui, dal quale viene quanto abbiamo di buono. E questo altare dev’essere rivestito di oro purissimo. La veste della mente devota è la mondezza dell’aurea castità. Si dice veste dal lat. veho, porto, presento, in quanto la veste rivela lo stato, la condizione sociale dell’uomo che la indossa; così la mondezza della castità rivela lo stato della mente: dalla rigorosità della castità si conosce la rettitudine della mente. Da questo altare sale il fumo degli incensi all’interno del Santo dei santi, dove è custodita l’arca. Quindi dalla compunzione della mente sale il profumo degli aromi, cioè della preghiera perfetta, e arriva fino al cielo "dove si trova Cristo, assiso alla destra di Dio" ( Col 3,1 ). 13. Finalmente, l’altare esteriore è la mortificazione della carne, della quale il Signore ha parlato a Mosè, dicendo: "Farai l’altare", dell’olocausto, "con il legno di Setim. Esso avrà cinque cubiti di lunghezza, e altrettanti di larghezza, e tre cubiti di altezza. I corni ai quattro angoli si dipartiranno da esso, e lo rivestirai di bronzo" ( Es 27,1-2 ). Olocausto viene dalle parole greche òlos, tutto, e kàuma, consumato con il fuoco. Quindi olocausto significa "tutto bruciato", in quanto la vittima veniva posta sul fuoco e interamente consumata. L’altare dell’olocausto è il nostro corpo, che dobbiamo bruciare interamente nel fuoco della penitenza e offrire così in olocausto al Signore: e questo dev’essere fatto con il legno di Setim, vale a dire con le membra assolutamente integre da lussuria. Sia in lunghezza che in larghezza deve misurare cinque cubiti, e tre invece in altezza. Nei cinque cubiti sono simboleggiate le cinque piaghe del corpo di Gesù Cristo; nei tre cubiti sono ricordate le tre volte che pianse, vale a dire sulla città di Gerusalemme, su Lazzaro morto, e durante la sua passione. Considera che la croce della vera penitenza ha la lunghezza della perseveranza, la larghezza della pazienza e l’altezza della speranza nel Padre. Crocifiggiamo su questa croce il nostro corpo con le cinque piaghe del corpo di Cristo, mortificando cioè il meschino piacere dei cinque sensi, piangendo e gemendo per le iniquità commesse, per i peccati del prossimo e per il rischio della perdita della salvezza. I quattro corni ( lati ) dell’altare degli aromi e dell’olocausto simboleggiano le quattro virtù principali ( cardinali ), che devono ornare l’anima e il corpo, delle quali si parla nel libro della Sapienza: "Essa insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini nella vita" ( Sap 8,7 ). E questo altare il Signore comandò di ricoprirlo di bronzo ( o rame ). Nel bronzo, che risuona, sono simboleggiate le sofferenze e i gemiti di dolore, dei quali deve essere come coperto il corpo del penitente. 14. Questi dunque sono i quattro altari, ad ognuno dei quali si può applicare ciò che dice il Signore nel vangelo di oggi: "Se presenti la tua offerta sull’altare", ecc. Fa’ attenzione che come ci sono quattro specie di altari, così ci sono anche quattro specie di offerte, e anche quattro diversi tipi di nostri fratelli. Ci sono le offerte dell’orazione, della fede, della penitenza e dell’elemosina. Fratello nostro è ogni prossimo: Cristo, l’angelo e il nostro spirito. Se dunque presenti il dono della preghiera all’altare della santa Trinità, e lì ti ricordi che il fratello, cioè il tuo prossimo, ha qualcosa contro di te, se tu lo hai offeso con parole o con atti, o se hai del malanimo contro di lui: se è lontano, va’, non con i piedi ma con l’animo umile a prostrarti al cospetto di colui al quale stai per fare la tua offerta; se invece è presente, va’ con i tuoi piedi, a chiedergli perdono. Parimenti, se tu presenti il dono della fede all’altare dell’umanità di Gesù Cristo, credi cioè ch’egli ha assunto vera carne dalla Vergine, e lì ti ricordi che proprio lui, che è tuo fratello, perché ha assunto la tua natura per te, ha qualcosa contro di te, ti ricordi cioè che sei in peccato mortale; mentre lo confessi con il suono della voce, lascia lì la tua offerta, non aver fiducia cioè nella tua fede morta: va’ prima a riconciliarti, per mezzo della vera penitenza, con il tuo fratello, Gesù Cristo. E ancora, se offri all’altare il dono della penitenza, cioè la macerazione della carne, e lì ti ricordi che il fratello, cioè il tuo spirito, ha qualcosa contro di te, che cioè, mentre castighi il corpo, il tuo spirito è macchiato di qualche vizio, lascia lì il tuo dono, non confidare cioè nella sofferenza del corpo se prima non avrai purificato il tuo spirito da ogni iniquità; poi va’ e offri il tuo dono. Da ultimo, se offri il dono dell’elemosina ai poveri, e lì ti ricordi che il tuo fratello, cioè l’angelo, che dal momento della creazione per la quale anche tu sei stato creato, ti è stato assegnato da Dio per mezzo della grazia, per portare in cielo le tue preghiere e le tue elemosine, ha qualcosa contro di te, cioè si lamenta di te perché, mentre lui ti suggerisce il bene tu rivolgi altrove l’orecchio dell’obbedienza, lascia lì il tuo dono, non confidare cioè nella tua arida elemosina fatta senza sentimento, ma va’ prima, con i passi dell’amore, a riconciliarti per mezzo dell’obbedienza all’angelo dell’ammonizione, che ti è stato dato come custode, e poi presenta per mano sua il tuo dono, che sarà così gradito a Dio. 15. Con questa terza parte concorda la terza parte dell’epistola: "Sappiamo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece, per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" ( Rm 6,9-11 ). Se vorrai meditare attentamente su questo brano, troverai in esso i quattro altari, dei quali abbiamo parlato più sopra. Quando dice: "Cristo, risuscitato dai morti", ecco l’altare della Trinità. Nel nome "Cristo", c’è lo stesso Figlio che risorge; c’è il Padre, per la gloria del quale, come è stato già detto ( vedi n. 6 ), Cristo è risorto: "La morte non ha più potere su di lui perché, vivendo, vive per Dio; c’è lo Spirito Santo, perché è lo Spirito che dà la vita ( Gv 6,64 ). "E questi tre sono una cosa sola" ( 1 Gv 5,7 ). Quando continua: "Per quanto riguarda la sua morte", ecco l’altare dell’umanità, la quale per il peccato è morta una sola volta sull’altare della croce. E quando dice: "Così anche voi consideratevi morti al peccato", ecco l’altare dell’olocausto, cioè della sofferenza del corpo mortificato. Ciò che segue: "ma viventi per Dio", indica l’altare degli aromi, cioè della devozione della mente, e chi la possiede veramente "vive per Dio", in Cristo Gesù nostro Signore. O Padre, ti preghiamo per mezzo di Gesù Cristo, che hai costituito vittima di espiazione per i nostri peccati ( cf. 1 Gv 4,10 ), di accettare per mezzo suo i nostri doni, di infonderci la grazia di riconciliarci con te e con i fratelli, e dopo riconciliati, di poterti offrire, o Dio, sull’altare d’oro che è nella Gerusalemme celeste, i doni della nostra lode insieme con gli angeli. Accordacelo tu, che sei Dio uno e trino, benedetto nei secoli eterni. E ogni creatura risponda: Amen. Alleluia! Domenica VII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della VII domenica dopo Pentecoste: "C’era con Gesù una grande folla"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sull’infusione della grazia, sulla predicazione e sull’umiltà della mente: "Mentre l’arpista suonava, cantando …". – Parte I: Sermone sulla fame di Samaria: "Ben-Adad radunò tutto il suo esercito". – Sermone allegorico e morale sulla piccola città, assediata da un grande re, con ciò che segue, e quale ne sia il significato: "C’era una piccola città". – Sermone sui cinque libri di Mosè: la loro interpretazione e il loro significato. – Sermone morale sull’atrio, la porta, il centro e la cella interna del tempio; sui quattro cavalli e il loro significato: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia". – Parte II: Sermone su Naaman, il lebbroso, lavatosi sette volte nel Giordano, e i vari significati: "Eliseo disse a Naaman". – Parte III: Sermone allegorico e morale su Eliseo, sulla risurrezione del figlio della Sunammita e sul significato dei tempi: "Eliseo si alzò e seguì la Sunammita". Esordio - Infusione della grazia nel cuore del predicatore 1. In quel tempo "C’era con Gesù una grande folla, che non aveva nulla da mangiare" ( Mc 8,1 ). Leggiamo nel quarto libro dei Re: "Mentre l’arpista suonava cantando, la mano del Signore fu sopra Eliseo, che annunziò: Questo dice il Signore: Scavate fosse e fosse nell’alveo di questo torrente. Questo infatti dice il Signore Dio: Non sentirete vento né vedrete pioggia, eppure questo letto si riempirà di acque; e berrete voi, le vostre famiglie e i vostri armenti" ( 2 Re 3,15-17 ). Quando l’arpista, cioè lo Spirito Santo che è il perfetto arpista d’Israele, canta nel cuore del predicatore, allora su Eliseo, cioè sul predicatore stesso, scende la mano del Signore, che infonde il dono della potenza, operando con lui in tutte le imprese alle quali metterà mano. "Venne su di me la mano del Signore" ( Ez 3,22 ), dice Ezechiele. Se questo divino arpista non canta per primo, la lingua del predicatore diviene muta; se invece canta, allora al popolo, al quale predica, il predicatore potrà dire: "Scavate fosse e fosse nell’alveo di questo torrente", ecc. Il torrente si chiama così perché in estate si dissecca e resta senz’acqua ( il lat. torrens significa torrente e torrido ). Il torrente raffigura il peccatore nel quale, quando si dissecca la linfa della grazia, vengono meno le opere buone. Dice Zaccaria: "Non è forse questo un tizzone tolto dal fuoco?" ( Zc 3,2 ). Il tizzone, così lo chiama il popolo, è un pezzo di legno arso dal fuoco, ed è figura del peccatore, che il Signore con la mano della sua grazia ha tolto dal fuoco della lussuria. Quindi nell’alveo del torrente, cioè nel vostro cuore, o peccatori, che siete infiammati del fuoco della malizia, scavate fosse e fosse. Considera che ci sono tre fosse: il riconoscimento della propria colpa, la contrizione per la colpa e l’umiliazione nella pazienza. Del riconoscimento della colpa parla Ezechiele: "Figlio dell’uomo, sfonda la parete" ( Ez 8,8 ), perché il Signore è pronto ad entrare se trova un’apertura anche minima, cioè se tu riconosci la tua colpa. "Ecco, – dice la sposa del Cantico dei Cantici – egli sta dietro la nostra parete" ( Ct 2,9 ), pronto ad entrare se trova un’apertura. E continua: "Il mio diletto ha posto la sua mano sullo spiraglio, e al suo tocco un fremito mi è passato per il corpo" ( Ct 5,4 ). Attraverso lo spiraglio, cioè per mezzo del riconoscimento della nostra colpa, si introduce la mano della grazia divina, e al suo tocco il nostro corpo, cioè la nostra mente carnale, ha un fremito. "Timore e spavento mi invadono" ( Sal 55,6 ), "perché la mano del Signore mi ha toccato" ( Gb 19,21 ). "La terra tremò e si scosse" ( Sal 18,8; Sal 77,19 ); e Saulo "tremante e attonito disse: Signore, che vuoi che io faccia?" ( At 9,6 ). Della fossa della contrizione dice Isaia: "Entra fra le rocce, nasconditi in una fossa nella terra, di fronte al terrore che incute il Signore, di fronte allo splendore della sua maestà" ( Is 2,10 ). "Entra" con la fede "tra le rocce", cioè nelle piaghe di Gesù Cristo, e "nasconditi in terra, nella fossa", cioè nella contrizione del cuore, la quale "ti riparerà di fronte al terrore", quel terrore che hanno i figli del mare di questo mondo, "e di fronte allo splendore della sua maestà", cioè di quel potere superiore, dal quale ogni umano potere sarà distrutto. In merito alla fossa della pazienza, nel Vecchio Testamento era stato ordinato che presso l’altare fosse scavata una fossa di un cubito, per riporvi le ceneri del sacrificio ( cf. Ez 43,13 ). E Gregorio commenta: Se nell’altare del nostro cuore non c’è la pazienza, verrà il vento a disperdere il sacrifico delle opere buone. Dove non si perde la pazienza, si conserva l’unità. O peccatori, nell’alveo del vostro cuore, con la zappa del timore di Dio, scavate fosse e fosse, per riconoscere la vostra colpa, per riempire di contrizione il vostro cuore, per sopportare nella pazienza le tribolazioni. Questo dice il Signore: "Non sentirete vento, né vedrete pioggia, e tuttavia quest’alveo si riempirà di acque". Come dicesse: Privo di umana consolazione, il cuore del peccatore sarà riempito con le acque della grazia settiforme ( i sette doni dello Spirito Santo ), dalla quale berrete voi, le vostre famiglie e i vostri armenti. Ecco quanto abbondante è la grazia del Signore, dalla quale bevono l’anima e la famiglia, cioè tutti i sentimenti dell’anima, e anche gli armenti, cioè i sensi del corpo, i quali bevono questa grazia quando collaborano con l’anima per compiere il bene. Oppure: bevono uomini e armenti, cioè giusti e peccatori, i dotti e i semplici. Questa è la grande folla che il Signore ha saziato con i sette pani. E quindi dice il vangelo di oggi: "C’era una grande folla intorno a Gesù". 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre fatti. Primo, la compassione di Cristo nei riguardi della folla, quando dice: "C’era una grande folla", ecc. Secondo, la distribuzione alla folla dei sette pani e dei pochi pesciolini e la sazietà di tutti: "I discepoli risposero: Come si potrà saziarli qui nel deserto? …". Terzo, la raccolta di sette sporte, piene di quanto era avanzato: "E raccolsero gli avanzi …". In questa domenica e nella prossima concorderemo, se Dio ce lo concede, alcuni racconti del quarto libro dei Re con le parole del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia" ( Sal 48,10 ). Si legge poi l’epistola del beato Paolo ai Romani: "Parlo con esempi umani, a motivo della debolezza della vostra carne" ( Rm 6,19 ). La divideremo in tre parti, e ne vedremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: "Parlo con esempi umani". Seconda parte: "Quando eravate schiavi del peccato". Terza parte: "Ora invece, liberati dal peccato …". I. La compassione di Gesù Cristo per la folla 3. "C’era con Gesù una grande folla e non avevano da mangiare. Gesù allora chiamò a sé i discepoli e disse loro: Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno per via, perché alcuni di loro sono venuti da lontano" ( Mc 8,1-3 ). Su questo troviamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove si racconta che "Ben-Adad, re della Siria, radunò tutto il suo esercito e andò ad assediare Samaria. Ci fu in Samaria una grande carestia; e l’assedio durò così a lungo che una testa d’asino si vendeva per ottanta sicli d’argento e un quarto di cabo di sterco di colombe per cinque sicli d’argento" ( il cabo, qab, era una misura di circa due litri e mezzo ). E poco più avanti: "Allora Eliseo disse: Ascoltate la parola del Signore; questo dice il Signore: Domani a quest’ora, alle porte di Samaria, un moggio di farina costerà uno statere e anche due moggia di orzo costeranno uno statere" ( 2 Re 6,24-25; 2 Re 7,1 ). Vedremo quale significato abbiano Ben-Adad e il suo esercito, Samaria, la carestia, la testa di asino, gli ottanta sicli d’argento, il quarto di cabo di sterco di colombe, i cinque sicli d’argento, Eliseo, il moggio di farina, lo statere e due moggia di orzo. Ben-Adad s’interpreta "spontaneo, volontario", ed è figura di Lucifero il quale, pur figlio della grazia del Creatore, di sua volontà, senza che alcuno lo costringesse, e quindi irrimediabilmente, precipitò dal cielo. Dice Isaia: "In che modo", cioè irrimediabilmente, "sei caduto dal cielo, o Lucifero, che sorgevi brillante al mattino?" ( Is 14,12 ). Qui si allude al re della Siria, nome che s’interpreta "sublime" o "bagnata", re quindi di coloro che sono sulle altezze della superbia e nel fradicio della lussuria. E questo re con il suo esercito assedia Samaria. Esercito deriva dall’esercitarsi alla guerra. È figura degli spiriti maligni, i quali, esercitati in una lunga pratica di guerra, assalgono l’anima. Con questo esercito il diavolo assale Samaria, che s’interpreta "custodia"; assale cioè la santa chiesa, o l’anima fedele, la quale, finché custodisce la legge viene dalla legge custodita. 4. Di questa città e del suo assedio dice Salomone nell’Ecclesiaste: "C’era una piccola città, e pochi erano in essa gli uomini. Si mosse contro di essa un grande re, la cinse di un vallo, costruì dei bastioni e poi vi pose l’assedio. Si trovava però in essa un uomo povero ma saggio, il quale con la sua sapienza salvò la città: eppure nessuno si ricordò più di quest’uomo povero" ( Qo 9,14-15 ). Vediamo che cosa significhino, prima in senso morale e poi in senso allegorico, la città, i pochi uomini, il grande re, il vallo, i bastioni, l’assedio, l’uomo povero che libera la città. La città è la chiesa, che è detta piccola in proporzione al numero dei cattivi, che si sono moltiplicati rispetto al numero dei buoni. Dice Salomone: "I perversi difficilmente si convertono, e infinito è il numero degli stolti" ( Qo 1,15 ). I perversi, cioè vòlti al contrario ( lat. perversi, in contrarium versi ), volgono a Dio la schiena e non il viso; difficilmente si convertono, non rientrano cioè nel proprio cuore con il sentimento dei giusti, e quindi difficilmente ritornano sulla retta via; per questo "è infinito il numero degli stolti", cioè di coloro che non hanno sentimento nel cuore. "Hai moltiplicato le persone, dice Isaia, ma non hai accresciuto la gioia" ( Is 9,3 ). "Pochi erano nella città gli uomini". Nella chiesa sono sempre tante le donne, cioè i fiacchi e gli effeminati; ma, purtroppo, pochi i veri uomini, cioè i virtuosi. "Le donne", cioè i prelati fiacchi ed effeminati, "si sono impadronite del mio popolo" ( Is 3,12 ). E Salomone: "O uomini, a voi mi rivolgo!" ( Pr 8,4 ). La Sapienza si rivolge agli uomini, non alle donne, perché il gusto della dolcezza interiore compenetra colui che trova valido e virtuoso, attento e previdente. Ma "pochi sono in essa gli uomini", pochi quindi che siano in grado di assaporare il gusto della dolcezza celeste. Tutti infatti, come donne, sono infiacchiti di mente nella preziosità delle vesti, nella raffinatezza dei cibi, nel grande numero di servi, nella costruzione di case, in vistose bardature di cavalli: tutto questo dimostra chiaramente se sono donne o uomini. Ecco che "razza di apostoli" sono diventati coloro ai quali il Signore ha affidato il compito di governare la sua chiesa. "Si mosse contro di essa un grande re". Questo grande re è il diavolo, del quale dice Giobbe: "Egli è re su tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ). Il diavolo fa queste tre cose: la cinge di un vallo, vi costruisce dei bastioni e così si compie l’assedio. Il vallo si fa con pali acuminati. I bastioni, che sono opere difese dal vallo o da muri, raffigurano gli eretici, che sono come dei pali acuminati, piantati negli occhi dei fedeli; e sono anche tutti i falsi cristiani. Il diavolo, con il vallo degli eretici e con i bastioni dei falsi cristiani, assedia la chiesa, nella quale pochi sono gli uomini. Ma "non temere, piccolo gregge" ( Lc 12,32 ), questo assedio, perché "il Signore, insieme con la tentazione, vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla" ( 1 Cor 10,13 ). "Si trovava in quella città un uomo povero". L’uomo povero è Cristo: uomo secondo la divinità, povero secondo l’umanità. E osserva come concordino tra loro i singoli termini: questi è chiamato "uomo", e quelli "uomini"; questi "povero", e quelli "pochi". Il sapiente, il saggio, contro l’inganno del diavolo, liberò la città dal vallo degli eretici e dai bastioni dei carnali, e così con la sua saggezza e sapienza distruggerà tutti i bastioni. Però è molto doloroso ciò che segue: "E nessuno più si ricordò di quell’uomo povero". Anzi, ciò che è peggio, gli dicono con le parole di Giobbe: "Via da noi! Non vogliamo conoscere le tue vie" ( Gb 21,14); e, ciò che è ancora più dannoso per essi, rifiutandolo gridano con i Giudei: Non vogliamo costui, ma Barabba. Barabba era un brigante ( cf. Gv 18,40 ), che era stato messo in carcere per una sommossa provocata da lui in città, e per omicidio ( cf. Lc 23,18-19 ). Questi è il diavolo che, a motivo della sommossa da lui provocata in cielo, fu precipitato nell’inferno. Chiedono che venga loro dato questo malfattore, e crocifiggono il Figlio di Dio che li ha liberati. E quindi: "Guai alla loro anima, perché saranno ripagati con tanti mali" ( Is 3,9 ). 5. Senso morale. La città è l’anima, che giustamente è detta piccola, perché ormai quasi tutti l’hanno abbandonata e sono scesi ad abitare nella pianura, si sono dati cioè ai piaceri del corpo. Dice la Genesi che "Lot" – separatosi da Abramo – "si stabilì nelle città che erano lungo il Giordano, e abitò a Sodoma" ( Gen 13,12 ). Lot s’interpreta "che devìa", Giordano "discesa" e Sodoma "animale muto". Il misero uomo, quando si separa da Abramo, cioè più non si cura della sua anima, si stabilisce nelle città che stanno lungo il Giordano, cioè nei sensi del corpo che lo portano in basso, verso la caducità delle cose temporali; e abita a Sodoma perché, come un animale muto, si abbandona ai piaceri carnali, e così diviene muto: non canta più la lode al suo creatore e non confessa più i suoi peccati. "E pochi sono in essa gli uomini". Gli uomini dell’anima sono i sentimenti della ragione, dei quali il Signore dice alla Samaritana: "Hai avuto cinque uomini, e quello che hai adesso non è tuo marito" ( Gv 4,18 ). I sentimenti della ragione sono detti cinque uomini per il fatto che devono guidare i cinque sensi del corpo; l’anima sventurata che perde questi sentimenti, accoglie con sé non il marito ma un adultero che la corrompe. E di lei è detto: "Un grande re si mosse contro di essa". Questo grande re è l’appetito carnale, o dei sensi. Dice Salomone: "Guai alla terra il cui re è un ragazzo ( puer ) e i cui prìncipi mangiano di primo mattino" ( Qo 10,16 ). Osserva qui che l’appetito carnale viene detto grande e ragazzo: grande, perché intraprende cose grandi e impossibili, ragazzo, perché è privo di ponderatezza e di discrezione. E perciò "guai alla terra", cioè al corpo che ha un tale re; "o i cui prìncipi", cioè i cinque sensi del corpo, "mangiano di primo mattino", incominciano cioè fin dalla fanciullezza ad accontentare la gola e a darsi alla lussuria. "Chi fin dall’infanzia alleva il suo figlio nelle delicatezze, alla fine se lo ritroverà sfacciato e arrogante" ( Pr 29,21 ). Questo "grande re" circonda l’anima con i pali acuminati degli istinti naturali, le erige all’intorno i bastioni dei cattivi pensieri e dei piaceri carnali, e così la mette sotto assedio. Ecco, come è scritto nel quarto libro dei Re, in quale modo la santa chiesa, o anche l’anima fedele, viene tenuta sotto assedio da Ben-Adad, re della Siria. Ma venga il vero Eliseo e liberi la chiesa. Venga l’uomo povero, cioè la grazia dello Spirito Santo, che è chiamata povera perché dimora spiritualmente con i poveri "e con i semplici è la sua conversazione" ( Pr 3,32 ), e liberi l’anima da così crudele assedio. Ma purtroppo, è molto doloroso ciò che segue: "E nessuno si è più ricordato di quel povero". Dice infatti la Genesi che quando le cose vanno a gonfie vele "il coppiere del re si dimenticò di colui che gli aveva interpretato il sogno" ( cf. Gen 40,23 ). Il continuo successo nelle cose di questo mondo, è un chiaro indizio di eterna dannazione ( Gregorio ). 6. Ritorniamo ora al nostro argomento. "Ben-Adad, re della Siria, assediava Samaria, e nella città ci fu una grande carestia. E fu assediata così a lungo, che una testa di asino veniva venduta per ottanta sicli d’argento". Quando la chiesa, o l’anima, viene assediata dal diavolo, a poco a poco viene a mancare il nutrimento della grazia. Tolta questa, subentra nella chiesa una grande carestia, cioè un’ardente brama di cose temporali. E di questa carestia è detto nella Genesi, che essa infierì su tutta la terra e allora i figli di Giacobbe scesero in Egitto per comperare il frumento ( cf. Gen 41,54; Gen 42,3 ). Poiché, a causa dei nostri peccati, è venuto a mancare il nutrimento della grazia, tutti bramano avidamente le cose temporali, non il nutrimento dell’anima ma del corpo; e in Egitto cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo ( cf. Fil 2,21 ). E la carestia si è fatta così grave che una testa di asino si vende per ottanta sicli d’argento. Ottanta sicli d’argento raffigurano la duplice stola, la duplice veste [ dell’anima e del corpo ], che consiste nelle otto beatitudini, e che riceveremo nel giorno ottavo, cioè nel giorno della risurrezione. Il corpo riceverà la luminosità, l’agilità, la sottigliezza e l’immortalità; l’anima riceverà la sapienza, la felicità, la concordia tra la carne e lo spirito e l’amicizia con Dio e con il prossimo. E questi sicli d’argento gli sventurati peccatori li danno via per comperare una testa di asino, cioè la stoltezza dell’asino, vale a dire la sapienza di questo mondo, che è stoltezza davanti a Dio ( cf. 1 Cor 3,19 ). "E un quarto di qad di sterco di colombe costerà cinque sicli d’argento". Il qad è una misura. Le colombe raffigurano i santi che volano alle loro colombaie ( cf. Is 60,8 ), e lo sterco è figura delle cose temporali. I cinque sicli d’argento raffigurano le cinque virtù, indicate dai cinque libri di Mosè. Il primo libro di Mosè è chiamato in ebraico Beresith, in greco Genesis e in latino Generatio ( generazione, origine ). Il secondo: in ebraico Veelle Semoth, in greco Exodos e in latino Itinerarius ( itinerario ). Il terzo: in ebraico Vaicra, in greco Levitikòn e in latino Ministerialis ( ministeriale ). Il quarto: in ebraico Vaiedabber, in greco Rytmos e in latino Numerus ( numero ). Il quinto: in ebraico Elle Addebarim, in greco Deuteronomion e in latino Secunda lex ( seconda legge ), nel quale fu prefigurata la legge evangelica. Nella Genesi, nella quale è descritta la generazione, l’origine di tutte le cose, si deve intendere l’innocenza battesimale, per la quale veniamo rigenerati secondo l’uomo nuovo. Nell’Esodo, nel quale è raccontata l’uscita dei figli d’Israele dall’Egitto, è indicata la pietà religiosa, per opera della quale usciamo dal mondo. Nel Levitico, nel quale sono descritte le norme per i sacrifici, è indicata la devozione della mente e la mortificazione della carne. Nei Numeri, che riportano una specie di censimento del popolo, è indicata la confessione dei crimini, nella quale devono essere dichiarati tutti i nostri peccati. Infine nel Deuteronomio, che riporta tutta la Legge di Dio, è indicato l’amore di Dio e del prossimo, che è la legge evangelica nella quale sono compresi la legge e i profeti ( cf. Mt 22,40 ). Questi cinque sicli d’argento li danno gli sventurati peccatori per comperare sterco di colombe, cioè le cose temporali, che le colombe, cioè i santi, reputano appunto come sterco. Ecco quale grave carestia c’è nella chiesa, che è raffigurata in quella turba della quale parla il vangelo di oggi: "C’era con Gesù una grande turba e non avevano nulla da mangiare". Questa turba turbata, che tutto turba, sta con Gesù come nome, non come nume, con la parola e non con i fatti, con la fede ma non con le opere. Ma che cosa dice Gesù misericordioso, che ha sempre avuto misericordia dei miseri? "Ho compassione - dice - di questa turba, perché già da tre giorni mi segue, e non hanno di che mangiare". 7. È ciò che dice Eliseo nel quarto libro dei Re: "Domani, a quest’ora, alla porta di Samaria, un moggio di sìmila ( farina ) costerà uno statere, e due moggia di orzo costeranno pure un solo statere". Il moggio, così chiamato da modo, è una misura di quarantaquattro libbre, cioè di sedici sestari. La sìmila è il fior di farina, raffinata e bianchissima, che si ottiene dal miglior frumento. Lo statere è così chiamato perché vale ( lat. stat ) tre soldi ( moneta d’oro ), e pesa tre aurei. Infine, l’orzo è chiamato così perché si secca prima di tutti gli altri cereali ( lat. hordeum, aridum ). Il moggio di farina simboleggia l’infinita grandezza della divina Sapienza, che è contenuta nel Nuovo Testamento. Le due moggia di orzo raffigurano la conoscenza della Legge e dei profeti, che si comperano per uno statere, cioè con la fede cattolica, alla porta di Samaria, cioè con la predicazione apostolica per mezzo della quale si entra nella chiesa. Cessato il turbine della persecuzione, che c’è oggi, il Signore ci darà domani, cioè in futuro, la tranquillità, affinché la predicazione si possa fare dappertutto. In altro senso. Nel moggio di farina è raffigurata la remissione dei peccati; nelle due moggia di orzo il disprezzo delle cose temporali e la brama di quelle eterne; nello statere è indicata la vera penitenza. Lo statere, che pesa tre aurei, è la penitenza, che consta di tre momenti: la contrizione, la confessione e la soddisfazione, cioè il compimento dell’opera penitenziale. Questo statere fu trovato nella bocca del pesce, pescato nel fiume ( lago ) dall’amo di Pietro; con esso Cristo e Pietro stesso pagarono il tributo ( cf. Mt 17,26 ). Il pesce è il peccatore che, con l’amo della predicazione, viene tirato fuori dal fiume dei piaceri mondani e nella cui bocca viene trovato lo statere della penitenza, la quale libera l’anima e il corpo dal tributo della colpa e della pena della geenna. Quindi il peccatore che, dando ottantacinque sicli d’argento, era solito comperare una testa di asino e sterco di colombe, con il solo statere della penitenza può invece comperare un moggio di farina purissima, cioè la grazia della remissione, per la quale Dio perdona il peccato, e due moggia di orzo, in modo da essere in grado di disprezzare lo sterco, cioè le cose temporali e desiderare quelle eterne. Ecco quanto grande è la misericordia del nostro Redentore, che dice: "Ho compassione di questa turba, perché già da tre giorni mi segue". I tre giorni e lo statere, che pesa tre aurei, significano la stessa cosa. E su tutto questo hai la concordanza nel quarto libro dei Re, dove Eliseo dice a Ioas: "Colpisci la terra con il dardo; ed egli la colpì tre volte" ( 2 Re 13,18 ). Ioas s’interpreta "che spera", e raffigura il penitente che spera nella misericordia del Signore, al cui comando colpisce tre volte la terra del suo corpo con il dardo della penitenza. Coloro che compiono questo "triduo", che aspettano cioè il Signore, il Signore non li rimanda digiuni alle loro case, anzi li ristora con il moggio di farina purissima e le due moggia di orzo, perché non vengano meno per via. "Alcuni di essi – dice – sono venuti da lontano". Il figlio prodigo venne da lontano, dal paese della dissomiglianza ( dove aveva perso la somiglianza con Dio ). Da quanto più lontano il peccatore ritorna al Padre, con tanta maggiore misericordia viene da lui accolto. Dice Luca: "Quando era ancora lontano, il padre lo vide e, mosso a pietà, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio" ( Lc 15,20-21 ). Giustamente quindi disse il Signore: "Ho pietà di questa turba". E della sua pietà hai una perfetta concordanza nell’introito della messa di oggi. 8. "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia, in mezzo al tuo tempio" ( Sal 48,10 ). Considera che nel tempio ci sono quattro parti: l’atrio, la porta, il centro e l’oracolo ( la cella della preghiera ). Alcuni stanno nell’atrio: questi sono i falsi fratelli. Alcuni stanno sulla porta: e sono quelli convertiti di recente. Alcuni stanno al centro: e sono i proficienti. Nell’oratorio ci sono i perfetti. Tutti costoro sono raffigurati anche nei quattro cavalli dell’Apocalisse, visti da Giovanni: "Vidi un cavallo pallido …, e un cavallo nero, e chi lo cavalcava teneva in mano una bilancia; e un cavallo rosso, e a colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra, e gli fu consegnata una grande spada. E vidi poi un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco" ( cf. Ap 6,2-8 ). Il cavallo pallido raffigura i falsi fratelli, simulatori e astuti, i quali provocano su di sé l’ira di Dio. Questi stanno nell’atrio, del quale dice l’Apocalisse: L’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte, e non misurarlo ( cf. Ap 11,2 ). Gli ipocriti falsi saranno gettati fuori dalla città di Gerusalemme, quando verrà chiusa la porta, essi che quaggiù non hanno misurato con la misura della verità. Atrio deriva da antro, perché l’atrio si chiama propriamente cucina, o anche latrina, o discarica. Gli ipocriti infatti, poiché ora cuociono così bene, cioè affliggono la carne nella cucina di una simulata santità, saranno poi gettati nella discarica dell’eterno fetore. Il cavallo nero raffigura i convertiti di recente i quali, deposto il falso candore del mondo, indossano la nerezza della penitenza. Essi, con le parole di Geremia, dicono: "La nostra pelle si è fatta bruciante come un forno" ( Lam 5,10 ). Infatti la pelle del corpo mortificato viene come bruciata dal fuoco della contrizione e dalla sofferenza delle opere penitenziali. Questi devono tenere in mano la bilancia. E su questo abbiamo una concordanza nella prima parte dell’epistola di oggi, nella quale l’Apostolo parla ai neoconvertiti: "Parlo con esempi umani, a motivo della debolezza della vostra carne: come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità a pro dell’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione" ( Rm 6,19 ). "Parlo con esempi umani", cioè vi dico delle cose facili; ne dovrei dire di molto più difficili, ma non le dico a motivo della debolezza della vostra carne, che proviene cioè dalla vostra carne. "Come avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità", ecc. Commenta Agostino: Se non ci si mette a servizio della giustizia con un impegno maggiore, si abbia almeno l’impegno che si usava a servizio dell’ingiustizia. Per questo dice: "esempi umani": ora si deve amare la giustizia molto più di quanto si amava prima l’iniquità. I neoconvertiti abbiano perciò in mano la bilancia perché, come hanno messo le loro membra a servizio dell’impurità, della lussuria e dell’iniquità, che conduce ad una successiva iniquità, vale a dire al compimento del male, così ora mettano le loro membra a servizio della giustizia, che conduce alla santificazione, cioè al compimento del bene. Questi sono alla porta del tempio, e di essa Giovanni dice: "Guardai, ed ecco una porta era aperta nel cielo" ( Ap 4,1 ). La porta aperta è la misericordia di Dio, sempre pronta ad accogliere i penitenti. E di questa porta dice ancora Ezechiele: "Ecco un uomo, il cui aspetto era come di bronzo: aveva in mano una cordicella di lino e una canna per misurare, e stava in piedi sulla porta" ( Ez 40,3 ). Quest’uomo è figura del penitente, il cui aspetto è come quello del bronzo. Nel bronzo, che è risonante e di lunga durata, è raffigurato il suono della confessione e la perseveranza finale: due cose che ogni penitente deve avere. Nella cordicella di lino è raffigurata la sofferenza dell’opera penitenziale; nella canna per misurare è indicata la dottrina evangelica. E la canna per misurare sta nella mano, quando per mezzo dell’insegnamento del vangelo si misura la propria condotta. Se l’uomo avrà tutte queste cose, a buon diritto potrà stare sulla porta, cioè confidare nella misericordia di Dio. Il cavallo rosso è figura dei proficienti, i quali sono ferventi nello spirito e lieti nelle tribolazioni ( cf. Rm 12,11.12 ). Costoro tolgono la pace dalla terra, cioè dalla loro carne; infatti coloro che sono di Cristo la crocifiggono con i suoi vizi e le sue concupiscenze ( cf. Gal 5,24 ). A questi viene consegnata una grande spada, nella quale è raffigurata la discrezione che devono avere nel fare penitenza; e stanno al centro del tempio, cioè nella larghezza della carità, nella quale si riceve la misericordia del Signore: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia in mezzo al tuo tempio". E infine il cavallo bianco simboleggia i perfetti, i quali sono già nell’oracolo, nella cella della preghiera, dove intravedono la gloria dei cherubini e degustano la manna della divinità che è nell’urna d’oro dell’umanità. Essi hanno nelle mani un arco, simbolo della vittoria, cioè del loro trionfo sul mondo, sul diavolo e sulla carne. Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo perché si degni di riguardarci con l’occhio della sua misericordia, ci liberi dalla carestia e ci guidi fino al tempio della sua gloria. Ce lo conceda egli stesso che vive e regna nei secoli eterni. Amen. II. Distribuzione dei pani e dei pesci alla turba, e il ristoro di tutti 9. "I discepoli risposero a Gesù: E come si potrebbe sfamarli di pane qui in un deserto? Gesù domandò loro: Quanti pani avete? Essi risposero: Sette. Gesù ordinò alla folla di sedersi per terra. Presi allora quei sette pani, rese grazie, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini: benedisse anche quelli e ordinò di distribuirli. E tutti mangiarono e furono sazi" ( Mc 8,4-8 ). Concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel quarto libro dei Re, dove Eliseo disse a Naaman, il lebbroso: "Va’ e làvati sette volte nel Giordano: la tua carne tornerà sana e tu sarai mondato ( dalla lebbra ) … Naaman scese nel Giordano e vi si lavò per sette volte, secondo la parola del servo di Dio, e la sua carne ridiventò come la carne di un bambino; ed egli era mondato" ( 2 Re 5,10.14 ). I sette pani e le sette abluzioni nel fiume Giordano significano la stessa cosa. Naaman s’interpreta "splendido", ed è figura dell’uomo il quale in un primo tempo fu splendido per la bellezza della grazia, ma poi per la turpitudine del peccato divenne lebbroso. Lebbroso viene dal greco lepròs, squamoso; squame prodotte dalla scabbia e che danno un grandissimo prurito. Lebbroso è colui sul quale il veleno dei cattivi pensieri, lacerata la pelle del timore di Dio, degenera nella lebbra del cattivo comportamento; e quanto più si sfrega con la mano delle cattive abitudini, tanto più il prurito si accende e il dolore aumenta. A questo lebbroso Eliseo, cioè Gesù Cristo, dice: "Va’ e làvati sette volte nel Giordano". Giordano s’interpreta "fiume del giudizio" e indica la confessione nella quale, come in un fiume, l’uomo si lava, mentre si giudica degno di condanna. Per meritare la guarigione, deve lavarsi nel Giordano quelle sette volte delle quali l’Apostolo parla nella seconda lettera ai Corinzi: "Ecco quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quale difesa, quale indignazione, quale timore, quale desiderio, quale emulazione e quale punizione!" ( 2 Cor 7,11 ). La tristezza, così detta in quanto "divisa in tre parti", indica la penitenza, la quale consiste nella contrizione del cuore, nella confessione della bocca e nell’opera penitenziale di riparazione. E questa tristezza è secondo Dio, e quindi opera la salvezza, produce cioè le opere che conducono alla salvezza, vale a dire la sollecitudine di riparare al male fatto. "Marta, Marta – dice il Signore – tu sei sollecita e ti preoccupi di tante cose! ( Lc 10,41 ). Ma anche la difesa. Difendere significa proteggere. Quando nella confessione ci mettiamo a nudo, noi ci proteggiamo. Se tu scopri – dice Agostino –, Dio ricopre". Quando ci accusiamo, noi in realtà ci difendiamo. Ma anche l’indignazione contro noi stessi per il male che abbiamo fatto. Dice Ezechiele: "Me ne andai amareggiato nell’indignazione del mio spirito" ( Ez 3,14 ). Ma anche il timore che in futuro si ripeta la stessa cosa. Si dice temere il preoccuparsi di non tralasciare nulla di quanto si deve fare. Quindi si dice timido, perché teme a lungo ( lat. timet diu ). Il timore è una sofferenza che entra nella mente, quando all’esterno si avvera una data circostanza. Il timore casto è quello dell’anima che teme di perdere quella grazia, per mezzo della quale è stato in lei distrutto il piacere di peccare; che teme di esserne abbandonata, anche se non la punisce con nessun tormento. Ma anche il desiderio di progredire in meglio. Desiderare vuol dire bramare avidamente. Il desiderio si volge alle cose assenti e non ancora ottenute. Infatti si racconta nel secondo libro dei Re che "Davide aveva un gran voglia di acqua e diceva: Oh, se qualcuno mi desse da bere l’acqua della cisterna che si trova nei pressi della porta di Betlemme!". Così anche il penitente deve bramare l’acqua di quel fiume, del quale parla Giovanni nell’Apocalisse: L’angelo mi mostrò un fiume di acqua viva, limpida come il cristallo ( cf. Ap 22,1 ). Quest’acqua è a Betlemme, nome che s’interpreta "casa del pane", si trova cioè nel banchetto della vita eterna, ed è presso la porta, cioè presso Gesù Cristo. E nessuno può attingere di quest’acqua se non per mezzo di lui: Nessuno può venire al Padre, se non per mezzo di me ( cf. Gv 14,6 ). Ma anche l’emulazione, per imitare la vita dei santi: "Aspirate ai carismi più grandi!" ( 1 Cor 12,31 ). Ma anche la punizione. A questo proposito, come si legge in Luca, una vedova importunava ogni giorno il giudice: "Fammi giustizia contro il mio avversario" ( Lc 18,3 ). La vedova è figura dell’anima, la quale interroga ripetutamente il giudice, cioè la ragione, perché faccia giustizia del suo avversario, cioè dell’appetito carnale che è sempre in lotta contro l’anima. Questo è il giudice, che non per nulla porta la spada della discrezione ( cf. Rm 13,4 ): la porta per encomiare i buoni, cioè i buoni sentimenti, e per punire i malfattori ( cf. 1 Pt 2,14 ), cioè i carnali. Se l’appetito carnale si lava sette volte nel fiume Giordano, viene purificato da ogni lebbra di peccato e ristorato con i pani della grazia settiforme, dei quali nel vangelo di oggi è detto: "Prendendo i sette pani, rese grazie, li spezzò", ecc. Fa’ attenzione però che, prima di venir rifocillati con i sette pani, viene ordinato a tutti di sedersi per terra. Chi desidera essere ristorato con i predetti sette pani, è necessario che prima si sieda per terra, calpesti cioè e umìli la propria carne. Leggiamo infatti nel quarto Libro dei Re che Naaman portò con sé un po’ della terra di Israele per prostrarsi su di essa e adorare così il Dio al quale quella terra apparteneva ( cf. 2 Re 5,17-18 ). Così il giusto, mentre si trova sopra la terra del suo corpo, la calpesta con la virtù della discrezione, adora Dio in spirito e verità ( cf. Gv 4,23 ). Osserva pure che con i sette pani, Gesù benedisse anche alcuni pesciolini e comandò che fossero distribuiti a coloro che erano seduti. I pesciolini simboleggiano la povertà, l’umiltà, la pazienza, l’obbedienza, il ricordo della passione di Gesù Cristo: tutte queste virtù dobbiamo accompagnarle con i sette pani, per trovarle e sentirle più gradevoli. 10. Con questa seconda parte del vangelo, concorda la seconda parte dell’epistola: "Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi in fatto di giustizia; ma quale frutto raccoglievate allora dalle cose di cui ora vi vergognate?" ( Rm 6,20-21 ). Queste parole l’Apostolo le rivolge ai peccatori convertiti i quali, prima di sedersi per terra, prima di lavarsi sette volte nel Giordano, prima di venir ristorati con i sette pani, erano stati schiavi del peccato e liberi in fatto di giustizia, cioè fuori del dominio della giustizia. Infatti chi è schiavo del peccato si sottrae da sé alla libertà della giustizia. "Quale frutto – dice l’Apostolo – ne avete raccolto?". La vergogna, dice Agostino, è la parte più importante della penitenza. Arrossiscano, si vergognino i penitenti di essere stati lebbrosi; si vergognino di aver commesso quelle cose che hanno prodotto non frutti ma morte! Ti preghiamo, Signore Gesù, di purificarci dalla lebbra del peccato, di saziarci con il pane della tua grazia e di farci partecipi della mensa della beatitudine celeste. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. Il riempimento delle sette sporte 11. "E portarono via sette sporte di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa quattromila, e li congedò" ( Mc 8,8-9 ). Le sette sporte sono figura dei giusti, ricolmi della settiforme grazia dello Spirito Santo. Le sporte sono confezionate con giunco e foglie di palma. Il giunco nasce in luoghi ricchi di acqua, ed è chiamato giunco, perché si abbarbica con le radici tutte congiunte; con la palma vengono premiati i vincitori. Anche i santi, per non inaridire privandosi della linfa dell’eternità, si stabiliscono presso la fonte della vita ed attendono la palma dell’eterna ricompensa. In altro senso, le sette sporte rappresentano la sette chiese primitive, che il Signore ricolmò con l’infusione della grazia settiforme. E ciò fu simboleggiato nel ragazzo risuscitato da Eliseo. Su questo infatti abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove si racconta che "il profeta Eliseo si alzò e seguì la donna Sunammita. Giezi ( servo del profeta ) li aveva preceduti e aveva posto il bastone di Eliseo sulla faccia del ragazzo, ma non c’era stato né un gemito né altro segno di vita … Eliseo entrò in casa e chiuse la porta, restando solo con il ragazzo, e adorò il Signore. Quindi salì, si distese sul ragazzo: pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani sulle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del ragazzo riprese calore. Eliseo allora si alzò e girò qua e là per la casa; tornò a curvarsi su di lui: il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi" ( 2 Re 4,30-35 ). Quando il Signore promulgò la Legge per mezzo di Mosè, mandò la sua verga, per così dire, per mezzo di un servo; ma il servo, con quella verga, cioè con il terrore della Legge, non riuscì a risuscitare il morto, perché la Legge non ha mai portato nulla alla perfezione ( cf. Eb 7,19 ). Egli stesso, venendo di persona, si distende sopra il cadavere, perché "pur essendo di natura divina, annientò se stesso assumendo la condizione di servo" ( Fil 2,6-7 ). Camminava qua e là, perché per mezzo della fede chiama e giudei e gentili alle verità eterne. Alita sette volte sopra il morto perché, aprendo il tesoro di Dio, infonde la grazia dello Spirito settiforme in coloro che giacciono nella morte del peccato. E subito colui che la verga del terrore non poté risuscitare, ritorna alla vita per mezzo dello spirito di amore. 12. Senso morale. Eliseo raffigura il prelato che non con la verga, non cioè con aspra disciplina, ma piuttosto con la preghiera e le prostrazioni, cioè con la benevolenza, risuscita il morto, vale a dire l’anima del suo suddito, dalla morte del peccato. Dice il beato Agostino: Il prelato brami essere amato da voi, piuttosto che temuto. L’amore infatti rende dolci le cose aspre e leggere quelle insopportabili; invece il timore rende insopportabili anche quelle leggere. "Pose la sua bocca sulla bocca di lui". Il prelato mette la sua bocca sulla bocca del peccatore quando lo istruisce affinché riveli i suoi peccati nella confessione. Dice infatti Isaia: "Il Signore mi ha dato una lingua esperta, perché io sappia sostenere con la parola colui che è caduto" ( Is 50,4 ). E mette gli occhi sugli occhi quando piange sulla loro cecità, come faceva Samuele, al quale il Signore dice: "Fino a quando piangerai su Saul, quando ormai io l’ho ripudiato?" ( 1 Sam 16,1 ). E mette le mani nelle mani quando, per riparare alle opere perverse degli altri, profonde se stesso in opere sante; e così, colui che non è riuscito a richiamare in vita né con la verga né con la preghiera, possa almeno risuscitarlo con l’esempio delle opere buone. "E alitò sul ragazzo sette volte: e il ragazzo aprì gli occhi". Alitare vuol dire aprire la bocca ( e mandar fuori il respiro ). Il prelato alita sulla faccia del ragazzo, quando istruisce nella fede della santa chiesa, che consta di sette articoli, il popolo che gli è affidato; e cosi il popolo apre gli occhi: vede infatti, per mezzo della fede, ciò che un giorno vedrà nella realtà. E quando il prelato fa questo, ristora con sette pani quasi quattromila uomini, cioè tutto il popolo che gli è affidato, poiché li istruisce nei sette articoli principali della fede e con gli insegnamenti dei quattro evangelisti. 13. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete il vostro frutto che vi porta alla santificazione, e come destino avete la vita eterna. Perché lo stipendio del peccato è la morte; invece la grazia di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, nostro Signore" ( Rm 6,22-23 ). Dice Geremia: "Preparatevi un terreno nuovo, e non vogliate seminare sopra le spine" ( Ger 4,3 ). È appunto ciò che dice qui l’Apostolo: "Liberati dal peccato, siete fatti servi di Dio". L’uscita del vizio prepara l’ingresso delle virtù. Fa’ attenzione che l’Apostolo tocca qui quattro punti: la liberazione dal peccato, il servizio di Dio, la santificazione della vita e la vita eterna. Questa è la regola del vivere, questa è la via che conduce alla vita. Chi non cammina per questa via è cieco, e va a tentoni ( cf. 2 Pt 1,9 ). La liberazione dal peccato porta al servizio di Dio; il servizio di Dio porta alla santificazione della vita; la santificazione ( la santità ) della vita conquista la vita eterna. Chi si sostiene con queste quattro colonne, quando apparirà la gloria del Signore, sarà saziato della beatitudine della vita eterna ( cf. Sal 17,15 ), insieme con i quattromila uomini che il Signore saziò con i sette pani. Questa è la ricompensa che Cristo darà a coloro che lo servono. Che cosa invece dà il diavolo ai suoi gregari? "Il salario del peccato è la morte", dice l’Apostolo. Stipendio viene da stips, cioè sostanza da pesare; infatti gli antichi erano soliti pesare la moneta, piuttosto che contarla. Lo stipendio si dà ai soldati. Per i servi del peccato questo sarà lo stipendio: la morte. Invece a quelli che sono stati liberati dal peccato e ai servi di Dio, sarà data la sua grazia, con la quale meriteranno "la vita eterna, in Cristo Gesù, Signore nostro", al quale è onore e gloria. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore perché, come si è degnato di saziare quattromila uomini con sette pani, ci corrobori con le quattro virtù cardinali, ci vivifichi con l’infusione della grazia settiforme, affinché possiamo giungere a lui, che è la vita e il pane degli angeli. Ce lo conceda egli stesso, che è degno di lode, glorioso, splendido ed eccelso per i secoli eterni. E ogni spirito risponda: Amen. Alleluia! Domenica VIII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo dell’ottava domenica dopo Pentecoste: "Guardatevi dai falsi profeti"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sulla dimora che l’anima fedele prepara a Gesù Cristo: "Disse la donna sunammita". – Parte I: Sermone contro i falsi profeti: "Dai profeti di Gerusalemme è venuta sulla terra la corruzione". – Sermone contro i falsi religiosi: "Disse Geroboamo a sua moglie". Si parla anche della iena, della sua natura e del suo simbolismo. – Sermone morale sui falsi profeti, cioè sugli affetti carnali: "Guardatevi! …", e "Adesso tutti i profeti di Baal", e quello che segue. – Parte II: Sermone sui cinque elementi di cui è composto l’albero e il loro significato: "Ogni albero". – Sermone sulle dieci linee che sono nell’orologio e gli altrettanti gradi, e il loro significato: "Il re Ezechia disse ad Isaia: Quale sarà il segno?" – Sermone sui cinque elementi che ci sono nell’albero cattivo: "Un vigilante, un santo, scese dal cielo". – Parte III: Sermone contro coloro che si rivolgono al Signore mentre sono in peccato mortale: "Gridano a me da Seir". – Sermone contro la gola, la superbia, la vanagloria e la lussuria: "Si sono riempiti e si sono saziati". – Sermone sul modo di cercare il Signore: "Quando Giosia sentì le parole della Legge del Signore". Esordio - La dimora che l’anima fedele deve preparare a Cristo Gesù 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore" ( Mt 7,15 ). Nel quarto libro dei Re si racconta che la donna sunammita parlò di Eliseo a suo marito, e gli disse: "Io sento che è un uomo di Dio, un santo, questi che passa spesso da noi. Prepariamogli una piccola stanza nel piano di sopra, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, in modo che venendo da noi vi si possa ritirare" ( 2 Re 4,9-10 ). Vediamo che cosa significhino Eliseo, la Sunammita e suo marito, la stanza, il letto, la tavola, la sedia e la lampada. Eliseo s’interpreta "salvezza del mio Dio", ed è figura di Gesù Cristo, mandato da Dio Padre per la salvezza del suo popolo. Gesù Cristo venne alla Sunammita, che s’interpreta "schiava" o anche "rosso scarlatto". E questa è l’anima che Gesù Cristo ha riscattata con il suo sangue dalla schiavitù del diavolo: presso quest’anima Gesù Cristo è ospitato mentre le dà la vita; passa oltre quando le sottrae la sua grazia perché, avendo di se stessa un concetto troppo alto, si umili. Il marito di questa sunammita è figura dell’intelletto razionale il quale, con le forze e il sentimento che ha per sua natura o che gli sono stati concessi per grazia, deve dirigere l’anima, deve consigliarla, deve curarla, e suscitare da lei una progenie di virtù e di opere buone. Con questo marito l’anima si consiglia e dice: "Sono convinta che costui è un uomo di Dio, un santo …", ecc. Osserva ancora che nella piccola stanza è simboleggiata l’unità, nel letto la castità, nel tavolo la soavità della contemplazione, nella sedia il disprezzo di sé e nella lampada la luce del buon esempio. La stanza è chiamata in lat. coenaculum, cenacolo, cioè locale in cui varie persone mangiano insieme, come anche coenobium, cenobio, che vuol dire "riunione di molti"; e quindi sta ad indicare la riunione, l’unità dei fedeli, della quale lo sposo del Cantico dei Cantici dice: "Mi hai ferito il cuore, sorella, mia sposa, con uno dei tuoi occhi e con un solo ricciolo del tuo collo" ( Ct 4,9 ). "Un solo occhio" ( un solo sguardo ) simboleggia l’unità dei prelati, i quali devono illuminare tutta la chiesa, come l’occhio illumina tutto il corpo ( cf. Mt 6,22 ). Nei riccioli che scendono dal capo sono raffigurati tutti i fedeli, uniti a Cristo, loro capo. Quindi lo sposo viene ferito dalla ferita dell’amore per amare la chiesa, quando vede in essa l’unità dei prelati in concordia con i sudditi, con i fedeli. E il cenacolo dell’unità dev’essere piccolo per mezzo dell’umiltà, virtù che è come il cemento che lega tra loro sudditi e prelati. Nel letto poi è indicata la castità. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: "Il nostro letto è fiorito" ( Ct 1,15 ). Il letto della coscienza dev’essere fiorito dei gigli della purezza. Così nella tavola è indicata la soavità della contemplazione, della quale dice il salmo: "Davanti a me tu prepari una mensa" ( Sal 23,5 ). La mente, quando viene innalzata a gustare quella dolcezza, non dà più alcuna importanza a sofferenze o a tribolazioni. Quella dolcezza infatti influisce nella mente in modo tale che non può più angustiarsi per la sofferenza. Nella sedia, che deriva da "sedersi", e che suona come sedda, sella, è simboleggiato il disprezzo di sé. In questa sedia sedeva colui del quale parla Geremia: "Egli sederà solitario e tacerà" ( Lam 3,28 ). "Sederà" in segno di disprezzo di sé, "solitario", in disparte dal tumulto delle cose del secolo e dai ripensamenti, e "tacerà", non pronuncerà parole maligne. Nella lampada, che non dev’essere occultata sotto il moggio ma posta sul monte, per illuminare quelli che sono nella casa ( cf. Mt 5,15 ), è indicata la luce del buon esempio. Questa è la dimora, così arredata su consiglio del marito, che l’anima deve preparare per il vero Eliseo, e non per i falsi profeti, vale a dire per gli eretici e gli ipocriti, dei quali il Signore nel vangelo di oggi dice: "Guardatevi dai falsi profeti …", ecc. 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo sono posti in evidenza tre fatti. Primo, la simulazione degli ipocriti, quando dice: "Guardatevi dai falsi profeti". Secondo, i frutti dell’albero buono e il taglio di quello cattivo, quando continua: "Così ogni albero buono", ecc. Terzo, la cacciata dal regno di chi dice e non fa, e l’accoglienza nel regno di chi compie la volontà di Dio, quando conclude: "Non chi dice: Signore, Signore", ecc. Con queste tre parti del vangelo vedremo la concordanza di alcuni racconti presi dal quarto libro dei Re. Nell’introito della messa di questa domenica si canta: "Ecco, Dio è il mio aiuto" ( Sal 54,6 ). Si legge quindi l’epistola del beato Paolo apostolo ai Romani: "Noi siamo debitori, ma non verso la carne" ( Rm 8,12 ); divideremo il brano in tre parti, trovandone la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: "Siamo debitori". Seconda parte: "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio". Terza parte: "Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito". I. La simulazione degli ipocriti 3. "Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?" ( Mt 7,15-16 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: falsi profeti, veste di pecore, lupi rapaci. I falsi profeti sono gli ipocriti, dei quali dice Geremia: "Dai profeti di Gerusalemme è uscita la corruzione su tutta la terra" ( Ger 23,15 ). Questi sono i profeti di Gezabel, nome che s’interpreta "sterquilinio"; infatti, mentre ricercano i saluti nelle piazze e i primi seggi nelle sinagoghe ( cf. Mt 23,6-7 ), profeteggiano a favore dello sterquilinio, essi che sono diventati "come lo sterco della terra" ( Sal 83,11 ). Di questi profeti parla anche Michea: "Così dice il Signore contro i profeti che seducono il mio popolo, che mordono con i loro denti e predicano la pace; e a chi non mette niente nella loro bocca, dichiarano la guerra santa" ( Mi 3,5 ). Considera queste quattro parole: seducono, mordono, predicano e dichiarano. I falsi profeti seducono, con la persuasione attirano a sé gli innocenti. Mordono con le detrazioni e le calunnie. Mordono: da mordere viene morbus, malattia, così chiamato, il morbo, perché è via alla morte. La calunnia ( la detrazione ) è una malattia per la quale, come per una via, la morte arriva all’anima. Predicano la pace, per farsi vedere pacifici, essi che mai hanno trovato la via della pace ( cf. Sal 14,3 ). Questi sono i sacerdoti ladri, che mordono con vituperi coloro che non danno, e a coloro che danno predicano la pace e promettono la misericordia, e a coloro che non danno dichiarano la guerra santa. Infatti ritengono cosa santa perseguitare quelli che non danno, e li feriscono con la spada della scomunica. Che se poi danno, li benedicono con una solenne benedizione, essi che sono maledetti dal Signore, il quale maledice anche le loro benedizioni ( cf. Ml 2,2 ). A quelli che danno, infatti, dicono: Voi siete figli della chiesa e onorate la madre vostra, perché soffrite con lei per la sua povertà, e quindi siete benedetti perché a lei date. Ma ditemi, o falsi profeti, ladri e omicidi, chi è la chiesa, se non l’anima fedele? Per renderla pura, senza macchia né ruga, il Signore ha consegnato alla morte la sua anima, cioè la sua vita ( cf. Ef 5,27 ). Chi dà a questa chiesa ciò che ha, il Signore lo benedirà. Ma ahimè, ahimè, oggi un’asina cade a terra e c’è subito pronto chi l’aiuta a rialzarsi; ma va in rovina un’anima e non c’è nessuno che la soccorra! Se fossero dei profeti veri, direbbero con il vero profeta Geremia: "Guai a me, perché l’anima mia viene meno a motivo degli uccisi" ( Ger 4,31 ). Guai a me a causa della tribolazione del mio popolo" ( Ger 10,19 ). "Chi verserà l’acqua sul mio capo e chi darà ai miei occhi un fonte di lacrime, e piangerò giorno e notte sugli uccisi della figlia del mio popolo?" ( Ger 9,1 ). Abbiamo poi la concordanza del quarto libro dei Re, dove si racconta che "l’uomo di Dio, Eliseo, si turbò e pianse. E Cazael gli disse: Per quale motivo piange il mio signore? E quello rispose: Perché conosco i mali che farai ai figli d’Israele: incendierai e brucerai le loro città fortificate, passerai a fil di spada i loro giovani, sfracellerai i loro bambini e sventrerai le loro donne incinte" ( 2 Re 8,11-12 ). Eliseo è figura del degno prelato della chiesa, il quale deve piangere fino ad avere il volto congestionato, perché Cazael, cioè il diavolo, dà alle fiamme con il fuoco della cupidigia le città, cioè le anime dei fedeli; uccide con la spada della suggestione i giovani, vale a dire distrugge le virtù; sfracella i bambini, distrugge cioè le opere buone ancora ai loro inizi; sventra le donne incinte, distrugge il proposito della buona volontà. E chi non piangerà su così grandi sventure? Ma i falsi profeti non se ne curano, purché abbiano di che depredare. Ben a ragione, dunque, il Signore dice: "Guardatevi", cioè state bene attenti, "dai falsi profeti". Falso deriva dal lat. fallere, ingannare, dire ciò che non è vero. Dicono: pace, pace, pace, ma la pace non c’è ( cf. Ger 6,14 ). Leggiamo nel terzo libro dei Re che Acab, re d’Israele, "radunò tutti i profeti e disse loro: Devo andare a fare la guerra contro Ramot di Galaad, oppure devo desistere? E i profeti risposero: Va’, perché il Signore lo metterà nelle tue mani" ( 1 Re 22,6 ). Di quei falsi profeti, il vero profeta del Signore, Michea, dice poco più avanti: "Ecco, il Signore ha posto lo spirito della menzogna nella bocca di tutti i tuoi profeti che stanno qui; invece il Signore preannuncia contro di te una sciagura" ( 1 Re 22,23 ). Acab è figura di colui che ama questo mondo; egli vuole salire a Ramot di Galaad per ribellarsi contro il Signore. Ramot s’interpreta "visione di morte", Galaad "cumulo di testimonianze" ( Gen 31,47-48 ), e stanno a indicare le dignità e le ricchezze di questo mondo, nelle quali invece c’è visione di eterna morte e sono accumulate le testimonianze di condanna eterna contro coloro che le amano. E quando [ il mondano ] vuol salire alle dignità e accumulare ricchezze, consulta i falsi profeti e domanda loro se deve accingersi all’impresa. Va a chiedere consiglio ai sacerdoti del nostro tempo, i quali gli dicono: "Va’ pure!", non è certo peccato possedere ricchezze o conquistare cariche; anche in quello stato si può salvarsi. Oh, magari si presentasse Michea, profeta del Signore, a confondere questi negromanti e ventrìloqui e costringerli a confessare di dire il falso, a chiudere la bocca ai mentitori ( cf. Sal 63,12 ) con l’autorità di Gesù Cristo, che dice: "Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi; guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi" ( Lc 6,24-26 ). Ecco, il Signore dice: "Guai!", e voi, falsi profeti, dite "Vai!" Guardatevi dunque dai falsi profeti. Non prestate loro fede, quando vi dicono di salire a Ramot di Galaad, perché lì saranno guai. 4. "Essi vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci". "Quale intesa ci può essere tra Cristo e Beliar?" ( 2 Cor 6,15 ). Quale intesa ci può essere tra la pecora e il lupo? È pecora nella veste, ma lupo nell’animo. La giustizia finta non è giustizia, ma doppia ingiustizia ( Agostino ). I falsi religiosi sono lupi rapaci, ma si presentano in veste di pecora. Abbiamo qualcosa di simile nel terzo libro dei Re, dove si racconta che "Geroboamo disse a sua moglie: àlzati e cambia vestito perché non si sappia che tu sei la moglie di Geroboamo, e va’ a Silo dove c’è il profeta Achia. Quando la donna entrò dal profeta fingendo di non essere quella che era, Achia sentì il rumore dei suoi piedi mentre entrava dalla porta, e disse: Entra, moglie di Geroboamo! Perché fingi di essere un’altra?" ( 1 Re 14,2.5-6 ). Geroboamo s’interpreta "divisione del popolo", ed è figura del falso religioso che, diviso, bipartito in pecora e lupo, provoca sempre divisioni e discordie nel chiostro e nei capitoli. È infatti come un satana tra i figli di Dio ( cf. Gb 1,6 ). Come dice il salmo: È il nemico che vaga nelle tenebre ( cf. Sal 91,6 ). Sua moglie è la libidine lupigna; e il lupo vuole che essa cambi il vestito, indossi cioè la pelle della pecora. Ma il profeta del Signore Achia la riconosce e le dice: "Entra", ecc. Achia s’interpreta "esame della vita", e sta a significare la coscienza dell’uomo, la quale sempre protesta e denuncia ogni simulazione. Dice infatti l’Apostolo ai Romani: Il testimonio della loro coscienza e i loro stessi ragionamenti ora li accusano, ora li difendono ( cf. Rm 2,15 ). E Salomone nei Proverbi: "Il malvagio cerca sempre contese; ma gli sarà mandato contro un messaggero senza pietà" ( Pr 17,11 ), cioè la coscienza che rimprovera e rimorde. E considera che l’ipocrita, camuffato sotto la pelle di pecora, è come la iena, della quale si raccontano tante cose incredibili. La iena è un animale piccolo e selvatico, che di notte scava tra i sepolcri e si ciba dei corpi dei morti. Imita la voce dell’uomo, va dietro ai pastori nei loro recinti, e ascoltandoli a lungo e attentamente ne impara i richiami e i nomi per poter poi esprimersi imitando la voce umana e infierire di notte contro l’uomo, dopo averlo attirato con uno stratagemma. Contraffà anche il vomito dell’uomo e con rantoli e sforzi attira i cani e quindi li divora. E se i cani, quando ne vanno a caccia, entrano in contatto con la sua ombra mentre la seguono, perdono la voce e non possono più abbaiare. Gli occhi della iena hanno grande varietà e mutevolezza di colori; non attenua mai la forza dello sguardo, ma procede senza batter ciglio contro ciò che ha preso di mira. In bocca non ha gengive: ha un solo dente, che non perde mai, e per non spuntarsi rientra come in un incavo naturale. Se questa iena gira tre volte attorno ad un animale, quest’ultimo non è più in grado di muoversi. A questo proposito il Signore, per bocca di Geremia, dice: "La mia eredità è diventata per me come la caverna della iena" ( Ger 12,8 ). Così anche l’ipocrita è un animale, perché vive bestialmente; si fa piccolo con la simulazione, è selvaggio a motivo della nefandezza della sua condotta, poiché nella notte va scavando nei sepolcri della simulazione. Come dice l’Apostolo, s’introduce nelle case delle donne ( cf. 2 Tm 3,6 ), con parole melliflue e benedizioni seduce i semplici ( cf. Rm 16,18 ) e così si ciba dei cadaveri dei peccatori. Imita la voce, cioè le lodi degli uomini; entra nei recinti dei pastori, vale a dire nei luoghi dove si predica e, ascoltando attentamente, impara anche lui a predicare: poi, col favore delle tenebre, inganna la gente che con la sua predicazione ha attirato a sé. Contraffà anche il vomito dell’uomo, cioè la confessione dei peccatori. Si proclama peccatore, ma è ben lungi dal credersi tale; con falsi singhiozzi e gemiti tenta di farsi ritenere santo dalla gente che lo vede gemere a quel modo. E qualche volta riesce a ingannare anche i giusti, che credono troppo facilmente alla sua finta devozione. Se la sua ombra sfiora qualcuno, questi non è più capace di abbaiargli contro, anzi lo difende. E questo succede soprattutto oggi a coloro che si fidano degli eretici. Costoro non hanno certo prestato ascolto al consiglio del Signore: "Guardatevi dai falsi profeti", ecc. Negli occhi dell’ipocrita poi ci sono tanti cambiamenti. Talvolta leva gli occhi al cielo e sospira, talaltra li rivolge alla terra e piange. E il cambiamento del colore: ora è pallido, ora nero; ora ha vesti dimesse, ora ordinate; ora l’astinenza gli va bene, ora non gli va bene. Tutto questo cambiamento di colori è indice dell’instabilità interiore. Parimenti ogni animale che la iena, cioè l’eretico o l’ipocrita, ha aggirato tre volte, lo ha cioè ingannato con la parola della predicazione, con l’esempio della sua finta santità e con la profferta di allettanti promesse, resterà immobilizzato nei confronti del bene. "Guardatevi" dunque, ve ne scongiuro, "dai falsi profeti. Li riconoscerete da questi loro frutti". E avverte la Glossa: Si riconoscono soprattutto a motivo della loro insofferenza nel tempo delle avversità. Infatti quando la prosperità arride, sotto la pelle di pecora si nasconde l’animo del lupo. Ma quando spira il vento contrario, allora la pelle di pecora viene lacerata dai denti del lupo. "Raccolgono forse uva dalle spine o fichi dai rovi?". Le spine sono chiamate così da pungere, perché sono appuntite come gli aghi ( spicae ); e i rovi sono detti in lat. tribuli perché fanno tribolare. Le spine e i rovi raffigurano gli eretici e gli ipocriti, nei quali nessuno che sia assennato potrà mai trovare la santità o la verità; essi sanno solo lacerare e ferire coloro che li seguono. 5. "Guardatevi dai falsi profeti". Falsi profeti sono anche gli istinti carnali che, per ingannare l’anima, accampano il pretesto della fragilità e della debolezza della natura, decantano l’abbondanza delle cose terrene, profetizzano la pace e proclamano che grande è la misericordia di Dio: e insinuano tutte queste cose per indurre l’anima al peccato. Di tutte queste cose il giusto, piangendo con le parole di Geremia, dice: "Ah, ah, ah, Signore Dio, i profeti dicono loro: Non vedrete spada e non soffrirete la fame, ma vi concederà una pace perfetta in questo luogo" ( Ger 14,13 ). Quando gli istinti carnali parlano così, non ci resta che gemere e dire: Ah, ah, ah, Signore Dio. E in questo triplice "ah" è simboleggiato un triplice dolore: quello del cuore, quello della bocca e quello del corpo. E dice in proposito il Signore ad Ezechiele: "Tu, figlio dell’uomo, profetizza e batti mano contro mano affinché si raddoppi e si triplichi la spada per quelli che dovranno essere uccisi. Questa è la spada del grande massacro che li farà tramortire dallo stupore" ( Ez 21,14 ). Quando il giusto sente la voce dei profeti, il fischio di richiamo dei greggi, il sussurro dei desideri carnali, subito deve battere mano contro mano e raddoppiare o triplicare la spada del dolore, con la quale uccidere i falsi profeti e far tramortire le loro brame. Giustamente quindi il Signore dice: "Guardatevi dai falsi profeti! …". Su tutto questo abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove Ieu dice: "Ora convocatemi tutti i profeti di Baal, tutti i suoi servi e tutti i suoi sacerdoti: non ne manchi neppure uno" ( 2 Re 10,19 ). E quando furono radunati, "Ieu comandò ai soldati e ai suoi comandanti: Entrate e uccideteli; nessuno vi sfugga. Li passarono quindi a fil di spada. Portarono fuori dal tempio la statua di Baal, la frantumarono e la bruciarono. Quindi distrussero anche il tempio di Baal e destinarono il luogo ad immondezzaio, a discarica, fino ad oggi" ( 2 Re 10,25-28 ). E così Ieu fece scomparire Baal da Israele. Ieu s’interpreta "eccitato" o "adirato", ed è figura del giusto il quale deve insorgere, arrabbiarsi con gran furore contro se stesso, quando si sente in preda alla tentazione. Allora deve radunare tutti i profeti di Baal, i suoi servi e i suoi sacerdoti, ecc. Baal, che s’interpreta "divoratore", simboleggia il ventre che tutto divora e i cui profeti sono gli istinti carnali. Questi il giusto deve radunare tutti insieme e con la spada della penitenza sterminarli. "E portarono fuori del tempio la statua". Il tempio è detto in lat. fanum, e deriva da fauno, falsa divinità boschereccia alla quale i pagani nel loro errore costruivano templi; oppure anche perché nel fanum compaiono figure di demoni: infatti la parola greca fanìa significa apparizione; oppure da fando, gerundio del verbo fari, profetizzare. Il tempio di Baal simboleggia la gola, la quale suscita nella mente visioni di pesci e di carni: da questo tempio il giusto deve far uscire la statua, cioè l’idolo della concupiscenza, bruciarlo con la fame e la sete e frantumarla con svariate mortificazioni. "Distrussero anche il tempio di Baal". Questo tempio è chiamato qui in lat. aedes, e viene da èdere, mangiare, e sta a indicare l’ingordigia vertiginosa e disordinata nel mangiare, che il giusto deve assolutamente distruggere, e fare al suo posto una latrina. La parola latrina, che è la ritirata o il gabinetto, deriva dal lat. lateo, appartarsi, e simboleggia il fetore del ventre. Quando dobbiamo provvedere al ventre, non per voluttà ma per necessità, pensiamo un po’ che siamo una latrina di sterco, che noi, miseri ed infelici, sempre ci portiamo appresso: e meditando su questo dobbiamo solo umiliarci. Dice Michea: "In mezzo a te sarà la tua umiliazione" ( Mi 6,14 ). Il nostro mezzo, il centro, è il ventre, latrina di rifiuti: meditando su questo troviamo certamente motivo di umiliarci. Giustamente quindi è detto: "Guardatevi dai falsi profeti". 6. Da questi profeti implora di essere liberato il giusto, nell’introito della messa di oggi: "Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore è il sostegno della mia anima. Fa’ ricadere il male sui miei nemici; nella tua fedeltà disperdili" ( Sal 54,6-7 ), "tu che sei la mia difesa" ( Sal 59,12 ). Il Signore va in soccorso al giusto quando gli concede la grazia di sterminare i profeti di Baal. Lo accoglie quando dal tempio della gola getta fuori la statua della concupiscenza. Ritorce il male sui suoi nemici quando brucia e frantuma quella statua con i digiuni e le veglie. In realtà li disperde quando distrugge completamente il tempio delle cattive abitudini. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne. Poiché se vivrete secondo la carne, voi morirete; se invece, con l’aiuto dello spirito, farete morire le opere della carne, voi vivrete" ( Rm 8,12-13 ). Ecco che qui l’Apostolo mostra chiaramente come debbano essere sterminati i falsi profeti di Baal. "Noi siamo debitori – dice – non verso la carne", ma verso lo Spirito Santo che fa vivere; non verso la carne dalla quale viene la morte. Per debito, per obbligo siamo tenuti legati allo Spirito, e non alla carne, per vivere secondo la carne, cioè secondo i piaceri della carne, anche se alla carne siamo costretti a concedere il necessario. Infatti se vivremo secondo la carne, se crederemo ai falsi profeti, moriremo, perché quei lupi rapaci ci dilanieranno. Se invece con l’aiuto dello spirito faremo morire i profeti di Baal, cioè le opere della carne con la spada della penitenza, se ne avremo bruciata la statua, se avremo distrutto il suo tempio, senza dubbio vivremo: della vita della grazia al presente, e della vita della gloria in futuro. A questa gloria si degni di farci giungere colui che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen. II. I frutti dell’albero buono e il taglio dell’albero cattivo 7. "Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi. Non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato, e sarà gettato nel fuoco. Ecco dunque che dai loro frutti li potrete riconoscere" ( Mt 7,17-20 ). Osserva che nell’albero ci sono queste cinque parti: la radice, il tronco, i rami, le foglie e il frutto. La radice si chiama così perché penetra nella profondità della terra quasi con dei raggi ( lat. radix, radiis ). I naturalisti infatti dicono che l’altezza degli alberi è pari alla profondità delle loro radici. Il tronco è come la statura dell’albero che si erge sulle radici. I rami sono le propaggini del tronco: su di essi si formano le foglie che proteggono i frutti. L’albero buono simboleggia la buona volontà, alla quale, per durare ed essere buona, sono necessarie queste cinque cose: la radice dell’umiltà, il tronco dell’obbedienza, i rami della carità, le foglie della santa predicazione e i frutti, cioè la dolcezza della celeste contemplazione. La radice dell’umiltà, quanto più è profonda nel cuore, tanto più è alta nelle opere. E questo è simboleggiato nell’acqua che, quanto più scende, tanto più sale. L’umiltà dell’ipocrita, non avendo radice nel cuore, vuole apparire grande nelle opere. Invece la vera umiltà, quanto più penetra nel profondo, tanto più si abbassa, e così tanto più in alto viene esaltata. 8. Su questa santa radice dell’albero buono, abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove si racconta che "il re Ezechia disse ad Isaia: Qual è il segno che il Signore mi guarirà, e che il terzo giorno salirò al tempio del Signore? Isaia gli rispose: Da parte del Signore, questo ti sia come segno che il Signore manterrà la promessa che ti ha fatto: Vuoi che l’ombra [ della meridiana ] avanzi di dieci gradi, o che di dieci gradi retroceda? Ezechia rispose: È facile che l’ombra avanzi di dieci gradi: ma io non voglio questo: voglio invece che retroceda di dieci gradi. Allora Isaia invocò il Signore, e l’ombra tornò indietro di quei dieci gradi che già aveva percorsi sulla meridiana di Acaz" ( 2 Re 20,8-11 ). La meridiana di Acaz – nome che s’interpreta "convertito" o anche "che ricorre alla fortezza" – raffigura il cuore del penitente il quale, convertitosi dalla sua vita di peccato, ricorre alla fortezza della perseveranza per conquistare il premio della gloria. E in questa meridiana vi sono e vi devono essere dieci gradi di umiltà, per i quali il sole, cioè l’anima illuminata dalla grazia di Dio, deve avanzare e quindi nuovamente tornare indietro. Il primo grado di umiltà consiste nel considerare dentro di sé da quale misera e nauseante materia si è procreati. Il secondo grado consiste nel considerare che per nove mesi si resta rinchiusi nel grembo materno e si è nutriti con sangue mestruo. E su queste due realtà troverai più ampie considerazioni nel sermone della domenica di Quinquagesima, dove viene commentato il brano evangelico di Luca: "Un cieco sedeva lungo la via" ( Lc 18,35 ). Il terzo grado consiste nel considerare come dalle tenebre del grembo materno si esca piangendo e strillando, nudi e sudici. Per questi tre gradi era disceso Giobbe, quando diceva: "Chi potrà rendere puro chi è stato concepito da seme impuro?" ( Gb 14,4 ). E ancora: "Perché non sono morto fin dal grembo di mia madre, e non spirai appena uscito dal suo ventre? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché due mammelle mi hanno allattato?" ( Gb 3,11-12 ). E Geremia: "Perché mai sono uscito dal grembo materno per vedere fatiche e dolori e per finire i miei giorni nella vergogna?" ( Ger 20,18 ). Il quarto grado consiste nel considerare quanto miseranda e ingrata sia la peregrinazione di questo esilio, durante la quale ci sono soltanto gemiti e dolore, difficoltà e pianto. Dice infatti Giacobbe: "I giorni della mia vita sono stati pochi e tristi" ( Gen 47,9 ). Il quinto grado consiste nel ricordo della propria iniquità, dei tanti peccati commessi e delle tante omissioni, e quanto si è stati ingrati nei confronti di Dio: si era liberi, e ci si è venduti gratis al diavolo. Su questo grado leggiamo nel quarto libro dei Re che Ezechia voltò il viso verso la parete, pregò il Signore e proruppe in un pianto dirotto ( cf. 2 Re 20,2-3 ). La parete è figura della quantità dei peccati ai quali il peccatore deve volgersi, ripensare, nell’amarezza della sua anima, a tutti i peccati che ha commesso e a tutti i doveri ai quali è venuto meno, e pregare il Signore perché gli infonda nuovamente la grazia perduta e gli perdoni i peccati. Il sesto grado consiste nel pensiero della morte, pensiero più amaro di ogni altra amarezza. Dice i libro dell’Ecclesiastico: "O morte, quanto è amaro il tuo pensiero per l’uomo che vive tranquillo nella sua agiatezza" ( Sir 41,1 ). Se non si pentirà, la sua carne sarà data ai vermi, la sua anima ai demoni; le sue sostanze dovrà lasciarle ai figli e ai parenti. Dice infatti il salmo: "Scenderanno nel profondo della terra", cioè nell’inferno, ecco l’anima data ai demoni; "saranno dati in potere della spada", cioè della morte, ecco la carne data ai vermi; "diverranno preda delle volpi" ( Sal 63,10-11 ), ecco le sostanze lasciate ai parenti i quali, astuti come le volpi, si getteranno sulla pelle dell’asino defunto. Il settimo grado di umiltà consiste nel richiamare alla mente come il Figlio di Dio piegò il capo della sua divinità nel grembo della Vergine poverella; come colui che riempie di sé il cielo e la terra, e che il cielo e la terra non possono contenere, si rimpicciolì nel talamo di una fanciulla, nel quale dimorò per nove mesi; come fu avvolto in panni, fu adagiato in una mangiatoia di animali ( cf. Lc 2,7 ), fu portato in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode; come il padrone di tutto il mondo fu dal mondo scacciato, e come in tutto il mondo non poté trovare un posto dove reclinare il capo, se non sulla croce dove, piegato il capo nel grembo del Padre, nelle sue mani consegnò il suo spirito (cf. Lc 23,46; Gv 19,30 ). L’ottavo grado consiste nel considerare quanta misericordia e quanta benevolenza usò verso i peccatori, che attirava a sé con la dolcezza della sua predicazione, e con i quali anche prendeva il cibo per richiamarli alla penitenza; e quanta compassione provò colui che pianse amaramente sulla città nella quale doveva venir crocifisso, e su Lazzaro che avrebbe poi risuscitato; e quanta benignità ebbe nel cuore da voler parlare da solo con la samaritana e da permettere che la Maddalena lo toccasse. Il nono grado consiste nel considerare come fu percosso con le verghe, colpito con schiaffi, coperto di sputi, coronato con una corona di spine, abbeverato con fiele e aceto e crocifisso tra due ladroni, come fosse stato un ladrone anche lui. Il decimo grado, infine, consiste nel meditare a fondo come suonerà la tromba e i morti "che dormono nella polvere della terra", come dice Daniele, "si risveglieranno, alcuni per la vita eterna e altri per l’eterna vergogna, per constatare" ( Dn 12,2) come colui che era benigno diventerà severo, colui era stato giudicato verrà per giudicare il mondo nella giustizia, egli che era Figlio della Vergine mendicante ( Girolamo ); come "ad un suo cenno si scuoteranno le colonne del cielo" ( Gb 26,11 ), "le potenze dei cieli saranno sconvolte" ( Mt 24,29 ), "i cieli si arrotoleranno come un libro" ( Is 34,4 ), e "il sole si cambierà in tenebre e la luna in sangue" ( Gl 2,31; cf. At 2,20 ), e gli uomini fuori di sé fuggiranno e diranno ai monti: Cadete su di noi; e ai colli: Nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono ( cf. Os 10,8 ; Ap 6,16 ). Per questi dieci gradi ( scalini ) l’anima del penitente deve salire e scendere; quanto più scenderà, tanto più risalirà. E questo sarà veramente il segno che il Signore la guarirà da ogni infermità di peccato e che potrà salire al tempio della celeste Gerusalemme, costruito con pietre vive. Beato, dunque, quell’albero che avrà tale radice, perché è dalla radice che germogliano i frutti dell’albero. Per questo abbiamo trattato a lungo della radice, nella quale è simboleggiata l’umiltà: da essa nasce l’albero della buona volontà e l’uomo raccoglie il frutto della vita eterna. iustamente dunque ha detto il Signore: "L’albero buono produce frutti buoni". 9. "L’albero cattivo invece produce frutti cattivi". Cattivo si dice in lat. malus, e deriva dal greco mélan, colore nero, o fiele nero. Per questo gli uomini che rifuggono l’umana compagnia sono chiamati melanconici: in essi è abbondante il fiele nero. L’albero cattivo raffigura la cattiva volontà: la sua radice è la cupidigia, il suo tronco l’ostinazione, i rami sono le opere cattive, le foglie sono le parole maligne e i frutti la morte eterna. E di tale albero il Signore soggiunge: "Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco". Per questo leggiamo in Daniele che "un vigilante, un santo scese dal cielo, gridò ad alta voce e disse: Tagliate l’albero e stroncate i suoi rami; scuotete le foglie e disperdetene i frutti; fuggano le bestie che stanno sotto di esso e gli uccelli che sono tra i suoi rami" ( Dn 4,10-11 ). L’albero viene tagliato quando il peccatore, tagliato dalla scure della morte, cade e ritorna alla terra. E allora i rami delle ricchezze e i successi di questo mondo vengono stroncati e le leggere foglie delle parole scrollate via. Ormai cessano le parole, perché si è arrivati alle percosse ( Iam cessant verba, quia ventum est ad verbera ). E i frutti, cioè le sue opere cattive, saranno dispersi, perché le porte del corpo, attraverso le quali quell’anima sventurata era solita uscire per vedere le donne di quella regione ( cf. Gen 34,1 ), ormai vengono chiuse. E le bestie, il cui nome suona come vastiae, devastatrici, cioè i predoni e gli omicidi che erano abituati a ripararsi sotto la sua ombra, morto lui, fuggono. E gli uccelli, cioè i superbi che erano soliti starsene tra i suoi rami, tutti fuggono. Giustamente quindi dice il Signore: "Ogni albero che non porta frutti buoni sarà tagliato e sarà gettato nel fuoco, che è preparato per il diavolo e per i suoi angeli" ( Mt 7,19; Mt 25,41 ). Dice in proposito Isaia: "Da ieri è preparato il Tofet; è preparato dal re: profondo e largo. Suo alimento è il fuoco e tanta legna: il soffio del Signore lo incendierà come un torrente di zolfo" ( Is 30,33 ). Il Tofet, che significa "larghezza", raffigura l’inferno, che ha aumentato la sua capienza oltre ogni limite; è stato preparato da ieri, cioè dall’eternità, dal re Gesù Cristo, al quale tutto il passato è presente, e per il quale ciò che ha fatto dall’eternità è ciò che è per noi il nostro ieri. Questo inferno è detto profondo e largo: profondo perché sempre lontano dal toccare il fondo, cioè senza una fine delle pene; largo per ricevere e contenere tutte le anime dei dannati. E si chiama inferno perché le anime vi vengono gettate dentro ( lat. inferuntur ); il suo alimento è costituito da moltissima legna, cioè dalle anime dei peccatori; il soffio del Signore, cioè la sua ira, come un torrente di zolfo che arde e ammorba, lo accenderà. Chi arde in questo mondo del fuoco dell’avarizia ed è contagiato dal fetore della lussuria, brucerà eternamente laggiù. 10. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!" ( Rm 8,14-15 ). Lo spirito di Dio è l’umiltà, e quelli che sono guidati, cioè animati, dall’umiltà, sono veramente "albero buono", perché sono figli di Dio. Come la radice sostiene e alimenta l’albero; così l’umiltà sostiene e alimenta l’anima. Lo spirito di umiltà è dolce più del miele, e chi è alimentato dal miele produce frutti dolci. "Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi", che vi costringa di nuovo, come nel tempo della Legge, a servire Dio forzatamente, per timore del castigo. L’albero cattivo riceve non lo spirito di adozione, con i figli, ma quello della schiavitù, con gli schiavi, i quali non restano per sempre nella casa ( cf. Gv 8,35 ), ma saranno tagliati e gettati nel fuoco inestinguibile. Si ha l’adozione quando viene adottato qualcuno al posto di un figlio. Perciò il figlio adottivo, accolto cioè al posto del figlio ( vero ) Gesù Cristo – che sempre sia benedetto –, da un albero sterile, dopo avervi innestato il germoglio della fede, ottenne un albero buono e fruttifero; e dei figli dell’ira fa ogni giorno figli della grazia, perché con la contrizione del cuore e la confessione della bocca gridino ogni giorno: "Abbà, Padre". Abbà è un termine siriaco ed ebraico, che in lat. significa Pater, Padre. E questo doppio nome di paternità sta ad indicare la duplice misericordia della benevolenza paterna. Infatti il penitente, accolto al posto del figlio, è autorizzato a sperare sia nella remissione dei peccati che nella beatitudine della gloria. Ti preghiamo dunque, Abbà, Padre, di renderci alberi buoni, di farci produrre frutti degni di penitenza, affinché radicati e fondati nella radice dell’umiltà e liberati dal fuoco eterno, meritiamo di poter cogliere il frutto dell’eterna vita. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. La cacciata dei cattivi dal regno e l’accoglienza dei buoni 11. "Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli ( Mt 7,21 ). Il Signore ha questo nome, in lat. Dominus, perché signoreggia, o domina su tutte le creature; o perché sta a capo della casa ( in lat. domus, casa ); o può voler dire anche dans minas, che dà ( fa ) minacce. La Glossa commenta così questo passo del vangelo: "Il cammino verso il regno di Dio consiste nell’obbedienza, e non nell’invocazione del suo nome; e neppure lo si invoca con sincerità e convinzione, quando la proclamazione del nome non concorda con la volontà; e infatti dice l’Apostolo: "Nessuno può dire: Signore Gesù, se non sotto l’azione dello Spirito Santo" ( 1 Cor 12,3 ). Dire con sincerità: "Signore Gesù", significa credere con il cuore, confessarlo con la bocca e testimoniarlo con le opere. Una cosa senza l’altra equivale a negare; infatti, per quante lodi faccia risuonare la lingua, la vita poi lo bestemmia. Gridano "Signore" coloro che non sono suoi servi, coloro che non temono le sue minacce. Dice infatti il Signore stesso con le parole di Isaia: "Mi grida da Seir: Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte? Risponde il custode: Viene il mattino e poi verrà la notte; se volete cercare, cercate; convertitevi e venite!" ( Is 21,11-12 ). Seir s’interpreta "ispido", ed è figura del peccatore, oppresso dalle spine delle ricchezze e delle preoccupazioni. Perciò la Genesi dice che Esaù si stabilì nella terra di Seir, della regione di Edom ( cf. Gen 36,8 ) E osserva che Esaù fu chiamato Seir e Edom: Seir perché peloso, Edom a motivo delle lenticchie rosse per le quali aveva venduto la primogenitura ( cf. Gen 25,29 ). Esaù vuol dire anche "mucchio di pietre", e Edom "sangue". Dove c’è un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, lì ci sono anche le spine pungenti delle preoccupazioni e spargimento di sangue. Il peccatore dunque grida: "Custode, quanto resta della notte?". Ecco qui "la ruota in mezzo ad un’altra ruota" ( Ez 1,16; Ez 10,10 ). Nel vangelo di Matteo è detto due volte "Signore", e in Isaia due volte "Custode", per indicare che colui che è il Signore, è necessario che sia anche il Custode, per custodire perfettamente la casa della quale è a capo. Questo duplice nome di Signore comprende in sé il creatore e il giudice, e tra questi due estremi viene posto il centro, cioè il custode. Gesù Cristo nella creazione delle cose fu Signore, e sarà Signore anche nell’esame del severo giudizio perché sarà giudice e renderà a ciascuno ciò che è giusto. Però tra questi due momenti fu custode nella notte: il Signore assunse la condizione di servo per custodire i servi. Infatti leggiamo nel vangelo di Luca che "passava la notte in orazione" ( Lc 6,12 ). Il custode della notte passava la notte in orazione, non per sé ma per la sua creatura, che era venuto a liberare. Fu ancora custode della notte nella sua passione. Leggiamo sempre nel vangelo di Luca: "Gesù si allontanò da loro quanto il tiro di un sasso, e inginocchiatosi pregava" ( Lc 22,41 ). Solo pregava per tutti, perché solo, per tutti avrebbe sofferto. Dice anche Ambrogio: "Patì per me, egli che in sé non aveva nulla per cui dovesse patire". Si inginocchia per mostrare, con la posizione del corpo, l’umiltà dello spirito. Allora fu veramente umile e misericordioso, ma ritornerà severo e inesorabile per fare della terra un deserto e distruggere da essa i malvagi. 12. E di questi malvagi egli si lamenta con le parole del profeta Osea: "Si sono rimpinzati, si sono saziati, il loro cuore si è inorgoglito e si sono dimenticati di me. Perciò sarò per loro come una leonessa, come un leopardo sulla via degli Assiri. Li assalirò come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli; dilanierò le loro interiora fino al fegato e come un leone li sbranerò. La belva del campo li dilanierà. Viene da te la tua rovina, o Israele: solo da me ti potrà venire l’aiuto" ( Os 13,6-9 ). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza otto cose, e cioè quattro vizi e i loro quattro corrispondenti castighi: "si sono riempiti", ecco le ricchezze e l’avarizia; "si sono saziati", ecco la gola; "il loro cuore si è inorgoglito", ecco la superbia e la vanagloria; "si sono dimenticati di me", ecco la lussuria. Dice infatti Ezechiele: "Poiché mi hai dimenticato e mi hai gettato dietro al tuo corpo, anche tu porterai le tue scelleratezze e le tue fornicazioni" ( Ez 23,35 ). Getta il Signore dietro al suo corpo colui che, dimentico dell’amara sua passione, si abbandona ai piaceri del corpo e per amore del suo corpo diventa schiavo della gola e del ventre. "Perciò" – dice il Signore – "sarò come una leonessa" contro quelli che si sono rimpinzati; "come un leopardo nella via degli Assiri, assalirò" quelli che si sono saziati; "come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli dilanierò fino al fegato le interiora" dei superbi, che si sono inorgogliti nel loro cuore. Amiamo con il fegato: in esso è simboleggiato l’amore alle cose terrene, e il Signore dilanierà le interiora di chi le ama. "E come un leone consumerò" i lussuriosi, "e la belva del campo", che è il diavolo, "li strazierà con la spada della morte eterna, e così avranno come torturatore nella loro sofferenza colui che hanno ascoltato come istigatore nella colpa. "La tua rovina viene da te stesso, o Israele", come dicesse: Se sei andato in rovina, la colpa è tua. Ma il soccorso non ti potrà venire da nessun altro che da me, che custodisco Israele. Giustamente dunque è detto: "Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte?". "E il custode risponde: Viene il mattino e poi verrà la notte. Se volete cercare, cercate. Convertitevi e venite". Custode deriva da cura; mattino, in lat. mane, dall’aggettivo manus, buono, perché gli antichi chiamavano la mano "un bene"; infatti che cosa c’è di meglio della luce ( del mattino, mane )? Il Signore, nostro custode, che ha cura di noi ( cf. 1 Pt 5,7 ), a coloro che gridano: "Signore, Signore!", dice: "Viene il mattino", cioè la luce della grazia; camminate dunque finché è giorno, perché arriverà la notte nella quale non potrete più far niente. Se un albero, dice Salomone, cade rivolto a mezzogiorno, cioè alla vita, o se cade rivolto a settentrione, vale a dire alla morte, resta dove è caduto ( cf. Qo 11,3 ). Lavora dunque assiduamente finché è giorno, o peccatore, perché non c’è né azione né ragione in quell’inferno verso il quale ti stai affrettando, anzi ti stai lanciando con i tuoi peccati. Se dunque vi proponete di cercare, cercate finché è giorno. E se cercate, che cosa vuol dire cercare? "Convertitevi – risponde – e venite". Ecco come si cerca Dio e come lo si trova. Il Signore non si deve cercarlo gridando "Signore, Signore!", perché egli cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità ( cf. Gv 4,23-24 ), cioè nello spirito della contrizione e nella verità della confessione. 13. In questo modo cercò il Signore il santo re di Giuda, Giosia. Concorda con quanto è stato detto finora ciò che si racconta di lui nel quarto libro dei Re, dove si dice che quando ebbe udite le parole della Legge del Signore, Giosia si lacerò le vesti; concluse un’alleanza con il Signore, impegnandosi a seguire il Signore con tutto il cuore e con tutta l’anima; gettò poi fuori dal tempio del Signore tutti i vasi fatti in onore di Baal, e li bruciò fuori di Gerusalemme nella valle del Cedron. Diede alle fiamme i carri del sole; fece scomparire anche i negromanti, gli indovini, le immagini degli idoli e tutti gli abomini e le immondezze, e celebrò la Pasqua del Signore ( cf. 2 Re 22,11; 2 Re 23,3.4.11.24 ). Giosia s’interpreta "in lui è il sacrificio", e raffigura il penitente nel quale "è il sacrificio a Dio", che è il suo spirito addolorato e pentito ( cf. Sal 51,19 ). Il penitente, quando sente annunciare la gloria eterna dei giusti e il castigo dei peccatori che mai non finirà, si lacera le vesti, vale a dire castiga le sue membra che sono come le vesti dell’anima, e stabilisce un patto con il Signore: il Signore gli perdoni le sue colpe ed egli in futuro non tornerà mai più a commetterle. E dal tempio del Signore, cioè dal suo cuore nel quale dimora il Signore, toglie tutti i vasi che erano stati fatti in onore di Baal, tutti i cedimenti alla gola con i quali serviva al dio Baal, cioè al suo ventre, e li brucia nella valle del Cedron, che s’interpreta "tristezza e dolore": li brucia cioè nell’umiltà del dispiacere e del pentimento. E con il fuoco della penitenza dà alle fiamme anche i carri del sole, cioè i cinque sensi del corpo che sulle loro quattro ruote, vale a dire tra i piaceri delle cose temporali che si estendono a tutte le quattro stagioni, scorrazzano nel sole, cioè nella luce della gloria passeggera. E caccia fuori i negromanti, cioè lo spirito di avarizia, e gli indovini, gli incantatori e i ciarlatani, chiamati in lat. arioli, in quanto gridano preghiere infami attorno agli altari ( lat. ara ), e nei quali sono raffigurati gli ipocriti; getta fuori inoltre le immagini degli idoli, cioè le fantasie impure, i cattivi pensieri, le fornicazioni e le parole sconce. Ripulito da tutte queste brutture, il peccatore celebra al Signore "la pasqua", che vuol dire "passaggio" ( cf. Es 12,11 ), perché passa dai vizi alle virtù per convertirsi e seguire il Signore, non dicendo "Signore, Signore!", ma facendo la volontà del Padre, per meritare così di entrare, alla fine della vita, nel suo regno. 14. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: "Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo" ( Rm 8,16-17 ). Se dopo esserci convertiti, seguiremo il Signore purificando il tempio da ogni bruttura, allora potremo veramente riconoscere che lo Spirito di Dio dà al nostro spirito testimonianza di una fondata speranza e attesta che siamo figli di Dio, che fanno la volontà del Padre che è nei cieli. E se siamo figli, siamo anche eredi, cioè partecipi della stessa gloria: eredi di Dio, il quale ci ha costituiti eredi dell’eredità eterna con il testamento convalidato dal sangue e dalla morte del Figlio suo; e del suo Figlio siamo coeredi, perché egli è carne e fratello nostro ( cf. Gen 37,27 ) a motivo della compartecipazione alla nostra natura, ch’egli ha esaltata al di sopra degli angeli, perché noi fossimo partecipi della sua vita divina, e quindi coeredi. Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Padre onnipotente che ci conceda di compiere la sua volontà, di purificare il tempio del nostro cuore da ogni sozzura, di celebrare la vera pasqua, cioè il vero passaggio, per poter giungere all’eredità eterna che egli ci ha promesso per mezzo del nostro coerede Gesù Cristo, suo diletto Figlio. Ce lo conceda egli stesso, che con il suo amatissimo Figlio e con lo Spirito Santo è Dio, Uno ed eterno, e vive e regna nei secoli eterni. E tutta la chiesa risponda: Amen. Alleluia! Prologo Benché indegni, ringraziamo il Dio Uno e Trino perché, con l’aiuto della sua grazia, abbiamo completato il corso dei sermoni domenicali fino alla prima domenica di agosto ( l’ottava domenica dopo Pentecoste ). Osserva che dal primo agosto fino al primo settembre si leggono nella chiesa i cinque libri di Salomone, cioè i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, i libro della Sapienza e l’Ecclesiastico. Nel mese di agosto ci sono quattro domeniche; se Dio ce lo concede, vedremo di questi cinque libri gli insegnamenti più utili all’edificazione spirituale e più adatti alla nostra materia, e ne troveremo la concordanza con i vangeli di queste domeniche. Domenica IX dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della nona domenica dopo Pentecoste: "C’era un uomo ricco che aveva un fattore"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sulla scienza e la vita del prelato, o del predicatore, e sulle proprietà del latte: "Chi schiaccia con forza le mammelle". – Parte I: Sermone sulla venuta del Signore: "La lunghezza dei giorni è nella sua destra". – Sermone contro i carnali e i mondani: "Per tre cose freme la terra". – Sermone morale contro i prelati carnali della chiesa, sulla natura dell’aquila e dell’orso, e sulle caratteristiche dello sparviero ( avvoltoio ): "C’era un uomo ricco che aveva un amministratore". – Sermone contro la simonia dei sacerdoti e dei prelati: "Una donna stolta e loquace". – Contro coloro che si danno alle scienze lucrative: "Quando una serva diventa erede". – Parte II: Sermone sull’amore di Dio e del prossimo: "Chiamati i debitori ad uno ad uno"; sulla natura dell’olio, e sui quattro modi di interpretare il passo "Lo spirito del Signore si librava sulle acque". – Sermone ai prelati: "La figura del firmamento". – Le quattro specie di generazione e loro significato: "La generazione che maledice il proprio padre". – Parte III: Sermone sull’elemosina: "Fiorirà il mandorlo". – La quattro tende e il loro significato: "Perché vi accolgano nelle tende eterne". – Sermone ai claustrali: "Quanto sono belle le tue tende, Giacobbe!". Esordio - La scienza e la vita del prelato, o del predicatore 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "C’era un uomo ricco, che aveva un fattore. Questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi" ( Lc 16,1 ). Dice Salomone nei Proverbi: "Chi preme forte le mammelle per trarne il latte, ne fa uscire burro, e chi munge con troppa energia, fa uscire il sangue" ( Pr 30,33 ). Fa’ attenzione alle quattro parole: mammelle, latte, burro e sangue. Le mammelle raffigurano il Vecchio e il Nuovo Testamento; il latte simboleggia l’allegoria ( cioè l’interpretazione che si fa dei racconti della sacra Scrittura ); il burro rappresenta l’insegnamento morale; il sangue indica la compunzione delle lacrime. Delle mammelle, che sono figura del Vecchio e Nuovo Testamento, dice Osea: "Da’ loro, Signore! Che cosa darai loro? Un grembo senza figli e mammelle vizze" ( Os 9,14 ). Ai predicatori e ai prelati della chiesa che prevaricano il Signore dà ventre senza figli. La loro mente infatti non viene fecondata dalla grazia dello Spirito Santo e quindi resta sterile di opere buone, senza figli; e così le loro mammelle, cioè la scienza del Vecchio e Nuovo Testamento, che predicano, risulta arida e infruttuosa. Dice infatti Salomone: "Dove non ci sono buoi, la mangiatoia è vuota; invece le messi abbondanti testimoniano della forza dei buoi" ( Pr 14,4 ). La mangiatoia è chiamata in lat. praesepe, da prae e sepe, come circondato da siepe, e sta ad indicare l’assemblea dei fedeli, che il Signore ha circondato con la siepe della fede. Questa mangiatoia è vuota, quando i buoi, cioè i prelati, non sono con la loro vita dove sono con la loro prelatura; se fossero con la fortezza delle opere buone dove sono con la grandezza della dignità, senza dubbio ci sarebbero anche mèssi abbondanti, in tutti i fedeli cioè fiorirebbe la pratica delle virtù. Giustamente dunque dice Salomone: "Chi preme troppo forte le mammelle …", ecc. Preme forte le mammelle colui che, alla dottrina dei due Testamenti che predica, aggiunge la mano dell’operosità, affinché non gli si possano rinfacciare le parole di Salomone: "Il pigro ha nascosto le mani sotto le ascelle, e fa fatica se deve portarle alla bocca" ( Pr 26,15 ). Le ascelle, che sono cavità sotto le braccia nel punto d’incontro con il corpo, sono così chiamate perché da esse cilluntur, cioè vengono mosse le braccia. Nasconde le mani sotto le ascelle e non le porta alla bocca colui che predica con la bocca ma poi trascura di operare con le mani. Il predicatore, dunque, deve far uscire dalle mammelle il latte del racconto, in modo da poter poi dal latte estrarre il burro soavissimo dell’insegnamento morale. Considera che il latte è composto di tre sostanze. La prima è il siero acquoso, la seconda è il formaggio e la terza il burro. Il siero acquoso raffigura il racconto, il formaggio l’allegoria o l’applicazione, il burro in fine l’insegnamento morale il quale, quanto più è garbato, tanto più gradevolmente colpisce l’animo degli ascoltatori, perché i costumi sono corrotti. Perciò è meglio insistere sull’insegnamento morale che riforma i costumi, piuttosto che sull’allegoria che è destinata a suscitare la fede: infatti, per grazia di Dio, la fede è diffusa in tutta la terra. "E chi munge con troppa energia, fa uscire il sangue". Il sangue è così chiamato perché vivifica e sostenta, o anche perché è soave ( lat. sanguis, suavis est ); esso simboleggia la compunzione delle lacrime, che vivificano l’anima e la sostentano perché non cada nel peccato. E che cosa c’è di più soave delle lacrime, che provengono dalla dolcezza della contemplazione? Le lacrime, dice Agostino, sono il sangue dell’anima. Il peccatore, dunque, quando viene, per così dire, "munto", cioè spremuto con grande energia dalla parola della predicazione che spinge verso l’alto la sua mente, fa uscire il sangue, cioè prorompe in lacrime per il fatto di aver sperperato i beni, i doni che il Signore gli ha affidati. Per questo nel vangelo di oggi è detto: "C’era un uomo ricco, che aveva un fattore", ecc. 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Primo, l’accusa a carico del fattore presso il padrone e lo sperpero da lui fatto dei beni affidatigli, dove dice: "C’era un uomo ricco". Secondo, la convocazione dei debitori del suo padrone, dove dice: "Chiamati ad uno ad uno i debitori". Terzo, l’accoglienza nelle tende eterne di coloro che fanno del bene ai poveri, dove dice: "E io vi dico: Fatevi degli amici". Cercheremo di far concordare alcuni detti di Salomone con le tre parti di questo vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Ho gridato al Signore: Egli mi esaudirà" ( Sal 55,17 ). Si legge quindi l’epistola del beato Paolo ai Corinzi: "Non siamo bramosi di cose cattive" ( 1 Cor 10,6 ); la divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: "Non siamo bramosi di cose cattive". Seconda parte: "Quindi, chi crede di stare in piedi". Terza parte: "Infatti Dio è fedele". I. Il fattore accusato di sperperare i beni del padrone 3. "C’era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cos’è questo che sento dire di te? Rendimi conto della tua amministrazione, perché non potrai più essere fattore. Il fattore disse tra sé: Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non ho la forza, di mendicare mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua" ( Lc 16,1-4 ). In questo primo passo del vangelo dobbiamo considerare attentamente che cosa significhino l’uomo ricco, il fattore, lo sperpero dei beni del padrone, zappare e mendicare. Quest’uomo ricco è figura di Gesù Cristo: uomo per la natura umana, e ricco per la natura divina. Quindi dice di lui Salomone: "Il povero e il ricco s’incontrarono: Il Signore ha creato l’uno e l’altro" ( Pr 22,2 ). Il povero, cioè la natura umana, e il ricco, cioè la natura divina, si unirono in Cristo, affinché l’uomo povero fosse liberato dalle pene e dalle colpe con le quali era legato. Delle ricchezze di quest’uomo ricco è detto nei Proverbi: "Lunghezza di giorni è nella sua destra, e nella sua sinistra ricchezze e gloria. Le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono alla pace" ( Pr 3,16-17 ). Destra significa "che dà fuori" ( lat. dans extra ); sinistra "che permette fuori" ( lat. sinens extra ). La sinistra e la destra di Cristo sono figura delle sue due venute: la prima è indicata nella sinistra, la seconda nella destra. Nella prima venuta Cristo aveva le ricchezze, cioè la povertà, l’umiltà, che espose, per così dire, nei nostri mercati perché le comperassimo, e senza le quali non possiamo essere ricchi. Presentò anche la gloria, che è la gioia nelle tribolazioni e la pazienza nelle persecuzioni. A questi mercati andarono gli apostoli, e vi acquistarono quelle merci meravigliose, quando "se andarono dal sinedrio, lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù" ( At 5,41 ). Su questo abbiamo la concordanza nei Proverbi: "Robaccia, robaccia" – dice sempre chi compra –; "ma quando se ne va, allora se ne vanta" ( Pr 20,14 ). Se stabilisci di andare ai mercati delle tribolazioni, nei quali vengono vendute le ricchezze, vedi prima se hai nella borsa del cuore il denaro della pazienza e della letizia, con il quale poter comperare; altrimenti non ti consiglio di andarci, perché tornerai a mani vuote. Se invece puoi contare su una somma, allora vai pure e compera. Non preoccuparti se quelle ricchezze sono ardue, se è disgustoso e amaro bere il calice della tribolazione; perché, quando te ne tornerai, allora ti vanterai, perché passerai dalla sinistra alla destra, nella quale sta la lunghezza dei giorni. "Lo sazierò" – dice – "di lunghi giorni" ( Sal 91,16 ). "Le sue vie sono vie deliziose". Osserva che due sono le vie e due sono i sentieri di Gesù Cristo. La prima via fu quella che percorse dal Padre alla Madre, e questa via è la via della carità, dell’amore, della quale dice il profeta: "Guidami, o Signore, per la tua via" ( Sal 86,11 ). La seconda via fu quella che lo condusse dalla Madre al mondo, e questa è la via dell’umiltà, della quale dice il salmo: "Nel mare ( lat. in mari ) è la tua via" ( Sal 77,20 ), come dicesse: O Cristo, tu sei stato fatto in Maria per la via dell’umiltà. Se alla parola mari aggiungi la a di tua, ottieni Maria, nome che s’interpreta "stella del mare". E queste vie sono deliziose. Infatti della prima è detto nel salmo: "Con la tua magnificenza e la tua bellezza lànciati, avanza felicemente e regna" ( Sal 45,5 ). O Verbo, che il cuore del Padre ha emanato, procedi felicemente alla liberazione del genere umano, procedi ad assumere la natura umana e, vinto il diavolo, incomincia a regnare, per poter dire: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" ( Mt 28,18 ), e compi tutto questo nella grandezza del tuo amore, con il quale distruggi la lebbra della nostra iniquità. Della bellezza della seconda via è detto nel Cantico dei Cantici: "Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia del principe" ( Ct 7,1 ). Madre e figlia del principe, cioè di Gesù Cristo, fu la beata Maria, i cui piedi, cioè i sentimenti del cuore, furono belli nei sandali color giacinto, cioè nei desideri della gloria celeste. Dice infatti Ezechiele: "Ti diedi calzari color giacinto" ( Ez 16,10 ), cioè del desiderio delle cose superne. E Giuditta, come è scritto nell’omonimo libro, "si mise i sandali ai piedi" ( Gdt 10,3 ). Giuditta s’interpreta "colei che riconosce", ed è figura della beata Maria, che ha riconosciuto il Signore dicendo: "L’anima mia magnifica il Signore" ( Lc 1,46 ). Costei ai piedi dei sentimenti si mise i sandali dei desideri celesti. Analogamente, il primo sentiero di Gesù Cristo fu quello della persecuzione dei giudei, il secondo fu quello del patibolo della croce. Sentiero si dice in lat. sèmita, come dire semis iter, mezzo cammino, poiché semis significa "la metà". Questi due sentieri furono sentieri pacifici, ci portarono cioè la pace. Dice infatti Isaia: "Si è abbattuto su di lui il castigo che ci ha portato la pace; per le sue piaghe noi siamo stati guariti" ( Is 53,5 ). Il castigo è detto in lat. disciplina, come dire addìscitur plena, che si accetta pienamente. Il Figlio di Dio accettò il castigo della passione, per rappacificare con il suo sangue gli esseri del cielo e quelli della terra ( cf. Col 1,20 ), riconciliare cioè il genere umano con il Padre. Considera, meschina creatura, quanto grande era la discordia tra te e Dio Padre, con il quale mai avresti potuto riconciliarti se non per mezzo delle sofferenze del Figlio suo. Considera, o peccatore, quando gravi erano le tue piaghe, che mai avrebbero potuto essere guarite se non dalle piaghe di Gesù Cristo. E poiché le tue piaghe erano mortali, e ti avrebbero portato alla morte eterna, il Figlio di Dio volle morire per te. "Medicina del dolore è il dolore stesso" ( P. Siro ). Ti scongiuro, non voler essere ingrato verso l’uomo ricco, verso il Figlio di Dio e dell’uomo, perché con le sue piaghe ha curato le tue, con la sua morte ha risuscitato te dalla morte, e ti ha costituito amministratore dei suoi beni perché tu li conservassi e non li sperperassi. Ma siccome non hai paura di sperperare, bisognerà che tu renda ragione. Per questo nel vangelo è detto molto chiaramente: "C’era un uomo ricco che aveva un fattore, e questo era stato accusato presso lui di sperperare il suoi beni". Il fattore è chiamato in lat. villicus, cioè custos villae, custode della fattoria, e la parola è usata qui come economo, o amministratore, che amministra tutte le sostanze della casa. Questo fattore è figura di ogni uomo, al quale il Signore ha affidato tre specie di doni: quelli gratuiti, quelli naturali e quelli temporali. Ma l’uomo, sventurato, sperpera i doni gratuiti e quelli naturali peccando gravemente; quelli temporali accumulandone senza misura, o facendone cattivo uso. 4. E come avvenga questo sperpero, ce lo spiega la concordanza che troviamo nei Proverbi di Salomone: "Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto che sia rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventa erede della sua padrona" ( Pr 30,21-23 ). La terra, così chiamata dalla sua superficie che viene calpestata e percorsa ( in lat. teritur ), raffigura la mente dell’uomo che viene percorsa da molti e svariati pensieri, percorsa freme e si agita, quando si agita disperde le sue energie, e quando è svigorita viene spogliata dei doni gratuiti e ferita in quelli naturali. Si commuove e freme, ripeto, a motivo dei quattro maledetti eventi su indicati. Lo schiavo che diventa re è figura del corpo che recalcitra, del quale l’Ecclesiastico dice: "Foraggio, bastone e pesi per l’asino; pane, castigo e lavoro per lo schiavo. Questi lavora quand’è castigato, e potrai trovare riposo; allarga con lui la mano ed egli cercherà di mettersi in libertà. Il giogo e la sferza piegano il collo duro e la fatica assidua ammansisce lo schiavo. Per lo schiavo cattivo battiture e ceppi; tienilo sempre occupato, perché non stia in ozio: l’ozio infatti insegna molte cattiverie. Costringilo a lavorare, perché questo a lui conviene, e se non sarà obbediente, domalo mettendolo ai ceppi" ( Sir 33,25-30 ). Ma poiché anche nel castigare il corpo ci vuole molta discrezione, subito aggiunge: "Non esagerare con nessuno, non fare nulla senza giustizia. Se hai uno schiavo fedele" e giudizioso, – se cioè il tuo corpo non ti reca alcuna molestia –, "tienine conto come della tua anima: trattalo come un fratello" ( Sir 33,30-31 ). "Lo stolto rimpinzato di cibo" raffigura lo spirito infatuato, ubriaco di piaceri, del quale è detto: "Quando l’empio viene punito, anche lo stolto diventa più saggio" ( Pr 19,25 ). Quando cioè il corpo verrà castigato nel modo che si è detto, anche lo stolto, cioè l’animo diventerà più saggio, perché non si ubriacherà più di piaceri ma di lacrime di pentimento. Continuano i Proverbi: "La stoltezza è legata al cuore del fanciullo, ma il bastone della correzione l’allontanerà da lui" ( Pr 22,15 ). Il fanciullo raffigura il corpo che si comporta in modo puerile, cerca frutti e fiori di questo mondo; nel suo cuore c’è la stoltezza, vale a dire vi è radicato l’amore alle cose terrene, e solo il bastone della penitenza è in grado di cacciarlo. Con l’uomo dal cuore pieno di superbia si deve fare come con il leone infuriato: in sua presenza viene bastonato il suo cucciolo, e così, spaventato dalle bastonate, si ammansisce. Similmente, se il corpo viene percosso con la verga dell’astinenza, l’animo colmo di superbia leonina si umilia. "La donna odiosa che trova da sposarsi". Donna si dice in lat. mulier, che deriva da mollezza, e suona quasi come mollier; questa donna simboleggia il cattivo pensiero che diventa odioso, cioè peccato grave, quando conduce al consenso della mente; e viene sposato quando il pensiero viene poi realizzato nelle opere. "La schiava che diventa erede della sua padrona". La padrona è figura della ragione, mentre la schiava raffigura la sensualità, che neppure la terra riesce a sopportare quando essa pretende di usurpare il dominio sulla ragione. A motivo di questi quattro maledetti eventi l’ingrato fattore sperpera i beni del suo padrone, e quindi viene accusato presso di lui. Questa accusa viene fatta, come dice a questo punto la Glossa, quando non pratica le opere di misericordia verso coloro ai quali è obbligato. 5. "Il padrone lo chiamò". Il padrone chiama il fattore, quando suscita la paura della dannazione eterna. "E gli disse: Che cos’è ciò che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione", cioè mentre sei in questa vita, pensa a come devi comportarti. "Chi lavora la sua terra" – dice Salomone – "si sazierà di pane; chi invece si abbandona all’ozio, si riempirà di miseria" ( Pr 28,19 ). Chi occupa il suo corpo nelle opere buone sarà saziato del pane della grazia in questa vita, e sarà colmato di gloria in quella futura. Chi invece si abbandona all’ozio, cioè ai piaceri del corpo, sarà ripieno della miseria della morte eterna. "Ormai", cioè dal momento della morte, "non potrai più tenere l’amministrazione". "Allora il fattore", in preda al panico, "disse fra sé: Come farò", ad evitare il castigo, "ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Non ho la forza di zappare", ecc. Il peccatore quando considera che la sua vita volge al termine e con essa finiscono anche tutti i successi temporali, pensa piuttosto a trovare degli amici che non ad accumulare ricchezze; comprende infatti che, finita questa vita, non c’è per lui alcun posto dove lavorare la terra della sua anima con la zappa della devota compunzione per portare frutto; e anche sarà vergognoso per lui mendicare, come mendicheranno le vergini stolte ( cf. Mt 25,8 ). Dice infatti Salomone: Il pigro non ha voluto arare durante l’inverno: andrà a mendicare durante l’estate e nessuno gli darà niente ( cf. Pr 20,4 ); colui che nella vita presente non vuole arare, è colui che non vuol fare penitenza. Arare viene da ære, bronzo ( all’ablativo ), perché in antico si arava con l’aratro di bronzo. Il bronzo è indistruttibile e risonante, e raffigura la penitenza assidua che accusa i propri peccati, con la quale gli antichi padri usavano arare la loro carne. Invece i nostri penitenti moderni non arano con il bronzo ma con il legno secco. Oggi non c’è quasi più nessuno che pratichi la vera penitenza e quindi andranno mendicando d’estate, cioè nel giorno della risurrezione finale: "Signore, Signore, àprici!" ( Mt 25,11 ). Ma per loro non ci sarà più vita, anzi sarà detto loro: "Andate, maledetti, nel fuoco eterno" ( Mt 25,41 ). 6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Affinché non desideriamo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandonarono alcuni di essi e ne caddero in un solo giorno ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di essi, e caddero vittima dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi; e caddero vittima dello sterminatore" ( 1 Cor 10,6-10 ). In questo passo vengono poste in evidenza soprattutto quattro peccati: l’idolatria, la fornicazione, il tentare Dio e la mormorazione contro Dio; con questi quattro peccati vengono sperperati i beni dell’uomo ricco. E questi quattro peccati concordano con i quattro funesti eventi ricordati più sopra. Chi ama il suo corpo, che è schiavo malintenzionato, non in misura delle sue necessità ma per il piacere, è come un idolatra che si prostra davanti a un idolo, come sta scritto nell’Esodo: "Il popolo sedette a mangiare e a bere" davanti al vitello d’oro, "poi si alzò per divertirsi", cioè per adorarlo, per fare giochi e feste in suo onore. Parimenti quando lo stolto si rimpinza eccessivamente di cibo, si macchia di fornicazione, come si legge nel libro dei Numeri: Israele fornicò con le figlie di Moab, che chiamarono gli Israeliti a partecipare ai loro riti sacrificali e poi mangiarono le carni offerte agli idoli. Il Signore si adirò e in un sol giorno ne morirono ventitremila ( cf. Nm 25,1-2.4.9 ). Ecco quindi dimostrato che dalla gola si passa alla fornicazione, e dalla fornicazione si arriva alla morte e alla dannazione. Similmente, "chi sposa una donna odiosa, e questo si fa con il consenso della mente e con il compimento dell’opera cattiva, mette alla prova Cristo, in quanto segue il proprio istinto invece di obbedire alla sua volontà e lo professa soltanto a parole. Cristo stesso ha indicato in breve quei tre peccati dicendo: "Chi guarda una donna con intenti libidinosi", ecco la donna odiosa, "nel suo cuore ha già commesso adulterio con lei" ( Mt 5,28 ), ecco che in qualche modo l’ha sposata, e quindi sarà ferito dai morsi dei serpenti, cioè dei demoni. Infine chi fa della sensualità la padrona della sua ragione, suscita mormorazione e dissenso nell’abitazione della sua mente. Preghiamo dunque il Signore che con le quattro virtù fondamentali distrugga questi quattro vizi, renda salda la terra della nostra mente, conservi in noi i suoi beni affinché non vengano sperperati e possiamo così giungere al possesso dei beni eterni. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. 7. "C’era un uomo ricco che aveva un fattore", ecc. Questo fattore raffigura il prelato, al quale il Signore ha affidato in custodia la sua tenuta, cioè la sua chiesa. Salomone nei Proverbi, gli dice: "Sforzati di conoscere bene l’aspetto delle tue pecore, e bada attentamente al tuo gregge. Non potrai avere per sempre questo potere, ma ti sarà data una corona per sempre" ( Pr 27,23-24 ). O prelato, cerca di conoscere a fondo il volto delle tue pecorelle, cioè dei tuoi sudditi, dei tuoi fedeli: se hanno in fronte il Tau ( T ) della passione del Signore che hanno ricevuto nel battesimo, o se l’hanno raschiato via e vi hanno sovrapposto il segno della bestia ( cf. Ap 13,16 ); e bada attentamente al tuo gregge, che non ci sia qualcuno colpito dalla malattia dell’eresia o dello scisma, e ne infetti anche gli altri. "Corri perciò" – come dice sempre il sacro testo –, "affrèttati a svegliare il tuo amico. Non concedere sonno ai tuoi occhi, né riposo alle tue palpebre" ( Pr 6,3-4 ). Infatti non hai questo potere per sempre, ma solo per qualche tempo. Se avrai vigilato e custodito con diligenza il tuo gregge, ti sarà data la corona per sempre. Ecco in quale modo il fattore deve custodire la tenuta del suo padrone. Ma ahimè, ahimè! Non dico un fattore, ma un ladro, un lupo distrugge la tenuta del padrone, e divora i beni affidatigli. Salomone stesso dice in che modo la chiesa venga distrutta dall’iniquità dei suoi prelati: "Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non può sopportare: uno schiavo che diventi re, uno stolto rimpinzato di cibo, una donna odiosa che trovi da sposarsi e una schiava che diventi erede della sua padrona" ( Pr 30,21-23 ). La terra, benedetta dal Signore, è la santa chiesa, della quale ha detto egli stesso nella Genesi: "La terra produca erba verdeggiante", ecc. ( Gen 1,11 ). E su questo vedi il sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: "In principio Dio creò il cielo e la terra". Questa terra, cioè l’assemblea dei fedeli, viene smossa dalla stabilità della fede e dalla santità della vita a causa del cattivo esempio e della malizia dei prelati. "Lo schiavo che diventa re". Lo schiavo che regna è il prelato, schiavo del peccato, gonfiato dallo spirito di superbia, una scimmia sul tetto, che sta a capo del popolo di Dio, e del quale Salomone dice: "Un leone ruggente, un orso affamato, un principe malvagio sono a capo di un popolo povero" ( Pr 28,15 ). Il prelato della chiesa, schiavo che regna e principe malvagio, è un leone che rugge con la sua superbia, un orso affamato con le sue rapine, che spoglia il misero popolo. E osserva che questo sventurato è ancora più crudele dell’orso affamato. Infatti sappiamo dalla Storia Naturale che l’indole dell’aquila e dell’orso è tale che mai fanno rapine nella zona dove hanno fatto il nido o scelto la caverna. O servo iniquo, risparmia almeno i tuoi fedeli, tra i quali hai posto il nido del tuo sterco e l’antro della tua cecità! Questo schiavo fa ai suoi sudditi ciò che fa l’avvoltoio ai suoi pulcini. Dice la Storia Naturale che l’avvoltoio spinge fuori dal nido il suoi pulcini prima che siano in grado di volare, e fa questo per avversione verso i suoi pulcini, avversione insita nella sua natura, originata dalla voracità: quando è affamato fa molte prede e allora incomincia ad essere geloso dei piccoli che vede crescere e ingrassare. L’avvoltoio deve il nome al suo volo lento ( lat. vultur, avvoltoio, e volatus tardus, volo lento ), ed è a motivo della grandezza del corpo che non può avere un volo rapido. L’avvoltoio raffigura il prelato della chiesa il quale, ostacolato dalle cose temporali, non è in grado di levarsi in volo verso le cose celesti e staccarsi così dalle terrene. Egli, con il cattivo esempio della sua vita, scaccia i suoi sudditi; ancor prima che possano volare, che siano cioè in grado di disprezzare il mondo e di amare le cose del cielo, egli li getta fuori dal nido della fede e li fa desistere dai loro buoni propositi. Ahimè, quanti cristiani si sono convertiti all’eresia, dopo aver disprezzato, per il cattivo esempio dei prelati, il nido della fede, del quale dice Giobbe: "Io morirò nel mio piccolo nido" ( Gb 29,18 ). E poiché per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo ( cf. Sap 2,24 ), questo prelato invidia i suoi sudditi, i suoi parrocchiani, quando li vede prosperare nell’abbondanza. "L’invidioso dimagrisce a motivo dell’abbondanza degli altri" ( Orazio ). Se si tormenta a motivo della felicità dei suoi, a chi mai potrà augurare felicità? Di quale felice evento potrà mai rallegrarsi? Chi è malvagio verso i suoi, come potrà essere buono verso gli estranei? ( cf. Sir 14,5 ). Ecco dunque che per colpa di questo schiavo viene rovinata la chiesa di Gesù Cristo. "Lo stolto rimpinzato di cibo". Anche questo è figura del prelato della chiesa, goloso e lussurioso, del quale è detto nei Proverbi: "Chi ama i piaceri e il vino non arricchirà" ( Pr 21,17 ). E a costui dice ancora Salomone: "O Lemuel, non dare, non dare vino ai re, perché non c’è più alcun segreto dove regna l’ubriachezza; se bevono si dimenticano dei loro giudizi, cioè dei benefici, e tradiscono la causa dei figli dei poveri" ( Pr 31,4-5 ). Lemuel s’interpreta "in lui c’è Dio", ed è figura del prelato, nel quale c’è Dio a motivo della dignità del suo ufficio e – voglia il cielo – anche per la santità della vita. A questo prelato viene detto due volte, perché se lo imprima bene nella mente, il comando: "Non dare, non dare ai re il vino". Qui per re s’intendono tutti i fedeli cristiani, membra del sommo Re, ai quali, o prelato, non devi dare il vino, che è figura dei vizi della gola e della lussuria, non devi cioè corromperli con il cattivo esempio della tua vita. "Non devi – ripeto – dare il vino", perché dove regna l’ubriachezza sia nel prelato che nel suddito, non c’è più alcun segreto di purezza e di castità. Non dare il vino perché, ubriacati dall’esempio della tua vita dissoluta, non dimentichino i giudizi di Dio e con iniquo giudizio tradiscano la causa dei figli dei poveri che domandano sia fatta loro giustizia. Quando duole il capo, anche tutte le altre membra soffrono. Se si secca la radice, si seccano anche i rami. Infatti sta scritto nei Proverbi: "Se viene meno la profezia, il popolo diviene sfrenato" ( Pr 29,18 ): se viene meno l’esempio della vita e l’insegnamento della verità da parte del prelato, anche il popolo si corrompe, perché vengono dimenticati i giudizi di Dio e viene tradita la causa dei poveri. Ecco quale rovina si abbatte sul popolo a causa della vita dissoluta del prelato, il quale, quando è sazio di cibo, si dimentica di Dio e del popolo che gli è affidato. Egli, come è scritto nei Proverbi, si comporta come la donna adultera, "la quale mangia e, pulendosi la bocca, dice: Non ho fatto niente di male" ( Pr 30,20 ). Anche il prelato, nonostante tutto il male che ha operato, davanti agli uomini vuole apparire santo e giusto. 8. Similmente la chiesa viene rovinata "per causa di una donna malvagia, che trova chi la prende in moglie". Questa donna simboleggia la simonia dei prelati, che quando viene promessa è odiosa, e quando viene accettata è, per così dire, presa in moglie. Di questa donna Salomone dice: "Una donna stolta e chiassosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla, sta seduta alla porta della sua casa, su un trono, in un luogo alto della città, per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada: Chi è piccolo ( inesperto ) venga da me. E a chi è privo di senno ella dice: Le acque furtive sono più dolci e il pane preso di nascosto è più gustoso. Egli non si accorge che lì ci sono i giganti e che i convitati di quella donna scendono nell’inferno" ( Pr 9,13-18 ). Quindi quelli che si uniscono a lei precipiteranno nel profondo dell’inferno; solo chi se ne allontana si salverà. Osserva che la simonia è chiamata "donna stolta e chiassosa, ricca di lusinghe, ma che non sa nulla". "Donna" perché per causa sua quasi tutti ormai sono corrotti; "stolta" perché vende oro per comperare piombo, vende cioè le cose spirituali per avere quelle materiali; "chiassosa" perché abbaia sfrontata contro tribunali e curie; "ricca di lusinghe", che compera per la sua rovina dando in pagamento la sua anima; "ma che non sa nulla" e non comprende che Dio non può lasciare impunito un delitto così grande, perché il denaro del simoniaco andrà con lui in perdizione, in quanto vende, in cambio di denaro, il dono dato da Dio gratuitamente ( cf. At 8,20 ). "Sta seduta alla porta della sua casa". La casa della simonia è la cattiva volontà del simoniaco, e le sue porte, alle quali sta seduto, sono le mani e la lingua. Infatti chiunque con una preghiera o con una somma, con la parola o con un dono, con la promessa e con un’offerta, per timore o per amore terreno e carnale, vende o dà una cosa spirituale o una cosa connessa con lo spirituale, è simoniaco, e non si può salvare se non restituisce e non fa una vera penitenza. La cattiva volontà di vendere o comperare ciò che è spirituale fa l’uomo simoniaco. E poiché la simonia si è scelta il posto più elevato, nei più eminenti prelati della chiesa, il testo sacro continua: "Su di un trono, nel luogo più alto della città". La città è chiamata in lat. urbs da orbe, cioè cerchio, perché gli antichi costruivano la città entro una cerchia [ di mura ]. La città è figura della chiesa, che deve essere rotonda, cioè perfetta; ad essa dice il Signore: Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro ( cf. Mt 5,48). E il luogo più alto della chiesa è la dignità della prelatura. Ecco dunque che la simonia ha la sua sede su di un trono, nel luogo più alto della città, cioè in coloro che siedono sulla cattedra delle dignità ecclesiastiche; e quelli che le ambiscono, saranno privi delle seconde [ in riferimento a chi ama i primi posti ], quando dal trono cadranno all’indietro e si spezzeranno la testa ( cf. 1 Re 4,18 ). Guai dunque a coloro che accettano volentieri donazioni, perché queste accecano gli occhi dei sapienti. Costoro costruiscono Gerusalemme nel sangue, cioè con i loro consanguinei, nipoti e nipotini, accordando loro i benefici ecclesiastici. In parte è sacrilegio anche dare le cose dei poveri a quelli che poveri non sono. Se tu dài a un parente, non devi dargli perché è parente, ma solo perché è povero. Guàrdati dunque dal mettere il patrimonio di Gesù Cristo "nella cassa, perché è prezzo del sangue" ( Mt 27,6 ). Non dare perciò sangue al sangue, ma dà al pellegrino e al povero, per la sepoltura dei quali, con il prezzo del sangue del Signore, fu comperato il campo chiamato Hacèldama ( cf. Mt 27,7-8 ), cioè la santa chiesa, i cui averi non appartengono ai ricchi, ma ai poveri. "Per invitare i passanti che vanno diritti per la loro strada". I passanti e quelli che vanno diritti per la loro strada sono i penitenti i quali, non avendo quaggiù una città stabile ( cf. Eb 13,14 ), liberatisi dei loro pesi, corrono al seguito di Gesù, affrettandosi a conquistare la palma della suprema chiamata. La donna stolta, seduta in alto, li chiama perché si fermino da lei. Ma essi rifiutano assolutamente di fermarsi, poiché non cercano la gloria che viene dagli uomini, ma solo quella che viene da Dio ( cf. Gv 5,41 ). Purtroppo l’inesperto e l’insensato ( in lat. vecors, senza cuore ), cioè i carnali, attratti solo dai piaceri della carne, la cui gloria sarà la loro rovina, si fermano da lei, bevono l’acqua furtiva e divorano di nascosto il suo pane. Le acque furtive sono le prebende, che vengono attinte come l’acqua, ma furtivamente, vale a dire per simonia. E il pane mangiato di nascosto raffigura l’altezza delle cariche, delle dignità, che vengono assegnate di nascosto, quasi all’oscuro, a coloro che sono ciechi di vita e di sapere. E queste prebende e cariche sono tanto più dolci e gradite, quanto più grande è stato l’ardore della sete e la fame della cupidigia nel ricercarle. E non si accorgono, gli sventurati, che lì, cioè nelle cariche conseguite in questo modo, ci sono i giganti, cioè i demoni; e i loro convitati, cioè i simoniaci, saranno eternamente puniti, insieme con il diavolo, nel profondo dell’inferno. Chi si sarà unito in matrimonio con quella donna malvagia, sprofonderà nell’inferno; solo chi la fuggirà si potrà salvare. Giustamente quindi è detto che la simonia è la rovina della chiesa. 9. "La terra freme anche per causa di una schiava che diventa erede della sua padrona". La padrona simboleggia la teologia; la schiava la legge giustinianea ( il Codice G. ) e la scienza lucrativa. Oggi viene preferita la schiava alla padrona, Agar a Sara, la legge giustinianea alla legge divina. I prelati del nostro tempo, che non sono discepoli di Cristo ma dell’anticristo, disprezzata la legittima consorte, non si vergognano di unirsi ad una concubina la quale, constatando di essere incinta, disprezza la sua padrona ( cf. Gen 16,4 ). Nelle curie dei vescovi i birboni fanno risuonare la legge di Giustiniano e non quella di Cristo, fanno grandi chiacchiere, ma non secondo la tua legge, o Signore, che ormai è abbandonata e presa in odio. Per questo sente il bisogno di gridare e dire ad Abramo, insieme con Sara: "Ti comporti ingiustamente con me: io ti ho dato in braccio la mia schiava, ed essa da quando si è accorta d’essere incinta ha incominciato ad insultarmi" ( Gen 16,5 ). Per adesso Abramo fa vista di nulla, ma certamente verrà il momento in cui dirà: Caccia via la schiava e il suo figlio, e solo la libera avrà diritto all’eredità ( cf. Gen 21,10 ). Oh, quanto sventurato è colui che s’impegna per la legge in base alla quale vengono giudicate le cose temporali, e non fa attenzione a quella legge in base alla quale egli stesso sarà giudicato. Su questo argomento vedi una trattazione più completa nel sermone della domenica II dopo Pasqua, sul vangelo: "Io sono il buon pastore". Ecco dunque che ora sai in quale modo il fattore sperpera i beni del Signore; come a causa della malizia dei prelati si rovini la chiesa la quale, vessata dalla loro iniquità, si rivolge al suo Sposo con le parole dell’introito della messa di oggi: Quando gridai al Signore, egli ascoltò la mia voce, contro coloro che mi si avvicinano; li umilierà colui che è prima dei secoli e vive in eterno. Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti sosterrà ( cf. Sal 55,17-20.23 ). Tre fatti si devono qui considerare: l’esaudimento del grido della chiesa, il rigetto dei falsi ministri, e il conforto della chiesa stessa. La chiesa, contrassegnata dalla povertà del suo Sposo e posta in mezzo ad una nazione iniqua e perversa, che le si avvicina solo a parole ma non con i fatti, con il corpo ma non con lo spirito, alza il suo grido al Signore, domandando di essere liberata dall’oppressione di questa nazione iniqua e perversa. E il Signore pietoso la libererà e umilierà nel profondo dell’inferno la nazione perversa e peccatrice che pretende di essere chiamata chiesa, ed è invece la sinagoga di satana ( cf. Ap 2,9 ); e farà questo quando ripulirà la sua aia e riporrà il frumento nel suo granaio e brucerà nel fuoco inestinguibile ( cf. Mt 3,12; Lc 3,17 ) la paglia, cioè coloro che si sparpagliano alla ricerca della paglia delle ricchezze. Getta dunque il tuo affanno nel Signore, o chiesa poverella, sbattuta dalla bufera e senza alcun conforto, ed egli ti nutrirà, perché, come dice Isaia, sarai allattata alle mammelle dei re ( cf. Is 60,16 ). Questi re sono gli apostoli, le due mammelle sono l’insegnamento del vangelo e la grazia dello Spirito Santo, alle quali furono allattati gli apostoli stessi e alle quali sarai allattata anche tu, finché, crescendo di virtù in virtù, comparirai davanti a Dio in Sion ( cf. Sal 84,8 ), al quale sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. II. Convocazione dei debitori del padrone 10. "Il fattore chiamò ad uno ad uno i debitori del suo padrone, e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse ad un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento staia di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo infatti, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce" ( Lc 16,5-8 ). La Glossa spiega così le misure nominate in questo passo: il barile è chiamato in greco kàdos, anfora, e contiene tre urne. Lo staio, chiamato dal vangelo con il termine ebraico corus, conteneva trenta moggia. Il tutto può essere inteso semplicemente così: chi allevia per la metà o per un quinto la miseria del povero, riceverà la giusta ricompensa per la sua misericordia. Senso morale. Vedremo quale sia il significato di questi due debitori, dei cento barili d’olio, delle cento staia di frumento, e della riduzione a cinquanta e a ottanta. I due debitori stanno a indicare tutti i fedeli cristiani, che devono osservare i due precetti della carità, devono cioè amare Dio e il prossimo. Nei cento barili d’olio è raffigurato l’amore di Dio, e nelle cento staia di frumento l’amore del prossimo. Ed ecco perché l’olio simboleggia l’amore di Dio. L’olio galleggia sopra tutti i liquidi, e questa ne è la causa: nella sostanza oleosa non ci sono elementi di acqua o di terra, ma solo di aria, e per questo galleggia sopra l’acqua, perché gli elementi di aria che sono nell’olio, lo sollevano, come fosse chiuso in un otre, e di qui proviene la sua leggerezza. Così anche l’amore di Dio deve essere al di sopra di ogni altro amore. Dice Salomone: "Il frutto della sapienza è più prezioso di ogni ricchezza, e tutto ciò che si può desiderare non regge il paragone con essa" ( Pr 3,14-15 ). Il frutto della sapienza è l’amore di Dio: assaporata la sua dolcezza, l’anima comprende quanto è soave il Signore ( cf. Sal 34,9 ). Che cosa ci può essere dunque di più prezioso, di più desiderabile? Ad esso non si possono paragonare né ricchezze né gloria. E come nell’olio non c’è nulla di acqua o di terra, ma solo elementi di aria, così nell’amore di Dio nulla si deve mescolare di carnalità o di terrenità, ma solo elementi d’aria, cioè la purezza della mente e una condotta celestiale. Beata l’anima che ha in sé l’amore di Dio, perché galleggia su tutte le acque, in quanto l’aria che è nell’anima amante del Signore la porta in alto. 11. Leggiamo nella Genesi: "Lo Spirito di Dio si librava sulle acque" ( Gen 1,2 ). Questa espressione può essere interpretata in quattro modi. Primo: come la mente dell’artefice si libra sopra l’opera che sta per fare, e come l’uccello si posa con delicatezza sopra le uova dalle quali nasceranno i suoi piccoli, così lo Spirito del Signore si librava sulle acque, dalle quali stava per far nascere ogni specie di creatura, secondo il suo genere ( cf. Gen 1,11 ). Secondo: lo Spirito del Signore, cioè l’intelletto spirituale, deve portarsi al di sopra delle acque, cioè al di sopra dell’intelletto carnale. Dice infatti Giovanni: "È lo Spirito che dà la vita, la carne – cioè l’intelligenza carnale – non giova a nulla" ( Gv 6,64 ), perché "la lettera uccide" - infatti nel secondo libro dei Re si narra che Uria portò con sé la lettera della sua morte ( cf. 2 Sam 11,14 ) –; invece lo Spirito dà la vita" ( 2 Cor 3,6 ). Ed Ezechiele dice: "Lo Spirito di vita era nelle ruote" ( Ez 1,20 ). Nelle "ruote" del Vecchio e del Nuovo Testamento c’è lo Spirito della vita, cioè l’intelligenza spirituale che dà la vita all’anima. Leggiamo infatti nei Proverbi: "La legge del sapiente è fonte di vita, per sfuggire alla rovina della morte" ( Pr 13,14 ). Terzo: lo Spirito del Signore, cioè il prelato di vita spirituale, si libra al di sopra delle acque, cioè dei popoli. Infatti, quanto la vita del pastore è superiore a quella delle pecore, tanto la vita del prelato deve essere superiore a quella dei sudditi ( dei fedeli ). Dice sempre Ezechiele: "Al di sopra delle teste degli esseri viventi c’era, disteso sopra le loro teste, una specie di firmamento, simile a un cristallo splendente, che incuteva terrore" ( Ez 1,22 ). Questo firmamento è figura del prelato, nel quale deve risplendere il sole di una vita illibata, la luna della sicura dottrina, che illumina la notte di questo esilio, le stelle della buona riputazione; e il comportamento deve apparire trasparente come il cristallo, e deve anche incutere timore. Nel cristallo è simboleggiato l’equilibrio della mente e il fascino della benevolenza; e deve anche incutere timore con la severità delle sue correzioni. Il prelato dunque deve avere fermezza e dolcezza, dev’essere severo e incutere timore, quando le circostanze lo esigono, e così si librerà al di sopra delle acque e sopra la testa degli "esseri viventi", cioè dei suoi sudditi, sopra i quali deve per così dire estendersi, come il firmamento, per proteggerli e difenderli. Quarto: lo Spirito del Signore, cioè l’anima, che già ha concepito lo spirito del divino amore, si libra sopra le acque, vale a dire al di sopra delle cose temporali. Dice la Genesi: "L’arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo" ( Gen 7,18-19 ). Le acque delle ricchezze e della concupiscenza si sono ormai innalzate in modo tale, che hanno ricoperto tutta la terra. Perciò dice Isaia: "La sua terra è piena di oro e di argento e senza fine sono i suoi tesori", ecco l’avarizia; "e la sua terra è piena di cavalli e senza numero sono i suoi carri", ecco la superbia; "e la sua terra è piena di idoli", ecco la lussuria ( Is 2,7-8 ). Tutta la terra è ormai coperta da queste acque maledette e, ciò che è peggio e più pericoloso, anche tutti i monti più alti, cioè i prelati della chiesa, sono coperti da queste acque. Ma l’arca di Noè, cioè l’anima dell’uomo dedito allo spirito, galleggia su queste acque, perché tutto reputa come sterco. Giustamente quindi è detto che l’olio dell’amore di Dio galleggia sopra ogni liquido. Nei cento barili d’olio si deve intendere la perfezione dell’amore di Dio. Quindi il fattore, cioè il prelato della chiesa, deve dire ad ogni fedele che è debitore di Dio: "Quanto devi al mio padrone?", cioè: in che misura sei tenuto ad amare Dio? Il fedele risponderà: Nella misura di "cento barili d’olio"; cioè sono tenuto ad amarlo di un amore perfetto, perché devo amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ma poiché sono peccatore, non riesco a giungere a una tale perfezione di amore. Allora il fattore della chiesa, provvedendo a se stesso e a lui, deve dire: "Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta". La ricevuta è detta in lat. cautio, cauzione: il suo nome viene da cautelarsi, ed è un’obbligazione scritta di propria mano per ricordarsi del debito. Osserva che qui sono indicati i tre atti nei quali consiste la vera penitenza. Il prelato, o il sacerdote, deve dire al peccatore: Poiché non sei ancora in grado di giungere a quella perfezione di amore, per intanto "prendi la tua ricevuta", disponi cioè la tua vita a fare penitenza; "siediti", nella contrizione del cuore; "scrivi subito" con la confessione della bocca perché il tempo è breve; scrivi "cinquanta", cioè compi le opere che il confessore ti impone in riparazione dei tuoi peccati. Su questo numero cinquanta troverai una trattazione più ampia nel sermone del giorno di Pentecoste, dove viene commentato il brano degli Atti: "Mentre il giorno di Pentecoste ( cinquantesimo ) stava per finire", ecc. 12. "Poi disse ad un altro: Tu quanto devi al mio padrone? Rispose: Cento staia di frumento. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, e scrivi ottanta" ( Lc 16,7 ). Il frumento simboleggia l’amore del prossimo, del quale Salomone dice: "Chi nasconde il frumento è maledetto dai popoli; la benedizione invece è invocata sul capo di chi lo vende" ( Pr 11,26 ). "Chi nasconde il frumento", chi cioè rifiuta il suo amore al prossimo, "sarà maledetto" in quel raduno universale al quale tutti i popoli converranno davanti al tribunale del giudice supremo. Invece "sarà invocata la benedizione – Venite, benedetti del Padre mio ( Mt 25,34 ) – sul capo di chi lo vende". Se vendi al prossimo il frumento dell’amore, riceverai il premio dell’eterna ricompensa. È detto appunto nei Proverbi: "Chi fa la carità al povero presta al Signore, e il Signore lo ricompenserà" ( Pr 19,17 ). Nelle cento staia di frumento si deve intendere la perfezione dell’amore interiore. Dica dunque il fattore, dica il sacerdote o il prelato della chiesa, al peccatore: "Tu, quanto devi?, cioè: in che misura devi amare il tuo prossimo nel Signore? Egli risponderà: Nella misura di "cento staia di frumento", devo cioè amare l’amico e il nemico, nel Signore e per il Signore; e per il mio prossimo, se sarà necessario, devo essere pronto a dare la vita. Ma poiché sono carnale e fragile, non sono in grado di giungere a tanta perfezione di amore per il prossimo. E allora il fattore deve dirgli: Poiché non sei ancora pronto a rischiare la tua vita per il fratello, per il momento "prendi la tua lettera e scrivi ottanta". La parola "lettera" suona quasi come legìtera, cioè legit iter, mostra la via a chi legge, oppure "ripete leggendo". "Prendi, dunque, la tua lettera", cioè prepara il cammino della tua mente all’amore del prossimo; "e scrivi ottanta", vale a dire, insegnagli a non sbagliare e soccorrilo perché non venga meno; istruisci il suo spirito nella dottrina dei quattro evangelisti; ristora il suo corpo, composto dei quattro elementi, aiutandolo anche materialmente, e così scrivi ottanta. E tieni sempre questa lettera davanti agli occhi, così ogni volta che vedrai il prossimo scriverai in lui ottanta, scrivendo leggerai, e leggendo ripeterai la tua buona azione. E leggendo in questo modo, la lettera stessa ti preparerà la strada sulla quale giungerai a meritarti il premio. 13. "E il padrone lodò quel fattore disonesto, perché aveva agito con prudenza. I figli di questo mondo, infatti, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce". ( Lc 16,8 ). Il sacerdote, o il prelato della chiesa, è detto disonesto, perché facendo una vita cattiva, sperpera i beni del suo Padrone. È detto dal vangelo "iniquo", cioè "non equo", ossia ingiusto, perché si è macchiato di azioni disoneste. Però, siccome ammonisce i peccatori, spiega la parola di Dio, mostra a tutti e insegna con prudenza che cosa si debba dare a Dio e al prossimo secondo le proprie capacità, il Padrone lo loda: "I figli di questo mondo, sono più prudenti dei figli della luce". Fa’ attenzione che la prudenza si riferisce alle cose umane, invece la sapienza a quelle divine. Fanno parte della prudenza la conoscenza degli affari civili, l’arte militare, la conoscenza della terra, la nautica. Parimenti la prudenza è la scienza ( conoscenza ) sia delle cose buone che di quelle cattive, e di essa fanno parte la memoria, l’intelligenza e la previdenza. In secondo luogo, la prudenza è di varie specie. Infatti è detto ciò che segue in quanto certe cose passano e ne sopraggiungono altre: "I figli di questo mondo, nella loro generazione", cioè per quanto riguarda la carne, "sono più prudenti dei figli della luce". La luce si chiama così perché diluisce, scioglie le tenebre. I figli di questo mondo, che corrono dietro alle cose temporali, sono nel loro genere più prudenti dei figli della luce nel disprezzarle: questi, con la luce della loro vita dovrebbero dissipare le tenebre del peccato. A questo riguardo abbiamo una concordanza nei Proverbi: "C’è un genere di gente che maledice suo padre e non benedice sua madre. C’è una genere che si crede puro e tuttavia non è si lavato dalle sue sozzure. C’è un genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti. C’è un genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli, per divorare gli indigenti della terra e i poveri tra gli uomini" ( Pr 30,11-14 ). In questo passo vengono segnalati quattro generi di uomini iniqui, e cioè i prelati malvagi, i falsi religiosi, i superbi, e gli avari e gli usurai. "Il genere che maledice suo padre e non benedice sua madre" raffigura i prelati e sacerdoti malvagi della chiesa, i quali con la loro vita scandalosa e la negligenza nel loro ufficio maledicono Dio Padre, il cui nome viene bestemmiato per loro colpa ( cf. Rm 2,24 ), e non benedicono la loro madre, la chiesa, anzi distruggono la sua fede, che invece dovrebbero predicare con la parola e con l’esempio. "Il genere che si crede puro, ma che non si è lavato dalle sue sozzure" raffigura i falsi religiosi, ipocriti, che assomigliano ai sepolcri imbiancati ( cf. Mt 23,27 ), dei quali il beato Bernardo dice: Se riescono a vivere la loro vita esteriore senza infamia, pensano di aver salvato tutto. "Il genere dagli occhi altèri e dalle ciglia sprezzanti" sono i superbi, che incedono con il collo eretto e ammiccando con gli occhi ( cf. Is 3,16 ): le loro palpebre non sono rivolte ai passi ma verso l’alto. Contro di essi il Profeta dice: "O Signore, non si è inorgoglito il mio cuore e non si levano con superbia i miei occhi" ( Sal 131,1 ). "Il genere i cui denti sono spade e i cui molari sono coltelli" raffigura gli avari e gli usurai, i cui denti sono lance e frecce ( cf. Sal 57,5 ) che divorano i poveri e si impossessano delle sostanze altrui. Tutti costoro sono figli di questo mondo, che reputano stolti i figli della luce e credono se stessi prudenti, ma loro prudenza è la loro morte ( cf. Rm 8,6 ). Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi sorprenda, se non umana" ( 1 Cor 10,12-13 ). Il fattore pensava di stare bene in piedi, e invece fu privato dell’amministrazione perché aveva sperperato le sostanze del padrone. I figli di questo mondo pensano di stare in piedi, e invece, venuto meno il bastone di canna delle ricchezze, al quale si appoggiano, precipitano nell’inferno, e allora si accorgono che sono i figli della luce ad essere più prudenti dei figli di questo mondo. "La tentazione", cioè l’attrattiva del peccato, "non vi sorprenda, o figli della luce, cioè non induca la vostra ragione al consenso; ci può essere un’eccezione per quella umana, vale a dire per quelle cose senza le quali non è possibile la vita. La tentazione umana consiste nel giudicare le cose in modo diverso da come sono nella realtà, e quando in buona fede sbagliamo in qualche decisione. Ma anche se non c’è in noi la perfezione dell’angelo, non ci sia neppure la presunzione del diavolo. Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di infondere in noi l’amore verso Dio e verso il prossimo; fa’ che siamo figli della luce, preservaci dal cadere nel peccato e dall’essere tentati dal diavolo, affinché meritiamo di salire alla gloria della luce inaccessibile. Accordacelo tu che sei benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen. III. Accoglienza nelle dimore eterne di chi fa del bene ai poveri 14. "E io vi dico: Procuratevi degli amici con la iniqua ricchezza perché, quando essa vi verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" ( Lc 16,9 ). Il vangelo chiama le ricchezze con il termine siriaco mammona, che significa "ricchezze inique", in quanto sono frutto dell’ingiustizia. Se dunque l’iniquità accortamente amministrata si converte in giustizia, quanto più innalzeranno verso il cielo un bravo amministratore le ricchezze della parola divina, nella quale non c’è nulla d’ingiusto. Dire amico è come dire "custode dell’anima" ( lat. animi custos, e il termine viene da amare ). L’amicizia consiste nel desiderare il bene a vantaggio di colui che sia ama, in accordo con le sue aspirazioni (Agostino). I ricchi di questo mondo che con gli imbrogli accumulano ricchezze di iniquità, cioè facendo differenze, non potrebbero avere amici più affezionati – se lo capissero – delle mani dei poveri, che sono il tesoro di Cristo. Dice Gregorio: Perché i ricchi si ritrovino qualcosa nelle mani dopo la morte, si dice loro, prima della morte, nelle mani di chi devono riporre le ricchezze. O ricco, dà a Cristo quello che egli stesso ti ha dato: lo hai avuto come donatore, àbbilo come debitore, che ti restituirà con grande interesse. O ricco, stendi, ti prego, la mano arida al povero, e se prima era arida per l’avarizia, rifiorisca ora con l’elemosina. Dice infatti Salomone nell’Ecclesiaste: "Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero" ( Qo 12,5 ). Il mandorlo, dice Gregorio, fiorisce prima delle altre piante, ed è figura di colui che fa l’elemosina, il quale, fiorente di compassione e di misericordia, deve far sbocciare prima di tutto il fiore dell’elemosina. Dice Isaia: "Fiorirà e germoglierà Israele" ( Is 27,6 ). Israele, cioè il giusto, fiorirà con l’elemosina e germoglierà con la compassione. Ma fa’ attenzione che, pur venendo il germoglio prima del fiore, non ha scritto prima "germoglierà, ma "fiorirà" e poi "germoglierà"; e lo ha fatto per la ragione che quando il giusto fiorisce con l’elemosina, deve poi germogliare con la compassione, perché deve offrire l’elemosina al povero non solo con la mano ma anche con l’affetto del cuore, perché non succeda che l’avarizia faccia rimpiangere l’elemosina. "Fiorirà dunque il mandorlo", cioè chi fa l’elemosina, "e si ingrasserà la locusta", cioè il povero, che giustamente viene paragonato alla locusta. Come infatti la locusta quando fa freddo va in letargo e perde le forze, ma poi quando ritorna il caldo si risveglia, ridiventa per così dire allegra e rincomincia a saltare, così il povero in tempo di fame e nel gelo della miseria perde le forze, il suo corpo s’intorpidisce e il suo viso si fa pallido, ma poi quando arriva il calore della beneficenza e il dono dell’elemosina ricupera le forze e rende grazie a Dio del dono ricevuto. E così "viene disperso il cappero", cioè l’avarizia. L’elargizione dell’elemosina segna la distruzione dell’avarizia. "Fatevi dunque degli amici con le inique ricchezze, perché quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne". 15. Considera che quattro sono le dimore. La prima è quella dei carnali, la seconda degli incipienti, la terza dei proficienti e la quarta quella degli arrivati, ossia dei perfetti. La prima è la dimora degli Idumei e degli Ismaeliti, la seconda di Kedar, la terza di Giacobbe e la quarta del Signore degli eserciti. Della prima dimora dice il salmo: "Contro di te hanno concluso un’alleanza le dimore degli Idumei e degli Ismaeliti" ( Sal 83,6-7 ). Idumei s’interpreta "sanguinari" e Ismaeliti "obbedienti", e aggiungi "a se stessi e non a Dio". E in essi dobbiamo vedere raffigurati i lussuriosi che si contaminano con il sangue della lussuria, e i superbi, che fanno la propria volontà e non la volontà di Dio. Le loro dimore, cioè i loro conciliaboli, stipulano un’alleanza contraria all’alleanza che il Signore ha stipulato sul monte quando disse: "Beati i poveri di spirito" ( Mt 5,3 ). Da queste dimore si deve fuggire e andare in quelle di Kedar, delle quali è detto nei Cantici: "Sono bruna ma bella, figlie di Gerusalemme, come le dimore di Kedar, come i padiglioni di Salomone. Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbronzata il sole" ( Ct 1,4-5 ). Troverai il commento a questo passo nel sermone della domenica III di Quaresima, parte IV, che spiega il vangelo: "Quando uno spirito immondo esce da un uomo". Chi avrà agito rettamente in queste dimore, passerà a quelle di Giacobbe, delle quali è detto nel libro dei Numeri: "Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, e le tue dimore, o Israele! Sono come vallate boscose, come giardini irrigati lungo i fiumi; sono come tende piantate dal Signore, come cedri vicini alle acque" ( Nm 24,5-6 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: le vallate, i giardini e i cedri. Le valli boscose simboleggiano l’umiltà della mente; i giardini irrigati la compunzione delle lacrime; i cedri la contemplazione delle realtà superne. Quindi le tende di Giacobbe e le dimore di Israele raffigurano la vita dell’uomo attivo e di quello contemplativo: il Signore stesso ha piantato queste tende, perché sono disposte secondo il suo beneplacito. Infatti nell’Esodo viene detto a Mosè: "Guarda ed eseguisci secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte" ( Es 25,40 ). Il monte, così chiamato perché non si muove ( mons, non motus ), è Cristo il quale "non segue il consiglio degli empi" ( Sal 1,1 ). Il modello è la sua vita, secondo la quale anche noi dobbiamo piantare e costruire le nostre dimore. Queste dimore sono chiamate in lat. tentorium, perché vengono tese con corde e pali, e si chiamano anche tende o padiglioni. Le dimore dell’uomo attivo e di quello contemplativo sono quindi belle come "vallate boscose", perché sono fondate sull’umiltà della mente, la quale offre ombra e protezione contro l’ardore dei vizi; e sono come "giardini irrigati lungo i fiumi", perché la loro mente è irrigata dalla compunzione delle lacrime; "e come cedri vicini alle acque", perché sono radicati e piantati nella sublimità della contemplazione, nel soave profumo di una santa vita, nella ricchezza del fiume che rallegra la città di Dio ( cf. Sal 46,5 ). E infine, da queste dimore, quando sarà conclusa la prova di questa vita, quando l’inverno sarà passato e la pioggia cesserà di cadere ( cf. Ct 2,11 ), allora passerà alle dimore del Signore degli eserciti ( cf. Sal 84,2 ), delle quali Isaia promette: "Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille e in un benessere di grande riposo" ( Is 32,18 ). Il popolo dei penitenti, "il popolo del Signore e le pecore del suo pascolo" ( Sal 95,7 ), che ora è in mezzo alle lotte, vivrà in una pace meravigliosa. La pace è la libertà nella tranquillità ( Cicerone ). Pace viene da patto: prima si stabiliscono i patti e poi si consegue la pace. Chi stabilisce quaggiù il patto di riconciliazione con il Signore, sederà poi in una pace meravigliosa nel regno celeste. Pace del tempo e pace del cuore: ahimè, quante volte viene turbata! Invece la pace dell’eternità sarà meravigliosa nei secoli de secoli, e perfettamente sicura. Allora nessuno potrà incutere spavento ( cf. Gb 11,19 ) e là tutti si sentiranno sicuri e tranquilli e "in un riposo pieno di benessere" ( lat. requies opulenta ), riposo ricco, splendido. Opulento viene da ops, ricchezza. Questo "riposo ricco" sta ad indicare il conseguimento della duplice stola di gloria, cioè la glorificazione dell’anima e quella del corpo, che i santi godranno per tutta l’eternità. O ricchi di questo mondo, fatevi amici i poveri; accoglieteli nelle vostre dimore affinché, quando vi verrà a mancare la ricchezza accumulata con le ingiustizie, quando vi verrà sottratta la paglia delle cose temporali, essi vi accolgano nelle dimore eterne, dove regna una pace meravigliosa, una tranquilla sicurezza, e lo splendido riposo dell’eterno appagamento. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche una via d’uscita ( proventum, esito felice, vittoria ) e la forza per resistervi" ( 1 Cor 10,13 ). L’Apostolo parla ai poveri di Cristo e ai penitenti "che lottano nelle dimore di Kedar". "Dio è fedele", sincero nelle promesse, "e non permetterà che voi", che già soffrite per lui, "siate tentati al di sopra delle vostre forze"; ma colui che dà il permesso al tentatore, offre anche al tentato la sua misericordia. "Vi darà anche una via d’uscita", cioè l’aumento delle forze, "affinché possiate resistere alla tentazione", perché cioè non veniate meno ma ne usciate vittoriosi. Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo di farci uscire dalle dimore degli Idumei e vivere in quelle di Kedar; ci faccia poi passare alle dimore di Giacobbe per meritare di giungere finalmente a quelle eterne della pace, della fiducia e del riposo. Ce lo conceda egli stesso che è benedetto, degno di lode e di amore, e che vive per i secoli eterni. E tutta la chiesa dica: Amen, alleluia! Domenica X dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della decima domenica dopo Pentecoste: "Gesù si avvicinava a Gerusalemme"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone per la natività o per la passione del Signore: "Il sole sorge e tramonta". – Parte I: I tre nomi di Gerusalemme e il loro significato: "Gesù si avvicinava a Gerusalemme". – La regina Saba e il suo significato: "La regina Saba". – La vanità del mondo: "Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole". – Sermone ai penitenti: come debba esser fatta la penitenza: "Figlia del mio popolo". – Sermone sul pianto: "I tuoi occhi come quelli della colomba". – Sermone sull’allegria dei carnali: "Venite, godiamoci i beni presenti". – Sermone contro coloro che amano le ricchezze, contro i religiosi, i prelati e i chierici: "L’anatèma sia in mezzo a te, Israele!". – Parte II: Sermone sulla miseria di questo esilio e sulla fine dell’uomo: "Ricordati del tuo creatore"; e tutto ciò che riguarda quest’argomento. – Parte III: Sermone contro i simoniaci: "Gesù, entrato nel tempio". – Sermone sulla sapienza di Dio, cioè su Gesù Cristo, e sulla sua potenza: "La sapienza arriva ovunque". – Sermone morale sulla contemplazione: "Entrando in casa mia". – Sermone sull’orazione, su ciò che ad essa è necessario, e sulla natura delle api: "La mia casa si chiamerà casa di orazione". – Sermone ai religiosi, sulla raccolta dell’incenso e sulle sue proprietà: "Come incenso non inciso". – Sermone sulla compunzione delle lacrime: "Ti inebrierò con le mie lacrime, Chesbon". – Sermone sulla spelonca dei ladroni, la natura del drago, dello struzzo, del fauno, della civetta e della sirena, e che cosa raffigurino: "Le bestie riposeranno". Esordio - Sermone per la natività e per la passione del Signore 1. In quel Tempo: "Gesù si avvicinava a Gerusalemme, e contemplando la città pianse su di essa dicendo: Se tu avessi compreso …" ( Lc 19,41-42 ). Disse Salomone nell’Ecclesiaste: "Il sole sorge e il sole tramonta e ritorna al suo posto; di lì tornando a risorgere gira a mezzogiorno, quindi piega a settentrione. Il vento ( spiritus ) gira all’intorno quasi esplorando tutte le cose e poi ritorna sopra i suoi giri" ( Qo 1,5-6 ). Il sole, così chiamato perché risplende "solitario", è Gesù Cristo che vivifica e illumina tutto il creato con la virtù e lo splendore della grazia spirituale: Egli sorge per il fedele e tramonta invece per l’infedele. Oppure: sorge nella natività e tramonta nella passione; infatti sta scritto: "Il sole conobbe il suo tramonto" ( Sal 104,19 ); "e ritorna al suo posto" nell’Ascensione; infatti sta scritto: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo", dove è il tramonto, "ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" ( Gv 16,28 ). La natura infatti procede per via circolare. Gesù Cristo che, in quanto Dio, è creatore della natura e governa tutto il creato, procede per via circolare, perché "ritorna al suo posto", dal quale era partito, "e di lì ritornando", ritornando cioè dal cielo per il giudizio finale, "gira a mezzogiorno", vaglia cioè le opere buone, "poi piega a settentrione", vaglia cioè le opere cattive, "esplora e mette in chiaro tutte le cose" perché nulla c’è di nascosto che non venga svelato ( cf. Lc 12,2 ). Dice infatti in Isaia: "Io riposerò e dal mio luogo osserverò, come chiara luce del mezzogiorno e come nube rugiadosa al tempo del raccolto" ( Is 18,4 ). Ecco come una tenda trascina l’altra ( essendo unite tra loro ) ( cf. Es 26,3 ). Ciò che dice l’Ecclesiastico: "Ritorna al suo luogo", è la stessa cosa che il Signore dice in Isaia: "Io riposerò"; come dicesse: "Ho faticato portando" ( Ger 6,11 ) la croce; sono tramontato, per così dire, nella passione, ma risorgendo ritornerò nel seno del Padre, dove riposerò. E dove dice: "Risorgendo gira verso mezzogiorno e quindi piega a settentrione", corrisponde alle parole: "E dal mio luogo osserverò". E quando dice: "Passa in rassegna e mette in chiaro tutte le cose", corrisponde all’espressione: "come chiara luce del mezzogiorno". Allora saranno aperti davanti a lui i libri, saranno portati alla luce i segreti delle tenebre e manifestate le intenzioni dei cuori ( cf. 1 Cor 4,5 ), perché lo spirito ( vento ), cioè il sole stesso, che dà vita a tutte le cose, che dà il respiro a tutti coloro che sono sulla terra, Gesù Cristo, girerà all’intorno, senza lasciare pietra su pietra ( cf. Mt 24,2 ), tutto osservando, esaminando il muro ( cf. Is 22,5 ) e perforando la parete ( cf. Ez 12,5 ), entrando in mezzo alla bocca di Beemot e legando con una fune la sua lingua ( cf. Gb 40,20 ), facendo sprofondare, sotto gli occhi di tutti, la morte con i morti per l’eternità ( cf. Is 25,8 ). E così "ritornerà sopra i suoi giri", cioè alla celeste Gerusalemme insieme con i suoi santi, per i quali sarà "come nube di rugiada al tempo del raccolto". Completato il raccolto, brucerà la paglia nel fuoco inestinguibile e riporrà il frumento nel suo celeste granaio ( cf. Lc 3,17 ), e allora sarà come nube di rugiada: nube luminosa sopra l’accampamento di Israele e sopra le tende della chiesa trionfante, di rugiada perché ristorerà e sazierà. Di questo sole, del suo giro, dei suoi riflessi, della sua irradiazione, dice il vangelo di oggi: "Gesù si avvicinava a Gerusalemme". 2. Nel vangelo di oggi sono posti in evidenza tre eventi. Primo, la commossa pietà di Gesù Cristo verso la città di Gerusalemme, quando dice: "Gesù si avvicinava alla città di Gerusalemme". Secondo, la rovina di Gerusalemme, quando dice: "Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici …". Terzo, la cacciata dal tempio dei venditori e dei compratori, quando dice: "Entrato nel tempio". Cercheremo in tre libri di Salomone, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici e la Sapienza, alcuni passi che concordino con queste tre parti del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Dio nella sua santa dimora" ( Sal 68,6 ). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: "Voi sapete che quando eravate pagani" ( 1 Cor 12,2 ). La divideremo in tre parti e ne troveremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: "Voi sapete". Seconda parte: "Vi sono diversità di carismi". Terza parte: "A ciascuno è data una manifestazione dello Spirito". I. La commossa pietà di Gesù Cristo verso Gerusalemme 3. "Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi" ( Lc 19,41-42 ). Ricorda che Gerusalemme si chiamava dapprima Salem. I giudei sostengono che fu fondata in Siria, dopo il diluvio, dal figlio di Noè, Sem, che dicono sia Melchisedek, il quale proprio in Siria ebbe il suo regno. In seguito la conquistarono i Gebusei, dai quali fu chiamata Iebus. Quindi dai due nomi uniti insieme, Iebus e Salem, fu chiamata Ierùsalem, Gerusalemme. In fine Salomone, dopo averla restaurata e abbellita, la chiamò Ierosòlyma, quasi a dire Ierosolomònia. Salem significa "pace", Iebus "oppressa", Gerusalemme "visione di pace": e in queste tre denominazioni sono simboleggiati i tre stati dell’anima. L’anima nel battesimo fu Salem; nella penitenza è Iebus; e infine nella gloria sarà Gerusalemme. Nel battesimo fu restituita all’anima la pace, perché da figlia dell’ira diventò figlia della grazia. Nella penitenza dev’essere oppressa e calpestata, poiché dice Isaia: "Sarà calpestata sotto i piedi la corona di superbia degli ubriachi di Efraim" ( Is 28,3 ). Gli ubriachi di Efraim, nome che s’interpreta "fertile", sono i ricchi di questo mondo, ubriachi di superbia e di lussuria; la loro corona, cioè la loro gloria, viene calpestata sotto i piedi della penitenza, quando vengono inebriati dal vino della contrizione. Leggiamo nei Proverbi: "Non esiste alcun segreto dove regna l’ebbrezza" ( Pr 31,4 ). Non c’è alcun segreto di iniquità dove regna la vera ebbrezza della contrizione: infatti rivela nella confessione tutto ciò che prima era nascosto nella mente. Sarà visione di pace nella gloria, dove, come dice Isaia, vedrà con i propri occhi il ritorno del Signore in Sion ( cf. Is 52,8 ). E ancora: "A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore" ( Is 60,5 ). O anima, se prima sarai stata Iebus ( oppressa ), vedrai poi ciò che occhio mai vide. 4. Dice Isaia: "Occhio mai vide che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui" ( Is 64,4 ). Veramente vedrai, perché vedrai colui che tutto vede! Vedrai la sapienza di Salomone, come si racconta nel terzo libro dei Re quando si parla della regina Saba; vedrai la casa che egli edificò a Gerusalemme e i cibi della sua mensa ( cf. 1 Re 10,4-5 ). Leggiamo in proposito nel vangelo di Luca: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel regno dei cieli" ( Lc 22,29-30 ). Allora veramente potrai dire con la regina Saba, nome che si interpreta "prigioniera", poiché anche tu ora sei prigioniera ma poi sarai regina: "Era vero, dunque, quanto avevo sentito nel mio paese", cioè nella terra del mio pellegrinaggio, "sui tuoi discorsi e sulla tua saggezza. Io non avevo voluto credere a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene, non me ne era stata riferita neppure una metà! La tua saggezza e le tue opere sono molto più grandi della fama che ne ho sentito. Beati i tuoi uomini e beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza" ( 1 Re 10,6-8 ). Ecco che cosa vedrai! Abbonderai di delizie e di ricchezze, sarai cioè glorificato nell’anima e nel corpo, e il tuo cuore sarà rapito dalla bellezza della celeste Gerusalemme, dalla beatitudine degli angeli, dalla corona immarcescibile di tutti i santi; e così il tuo cuore si dilaterà per il gaudio incomparabile e l’indicibile felicità. Ma ahimè, l’anima sventurata, disprezzando sì grande gloria e abbondanza di delizie, si attacca alle cose temporali, fa ogni sforzo per conquistare beni effimeri e abbraccia i rifiuti! E quindi il Signore, "vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Se avessi compreso anche tu". Il Signore non piange sulla città terrena, ma sull’anima, non sulla rovina delle pietre ma sulla rovina delle virtù. Fa’ attenzione a queste due parole: "vedendo", e "pianse". O anima, se tu vedessi, piangeresti veramente; ma poiché non vedi, non piangi. 5. "Se tu vedessi", dirò con l’Ecclesiaste, dove leggiamo: "Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole, ed ecco tutto è vanità e afflizione di spirito" ( Qo 1,14 ). Considera che sotto il sole c’è la vanità, sopra il sole invece la verità. Quindi l’anima che sta sotto il sole, a motivo del suo attaccamento alle cose temporali, e non sopra il sole con la contemplazione delle cose celesti, che cos’altro deve fare se non piangere e gemere? E giustamente sono unite insieme la vanità e l’afflizione: infatti dove c’è la vanità della felicità terrena, c’è l’afflizione della morte eterna. Dunque, se tu vedessi, certamente piangeresti. Continua l’Ecclesiaste: "Mi rivolsi poi ad altro e osservai gli intrighi che si fanno sotto il sole, e le lacrime degli innocenti che non hanno chi li consoli; ed essi non possono resistere all’altrui violenza poiché nessuno corre in loro aiuto. E allora ho proclamato più fortunati i morti che i vivi, e più felici di entrambi giudicai chi non è ancor nato e non ha visto le azioni malvage che si commettono sotto il sole" ( Qo 4,1-3 ). "Sotto il sole" ci sono falsità e vanità, intrighi dei potenti contro i miseri, crudeli sentenze contro i poveri, che versano lacrime innocenti e non hanno alcuno che li sostenga. Consolatore è colui che si avvicina a chi è solo e con buone parole gli allevia l’angoscia. "Nessuno" si dice in lat. nemo, e suona quasi come ne homo, cioè nessun uomo. Si dice anche nullus ( homo ), nessun uomo, e nullus viene da ne ullus, neppure uno. Se ci fosse l’uomo, non mancherebbe il consolatore; ma poiché sono leoni, e non uomini, ecco che fanno soffrire i poveri, che sono privi di appoggio umano e non sono in grado di resistere alla loro violenza. "Allora ho proclamato più fortunati i morti", cioè i morti al mondo, che sono certamente migliori di coloro che vivono per il mondo, "e più felici di entrambi ho giudicato chi non è ancora nato", che ancora cioè non è nato al peccato. Dice infatti Giobbe: "Perisca il giorno in cui sono nato" ( Gb 3,3 ), cioè il giorno in cui di nuovo sono diventato peccatore. Se l’anima sventurata vedesse tutto questo, certamente piangerebbe. 6. Per questo Geremia insegna all’anima come debba piangere se stessa, dicendo: "Figlia del mio popolo, vestiti di cilicio e cospargiti di cenere; fa’ lutto come per la morte di un figlio unico e piangi amaramente! ( Ger 6,26 ). Fa’ attenzione a queste quattro cose: il cilicio, la cenere, il lutto come per un figlio unico, e il pianto amaro. Nel cilicio è raffigurata l’aspra penitenza e l’esecrazione delle proprie colpe; nella cenere la bassezza e la miseria della nostra condizione umana; nel lutto per il figlio unico il dolore della contrizione interiore; nel pianto amaro l’effusione delle lacrime. Dice dunque Cristo: O anima, figlia, che con grande dolore ho partorito nella passione, tu che per la fede sei la figlia del mio popolo, cioè della chiesa militante, cingiti di cilicio, fa’ cioè aspra penitenza, affinché la carne che allegramente ti ha condotta alla colpa, soffrendo ti riporti al perdono; ed essa che prima ha assaporato il piacere del peccato, ne abbia adesso l’esecrazione. E fa’ pure attenzione che dice "cingiti", e non "indossa" il cilicio. Con questa parola intende ricordarti due cose: la repressione della lussuria e la resistenza alla suggestione diabolica. Anche il salmo dice: "Cingi la spada al tuo fianco" ( Sal 45,4 ). Il cilicio e la spada indicano la stessa cosa, cioè la mortificazione della carne, che stringe per così dire i fianchi, frena cioè gli stimoli della lussuria. Troviamo anche nel Cantico dei Cantici: "Ognuno porta la spada al suo fianco contro i pericoli notturni" ( Ct 3,8 ). I pericoli notturni sono appunto i demoni e le subdole suggestioni della carne, e per evitarle, colui che vuole custodire il letto del vero Salomone ( cf. Sir 23,25 ), cioè la sua coscienza, nella quale riposa Gesù Cristo, deve avere appunto la spada della mortificazione cinta ai fianchi della sua carne. "E cospàrgiti di cenere", memore di quella condanna: Sei cenere e in cenere ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Cenere, in lat. cinis, viene da incendio, infatti la cenere è prodotta dal fuoco. Adamo, con la sua discendenza, arso dal fuoco della cupidigia, fu incendiato dal soffio della falsa promessa, e quindi è ritornato in cenere di morte. "Prendi il lutto come per un figlio unico". Il lutto è così chiamato perché produce nel cuore dell’uomo come una ferita, in lat. ulcus o vulnus; per risanarla si ricorre alle consolazioni; questa ferita simboleggia la contrizione, che è una ferita del cuore, per quale è necessaria la consolazione, cioè la speranza nella misericordia del Redentore. E osserva che dice "lutto come per un figlio unico". Come non esiste dolore più grande di quello della donna che vede morire il suo unico figlio, che ama sopra tutte le cose, così non ci deve essere dolore più grande di quello dell’anima penitente che, avendo un unico figlio, cioè la fede che opera per mezzo dell’amore, la perde a causa del peccato mortale. L’anima della fede è la carità, che la tiene viva: venendo meno la carità, la fede muore. Perciò, poiché hai perduto l’anima della fede, "prendi il lutto come per un figlio unico, e piangi amaramente". Alla contrizione del cuore si deve unire l’amarezza delle lacrime, affinché l’anima pianga se stessa e richiami in vita il figlio unico che è morto, poiché anche il Signore pianse su Lazzaro e sulla città di Gerusalemme. 7. Considera che "piangere", in lat. flere, significa effondere lacrime copiose, come dire flùere, fluire, scorrere; invece plorare significa unire al pianto la voce; lugère poi significa unire alle lacrime dei pietosi lamenti, e anche luce egère, mancare o aver bisogno di luce. Su questo pianto dirotto abbiamo una concordanza nel Cantico dell’amore, quando lo sposo parla alla sposa: "I tuoi occhi sono come colombe sopra ruscelli di acqua: esse sono lavate nel latte e si fermano presso abbondanti acque correnti" ( Ct 5,12 ). Negli occhi è raffigurata l’accorta vigilanza. La colomba che vola sulle acque previene lo sparviero che tenta di assalirla. E noi, mentre siamo sui rigagnoli del piacere transitorio, dobbiamo prevenire il carnefice ( il diavolo ), perché colui che ora ci istiga alla colpa sarà poi anche l’esecutore della pena. Il latte, del quale nulla è più gradito, simboleggia la gioia della coscienza, confortata dalla speranza della misericordia divina. Le abbondanti acque correnti rappresentano l’effusione delle lacrime. Quindi l’anima che, quale colomba, si ferma sopra abbondanti lacrime che scorrono, confidando nella misericordia di Dio, deve prevenire con accorta vigilanza e cautelarsi contro l’illusione della felicità passeggera e contro l’astuzia delle suggestioni diaboliche. Dice Agostino: In questa valle di miseria tanto più si deve piangere per quelle cose, per le quali meno si piange. Il Signore, dunque, "vedendo la città, pianse su di essa dicendo: Oh, se avessi compreso anche tu" la rovina che ti sovrasta, certamente piangeresti, tu che adesso esulti. 8. Su questa esultanza della città abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove gli empi, che non nutrono in se stessi sentimenti retti, dicono: "Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con giovanile ardore. Inebriamoci di vino squisito e di soavi profumi, e non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera; coroniamoci di rose prima che appassiscano e non vi sia prato che la nostra lussuria non percorra. Nessuno vi sia tra noi che non partecipi alle nostre intemperanze. Lasciamo dovunque i segni della nostra allegria, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte" ( Sap 2,6-9 ). Queste parole non hanno certo bisogno di spiegazioni, perché ogni giorno le vediamo avverarsi nel comportamento dei carnali. "Se tu avessi compreso, adesso, in questo giorno, ciò che giova alla tua pace". E Salomone nell’Ecclesiaste: "Poiché non viene subito emessa una sentenza contro i cattivi, per questo i figli dell’uomo operano il male senza alcuna paura. Così il peccatore, anche se ha fatto il male cento volte, tuttavia viene sopportato con grande pazienza". E ancora: "Vi sono dei malvagi che vivono tranquilli, come se compissero le opere dei giusti" ( Qo 8,11.14 ). O peccatore, "se tu comprendessi in questo giorno ciò che giova alla tua pace!". Ora tu sei padrone di te stesso, ma verrà il giorno nel quale apparterrai ad altri, perché sarai consegnato al diavolo. Ora, in questo tuo giorno, tu esulti; ma verrà il suo giorno, nel quale sarai afflitto. Sta scritto: "Nel tempo che avrò stabilito, io emetterò giuste sentenze" ( Sal 75,3 ). O peccatore, il Signore ti ha concesso ( imprestato ) il tempo per guadagnarti la salvezza, e tu ti sei appropriato del tempo che ti è stato accordato. Ma, credi a me! Il Signore ti richiederà ciò che è suo, e farà giustizia. O Signore, se tu giudicherai i giusti, che cosa ne sarà degli ingiusti? Dice Ezechiele: "Ecco, sguainerò la mia spada dal suo fodero e ucciderò in te il giusto e il peccatore" ( Ez 21,3 ): s’intende il giusto che si crede tale, del quale dice l’Ecclesiaste: "Non presumere di essere troppo giusto" ( Qo 7,17 ). Il fodero si chiama in lat. vagina, che suona come bagina, involucro, perché in essa la spada viene portata, in lat. baiulatur. La spada nel fodero è figura della divinità riposta nell’umanità. Da questo fodero il Padre estrarrà la spada e la vibrerà, come dice il Profeta: "Vibrerà la sua spada" ( Sal 7,13 ). Considera che quando la spada viene vibrata, fa due cose: manda bagliori, e produce un’ombra paurosa. Il Padre, nel suo giorno, vibrerà la spada, cioè il Figlio suo, perché a lui rimetterà ogni giudizio ( cf. Gv 5,22 ): Egli dirigerà verso i giusti i bagliori, e verso i malvagi l’ombra paurosa della dannazione. L’empio venga portato via affinché non veda la gloria di Dio, perché nella terra dei santi ha commesso le iniquità ( cf. Is 26,10 ). Veda invece soltanto colui che ha trafitto ( cf. Gv 19,37 ). O anima sventurata! Adesso queste cose sono nascoste ai tuoi occhi, accecati dal giorno e dalla tua falsa sicurezza. Così accecata, come un animale bruto sei trascinata dal diavolo con la corda della cupidigia alla conquista di queste cose transitorie. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Voi infatti sapete che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare verso gli idoli muti, secondo l’impulso del momento. Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l’impulso dello Spirito di Dio può dire: Gesù è anàtema!, così nessuno può dire: Gesù è il Signore!, se non sotto l’azione dello Spirito Santo" ( 1 Cor 12,2-3 ). I pagani, cioè i carnali che vivono da pagani, poiché in questa vita si sentono tranquilli, vanno dietro a idoli muti, cioè a queste cose temporali, che hanno sì l’apparenza della durata e della stabilità, ma a colui che osserva attentamente rivelano la loro evidente inconsistenza. Sono come lo sterco coperto di neve, falsa gloria e vana bellezza ( cf. Pr 31,30 ). Colui che si attacca a questi idoli del tempo è "anatema di Gesù", cioè separato da Gesù che comanda di disprezzarli. 9. E su questo troviamo una corrispondenza nel libro di Giosuè, dove il Signore dice: "L’anatèma sta in mezzo a te, Israele: tu non potrai resistere contro i tuoi nemici finché non sarà eliminato da te colui che si è macchiato di questo delitto", cioè Acan, al quale Giosuè disse: "Figlio mio, dà gloria al Signore, Dio d’Israele, e confessa e dimmi che cosa hai fatto: non me lo nascondere!". E Acan ripose: "Ho visto nel bottino un mantello rosso molto bello, duecento sicli d’argento e una sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli, e vinto dall’avidità ho nascosto tutto ciò sotto terra al centro della mia tenda e l’ho ricoperto con la terra scavata. Allora Giosuè prese Acan, l’argento, il mantello e la sbarra d’oro: lapidarono Acan e diedero alle fiamme e distrussero tutto quello che gli apparteneva" ( Gs 7,13.19.21.24-25 ). Acan s’interpreta "che corrompe", o anche "rovina del fratello", ed è figura del ricco di questo mondo che corrompe la giustizia, sottraendo ai poveri i loro beni, o negando loro quello di cui hanno diritto, e così diventa la rovina del fratello. Egli ruba il mantello rosso, i duecento sicli d’argento e la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli. Considera che nel mantello rosso sono indicate tutte le sostanze delle persone povere, conquistate con tanto sudore e sangue; nei duecento sicli d’argento è indicata la conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento; nella sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli è simboleggiata la vita di tutti i religiosi. Il mantello rosso lo rubano i soldati, i signorotti, gli avari e gli usurai. I duecento sicli d’argento li rubano i predoni del nostro tempo, cioè i prelati e i chierici. E infine la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi. I ricchi e i potenti di questo mondo sottraggono ai poveri la loro misera sostanza, conquistata con il sangue, con la quale in qualche modo si proteggono: la tolgono ai poveri, che essi chiamano "i nostri villani", cioè servi della campagna, mentre proprio essi, i ricchi, sono i servi del diavolo. Di essi dice Giobbe: "Mandano via nude le persone, rubano loro le vesti e così non hanno da coprirsi contro il freddo" ( Gb 24,7 ). E Salomone: "Chi munge con troppa forza, fa uscire il sangue" ( Pr 30,33 ). E Geremia: "Perfino nelle falde delle tue vesti si trova il sangue dei poveri" ( Ger 2,34 ). E la conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, che per la sua perfezione e la sua coerenza viene simboleggiata nei duecento sicli d’argento, la rubano i prelati e i chierici, quando la imparano non per istruire ed edificare, ma per ricavarne lodi e onori. Perciò dice di essi Salomone: "Un anello d’oro al naso di una scrofa, tale è la donna bella ma fatua" ( Pr 11,22 ). Il termine sus ( maiale ), usato nei Proverbi, può indicare anche la scrofa. La donna bella è figura dei chierici. Essi sono donna, in lat. mulier, perché molli, effeminati e corrotti, si presentano per denaro nei tribunali e nelle curie, come le prostitute. Bella per la sontuosità delle vesti, per la folla dei nipoti, e forse anche di figli, e per l’accumulo delle prebende. Fatua, perché non capiscono ciò che essi stessi o gli altri dicono ( in lat. fantur ); tutto il giorno gridano in chiesa, abbaiano come cani, ma non capiscono neanche se stessi, perché hanno il corpo in coro ma il cuore nel foro ( in piazza ). E anche se ascoltano una predica, non capiscono. Predicare ai chierici e parlare ai cretini: quale utilità in entrambi i casi, se non chiasso e fatica? Essi, benché abbiano il cerchio d’oro della scienza e dell’eloquenza, non si vergognano, proprio come una scrofa, di affondarlo nello sterco della lussuria e dell’avarizia. Parimenti, la sbarra d’oro del peso di cinquanta sicli la rubano i falsi religiosi. La sbarra è chiamata in lat. regula, quasi a dire che regola la misura, o che raddrizza ciò che è distorto e difettoso. La vita dei religiosi è una regola d’oro che corregge l’uomo fuorviato e difettoso, lo riporta alla norma del retto vivere e stabilisce la giusta misura in tutte le cose. Quasi tutti i religiosi hanno defraudato questa regola, perché non camminano più secondo la verità del vangelo, non vivono secondo gli insegnamenti dei padri, ma conducono una vita depravata e falsa. I monaci defraudano l’aurea regola del beato Benedetto, i canonici defraudano l’aurea regola del beato Agostino, e così è anche dei singoli religiosi, i quali curano i propri interessi e non gli interessi di Cristo ( cf. Fil 2,21 ). È detto che questa "sbarra" pesava cinquanta sicli, per il fatto che la vita di tutti i religiosi consiste principalmente nella penitenza, descritta in modo perfetto nel salmo 51, Miserere mei, Deus, Pietà di me, o Dio! Quindi tutti costoro che rubano il mantello rosso, i duecento sicli d’argento e la sbarra d’oro, come si è detto sopra, nel giorno del giudizio saranno lapidati con duri rimproveri, bruceranno nell’eterno fuoco e così saranno colpiti da anatèma per l’eternità, e separati da Gesù. Invece il giusto, che è mosso dallo Spirito di Dio e che nello Spirito di Dio parla, non dice mai, né con il pensiero, né con la parola, né con le opere "Gesù è anàtema": non fa cioè nulla che possa separarlo da Gesù. "E nessuno può dire", con il pensiero, con la parola o con le opere: "Gesù è il Signore", e io sono il suo servo, se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù, di infonderci la grazia di piangere sopra la nostra città, di disprezzare le cose temporali, per giungere così alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La rovina di Gerusalemme 10. "Verranno per te giorni in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata" ( Lc 19,43-44 ). Verranno, verranno i giorni, quando i nemici, i demoni, cingeranno di trincee le anime che escono dai corpi, trascinandole con sé alla dannazione; e da ogni parte ti circonderanno e ti stringeranno, quando esporranno davanti ai loro occhi le iniquità commesse non solo con le opere, ma anche con le parole e i pensieri. "E ti stenderanno a terra", quando la carne ritornerà in polvere. E anche i figli cadranno, quando "in quel giorno svaniranno tutti i loro progetti" ( Sal 145,4 ): i progetti sono indicati anche dalle pietre, quando dice: "E non lasceranno pietra su pietra". Il malvagio infatti, quando ha un disegno perverso ne aggiunge un altro peggiore, mette per così dire pietra su pietra. Ma quando l’anima viene portata via per il castigo, tutta questa costruzione di iniqui disegni viene abbattuta: e questo appunto perché non ha riconosciuto il tempo della sua visita. Dio infatti visita anche l’anima pervertita, una volta con un comando, un’altra volta con un castigo, una terza con un miracolo; ma poiché essa, nella sua superbia, disprezza tutto questo e non si vergogna delle sue malefatte, alla fine sarà abbandonata nelle mani dei suoi nemici, in compagnia dei quali sarà associata nell’eterna condanna della dannazione. E per quale motivo piombi sulla sventurata una simile rovina, il vangelo soggiunge: "Perché non hai riconosciuto il tempo della tua visita". Dice Isaia: "Il bue riconosce il suo proprietario, e l’asino riconosce la greppia del suo padrone; Israele invece non mi ha riconosciuto e il mio popolo non ha compreso" ( Is 1,3 ). Il bue, cioè il buon ladrone che, come il bue si sottomette al giogo, subì il supplizio della croce, riconobbe il suo proprietario dicendo: "Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno" ( Lc 23,42 ). L’asino, cioè il centurione, benché pagano, riconobbe il Signore, dicendo: "Davvero costui era il Figlio di Dio!" ( Mt 27,54 ). Invece Israele, cioè i chierici, non lo riconoscono, e il popolo, cioè i laici, non lo comprendono. E su questo concordano le parole dell’Ecclesiaste, che dice: "Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che venga il tempo della sofferenza e giungano gli anni in cui dovrai dire: Non mi piacciono; prima che si oscuri la luce del sole, e si oscurino la luna e le stelle, e ritornino le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa, e anche gli uomini più forti vacilleranno, e resteranno oziose le donne che macinano, perché rimaste in piccolo numero, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre, e chiuderanno le porte che danno sulla piazza, e si indebolirà la voce di quelle che stanno macinando, e si alzeranno al canto degli uccelli e diventeranno sorde le figlie del canto; quando si avrà paura delle alture e dei pericoli della strada. Fiorirà il mandorlo, s’ingrasserà la locusta e sarà disperso il cappero, poiché l’uomo se ne va alla dimora eterna e gireranno per la piazza quelli che piangono. Prima che si rompa il cordone d’argento e la benda d’oro si allenti, prima che s’infranga l’anfora alla fonte e la ruota sopra la cisterna di sfasci, e la polvere ritorni alla sua terra da dove è venuta, e lo spirito ritorni a Dio che lo ha dato" ( Qo 12,1-7 ). O città di Gerusalemme, anima creata a somiglianza di Dio, ricordati del tuo Creatore: egli ti ha creata ed egli ti giudicherà; ricordati di lui soprattutto nei giorni della tua giovinezza, che è l’età più proclive al peccato ma anche la più adatta a far penitenza. Per questo l’Ecclesiaste consiglia subito prima: "Sta’ lieto, o giovane, nella tua adolescenza, e il tuo cuore sia rivolto al bene" ( Qo 11,9 ). Si dice giovane, in quanto è in grado di giovare. Ricòrdati dunque, e tieni bene a mente, in questo tuo giorno, ciò che serve alla tua pace e le cose che ti piacciono, prima che venga il tempo della sofferenza, cioè della vecchiaia, della morte e del giudizio, prima che giungano i giorni, dei quali dovrai dire: non mi piacciono! Perché verranno anche per te i giorni che non ti piaceranno. Sei piaciuto a te stesso, ma sei dispiaciuto a Dio. Verranno i giorni in cui dispiacerai a te stesso. Ricordati, ti dico, prima che si oscuri la luce del sole, prima cioè che lo splendore della prosperità mondana venga oscurata dall’ombra della morte; prima che si oscurino la luna e le stelle, cioè i sensi del corpo che nella vecchiaia si debilitano e nella morte si oscurano del tutto. Dice infatti Isaia: "Guarderà in alto e poi rivolgerà lo sguardo a terra: ed ecco la tribolazione e le tenebre, lo sfinimento e l’angoscia e la caligine che lo perseguita: e non potrà liberarsi da questa sua angoscia" ( Is 8,21-22 ). La tribolazione verrà dalla suggestione diabolica, le tenebre consisteranno nell’annebbiamento della mente, l’inerzia nel compiere le opere buone, l’angoscia nelle cattive abitudini, e la caligine perenne nella dannazione nella geenna. Parimenti la tribolazione riguarda la vita, le tenebre la vecchiaia, lo sfinimento la malattia, l’angoscia lo spirare dell’anima, la caligine che perseguita l’irruzione dei demoni. "Ricordati, dunque, del tuo creatore. E ritornino le nubi dopo la pioggia". Le nubi raffigurano i predicatori, i quali fanno cadere la pioggia quando annunciano all’anima il pericolo della sua dannazione; si allontanano, quando l’anima non vuole prestar loro fede; ritornano, quando si avvera ciò hanno annunciato. "Quando tremeranno i custodi della casa". In questo passo Salomone parla sia della vecchiaia che della morte dell’uomo. Da questo punto, fino alla frase "prima che si rompa il cordone d’argento", parla della vecchiaia dell’uomo, che è la messaggera della morte. "I custodi della casa" sono le costole, che difendono gli organi interni del corpo; esse difendono le parti molli, ma quando l’uomo arriva alla vecchiaia anch’esse tremano e s’indeboliscono. "E vacilleranno anche gli uomini più forti", cioè le gambe che sostengono tutto il corpo, anch’esse traballeranno. "E le donne che macinano saranno oziose": anche i denti cioè s’indeboliranno e non saranno più in grado di masticare il cibo. "E si oscureranno quelle che guardano dalle finestre", cioè gli occhi si offuscheranno. "Chiuderanno le porte che danno sulla piazza": i vecchi, che non sono più in grado di camminare, staranno seduti in casa e chiuderanno le porte per non vedere i divertimenti dei giovani: tutte queste cose diventano per loro insopportabili. "S’indebolirà la voce di quelle che stanno macinando" perché i sensi invecchieranno, la voce sarà fioca e spenta, non potranno più procurarsi il cibo con la loro fatica, né masticarlo. "E si alzeranno al canto degli uccelli", cioè al canto del gallo: infatti con il sangue che si raffredda, la linfa vitale che inaridisce e non concilia più il sonno, non possono più nemmeno dormire. "E diventeranno sorde le figlie del canto", cioè le orecchie, che traggono grande diletto dai canti e dai suoni, per l’età troppo avanzata non sentiranno più nulla e diventano sorde. "Avranno anche paura delle alture". Infatti i vecchi hanno paura di andare in alto con le ginocchia sconocchiate. "E hanno quindi paura della strada", temono di cadere anche se la strada è pianeggiante. "Fiorirà il mandorlo", cioè la testa incanutirà; "s’ingrasserà la locusta", cioè le gambe si gonfieranno. La locusta ha il ventre gonfio, e anche i vecchi di solito hanno le estremità inferiori gonfie. "Sarà disperso il cappero": anche la libidine si raffredderà e verrà meno la funzionalità dei vari organi. Il cappero è figura della libidine in quanto è utile ai reni, e nei pressi dei reni si forma appunto la libidine. "Perché l’uomo", così ridotto, "se ne va alla dimora eterna", ritorna cioè alla terra, "e quelli che piangono gireranno per la piazza", cioè i parenti e gli amici andranno fare lamenti sul suo cadavere. Ecco quanto grande è la tua miseria, o uomo. Di che cosa dunque ti insuperbisci? 11. E Salomone continua parlando della morte. "Prima che si rompa il cordone d’argento", ecc. Ricordati del tuo creatore prima che si rompa il cordone d’argento, prima cioè che la tua vita s’interrompa, "e la benda d’oro", cioè l’anima che è la parte più preziosa dell’uomo, "si allenti" e ritorni donde era venuta. "Prima che s’infranga l’anfora": l’anfora è l’uomo, che è fatto di terra. "Prima che la ruota della cisterna si sfasci". La ruota, poiché il mondo gira sempre come una ruota, si sfascia sopra la fonte o sopra la cisterna quando l’uomo, distrutto dalla morte, viene privato delle acque della concupiscenza che aveva attinto dalla cisterna delle vanità del mondo. E osserva che nell’anfora viene simboleggiata la cupidigia: infatti la samaritana abbandonò l’anfora dopo aver ascoltato la predicazione del Signore ( cf. Gv 4,28 ). Perciò quando il ricco muore in mezzo alle sue ricchezze, si può dire che l’anfora si è infranta sopra la fonte, in quanto lo sventurato muore con la sorgente della cupidigia. Nella cisterna poi è simboleggiato l’accumulo delle ricchezze. Dice infatti Geremia: "Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono scavati delle cisterne che non sono in grado di trattenere l’acqua" ( Ger 2,13 ). E la ruota si sfascia sopra la cisterna quando la cupidigia dell’uomo non gli permette di abbandonare le ricchezze, e così il disgraziato muore in mezzo ad esse. "E la polvere", cioè il corpo, "ritorna alla sua terra, donde era stata tratta". Al primo uomo era stato detto: "Tu sei polvere, e in polvere ritornerai" ( Gen 3,19 ). La polvere è chiamata così perché viene spazzata via dalla forza del vento ( in lat. pulvis, pulsa vi venti ). "E lo spirito", cioè l’anima, "ritorni" a Dio "che l’ha creato": lo spirito infatti non viene trasmesso per generazione. Dio ha creato l’anima, nella quale ha infuso gratuitamente delle potenze ( facoltà ) affinché fosse in grado di riconoscerlo come suo creatore, conoscendolo lo amasse, amandolo lo adorasse, e adorandolo meritasse di goderlo eternamente. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Vi sono poi diversità di grazie, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; e vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti" ( 1 Cor 12,4-6 ). Considera queste tre distinzioni: diversità di carismi, diversità di ministeri, diversità di operazioni. Le grazie, dice l’Apostolo, sono le virtù stesse infuse da Dio gratuitamente, cioè la fede, la speranza e simili, i cui effetti sono nei riguardi del prossimo i ministeri, e nei riguardi di sé l’opera. Dio infonde, noi ministriamo, e Dio stesso, che infonde, è poi colui che opera, che agisce. Quando l’Apostolo dice: Spirito, Signore, Dio, intende sempre la stessa sostanza divina. È la Trinità, in tre Persone, che opera tutto in tutti. Non attribuisce tutto ad uno solo, ma opera tutto in tutti, perché ciò che uno non ha in se stesso, lo abbia in un altro, e così si mantenga la carità e l’umiltà. A te dunque, o santissima Trinità e Unità, supplici ci rivolgiamo, perché quando verranno i giorni della sofferenza e della corruzione finale, della rottura del cordone d’argento ( dell’interruzione della vita ), l’anima da te creata a te ritorni, e tu l’accolga, affinché, liberata dall’assedio dei demoni, meriti di alzarsi in volo alla gloria della libertà dei figli di Dio. Accordacelo tu, Dio Uno e Trino, che sei benedetto per tutti i secoli dei secoli. Amen. III. La cacciata dal tempio dei venditori e dei compratori 12. "Entrato poi nel tempio, Gesù incominciò a scacciare i venditori e i compratori, dicendo loro: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera; voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri. E ogni giorno insegnava nel tempio" ( Lc 19,45-47 ). Giovanni racconta così l’episodio: "Gesù salì a Gerusalemme e trovò nel tempio gente che vendeva pecore, buoi e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi; e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato" ( Gv 2,13-16 ). Fa’ attenzione che per ben due volte si legge che il Signore scacciò dal tempio i venditori e i compratori: una volta il primo anno della sua predicazione, l’altra volta quando si avviò alla sua passione. Gesù entra nel tempio, quando ogni giorno visita la sua chiesa e osserva gli atti di ciascuno, e ne scaccia coloro che, frammisti ai suoi santi, o fingono di fare il bene o fanno apertamente il male. Nei buoi, che arano, sono raffigurati i predicatori della dottrina celeste. Vendono buoi coloro che predicano non per amore di Dio ma per il guadagno temporale. Le pecore innocenti offrono i loro velli di lana a coloro che se ne dovranno rivestire. In esse sono raffigurate le opere di purezza e di carità, che vengono vendute quando si compiono per essere lodati dagli uomini. Lo Spirito apparve in forma di colomba ( cf. Lc 3,22 ); e quindi nella colomba è simboleggiato lo Spirito che viene venduto dai simoniaci. E questo è un peccato gravissimo. Si narra negli Atti che i Giudei domandavano che cosa dovevano fare; ad essi fu detto: Fate penitenza ( cf. At 2,38 ). Invece al mago Simone che domandava la stessa cosa, fu riposto: Fa’ penitenza, chissà che il Signore voglia perdonarti ( cf. At 8,22 ). Prestano soldi in chiesa coloro neppure fingono di servire le cose celesti, ma si danno apertamente a quelle terrene. Tutti costoro saranno estromessi dalla sorte dei santi ( cf. Col 1,12 ): essi fingono di fare il bene, oppure compiono apertamente il male, ed ora vengono flagellati con le corde dei peccati perché si correggano; ma se non si correggeranno, alla fine con le stesse saranno legati. E scaccia anche le pecore e i buoi perché smaschera la vita corrotta e il falso insegnamento di tali persone. Getta a terra il denaro e rovescia i banchi perché alla fine saranno distrutte proprio quelle cose che esse hanno amato. E osserva che mentre il Signore scacciava dal tempio i venditori e i compratori, emanava dai suoi occhi come dei lampi di luce, e i sacerdoti e i leviti, spaventati, non potevano far nulla contro di lui. 13. E su questo abbiamo una concordanza nel libro della Sapienza, dove leggiamo: La sapienza "per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. Essa è soffio ardente della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente: per questo nulla di contaminato s’infiltra in essa. È splendore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e immagine della sua bontà. E sebbene unica, essa può tutto, e pur rimanendo se stessa tutto rinnova" ( Sap 7,24-27 ). Cristo, sapienza e potenza di Dio, penetra ovunque: in cielo appaga gli angeli con la visione di sé, in terra attende misericordioso i peccatori che facciano penitenza, nell’inferno tormenta i demoni e i peccatori che non hanno voluto sperare in lui. Penetra, ripeto, per la sua purezza, perché "egli è luce, e in lui non ci sono tenebre" ( 1 Gv 1,5 ). È un soffio ardente che scioglie il gelo della nostra infedeltà, essendo la potenza stessa di Dio Padre; è sua emanazione, cioè è splendore della sua gloria, con lui consustanziale, uguale e coeterno; emana dallo splendore dell’Onnipotente, essendo con l’Onnipotente un’unica luce; è emanazione genuina perché al Sommo Bene non si unisce alcun male, e quindi nulla di contaminato s’infiltra in essa, perché è semplice e bene in eterno. "È splendore della luce eterna e specchio" nel quale si vede il Padre; infatti dice: "Chi vede me, vede anche il Padre mio" ( Gv 14,9 ). È "senza macchia" perché "non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca" ( 1 Pt 2,22 ). "È immagine della sua bontà", cioè sua personificazione perfetta, essendo con lui la bontà stessa: "e sebbene unica" con il Padre, "tutto può" perché onnipotente; e pur "restando se stessa", cioè immutabile, "tutto rinnova" regolando e ordinando ogni cosa. Non c’è quindi da meravigliarsi se ebbe il potere di scacciare dal tempio venditori e compratori, e se quei sacerdoti e leviti non ebbero alcuna possibilità di opporglisi. Altra applicazione. La Sapienza di Dio Padre fu soffio ardente nella sua incarnazione. Allora infatti passò l’inverno dell’infedeltà, cessò la pioggia della persecuzione diabolica. I fiori dell’eterna promessa apparvero nella nostra terra ( cf. Ct 2,11-12 ). Fu emanazione della gloria nel compimento dei miracoli, fu splendore di luce eterna nella sua risurrezione, sarà per noi specchio senza macchia nell’eterna beatitudine, nella quale ci specchieremo in lui come egli è, e la sua Sapienza rifulgerà anche in noi. Dice Agostino: Come sarà quell’amore, quando ognuno di noi si vedrà rispecchiato nel volto dell’altro come ora ci guardiamo vicendevolmente in faccia? Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza", ecc. ( 1 Cor 12,7-8) . "A ciascuno": i doni dello Spirito sono distribuiti variamente, e non sempre vengono dati a seconda dei meriti di un singolo, ma per l’utilità e per l’edificazione della chiesa. E coloro che li vendono o li comperano devono essere scacciati dalla chiesa, come Cristo scacciò i venditori e i compratori. 14. "La mia casa si chiamerà casa di preghiera: voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri". Dice Salomone: "Entrato in casa riposerò con lei", cioè con la sapienza; "perché la sua compagnia non dà amarezza, né fastidio la sua convivenza, ma contentezza e gioia" ( Sap 8,16 ). L’uomo sollecito delle cose dello spirito, dopo aver accudito alle necessità materiali, e dopo essersi liberato da pensieri e preoccupazioni, rientra nella sua casa, cioè nella sua coscienza, e chiusa la porta dei sensi, riposa con la sapienza dedicandosi alla contemplazione divina, nella quale assapora la dolcezza della quiete spirituale. Infatti la compagnia della sapienza non dà amarezza, scaccia cioè il piacere del peccato: il palato che ha gustato la sapienza non è più toccato da nessun veleno. E la sua convivenza non procura fastidi o nausea; infatti i piaceri dello spirito acuiscono il desiderio, e più si gustano più avidamente si bramano: in essi c’è solo contentezza e gioia. Beata quella casa, felice quella coscienza che ha conosciuto il sapore della sapienza, e nella quale riposa la stessa Sapienza, che dice: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera". La casa si chiama in lat. domus, e viene dal greco dòma, che vuol dire anche tetto. Considera che la casa consta di tre parti: le fondamenta, le pareti e il tetto. Nelle fondamenta è raffigurata l’umiltà, nelle pareti l’insieme delle virtù e nel tetto la carità. Dove sono riunite queste tre "parti", lì c’è il Signore che dice: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera". La preghiera si chiama in lat. oratio, come dire oris ratio, la ragione, cioè il ragionamento della bocca. Considera che per la preghiera sono necessarie sei disposizioni: il profumo della devozione interiore, il gradimento della tribolazione, le lacrime della compunzione, la mortificazione della carne, la purezza della vita e l’elemosina; e queste sei disposizioni sono indicate nella Genesi, quando Giacobbe disse ai suoi figli: Andate e portate a quell’uomo, cioè a Giuseppe, dei doni, cioè balsamo, miele, incenso, mirra, resina e mandorle ( cf. Gen 43,11 ). Il balsamo è il profumo della devozione interiore; infatti dice l’Ecclesiastico: "Come balsamo non miscelato è il mio profumo" ( Sir 24,21 ): la devozione deve essere genuina, non contaminata da doppiezza di intenzioni. Il miele raffigura il gradimento, l’accoglimento riconoscente della tribolazione. Dice il Deuteronomio: Succhiarono miele dalla rupe ( cf. Dt 32,13 ). La rupe è figura della durezza dell’avversità o della tribolazione. Infatti dice Giobbe: "Con la durezza delle tue mani mi perseguiti" ( Gb 30,21 ). Succhia miele dalla pietra colui che accoglie la durezza delle avversità nella gioia dello spirito. Dice la Storia Naturale che le api, disposte sopra gli alveari, succhiano il miele che è nei favi, e si dice che se non facessero questo, il miele che sta nei favi si guasterebbe e da esso si produrrebbero dei ragni. Il favo è fatto di cera e contiene il miele; si chiama favo perché viene mangiato piuttosto che bevuto: la parola favo infatti richiama il verbo greco fagèin, mangiare. Le api raffigurano i giusti, che stanno sopra gli alveari, che affliggono cioè e umiliano il proprio corpo e succhiano ciò che c’è nel favo. Osserva che come nel favo ci sono la cera e il miele, così nella vita del giusto c’è il miele della dolcezza interiore e la cera delle avversità esteriori; e la cera si scioglie e svanisce di fronte al fuoco, cioè alla presenza dell’amore di Dio. Si fermino, vi prego, le api sopra gli alveari e succhino ciò che c’è nei favi, affinché per colpa dell’insofferenza e dell’amarezza del cuore non si guasti il miele della dolcezza interiore e si generi il ragno. Il ragno, chiamato in lat. aranea da aer, aria, e neo, tessere, perché fabbrica ( tesse ) i fili nell’aria, raffigura la superbia del cuore la quale, essendo di origine celeste, fa ogni sforzo per penetrare nella mente di chi è dedito alle cose celesti. Ahimè! Quando si guasta il miele, viene prodotto il ragno: dalla distruzione della dolcezza interiore viene generato il ragno della superbia. Parimenti, l’incenso raffigura la preghiera. Sta scritto: "Salga la mia preghiera come incenso al tuo cospetto" ( Sal 141,2 ). L’incenso è chiamato in lat. thus, dal termine greco Theòs, Dio, al quale viene offerto. Osserva che l’incenso lo produce solo l’Arabia, nome che s’interpreta "sacra". In Arabia c’è un albero, chiamato lìbano, che assomiglia nella corteccia e nelle foglie al lauro; quest’albero emette ogni tanto un succo come di mandorla, che viene raccolto due volte all’anno, in autunno e in primavera. Ma alla raccolta autunnale ci si prepara durante il caldo dell’estate: incisa la corteccia ne sgorga una schiuma grassa che, a seconda della natura del luogo, si secca e s’indurisce. Questo è l’incenso bianco. La seconda raccolta si prepara d’inverno, dopo aver inciso la corteccia: in questo tempo il liquido sgorga rosso, ma non è neppure paragonabile al precedente. Quello che esce da alberi giovani è più bianco, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Tutti i padroni di un boschetto di piante di incenso si chiamano in arabo "sacri"; e quando fanno la raccolta in questi boschetti o incidono le piante, non prendono parte a funerali, né si contaminano con contatti di donne. 15. L’Arabia è figura della mente santa del giusto, nella quale c’è e ci dev’essere il lìbano, che s’interpreta "bianchezza"; ci dev’essere cioè l’illibatezza della vita, dalla quale proviene l’incenso della genuina preghiera. Dice l’Ecclesiastico: "Come un libano non inciso riempii di profumo la mia abitazione" ( Sir 24,21 ). Il libano raffigura coloro, la cui vita è spesa tutta nella preghiera. Libano non inciso devono essere tutti i religiosi, soprattutto perché la loro mente non sia divisa durante la preghiera, non abbiano cioè una cosa sulle labbra e un’altra nel cuore: la mente divisa non ottiene nulla. Devono quindi adoperarsi per essere integri, affinché la lingua sia in accordo con il cuore: solo così sarà alle orecchie del Signore degli eserciti una soave melodia. La raccolta dell’incenso in autunno raffigura la devozione nella preghiera dei proficienti; invece la raccolta della primavera raffigura la preghiera degli incipienti, di quelli cioè da poco convertiti. Sia gli uni che gli altri, dopo incisa la corteccia, emettono la gomma, giacché dai loro cuori compunti si innalza a Dio la preghiera. Ma i primi vengono incisi nel caldo dell’estate, i secondi in inverno; i primi emettono un incenso bianco, i secondi rosso. Infatti i proficienti, nel fervore del desiderio celeste, fanno la preghiera con una devozione candida ( innocente ), unita alle lacrime della compunzione. Gli incipienti invece, nell’inverno della loro tentazione, ancora tormentati dal gelo della suggestione diabolica, fanno una preghiera dolorosa e quasi insanguinata, unita all’amarezza delle lacrime e dei sospiri. Infatti il faraone vedendosi disprezzato, esce in escandescenze e imprecazioni. L’incenso degli alberi giovani è candido, ma quello degli alberi vecchi è più profumato. Infatti deve precedere la santità della vita perché possa seguire il profumo della buona reputazione. Quando incominci, devi applicarti soprattutto a vivere santamente; quando progredirai, penserai al profumo della buona reputazione. E chi vuole raccogliere e offrire a Dio l’incenso della preghiera, si guardi bene dal prender parte ai funerali del rancore e dell’odio – "chi odia il suo fratello è un omicida" ( 1 Gv 3,15 ) –, e non si macchi frequentando donne o fermandosi su pensieri cattivi. Parimenti la mirra, così chiamata da amarezza, raffigura la mortificazione della carne, della quale è detto nel libro di Giuditta, che essa "lavò il suo corpo e lo cosparse di mirra purissima" ( Gdt 10,3 ). Chi si confessa deve, nella confessione, lavarsi, e quindi ungersi con la mortificazione del corpo, eseguendo la penitenza imposta dal confessore in espiazione del suo peccato. Fu detto a Daniele: "Fin dal primo giorno in cui per ottenere intelligenza hai stabilito nel tuo cuore di affliggerti al cospetto del tuo Dio, le tue parole sono state ascoltate" ( Dn 10,12 ). "Al cospetto di Dio" – è detto – e non degli uomini. 16. Ancora: la resina è la lacrima delle piante, e raffigura la lacrima che esce dall’intimo del cuore, della quale il Signore dice al re Ezechia: "Ho sentito la tua preghiera e ho visto la tua lacrima" ( Is 38,5 ). E di nuovo: "Ti inonderò con le mie lacrime, Chesbon ed Eleale!" ( Is 16,9 ). Chesbon s’interpreta "cingolo di tristezza" o anche "pensiero di mestizia"; Eleale s’interpreta "salita": raffigurano le anime dei penitenti che si cingono con il cingolo della tristezza e della mestizia, per poter salire con minore difficoltà alla casa del Signore. Dice Isaia: "Per la salita di Luchit salirà piangendo; sulla via di Coronaim manderanno grida strazianti" ( Is 15,5 ). Luchit s’interpreta "guance". Per la salita di Luchit, cioè su per le guance salirà il pianto al Signore. Coronaim s’interpreta "apertura della mestizia", e sta a indicare l’occhio, attraverso il quale esce il lamento del lutto, che sale al Signore. Dice l’Ecclesiastico: "Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro colui che gliele fa versare? Ma dalle sue guance saliranno fino al cielo, e il Signore, che esaudisce, non le vedrà certo con piacere" ( Sir 35,18-19 ). Il Signore dunque inonda con le lacrime della sua passione le anime dei penitenti: egli con forti grida e lacrime offrì se stesso a Dio Padre ( cf. Eb 5,7 ). Le inonda, ripeto, perché, dimentichi delle cose temporali, tendano a quelle future ( cf. Fil 3,13 ). In fine il mandorlo, che fiorisce in inverno, è figura dell’elemosina, per mezzo della quale uno deve fiorire nell’inverno della vita presente. Leggiamo nell’Ecclesiaste: "Fiorirà il mandorlo, la locusta s’ingrasserà e il cappero sarà disperso", ecc. ( Qo 12,5 ). Vedi per questo passo la terza parte del sermone sul vangelo "C’era un uomo ricco che aveva un fattore", della IX domenica dopo Pentecoste. E nell’Ecclesiastico: "Figlio, non defraudare l’elemosina al povero" ( Sir 4,1 ). A ragione è detto "non defraudare", perché la frode si compie rispetto alle cose degli altri, secondo quel detto: È provato che ruba le cose degli altri, chi tiene per sé più di quanto gli è necessario. L’elemosina è così chiamata da Heli, Dio, e moys, acqua ( forse in egiziano antico ): quindi helimòsina, acqua di Dio. Elemosina è anche una parola greca, che significa misericordia ( da elèin, aver pietà ). Fortunata quella casa, beata quella dispensa, nella quale vengono riposti i sei doni sopra descritti, dai quali proviene la vera e genuina preghiera, capace di salire fino agli orecchi di Dio e di ottenere ciò che domanda. Giustamente quindi il Signore dice: "La mia casa si chiamerà casa di preghiera". E su questa casa abbiamo la concordanza nell’introito della messa di oggi: "Dio sta nel suo luogo santo, Dio fa abitare nella sua casa coloro che vanno d’accordo; egli stesso darà forza e vigore al suo popolo" ( Sal 68,6-7.36 ). Il luogo santo e la casa sono figura della mente del giusto. Del "luogo" dice Ezechiele: "Sentii dietro di me la voce di un grande sommovimento: Benedetta la gloria del Signore nel suo luogo santo" ( Ez 3,12 ). Questa "voce di grande sommovimento ( lett. commozione ) simboleggia la contrizione del cuore, per mezzo della quale la mente dell’uomo diventa "luogo di Dio", dal quale Dio viene benedetto e glorificato. E della "casa" il Signore dice: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera". In questa casa fa abitare quelli che sono in accordo, cioè la ragione e la sensualità, in modo che la sensualità sia soggetta alla ragione, e la ragione obbedisca al suo superiore, cioè a Dio. "Egli stesso darà forza e vigore al suo popolo" affinché non si esalti nella prosperità e non si deprima nelle avversità, secondo ciò che dice Isaia: "Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato" ( Is 40,29 ). 17. "Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri". Dice Geremia: "È diventata forse ai vostri occhi una spelonca di ladri questa casa, nella quale viene invocato il mio nome?" ( Ger 7,11 ). La coscienza dell’uomo diventa una spelonca di ladri, quando si avvera in essa ciò che dice Isaia: "Vi riposeranno le bestie; le loro case si riempiranno di draghi, vi abiteranno gli struzzi e vi danzeranno i satiri; nei loro palazzi si manderanno richiami i gufi, e nei templi dei loro piaceri le sirene" ( Is 13,21-22 ). Le bestie ( vastiae ) sono chiamate così da vastare, devastare, perché devastano, straziano la preda con morsi e unghie. Il drago è il rettile più grande di tutti gli animali senza piedi; è chiamato drago, perché uscito ( lat. tractus ) dalle spelonche, si alza nell’aria e l’atmosfera è perturbata dal suo volo; la sua forza non è nei denti ma nella coda. Il drago marino ha nelle branche un pungiglione rivolto verso la coda. Lo struzzo, il cui nome in greco ( stroutos ) indica un animale che ha le penne come un uccello, ma non è in grado di alzarsi molto da terra e volare; non cova le uova: le lascia per terra e vengono portate a maturazione solo dal calore della polvere. I satiri, o fauni, detti anche ìncubi, sono esseri somiglianti all’uomo nella parte superiore, e alle bestie in quella inferiore. I greci li chiamano panas ( divinità dei boschi ), e dicevano che i satiri avevano la barba, il muso rosso acceso e gli zoccoli come le capre. I gufi sono uccelli notturni, chiamati in lat. ùlula dal verso che emettono, e sono chiamati dalla gente anche allocchi o civette. Le sirene sono animali marini micidiali – almeno così si racconta – che hanno forma umana dalla testa fino all’ombelico, e il resto del corpo fino ai piedi a forma di volatili; fanno risuonare voci e canti dolcissimi, in modo da attirare a sé con l’incanto della voce naviganti anche molto lontani; quindi, dopo averli immersi in un sonno profondo, li straziano. In realtà erano delle prostitute che riducevano in miseria i loro frequentatori. Si dice che le sirene avessero ali e unghie, poiché l’amore della lussuria vola e ferisce. Osserva che nelle bestie sono indicate la superbia e la rapina; nei draghi la velenosa malizia dell’ira e dell’invidia; negli struzzi la falsità degli ipocriti; nei satiri l’avarizia e la simonia; nei gufi la detrazione e l’adulazione; nelle sirene la gola e la lussuria. I rapinatori con la loro superbia distruggono, quali bestie feroci, i poveri, gli orfani e le vedove. Ezechiele, parlando del potente superbo di questo mondo, dice: "Prese uno dei suoi leoncini", cioè uno dei suoi figli, "e ne fece un leone: imparò a cacciare la preda; imparò a fare delle vedove, cioè a divorare gli uomini; e il suo ruggito dava la misura della sua forza" ( Ez 19,5-7 ). Così gli iracondi e gli invidiosi, come draghi, usciti dalla spelonca della loro coscienza – non possono infatti restarvi rinchiusi – riempiono l’aria di parole, l’agitano con le grida, la contaminano con le bestemmie; la forza della loro malizia non sta tanto nei denti, per via delle bestemmie, quanto piuttosto nella coda, a motivo delle ingiurie e delle vendette che compiono con le loro mani. Anche gli ipocriti, come struzzi, ostentano l’apparenza della santità, ma avidissimi della gloria terrena, non sono in grado di levarsi da terra e spiccare il volo. Lo struzzo trascura di covare le uova, e così l’ipocrita lascia andare in rovina tra le cose della terra i figli, cioè i meriti, che aveva acquistato dopo la predicazione. Dice infatti Giobbe: "Le penne dello struzzo sono come quelle della cicogna e dell’avvoltoio; esso abbandona alla terra le sue uova. Forse tu le riscalderai nella polvere? Esso dimentica che un piede può schiacciarle e una bestia selvatica romperle. Tratta duramente i figli, come non fossero suoi" ( Gb 39,13-16). Uova suona come in lat. uvida, umide, perché sono piene di liquido. Umido è ciò che ha del liquido all’esterno, uvido ciò che lo ha all’interno. Le uova raffigurano i neoconvertiti che hanno nel loro cuore la linfa della compunzione: il Signore li riscalda nella polvere, vale a dire nell’umiltà e nella penitenza, perché possano produrre frutti di buone opere. Il prelato ipocrita, tutto preso dalla gloria terrena, dimentica che i piedi degli affetti carnali possono calpestare i suoi sudditi, e la bestia selvatica, cioè il diavolo, può schiacciarli; ma egli li tratta con durezza, come non fossero figli suoi. Infatti è un mercenario, e quindi non gliene importa niente né delle uova né delle pecore ( cf. Gv 10,13 ) – in lat. de ovis et de ovibus. Così gli avari e i simoniaci danzano oggi e giocano, come satiri e fauni, nella chiesa di Cristo, rubicondi in volto, cappati e panciuti: i loro piedi, cioè i loro sentimenti e i loro costumi sono caprini, cioè puzzolenti; e di questa puzza ne dà prova la lurida spelonca della loro coscienza. Anche i detrattori e gli adulatori, come gufi nella notte, cioè in assenza di coloro di cui dicono male, mandano paurosi ululati con la falsa lode con cui adulano. I golosi e i lussuriosi, come sirene, straziano l’anima propria, divorano le sostanze e fanno precipitare insieme a sé, nel mare dell’eterna dannazione, quelli che riescono a sedurre. Ecco che così si riempie di tutti questi vizi, dall’alto in basso, la casa, cioè la chiesa di Dio, che in questo modo diventa una spelonca di ladri, e la coscienza dell’uomo, che diventa una caverna di demoni. E perciò il Signore dice: "Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!". Su dunque, fratelli carissimi, umiliandoci e piangendo supplichiamo il Signore Gesù Cristo di scacciare dalla sua chiesa i venditori e i compratori simoniaci; di liberare la casa della nostra coscienza, che prima era sua dimora, dai vizi su descritti, e ne faccia una casa di fervente preghiera, affinché possiamo così giungere alla casa della Gerusalemme celeste. Ce lo conceda egli stesso, che insieme al Padre e allo Spirito Santo vive e regna nei secoli eterni. E ogni coscienza pura risponda: Amen, alleluia! Domenica XI dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica XI dopo Pentecoste: "Due uomini salirono al tempio"; si divide in due parti. – Anzitutto sermone sulla natività del Signore, sui quattro cavalli del sole e il loro significato: "Il sole brucia i monti tre volte tanto". – Parte I: Quattro specie di superbia: "Due uomini salirono al tempio". – Sermone contro il povero orgoglioso, contro il ricco bugiardo e contro l’anziano stolto: "Tre tipi di persone io detesto". – Sermone morale sulla misera condizione del nostro corpo: "Tre tipi di persone io detesto". – Sulla falsità del mondo: "Il ricco bugiardo". – La stoltezza del diavolo e l’obbedienza di Cristo: "L’anziano stolto". – Parte II: Sermone sulle sei disposizioni necessarie al penitente; "Il pubblicano, da lontano, non osava alzare gli occhi". – Sulla concordia, sui cinque sensi del corpo che sono cinque fratelli: "Di tre cose si compiace il mio spirito". – Sermone morale sull’umiltà: "Chi si esalta". – Sermone sul vero penitente e sulla natura delle api: "Il ricordo di Giosia è una mistura di vari profumi". – Sull’umiltà e sulla natura del cammello: "Chi si umilia", e "Uscii di notte per la porta della Valle". Esordio - Sermone sulla natività del Signore 1. In quel tempo: "Ad alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabola: Due uomini salirono al tempio" ( Lc 18,9-10 ). Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Il sole brucia i monti tre volte tanto, lanciando raggi infuocati, e facendo brillare i suoi raggi abbaglia gli occhi" ( Sir 43,4 ). Il sole è chiamato così perché, dopo aver fatto scomparire con il suo fulgore tutte le altre stelle, appare solo nel cielo. Il sole è raffigurato con quattro cavalli, e cioè: Piroide, colui che splende; Eoo, colui che riscalda; Etone, colui che arde; Flegone, colui che tempera il calore. Il sole infatti ha queste quattro proprietà: splende al suo levarsi, riscalda quando sale nel cielo, arde a mezzogiorno ed è temperato al tramonto. Il sole è figura di Gesù Cristo, che abita in una luce inaccessibile ( cf. 1 Tm 6,16 ); alla sua luce ogni altra luce è tenebra; al paragone della sua giustizia, tutta la giustizia dei santi è come il panno di una donna immonda ( cf. Is 64,6 ). I quattro cavalli di questo Sole sono gli evangelisti Matteo, Marco, Giovanni e Luca. Matteo fu come un cavallo splendente e viene raffigurato con volto di uomo, perché incomincia il suo vangelo scrivendo dell’uomo: "Libro della genealogia di Gesù Cristo" ( Mt 1,1 ). Marco è colui che riscalda: è raffigurato da un leone, che è di natura focosa, perché il suo vangelo incomincia con le parole: "Voce di uno che grida nel deserto" ( Mc 1,3 ). Giovanni, colui che arde, è raffigurato da un’aquila perché con occhi non abbagliati, innalzato al di sopra di sé, quale aquila fissò lo sguardo sul Sole, quando disse: "In principio era il Verbo" ( Gv 1,1 ). Luca, colui che tempera il calore, è raffigurato dal vitello, che viene immolato nel sacrificio. Gesù Cristo fu sole splendente nella sua natività; fu sole che riscalda nella sua predicazione, con la quale ruggì come un leone: "Fate penitenza!" ( Mt 3,2 ); fu sole ardente nel compimento dei miracoli, con i quali dimostrò di essere il vero Dio; temperò il calore nella sua passione, e come vittima immolata al Padre, tramontò nella morte. Similmente questo sole, quando sorge per il peccatore, splende per fargli conoscere il suo peccato, lo riscalda nel dolore per il peccato commesso, lo brucia nel fervore della riparazione e lo tempera nella mortificazione e nel correggersi dei suoi vizi. Di questo sole dice dunque l’Ecclesiastico: "Il sole brucia i monti tre volte tanto". Il monte è chiamato così perché non ha movimento ( in lat. mons, non motus ). I monti sono figura dei superbi di questo mondo, dei quali dice il salmo: "I monti fondono come cera davanti al Signore" ( Sal 97,5 ), e questo si avvera quando il sole li brucia tre volte tanto, cioè con la contrizione, con la confessione e con la riparazione. Con questo incendio desiderava essere bruciato il Profeta, quando diceva: "Brucia i miei reni e il mio cuore" ( Sal 26,2 ). Il cuore si brucia con la contrizione, la lingua con la confessione e i reni con la riparazione. "Il sole lancia raggi infuocati", cioè li emette da se stesso. I raggi del sole sono la povertà e l’umiltà, la pazienza e l’obbedienza di Gesù Cristo. Tutti gli esempi che ci ha dato e tutte le parole di salvezza che ci ha rivolto sono tanti raggi infuocati che ha lanciato verso di noi per infiammarci di amore verso di lui. E continua: "E con il fulgore dei suoi raggi abbaglia gli occhi". Con i raggi della sua povertà e della sua umiltà acceca gli occhi dei superbi, affinché vedendo non comprendano ( cf. Gv 12,40 ). Infatti è come un collirio che dapprima disturba l’occhio malato e quasi lo rende cieco, ma poi lo rischiara e lo rende luminoso. Perciò egli stesso dice con le parole di Giovanni: "Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi" ( Gv 9,39 ). E ancora: "Se foste ciechi, non avreste alcun peccato" – perché cerchereste il collirio che toglie ogni peccato –; "ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane" ( Gv 9,41 ). Da questo sole fu incendiato, bruciato e accecato quel pubblicano, vero penitente, del quale dice il vangelo di oggi: "Due uomini salirono al tempio", ecc. 2. In questo vangelo sono posti in evidenza due atteggiamenti: l’arroganza del fariseo e il pentimento del pubblicano. Il primo, quando dice: "Due uomini salirono al tempio", ecc. Il secondo, quando aggiunge: "Il pubblicano invece, in piedi da lontano", ecc. In questa domenica, e nella prossima, vedremo di concordare alcuni passi del libro dell’Ecclesiastico con le parti di questo vangelo e di quello della domenica prossima. Nell’introito della messa di oggi si canta: "O Dio, vieni in mio aiuto" ( Sal 70,2 ). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo ai Corinzi: "Fratelli, vi rendo noto il vangelo che vi ho annunziato". Lo divideremo in due parti e ne vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: "Fratelli, vi rendo noto". Seconda parte: "Il sono l’infimo degli apostoli". I. L’arroganza del fariseo 3. "Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo" ( Lc 18,10-12 ). Consideriamo anzitutto, come nota la Glossa, che ci sono quattro specie di superbia: quando uno attribuisce a se stesso il bene che ha; oppure, anche se pensa che questo bene è dato da Dio, crede che gli sia stato dato per i suoi meriti; oppure quando si vanta di avere ciò che non ha; e infine quando, pieno di disprezzo per gli altri, vuol essere ammirato lui solo per quello che ha. A lui si può applicare il detto: Si gonfiano da sé per i propri meriti, pensando, a torto, di averne più degli altri ( autore ignoto ). Il fariseo era affetto da questa peste: uscì dal tempio non giustificato perché attribuì a se stesso il merito dei benefici divini, e si stimò migliore del pubblicano. Ecco il leone morto e il cane vivo, dei quali parla Salomone: "Meglio un cane vivo che un leone morto" ( Qo 9,4 ), vale a dire: meglio l’umile pubblicano che il superbo fariseo. Osserva che l’osso del collo del leone è di un sol pezzo, non è frazionato o formato di anelli, e nelle sue ossa non c’è il midollo. Le ossa del leone sono di una particolare durezza, maggiore di quella di tutti gli altri animali, e quindi, quando si sbattono uno contro l’altro, sprizzano scintille. Parimenti il collo del superbo non è formato di anelli, non è cioè flessibile. Dice Giobbe: "Ha steso contro Dio la mano e ha osato farsi forte contro l’Onnipotente. Correva contro Dio con il collo eretto e armato della sua dura cervice" ( Gb 15,25-26 ). "O alto albero, piega i tuoi rami, allenta le tue rigide fibre, si attenui quella durezza che ti ha dato la natura" ( Breviario Romano, Inno delle Lodi del Tempo di Passione ). O superbo fariseo, "Che cos’è che ti riempie di orgoglio il cuore – come dice Giobbe – e hai gli occhi assorti come immerso in profondi pensieri? Che cosa insuperbisce il tuo spirito contro Dio, sì da proferire con la tua bocca tali parole?" ( Gb 15,12-13 ). Ti fa dire cioè con il fariseo: "Non sono come gli altri uomini". "Che cos’è l’uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? Ecco, neppure i cieli sono puri al suo cospetto. Quanto meno un essere abominevole e corrotto come l’uomo" ( Gb 15,14-16 ). "Ecco, neppure coloro che lo servono sono sicuri, ed egli trova delle macchie anche nei suoi angeli. Quanto più chi abita in case di fango e nella polvere ha il fondamento" ( Gb 4,18-19 ). E il superbo non ha neppure il midollo della compunzione e della misericordia: le sue parole sono in contrasto con le sue opere, si scontrano tra loro e da questo scontro sprizza il fuoco dell’arroganza, dell’ira e della vanagloria. Leggiamo infatti nel libro dei Giudici: "Esca un fuoco dal rovo, e divori i cedri del Libano" ( Gdc 9,15 ). Il rovo è una specie di cespuglio spinoso, molto fitto e pericoloso, e raffigura il superbo, carico delle spine delle ricchezze e dei peccati: da esso proviene il fuoco della superbia, che divora tutti i cedri del Libano, cioè tutte le opere buone che compie, quelle appunto che elenca: "Digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo", ecc. E Gregorio commenta: A che serve che tutta la città sia custodita, se poi si dimentica un’apertura per la quale entrano i nemici? Parimenti, quando siamo orgogliosi della perfezione della nostra vita, mostriamo con questo che non siamo neppure agli inizi del cammino verso la perfezione. Dice l’Ecclesiastico: "Non ti insuperbire quando compi il tuo lavoro" ( Sir 10,29 ). "Ogni superbo e arrogante è un abominio davanti al Signore" ( Pr 16,5 ). Giustamente, quindi, è detto del leone morto: "Il fariseo, stava ritto in piedi", con il collo eretto e rigido. Fariseo s’interpreta "separato": infatti stimandosi giusto, si teneva separato dal pubblicano, dicendo: "Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri". Che cosa vuol dire "gli altri uomini", se non tutti, eccetto lui? Come dicesse: Io solo sono giusto, tutti gli altri sono peccatori. 4. Su questo abbiamo una concordanza nell’Ecclesiastico: "Tre tipi di persone detesta la mia anima, e la loro vita è per me un grande orrore: un povero superbo, un ricco bugiardo e un vecchio stolto e privo di senno" ( Sir 25,3-4 ). Si dice superbo, perché va al di sopra ( lat. super vadens ); bugiardo, in lat. mendax, è colui che inganna la mente altrui; vecchio, è colui che non conosce se stesso, in lat. senex, se nesciens: infatti vaneggia a motivo della tarda età; oppure anche che soffre di una diminuzione di sentimenti, poiché per l’eccessiva vecchiaia diviene insipiente. I medici ( lat. physici ) affermano che l’età dei bambini e quella dei vecchi ha delle analogie: in quelli infatti il sangue non è ancora del tutto caldo, in questi è ormai freddo. Considera che questi tre tipi, odiosi a Dio, si ritrovano in questo fariseo, e anche in tutti i superbi. Il fariseo era un povero superbo: povero, poiché attraverso l’apertura che aveva dimenticata, erano entrati i ladri e avevano rubato tutti i suoi beni; superbo, perché innalzandosi al di sopra di sé, si stimava migliore di quanto non fosse. Il superbo poi è povero perché manca delle ricchezze dell’umiltà, e chi manca di umiltà si trova nella più grande miseria. Il fariseo era anche un ricco bugiardo. Ricco, quando diceva: "Digiuno due volte la settimana"; bugiardo quando premise: "Non sono come gli altri uomini". La stessa cosa fanno i religiosi del nostro tempo, che sono ricchi per l’apparenza di santità, ma bugiardi nell’orgoglio del loro spirito: dicono con Elia: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, perché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti: sono rimasto solo, ed essi tentano di togliermi la vita" ( 1 Re 19,10 ). Costoro, che sono convinti di essere i soli a servire il Signore e a prostrarsi davanti a lui, ascoltino che cosa risponde il Signore: "Io mi sono risparmiato in Israele settemila persone, le cui ginocchia non si sono piegate davanti a Baal" ( 1 Re 19,18 ). Fratello, da Nazaret può mai venire qualcosa di buono? ( cf. Gv 1,46 ). Il nostro Dio non è soltanto il Dio dei monti, ma anche il Dio delle valli ( cf. 1 Re 20,28 ). Egli dice nel Cantico: "Io sono il fiore del campo e il giglio delle convalli" ( Ct 2,1 ). Dio abita nel più alto dei cieli, e tuttavia volge il suo sguardo agli umili ( cf. Sal 138,6 ). Il fariseo era anche un vecchio stolto: vecchio, perché non conosceva se stesso ( lat. senescit, invecchia; se nescit, ignora se stesso ), aveva perduto i sentimenti, e non sapeva quello che diceva. Infatti era salito al tempio per pregare e non per lodare se stesso: incominciò dalla lode di sé, egli che doveva invece incominciare dalla preghiera al Signore. Alcuni fanno la stessa cosa con la loro predicazione: come prologo, incominciano a tessere le proprie lodi. La lode nella propria bocca insudicia ( cf. Sir 15,9 ). Sia la bocca degli altri a lodarti, e non la tua ( cf. Pr 27,2 ). 5. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato; altrimenti avrete creduto invano" ( 1 Cor 15,1-2 ). Il vangelo che Cristo e gli Apostoli hanno predicato è l’umiltà. "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ). Questo insegnamento i discepoli l’hanno imparato da lui e l’hanno trasmesso agli altri. Paolo, nome che s’interpreta "umile", dice appunto: "Vi rendo noto il vangelo, nel quale restate saldi, e dal quale avete anche ricevuto la salvezza". Dove c’è l’umiltà c’è anche la stabilità, la sicurezza e la salvezza; il fariseo che non aveva l’umiltà, andò in rovina, e mentre si giustificava si rese peccatore. Chi conserva l’umiltà si salva, chi non conserva l’umiltà, vana è la sua fede e fatica invano; e poiché è con l’umiltà che si arriva alla gloria, è proprio questa epistola, nella quale si ricorda la morte di Cristo e la sua risurrezione, che si legge oggi, insieme con il vangelo nel quale è detto: "Chi si umilia sarà esaltato" ( Lc 14,11; Lc 18,14 ). Cristo si è umiliato fino alla morte ( cf. Fil 2,8 ), e fu esaltato nella risurrezione. Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il Signore nostro Gesù Cristo di tenere lontana da noi la superba presunzione del fariseo e di imprimere nei nostri cuori il vangelo della sua umiltà, perché possiamo così salire al tempio della gloria nella risurrezione finale, e meritiamo di essere collocati alla sua destra e partecipare alla sua felicità. Ce lo conceda lui, che è morto e risorto, e che è degno di ogni onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. 6. "Tre specie di persone ha avuto in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno". Dice l’Ecclesiastico: "L’Altissimo ha creato medicamenti dalla terra, e l’uomo assennato non li disprezza" ( Sir 38,4 ). L’Altissimo, Gesù Cristo, dalla terra, cioè dalla sua carne, ha creato la medicina dell’umiltà, con la quale ha risanato il genere umano. O anche: viene creata la medicina dalla terra, quando per mezzo delle sofferenze del corpo vengono guarite le ferite dello spirito. Così dalla nostra carne viene prodotta il medicina, come dal serpente velenoso viene ricavato anche il contravveleno. La carne fu come il serpente nel momento della colpa, e dalla carne viene anche il rimedio, per mezzo della sofferenza. Questo medicamento, cioè l’umiliazione di Cristo e la sofferenza della carne, il saggio non lo disprezza: solo il superbo bugiardo e lo stolto lo rifiutano. Di questi appunto è detto: "Tre tipi di persone ha in odio il mio spirito: il povero superbo, il ricco bugiardo e il vecchio stolto e privo di senno". 7. Il povero superbo è questo nostro misero corpo; il ricco bugiardo è il mondo; il vecchio stolto è il diavolo. Corpo viene da corrompere, e suona quasi "pus del cuore" ( lat. corpus, cordis pus ). Si può dire anche "custodia del cuore", o "che perisce nella corruzione", o anche "esposto in pubblico". È detto povero perché ha veramente poco e perché ha poco potere. Il nostro corpo è povero perché entra in questo esilio terreno nudo, cieco, e piangente, e ne esce ancora nudo, cieco e in uno stato pietoso – e voglia il cielo che non sia destinato all’eterno supplizio –, sottoposto alle sofferenze della fame e del freddo, afflitto da malattie e pieno di brutture e di impurità. Che motivi hai dunque, povero infelice, di andare in superbia? Di che cosa puoi gloriarti? Se vuoi vantarti, vàntati della fogna di sterco che porti sempre con te. O misero, misero e povero, che cosa ti credi? Perché ti esalti? Non sei forse tu che sei stato procreato con redolente seme nella misteriosa cavità della madre tua? E lì non fosti nutrito per nove mesi di sangue mestruo, che se i cani lambissero subito diventerebbero rabbiosi? Di che cosa dunque puoi vantarti? Forse del sangue dei tuoi antenati? Se è così, ti vanti proprio dello sterco nel quale sei stato generato. Ti vanti forse delle ricchezze? Appartengono ad altri e non a te: a te sono date solo in prestito. Non è tuo ciò che non potrai portare con te. Il passaggio della morte è angustissimo e per esso puoi passare a mala pena povero e nudo, portando con te solo i tuoi peccati, che sono il nulla. Forse ti vuoi gloriare della tua sapienza e della tua eloquenza? Non a te, non a te la gloria, ma solo a colui che dà la bocca e la sapienza, che fa parlare i muti e udire i sordi ( cf. Sal 115,1; Lc 21,15; Mc 7,37 ). O povero corpo, o misero corpo, vedendoti in così grande miseria e penuria, hai ancora il coraggio di essere tanto superbo e tanto vanaglorioso? Che cosa faresti allora se tu fossi ricco? Benedetto sia Dio, che ha umiliato il superbo come un ferito a morte ( cf. Sal 89,11 ), che ha prosciugato il mare e l’acqua del profondo abisso, che ha colpito il drago, che ha deposto il potente dal trono, e che a te ha dato invece di profumo marciume, invece di cintura una corda, invece di capelli ricciuti la calvizie ( cf. Is 3,24 ). Umìliati, dunque, povero miserabile, e gemendo e piangendo ripeti con il profeta Geremia: "Io sono l’uomo che ha provato la miseria sotto la sferza dell’ira del Signore. Egli mi ha guidato e mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Egli ha fatto invecchiare la mia pelle e la mia carne e ha spezzato le mie ossa. Ha costruito intorno a me e mi ha circondato di fiele e di fatica; mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi, come i morti da gran tempo. Mi ha costruito un muro all’intorno perché non potessi più uscire e ha reso pesanti le mie catene. Mi ha riempito di amarezza e mi ha ubriacato di assenzio. Mi ha spezzato ad uno ad uno i denti e mi ha nutrito di cenere. Ricordati, Signore, della mia povertà anche troppo grande, dell’assenzio e del fiele" ( Lam 3,1-2.4.7.15-16.19 ). 8. Un ricco bugiardo. Il ricco è il mondo, delle cui ricchezze il profeta Naum dice: "Ninive con le sue acque è come una pozzanghera: e tutti sono fuggiti. Fermatevi, fermatevi, ma nessuno si volge indietro. Saccheggiate l’argento, saccheggiate l’oro, ci sono tesori infiniti nei suoi vasi preziosi" ( Na 2,8-9 ). Ninive s’interpreta "seducente" e raffigura il mondo, bello di una bellezza falsa. Le sue acque, le ricchezze e i piaceri, sono come le pozzanghere che in estate si prosciugano. Quando infatti arriva la fiamma della morte, le ricchezze e i piaceri svaniscono. Dice l’Ecclesiastico: "Alla morte di un uomo si rivelano le sue opere" ( Sir 11,29 ). Tutti fuggono, tutti devono pagare il tributo alla morte. E Ninive, bella prostituta, li deride dicendo: "Fermatevi, fermatevi, saccheggiate l’argento, saccheggiate l’oro". Gli amanti del mondo devono lasciare ciò che non possono portare con sé: di essi non c’è nessuno che si volti indietro perché il giorno dell’uomo è come l’ombra, e la sua vita come il vento, che passa e non ritorna ( cf. Gb 8,9; Gb 7,7 ). Le ricchezze di Ninive sono infinite, e quindi anche le sue miserie sono senza fine, "nei suoi vasi preziosi". I vasi, cioè il cuore dei mondani, sono così profondi nella loro cupidigia che per quanto grandi siano quelle ricchezze, non si possono mai saziare. Parimenti, della falsità del mondo lo stesso profeta soggiunge: "Guai, città sanguinaria, piena di menzogne, colma di rapine, che non cessa di depredare" ( Na 3,1 ). Minacce di pena e di colpa al mondo, che è città sanguinaria, cioè di peccatori, nella quale non c’è verità ma che è tutta falsità. Perciò dice il salmo: "È scomparsa la verità tra i figli degli uomini" ( Sal 12,2 ). Questa città è colma di rapina e di strage. Dice Gregorio: La vita presente non si può svolgere senza lacrime, eppure anche fra tante lacrime è amata. E della sua falsità, per bocca di Geremia, il Signore dice: "È divenuta per me come quelle acque infide che ingannano" ( Ger 15,18 ). Acque infide sono le ricchezze, che non danno alcuna sicurezza a chi le possiede: molto promettono ma nulla mantengono: coloro che le amano, quando ne abbondano, proclamano la fede nel Signore: "Ti loderà finché lo avrai beneficato" ( Sal 49,19 ). E Gregorio commenta: "È professione di fede che ha poco valore, quella fatta nella prosperità; invece è di grande merito quella che non viene meno neppure sotto i colpi della sofferenza. I carnali dunque, quando le ricchezze abbondano, professano il Signore; quando invece le ricchezze svaniscono, rinnegano anche il Signore. 9. Il vecchio stolto e privo di senno. Il vecchio stolto è il diavolo, del quale è detto nell’Ecclesiaste: "Meglio un ragazzo povero e saggio, che non un re vecchio e stolto, che non prevede il futuro" ( Qo 4,13 ). Il diavolo non seppe conservare la sapienza che gli era stata infusa quando dimorava tra gli angeli, perché rifiutò di sottomettersi al suo creatore. Diventano sue membra coloro che rifiutano di sottomettersi al giogo dell’obbedienza nel nome di colui che fu obbediente fino alla croce. Ogni volta che rifiuti ostinatamente di obbedire al tuo superiore, diventi simile all’angelo apostata. Non disprezzi un uomo, ma Dio, che ha posto degli uomini sopra la testa di altri uomini. Dice infatti Giobbe: "Egli è colui che ha dato un peso al vento" ( Gb 28,25 ). Il vento si chiama così perché è veemente e violento. La natura umana, incline al male fin dall’adolescenza, è lieve e impetuosa come il vento, e quindi Dio le ha dato un peso, cioè l’obbedienza ai superiori perché, frenata dal suo peso, non si esalti vanamente al di sopra di sé come il diavolo, per cadere poi miseramente al di sotto di sé. "È bene dunque per l’uomo – come dice Geremia nelle Lamentazioni – portare il giogo fin dalla sua adolescenza. Sederà solitario e resterà in silenzio, perché si è innalzato al di sopra di sé" ( Lam 3,27-28 ). Quando ti sottometti umilmente ad un altro, allora ti innalzi mirabilmente al di sopra di te stesso. Il giogo è così chiamato perché congiunge due cose ( lat. iugum, duo iungit ). O figlio, porta dunque il giogo dell’obbedienza insieme con Cristo, figlio di Dio. Il vitello giovane, figura di Gesù Cristo, costretto sotto il giogo dell’obbedienza, trascinò da solo il carico di tutti i nostri peccati. Dice infatti Isaia: "Il Signore caricò su di lui le iniquità di tutti noi" ( Is 53,6 ). E i Giudei, come contadini con la frusta, lo pungolavano perché andasse più in fretta. Ecco come il nostro giovane vitello, tutto solo, porta un carico che né angeli né uomini sarebbero stati in grado di portare, e non c’è nessuno che comprenda e mediti nel suo cuore ( cf. Ger 12,11 ). O fratello, corri, ti scongiuro, unisciti a lui sotto quel giogo, portalo insieme con Gesù, sollevalo insieme con Gesù. "Mi guardai intorno", dice per bocca di Isaia, "ma non c’era alcuno che porgesse una mano; cercai, ma non c’era nessuno che desse aiuto" ( Is 63,5 ). Aiuta, dunque, o fratello, aiuta Gesù, perché se sarai stato partecipe delle sue sofferenze, lo sarai anche della consolazione ( cf. 2 Cor 1,7 ). Ti preghiamo, Signore Gesù, di farci diventare poveri umili, ricchi sinceri, vecchi saggi, affinché meritiamo di giungere alle eterne ricchezze e alle eterne delizie. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. Il pentimento del pubblicano 10. "Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore! In verità vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e che si umilia sarà esaltato" ( Lc 18,13-14 ). In questo passo si devono considerare sei punti: il ricordo della propria iniquità, l’umiliazione della mente e del cuore, la contrizione, la confessione, la riparazione e la giustificazione dello stesso pubblicano. Il ricordo della propria iniquità, dove dice: "Il pubblicano, fermatosi a distanza". Conscio della propria iniquità, si fermò lontano, si reputò indegno anche solo di entrare nel tempio. Il fariseo si credeva vicino, e invece era lontano ( cf. Ef 2,13 ). Il pubblicano si credeva lontano e invece era vicino. Il ramo è stato spezzato ed è stato innestato l’oleastro ( cf. Rm 11,17 ). "Ciò che Israele cercava non l’ha conseguito; lo hanno ottenuto invece gli eletti" ( Rm 11,7 ). O peccatore, fermati lontano, rèputati indegno e ripeti con Abramo: "Parlerò al mio Signore, benché io sia polvere e cenere" ( Gen 18,27 ). Umiltà della mente e del corpo, quando dice: "Non osava neppure alzare gli occhi al cielo". Il segno dell’umiltà si vede generalmente dagli occhi: "O Signore – è detto nel libro dell’Ecclesiastico – non darmi l’insolenza dello sguardo" ( Sir 23,5 ). L’occhio impudico, dice Agostino, è segno dell’impudicizia del cuore. Parimenti nell’atto di battersi il petto si devono considerare tre cose: nella percussione la contrizione, nella risonanza del torace la confessione, nella mano che batte l’opera di riparazione. "O Dio, abbi pietà di me peccatore", cioè, sii benigno verso di me. Il pubblicano, nella sua umiltà, non osa avvicinarsi a Dio, affinché Dio si avvicini a lui; non osa guardare, per essere da Dio guardato; si percuote il petto, si punisce da sé perché Dio lo risparmi; confessa il suo peccato perché Dio lo perdoni. E Dio lo perdona perché lui riconosce il suo peccato. Vedi e considera attentamente quanta coerenza aveva in se stesso questo peccatore: nella sua mente predominava l’umiltà, cui corrispondeva l’umiltà degli sguardi; il cuore soffriva per il male commesso, la mano percuoteva il petto, la lingua proclamava: "Dio, abbi pietà di me peccatore!". 11. E su questa coerenza abbiamo anche la concordanza dell’Ecclesiastico: "Di tre cose si è sempre compiaciuto il mio animo, e sono gradite a Dio e agli uomini: la concordia tra fratelli, l’amore verso i vicini, l’armonia tra marito e moglie" ( Sir 25,1-2 ). Vediamo quale significato abbiano i fratelli, i vicini e marito e moglie. I fratelli simboleggiano i cinque sensi del corpo, dei quali la Genesi dice: "Giuda, te loderanno i tuoi fratelli" ( Gen 49,8 ), che sono: Ruben, Simeone, Levi, Issacar e Zabulon. Giuda è figura del penitente, e i cinque sensi del corpo, se tra di essi c’è concordia, lo lodano, vale a dire lo rendono degno di lode. Ruben s’interpreta "visione", ecco la vista; Simeone s’interpreta "ascolto", ecco l’udito; Levi s’interpreta "inalato" [ con il naso ], ecco l’olfatto: infatti con l’olfatto inaliamo l’aria per mezzo della quale viviamo; Issacar s’interpreta "che ricorda il Signore", ecco la lingua, per mezzo della quale il penitente deve ricordarsi di lodare il Signore e di confessare il suo peccato; Zabulon s’interpreta "dimora della fortezza", ecco il tatto. La concordia tra questi fratelli è gradita a Dio e agli uomini. Concordia viene da "unione dei cuori" e concordare vuol dire formare un cuore solo. "L’amore dei vicini". I vicini sono gli affetti, i sentimenti del cuore, dei quali nulla ci è più vicino. Se tra di essi c’è l’amore di Dio, in modo da essere a lui orientati e amarlo, allora sono a Dio graditi. "L’armonia tra marito e moglie": il marito è figura della ragione, la moglie della sensualità: se sono concordi nel temere e nell’amare Dio, qualunque cosa chiederanno sarà loro accordata. È detto infatti: "Se due di voi si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre ve la concederà" ( cf. Mt 18,19 ). Poiché nel pubblicano pentito c’era questa concordia, c’era l’amore e c’era l’armonia di sentimenti, disse di lui il Signore: "In verità vi dico: Questi tornò a casa sua giustificato, a differenza di quello", nei confronti cioè del fariseo. E il beato Bernardo commenta: Il pubblicano che si umiliò e si presentò come un vaso vuoto, ricevette una grazia più grande. Ecco quanto è grande la grazia del Redentore: il pubblicano era salito al tempio macchiato, ne discese giustificato; era salito peccatore, ne discese santo. Quindi nell’introito della messa di oggi, fiducioso nella misericordia di Dio, egli implora: "Dio, vieni in mio aiuto"; è lo stesso che dire: "Abbi pietà di me peccatore", perdona cioè i miei peccati. "Signore, vieni presto ad aiutarmi" ( Sal 70,2 ), e a infondermi la tua grazia, e così ritornerò a casa giustificato. 12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Io sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana" ( 1 Cor 15,9-10 ). Si dice l’infimo, lett. "minimo", dalla parola mònade, che in lat. indicava l’unità, cioè il numero più piccolo di tutti. Ecco come Paolo, l’infimo, è in accordo con il pubblicano, l’umilissimo. Questi, ritenendosi indegno, stava fermo a distanza; quello si riteneva l’infimo degli apostoli. Questi non osava alzare gli occhi al cielo perché aveva peccato contro il cielo e al cospetto di Dio; quello diceva: "Io non sono degno di essere chiamato apostolo". Questi si accusava peccatore, quello si accusava di aver perseguitato la chiesa di Dio. Questi trovò la grazia, e anche quello trovò la grazia, e quindi dice: "Per grazia di Dio sono quello che sono". Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo affinché lui, che al pubblicano e a Saulo ha perdonato i peccati e conferito la grazia, perdoni anche a noi e ci infonda la sua grazia per meritare di giungere alla sua gloria. Ce lo conceda egli stesso che è benedetto e glorioso, che è vita e salvezza, che è giusto e pietoso per i secoli eterni. E ogni anima umile risponda: Amen, alleluia! 13. "Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato". Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Il ricordo di Giosia è una mistura di vari profumi preparata da un profumiere: in ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto rallegrato dal vino" ( Sir 49,1-2 ). Giosia s’interpreta "in lui è il sacrificio", ed è figura del penitente, o del giusto, nel quale il sacrificio offerto a Dio è il suo spirito contrito ( cf. Sal 51,19 ), la cui vita viene paragonata all’opera del profumiere, alla dolcezza del miele e ad uno strumento musicale. Il vero penitente, come un profumiere, nel piccolo mortaio del suo cuore, battendovi sopra con il pestello della contrizione, pesta ogni specie di pensieri, di parole e di opere, riduce tutto in polvere finissima e la impasta con il balsamo delle lacrime. Questa è la mistura dal profumo soavissimo, e quest’opera di profumiere viene quindi paragonata alla dolcezza del miele. Considera che le api raccolgono la cera dai fiori e la caricano nelle zampette anteriori, poi la passano a quelle di mezzo e in fine la appendono alle cosce di quelle posteriori: poi la trasportano in volo e allora si scopre il suo peso. E l’ape, quando vola, non va in cerca di fiori diversi, e non tralascia un fiore per passare ad un altro, ma raccoglie da una specie di fiori tutto quello che può e poi ritorna all’alveare; e lavora e vive del suo lavoro. Anche il penitente è fornito, per così dire, di sei piedi: gli anteriori sono l’amore di Dio e del prossimo; quelli di mezzo la preghiera e l’astinenza e quelli posteriori la pazienza e la perseveranza. I fiori sono gli esempi dei santi Padri, dai quali deve raccogliere la cera, cioè la purezza dell’anima e del corpo: e la raccoglie con questi sei piedi e quindi ritorna all’alveare della sua coscienza, portandola con sé, e subito incomincia il suo lavoro interiore e con questo lavoro si ristabilisce. "Procuratevi – dice il Signore – non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna" ( Gv 6,27 ). L’opera del giusto è la dolcezza del miele, cioè la purezza della coscienza, l’onestà della vita, il profumo della buona riputazione, la gioia della contemplazione di Dio. O curioso, che ti affanni e allarghi la tua attività in tante direzioni, va’, non dico dalla formica, ma dall’ape e impara la saggezza. L’ape non si posa su tante specie di fiori, ecc. Dal suo esempio impara a non dare ascolto ai vari fiori di parole, ai vari libercoli; e non lasciare un fiore per passare ad un altro, come fanno gli schizzinosi che sempre sfogliano libri, criticano le prediche, controllano le parole, ma non arrivano mai alla vera scienza; tu invece raccogli da un libro ciò che ti serve e collocalo nell’alveare della tua memoria. Dice il Filosofo: Non è rigogliosa la pianta che viene spesso spostata. Nulla è tanto utile da poter giovare anche con un solo fuggevole contatto ( Seneca ). Parimenti la vita del giusto viene paragonata ad uno strumento musicale. Lo strumento musicale è la parola della predicazione del Signore, oppure anche la risonanza della buona riputazione, che armonizza con la santità della vita. Da una tale vita proviene quindi il ricordo profumato che procura dolcezza all’animo di quelli che ne sentono parlare, e risuona piacevolmente ai loro orecchi. 14. Quindi dell’umiltà di questo Giosia, cioè del penitente che si è umiliato come il pubblicano, il Signore dice: "Chi si umilia sarà esaltato". Si dice "umile" come a dire "abbassato verso terra" ( lat. humi acclivus ). La porta del cielo è bassa, e chi vuole entrare attraverso di essa è necessario che si abbassi. Questo ci insegnò il Signore quando, "abbassato il capo, rese lo spirito" ( Gv 19,30 ). Egli stesso del resto ha detto: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli" ( Mc 10,25 ). Letteralmente, "la cruna dell’ago" era una delle porte di Gerusalemme. Il cammello è in grado per sua natura di piegarsi quando deve entrare per un passaggio basso e può camminare sulle ginocchia: per questo la natura l’ha fornito di certi ingrossamenti alle ginocchia, che assomigliano a staffe, in modo che camminando sulle ginocchia non ne abbia danno. Quindi "è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago" perché per sua natura può abbassarsi, ciò che non può fare il ricco se non per mezzo della grazia di Dio. Per rappresentare questo abbassamento, una delle porte di Gerusalemme si chiamava "porta della Valle", della quale Neemia dice: "Uscii di notte per la porta della Valle e andrai verso la fonte del Drago e alla porta del letame, osservando le mura di Gerusalemme, com’erano piene di brecce e come le sue porte erano consumate dal fuoco. Mi spinsi poi verso la porta della Fonte e l’acquedotto del Re; e non c’era un posto per cui potesse passare il giumento che cavalcavo. Ed allora risalii alla porta della Valle e tornai a casa" ( Esd 2,13-15 ). La porta della Valle raffigura il nostro ingresso in questo mondo: valle verso la quale usciamo per vederla. La Fonte del Drago simboleggia la fonte delle lacrime. La porta del letame è la penitenza, per mezzo della quale viene rimosso il letame del peccato, e allora si può constatare la distruzione del muro spirituale, prodotta dal peccato. Le porte consumate dal fuoco raffigurano i sensi, anch’essi corrotti dal peccato. La porta della fonte è la contemplazione, alla quale si giunge dopo fatta la penitenza. L’acquedotto raffigura l’anima del contemplativo, sulla quale scorrono le acque delle intuizioni spirituali. Il giumento per il quale non c’è un posto per cui passare raffigura il corpo, il cui peso fa precipitare l’uomo dall’alto della contemplazione, perché "il corpo corruttibile appesantisce l’anima" ( Sap 9,15 ). È necessario quindi ritornare alla porta della Valle, perché bisogna perseverare nell’umiltà. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Umilia profondamente il tuo spirito, perché castigo della carne dell’empio sono i vermi e il fuoco" ( Sir 7,19 ): la carne dell’empio, cioè gli empi schiavi del loro corpo. Dice infatti il Signore per bocca di Ezechiele: "Soffierò contro di te il furore della mia ira, poi ti abbandonerò nelle mani di uomini violenti, portatori di distruzione. E sarai preda del fuoco" ( Ez 21,31-32 ). E nel libro di Giuditta: "Metterò nelle loro carni vermi e fuoco, perché brucino e soffrano in eterno" ( Gdt 16,21 ). Umilia dunque il tuo spirito, perché "la preghiera di colui che si umilia penetra le nubi e finché non sia arrivata non si accontenta" ( Sir 35,21 ), cioè non è tranquillo nel suo cuore. Dice Origene: Ha più potere un unico santo con la sua preghiera che non peccatori senza numero che combattono. Infatti la preghiera del santo penetra i cieli: come potrà non vincere il nemico quaggiù in terra? E Agostino: Grande è la forza della preghiera innocente, perché ha accesso a Dio come una persona e assolve i suoi compiti: cosa a cui la carne non ha la possibilità di giungere. E Gregorio: Pregare veramente vuol dire far risuonare amari gemiti di pentimento, e non vane parole. Umilia dunque il tuo spirito, perché chi si umilia sarà esaltato. Dice ancora l’Ecclesiastico: "Lo sollevò dalla sua umiliazione e lo fece stare a fronte alta" nella sua sofferenza, "sì che molti ne furono stupiti" ( Sir 11,13 ). Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di imprimere in noi il sigillo della tua umiltà e di innalzarci alla tua destra nel momento della nostra ultima sofferenza. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Domenica XII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della dodicesima domenica dopo Pentecoste: "Gesù uscì dalla regione di Tiro"; si divide in due parti. – Anzitutto sermone sul predicatore e sul prelato della chiesa, sulla natura delle api e sulla proprietà del ferro: "Il fabbro ferraio". – Parte I: Il peccato di lussuria e di superbia; natura del serpente e le tre ruberie degli avari: "Figlio, hai peccato?". – Contro i prelati della chiesa: "I suoi piedi portavano Tiro lontano". – Sermone morale sulla vita del giusto, sulla proprietà della nebbia, del sole e dell’arcobaleno che si forma nei giorni di pioggia: "Simeone, figlio di Onia". – I cinque fiumi e il loro significato, e le tre parti di cui è composta la freccia: "Trabocca di sapienza come il Fison". – Parte II: Sermone sul cuore dell’uomo e sui sensi del corpo: "Il re che siede in trono". – I cinque atti di virtù richiamati questo passo: "Io ti ascoltai con le mie orecchie"; natura del cervo e suo significato. – La confessione: "In mezzo al fuoco c’era un balenare di elettro incandescente". – Sermone morale sul disprezzo del mondo: "Due angeli presero Lot per mano". – Le cinque dita di Gesù Cristo e il loro significato. – Sermone sulla natività del Signore: "Il vasaio seduto al suo lavoro". – Altro sermone sulla natività e sulle sei ali dei serafini: "Volò verso di me un serafino". – Sermone sul predicatore: "Molte labbra loderanno chi è generoso nel dare il pane". – Sermone sul testamento e sul suo simbolismo. Esordio - Il predicatore e il prelato della Chiesa 1. In quel tempo: "Uscito dalla regione di Tiro, Gesù passò per Sidone dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decapoli" ( Mc 7,31 ). Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Il fabbro ferraio, seduto all’incudine, osserva il suo lavoro del ferro: la vampa di fuoco gli brucia le carni e deve lottare contro il calore del forno. Il rumore del martello gli rintrona gli orecchi, mentre i suoi occhi sono fissi sul modello del vaso. Applica il suo cuore all’esecuzione dell’opera e sta attento per rifinirla alla perfezione" ( Sir 38,29-31 ). Fabbro deriva da "fare", ossia "lavorare" il ferro, ed è figura del santo predicatore della chiesa, che fabbrica le armi dello spirito. Egli deve sedere vicino all’incudine: deve cioè applicarsi allo studio e alla pratica della sacra Scrittura, appunto per praticare ciò che predica. L’incudine ha questo nome perché per mezzo di essa si fabbrica qualcosa, cioè si produce battendo: in lat. cùdere, che significa colpire e piegare. Si legge nella Storia Naturale che "le api si alzano in volo nell’aria quasi per esercitarsi e poi ritornano agli alveari e si nutrono; così i predicatori devono prima esercitarsi nell’aria della contemplazione, con il desiderio della beatitudine celeste, per poter poi cibare con maggior ardore se stessi e gli altri con il pane della parola di Dio. Il predicatore deve anche osservare il lavoro del ferro, vale a dire la mente ferrea degli ascoltatori per fabbricare in essa le armi delle virtù, atte a sconfiggere le potenze dell’aria. Il ferro deriva il suo nome da ferire, perché con esso le altre cose vengono ferite o domate. Oppure, il ferro è così chiamato perché serve ad affondare nella terra le sementi delle messi, dette in lat. farra. Anche l’acciaio, per esempio, che in lat. si chiama chalybs, deriva il suo nome dal fiume Chalybs, nelle cui acque veniva temprato il ferro per ottenerne dell’ottimo acciaio. E considera che il ferro non viene intaccato dalla ruggine se viene spalmato di biacca, gesso e pece liquida; o anche se viene unto con midollo di cervo, oppure con biacca mescolata ad olio di rosa. La biacca è una materia che serve per dipingere ed è composta di stagno e piombo. Il gesso è un prodotto della Grecia, affine alla calce, adattissimo per fare rilievi, figure, sporti e cornicioni negli edifici. E considera ancora che il ferro, cioè la mente dell’uomo, riceve un’ottima tempra nel fiume delle lacrime. E la mente non viene mai intaccata dalla ruggine se viene spalmata di biacca e con le altre materie suddette. Vediamo quale sia il significato della biacca, del gesso, della pece, del midollo di cervo e dell’olio di rose. La biacca si compone di stagno e di piombo. Nello stagno e nel piombo è simboleggiata l’umanità di Cristo, che fu di stagno nella natività. Dice Zaccaria: "Si rallegreranno e vedranno la pietra di stagno in mano a Zorobabele" ( Zc 4,10 ). Nella pietra di stagno sono indicate la natura divina e la natura umana, che il nostro Zorobabele, Gesù Cristo, ebbe nella mano della sua potenza: coloro che ora si rallegrano con lui, lo contempleranno un giorno Dio e uomo, faccia a faccia, nella Gerusalemme celeste. E la sua umanità fu di piombo nella passione; dice Geremia: "Il mantice è venuto meno, il piombo si è consumato nel fuoco" ( Ger 6,29 ). Vedi su questo il sermone della quarta domenica dopo la Pasqua, prima parte, dove viene commentato il vangelo: "Ritorno a colui che mi ha mandato". Nel gesso è simboleggiata la vita innocente dei santi; nella pece l’umiltà e la povertà; nel midollo di cervo la compassione nei riguardi del prossimo; nell’olio di rose la castità del corpo. Chi proteggerà il ferro della sua mente con tutte queste virtù, senza alcun dubbio sarà sempre libero da ogni ruggine di peccato. Giustamente quindi è detto: "Osserva il lavoro del ferro". "La vampa di fuoco gli brucia le carni". La vampa di fuoco è il santo fervore dello zelo, che deve bruciare le carni, cioè le tendenze carnali del predicatore o del prelato, perché possa dire con l’Apostolo: "Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non arda di zelo?" ( 2 Cor 11,29 ). "E contro il fuoco del forno", cioè contro le tentazioni della carne, "combatte": combatte cioè contro i vizi. "Il rumore del martello", ecc. Il martello si chiama in lat. malleus perché batte e lavora ciò che è stato reso molle dal calore del fuoco. Il martello simboleggia la parola di Dio, della quale Geremia dice: "Le mie parole non sono forse come il fuoco e come il martello che spezza le pietre?" ( Ger 23,29 ). Il predicatore infatti, quando percuote con il martello la massa di ferro, incute la paura dei tormenti, e con questi colpi deve far rintronare gli orecchi. Guai a colui che percuote gli altri, e percuotendoli li scuote, mentre egli stesso resta insensibile; dovrebbe dire con Isaia: Proprio io che faccio partorire gli altri, li faccio cioè prorompere in gemiti di compunzione, proprio io sarò sterile? ( cf. Is 66,9 ). Non proromperò anch’io in gemiti? Oppure: "la voce" del martello potrebbe esse anche questa: Andate, maledetti! … ( cf. Mt 25,41 ), che dovrebbe risuonare in continuazione agli orecchi del cuore. Per questo il lat. per dire "risuona" usa il verbo innovat, perché questa minaccia dovrebbe ritornare sempre e di nuovo davanti agli occhi. "E il suo occhio è fisso sul modello del vaso". Nell’occhio sono simboleggiati l’attenzione e il proposito del predicatore, che devono essere rivolti al modello del vaso, cioè alle anime elette, per riprodurne altre di uguali: per riprodurre la somiglianza si deve sempre partire dal modello. "Applica tutto il cuore all’esecuzione dell’opera", per poter dire con il Signore: "Padre, ho compiuto l’opera che mi hai dato da fare" ( Gv 17,4 ). "E sta’ attento per rifinirla alla perfezione". Il predicatore, con la sua perfezione, deve portare alla perfezione le anime, per curare l’anima sorda e muta con le dita delle sua opere sante e la saliva della predicazione divina. Per questo appunto è detto nel vangelo di oggi: "Uscito Gesù dal territorio di Tiro", ecc. 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono messe in evidenza due fatti: L’uscita di Gesù Cristo dalla regione di Tiro e la guarigione del sordomuto. Il primo, quando dice: "Uscito Gesù dalla regione di Tiro". Il secondo, quando soggiunge: "E gli condussero davanti un sordomuto". Troveremo nel libro dell’Ecclesiastico dei passi che concordano con queste due parti del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Guarda, Signore, alla tua alleanza" ( Sal 74,20 ). Si legge quindi il brano della seconda lettera del beato Paolo ai Corinzi: "Questa è la fiducia che abbiamo" ( 2 Cor 3,4 ); divideremo il brano in due parti facendone rilevare la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: "Questa è la fiducia che abbiamo". Seconda parte: "Colui che ci ha resi ministri adatti". I. L’uscita di Gesù Cristo dal territorio di tiro 3. "Uscito dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli" ( Mc 7,31 ). Senso allegorico. Tiro s’interpreta "strettezza", e sta ad indicare la Giudea, alla quale il Signore si rivolge con le parole di Isaia: "Troppo corto è il letto e troppo stretto è il tuo mantello, e non può coprire entrambi" ( Is 28,20 ). "Alzatevi, dunque, e andiamo via di qui" ( Gv 14,31 ). "E uscendo passò per Sidone", che s’interpreta "caccia", fatta per mezzo della predicazione degli Apostoli, dei quali dice in Geremia: "Manderò i miei cacciatori che daranno loro la caccia" ( Ger 16,16 ). "E arrivò al mare di Galilea", nome che s’interpreta "ruota", andò cioè tra i pagani che si trovavano nell’amarezza dei peccati ed erano schiavi della ruota, cioè dell’ingranaggio delle cose temporali. "In pieno territorio della Decàpoli". Decàpoli è la regione delle "dieci città" situate oltre il Giordano, e sta ad indicare i precetti del decàlogo, che il Signore ha dato da osservare anche ai pagani. Alla lettera: Marco non dice che Gesù Cristo sia entrato nel territorio della Decàpoli, né che abbia attraversato in barca il mare, ma dice che Gesù Cristo è arrivato solo fino al mare, in un posto che guardava il territorio della Decàpoli, situato lontano, al di là del mare. Vediamo che cosa significhino, in senso morale, Tiro e la sua regione, Sidone, il mare di Galilea e la Decàpoli. Si deve uscire dalla regione di Tiro e si deve andare al mare di Galilea attraverso Sidone. Questa è la via della vita, il sentiero della giustizia di cui parla Isaia: "Il sentiero del giusto è divenuto diritto; il viottolo del giusto è pianeggiante per il suo cammino" ( Is 26,7 ). Tiro s’interpreta "strettezza" e Sidone "caccia alla tristezza". Tiro è figura del mondo, sulla cui strettezza concordano le parole dell’Ecclesiastico: "Figlio, hai commesso qualche peccato? Non aggiungerne altri, e prega per quelli commessi in passato affinché ti vengano perdonati. Fuggi il peccato come alla vista del serpente, perché se ti avvicini ti morderà. I suoi denti sono come i denti del leone, capaci di distruggere le anime degli uomini. Ogni iniquità è come una spada a doppio taglio, e della sua ferita non c’è guarigione ( Sir 21,14 ). Fa’ attenzione a queste tre entità: il serpente, i denti del leone e la spada a doppio taglio. Nel serpente è raffigurata la lussuria, nei denti del leone l’avarizia e nella spada a doppio taglio la superbia. Il serpente è chiamato in lat. còluber, perché colit umbras, ama le ombre, o anche perché è lubricosus, viscido e scivoloso; esso fugge dal cervo, uccide il leone, ed è simbolo della lussuria, la quale ama le ombre, dimora cioè in coloro che sono oscuri, vale a dire tiepidi e oziosi. Facilmente scivola dentro l’anima se questa non se ne schiaccia la testa: quindi "resisti subito all’inizio!". Fugge dal cervo, cioè dall’umile penitente, perché egli stesso ne fugge, secondo il comando: "Fuggite la fornicazione!" ( 1 Cor 6,18 ); invece uccide il leone, cioè il superbo. Prima della caduta nella lussuria il cuore dell’uomo si gonfia di superbia, la quale è il principio di ogni peccato ( cf. Pr 18,12 ). I denti devono il loro nome al fatto che spezzano, in lat. dividentes, i cibi; i denti davanti si chiamano incisivi ( in lat. praecisores, che troncano ), i seguenti sono i canini e gli ultimi i molari. Considera che la ladreria praticata dagli avari è triplice: alcuni troncano, perché non tolgono tutto ma solo una parte; altri sono come i denti canini, e sono i giuristi e i canonisti i quali nelle cause, nei tribunali, per denaro latrano come i cani; altri infine sono come i molari, e sono i potenti e gli usurai i quali macinano, cioè stritolano i poveri. Ma il Signore spezzerà i denti dei peccatori e i molari dei leoni ( cf. Sal 58,7 ). Parimenti la spada a doppio taglio ( in lat. romphaea, ma il popolo la chiama spatha ), raffigura la superbia che colpisce l’anima con una duplice morte. Fuggi dunque il serpente della lussuria, i denti dell’avarizia e la spada della superbia. Questa è "la regione" di Tiro, nella quale c’è la strettezza, cioè angoscia e afflizione di spirito, di cui dice Salomone: "Gli occhi degli stolti vagano in tutte le regioni della terra" ( Pr 17,24 ). Le regioni, i territori sono detti in lat. fines, perché vengono fissati con la corda ( lat. funis, funiculus ) dell’agrimensore. Coloro che sono legati con le corde dei propri peccati, saranno separati, cioè esclusi, dall’eredità dei santi. 4. Perciò Isaia di questa Tiro dice: "I suoi piedi la condurranno a peregrinare lontano. Chi ha deciso questo contro Tiro, l’incoronata, i cui mercanti erano prìncipi, i cui trafficanti erano i più nobili della terra? Il Signore degli eserciti lo ha deciso per confondere la superbia di tutto il suo fasto e per umiliare tutti i più nobili della terra" ( Is 23,7-9 ). Tiro è figura del mondo, incoronato di superbia, di potere e di grandezza: i suoi mercanti sono i prìncipi, cioè i prelati della chiesa, dei quali sta scritto nell’Apocalisse: "I tuoi mercanti erano i prìncipi della terra" ( Ap 18,23 ). Essi sono i mercanti ismaeliti i quali, come si racconta nella Genesi, vendettero schiavo Giuseppe, in Egitto ( cf. Gen 37,28.36 ). Il vero Giuseppe, Gesù Cristo, oggi viene venduto da quei mercanti che sono gli arcivescovi, i vescovi e gli altri prelati della chiesa. Corrono e discorrono; vendono e rivendono la verità per le menzogne, distruggono la giustizia con la simonia. E osserva che la parola "affare" suona in lat. negotium, e indica talvolta l’azione giudiziaria, che è un pretesto per litigare; talaltra l’esecuzione di qualche cosa, il cui contrario è l’ozio: in questo caso negotium è come dire negans otium, che rinnega l’ozio; quindi il negoziatore, l’affarista, è colui che esercita il commercio. I trafficanti poi sono gli abati, i priori ipocriti e i falsi religiosi i quali, sotto il pretesto della religione, vendono nella piazza della mondana vanità le false merci di una santità che non hanno, per il denaro della lode umana. Ecco dunque che Tiro, con i suoi affaristi e trafficanti, sarà condotta in schiavitù. Ma da chi? Senza dubbio "dai suoi piedi", con i quali adesso corre qua e là. Essi stessi saranno la causa per cui sarà condotta a peregrinare nell’esilio della geenna. E chi mai ha potuto immaginare che i prìncipi e i nobili della terra, i prelati e i religiosi, che fanno le viste di parlare con Dio faccia a faccia, che detengono le chiavi del regno dei cieli, potessero essere condotti all’esilio della morte eterna? Per questo i dannati, sudditi e parrocchiani, si rivolgono al prelato dannato nell’inferno, con le parole di Isaia: "Anche tu sei stato abbattuto come noi, sei diventato uguale a noi. Nell’inferno è stata sprofondata la tua superbia, nell’inferno è caduto il tuo cadavere; sotto di te c’è uno strato di marciume e tua coltre sono i vermi" ( Is 14,10-11 ). Proprio tale letto avranno i vescovi e i prelati, gli abati e i falsi religiosi, i quali ora dormono, come dice il profeta Amos, in letti d’avorio e se ne stanno sdraiati sui loro divani ( cf. Am 6,4 ), come i cavalli nei prati con le loro giumente. Il Signore degli eserciti ha stabilito tutto questo per abbattere la superbia e tutto il fasto dei prelati, sprofondarli giù nell’inferno, ridurli all’infamia dell’eterna vergogna; ha stabilito di confondere tutti i grandi della terra, che si rivestono delle nobili penne dell’avvoltoio e della cicogna e incedono tronfi ed impettiti, a pancia in fuori. Sui potenti incombe una condanna più severa, dice la Sapienza ( cf. Sap 6,9 ). Il giusto, membro del corpo di Cristo, per non lasciarsi portare in giro con la sventurata Tiro, se ne esca, insieme con Gesù, dal territorio di quella città; dice infatti il vangelo: Gesù uscì dalla regione di Tiro. "Passando per Sidone, andò verso il mare di Galilea". Su Sidone, sul suo significato e interpretazione, vedi il secondo sermone della II domenica di quaresima, con il commento sul vangelo di Matteo: "Gesù, partito di là, si diresse verso le parti di Tiro e di Sidone" ( Mt 15,21 ). Galilea s’interpreta "trasmigrazione". Il mare di Galilea simboleggia l’amarezza della penitenza, per mezzo della quale si trasmigra, si passa dal vizio alla virtù, e poi si progredisce di virtù in virtù. Sull’amarezza della penitenza vedi il sermone della IV domenica di Quaresima, sul vangelo della moltiplicazione dei pani. "In pieno territorio della Decapoli". Decàpoli è una parola greca che significa "dieci città"; quindi Gesù andò nella regione delle dieci città. Osserva che queste dieci città sono quelle dieci virtù che l’Ecclesiastico enumera nell’elogio di Simeone, figlio di Onia. 5. "Simeone, figlio di Onia, era sommo sacerdote. Come la stella del mattino fra le nebbie, come la luna nei giorni in cui è piena, come il sole sfolgorante, così egli rifulse nel tempio dell’Altissimo. Era come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore della rosa nella stagione di primavera, come un giglio lungo un corso d’acqua, come la pianta dell’incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva; come un vaso d’oro massiccio ornato di ogni sorta di pietre preziose, come un ulivo verdeggiante pieno di frutti e come un cipresso svettante in altezza" ( Sir 50,1.6-8.10-11 ). Abbiamo tralasciato due espressioni: "come fuoco ardente" e "come incenso che brucia nel fuoco" ( Sir 50,9 ), perché ci sembrano incluse nelle altre due: "come sole sfolgorante" e "come incenso che spande il suo profumo". Osserva che da questo passo si può ricavare un sermone per qualsiasi festa della Vergine Maria, e anche per la festa di un apostolo, di un martire, o di un confessore. Simeone s’interpreta "che ascolta la tristezza", ed è figura del giusto il quale, sia che mangi, sia che beva o faccia qualunque altra cosa, ascolta, nella tristezza del suo cuore, quella terribile tromba: Alzatevi, o morti, e venite al giudizio del Signore! Qui il giusto è indicato come figlio di Onia, nome che s’interpreta "afflitto nel Signore". Infatti è figlio dell’afflizione, nella quale si sforza di piacere solo al Signore. A ragione è detto sacerdote, che offre cioè le cose sacre ( lat. sacra dans ), perché offre se stesso al Signore in sacrificio di soave profumo. E considera attentamente che la vita dell’uomo santo viene paragonata alla stella del mattino, alla luna, al sole, all’arcobaleno, al fiore delle rose, al giglio, all’incenso profumato, al vaso d’oro, all’ulivo verdeggiante e al cipresso. Ecco la Decàpoli, ecco la regione delle dieci città, delle quali è detto nel vangelo: "Abbi potere sopra dieci città" ( cf. Lc 19,17 ). La vita del giusto è come la stella del mattino tra le nebbie, cioè in mezzo alle vanità del mondo. Osserva che nella nebbia si ha paura del brigante; dissolta la nebbia splende più luminoso il sole; se tenti di toccarla non senti niente; quando si alza è segno di bufera, quando si dissolve è segno di bel tempo. Nella nebbia le cose sembrano più grandi; si diffonde su tutta la terra e non si sa più per dove andare. Così tra le vanità del mondo, nel lusso del mondo si nasconde il brigante, cioè il diavolo; e il giusto nutre un grande timore quando gli arride il favore delle cose temporali. Fuggite, o giusti, perché tra l’erba si nasconde il serpente ( Virgilio ). Nella nebbia si nasconde il brigante. Dissolta la nebbia, disprezzato cioè il lusso del mondo, più luminoso splende il sole della grazia. Dice il Profeta: Per voi che temete Dio, sorgerà il sole di giustizia ( cf. Mal 3,20 ). Se si tenta di toccare la nebbia, non si sente niente. Dice il salmo: "Dormirono il loro sonno e poi nulla si trovarono in mano gli uomini delle ricchezze" ( Sal 76,6 ). Sono chiamati "uomini delle ricchezze" e non "ricchezze degli uomini", perché sono schiavi del denaro. Quando la nebbia si alza è segno di bufera. Quando la gloria mondana ti innalza, è segno della tua dannazione. Dice Agostino: Non c’è segno più evidente di eterna dannazione, come quando le cose temporali sembrano ubbidire ai nostri cenni, cioè alla nostra volontà. Quando la nebbia si dissolve è segno di bel tempo, segno cioè di vita perfetta: "Se vuoi esser perfetto", va’ e vendi …, ecc. ( Mt 19,21 ). Nella nebbia le cose sembrano più grandi. Quando uno è circonfuso di gloria mondana, sembra più grande di quanto non sia in realtà. È come una vescica, gonfia di vento, che sembra più grande di quanto non sia, ma una puntura di spillo, cioè la morte, farà vedere quanto è meschino. La nebbia copre tutta la terra. La nebbia è chiamata così da obnubilare, cioè offuscare o coprire. Le valli piene di umidità fanno salire le nebbie. Ahimè, tutta la terra è ricoperta di nebbia, e perciò gli uomini non vedono. Dice il salmo: "Sono coperti di iniquità", nei riguardi di Dio, "e di empietà", cioè di cattiveria nei riguardi del prossimo ( Sal 73,6 ). E Giobbe: "La sua faccia la coprì il grasso", cioè l’abbondanza delle cose temporali, "e dai suoi fianchi pende il lardo", cioè l’adipe ( Gb 15,27 ). Tutt’ad un tratto la nebbia ricopre la terra, e non si sa più dove si sta andando. Dice Giobbe: "Anche se la sua superbia arrivasse fino al cielo e il suo capo toccasse le nubi, come lo sterco sarebbe spazzato via per sempre, e chi lo aveva visto direbbe: Dov’è? Svanirà come un sogno e non si troverà più, si dileguerà come una visione notturna. E l’occhio avvezzo a vederlo, non lo vedrà mai più" ( Gb 20,6-9 ). La gloria del peccatore, quindi, è come lo sterco ( cf. 1 Mac 2,62 ), invece la gloria del giusto è come la stella del mattino in mezzo alle nebbie, come Abramo a Ur dei Caldei, come Lot tra gli abitanti di Sodoma, come Giobbe, fratello dei draghi e degli struzzi ( cf. Gb 30,29 ), come Daniele nella fossa dei leoni. 6. "Come la luna nei giorni in cui è piena". Come la luna piena risplende tutta la notte, così il giusto rivolge la sua attenzione a tutte le specie di peccatori e ha compassione di tutti. "Come sole che risplende". Nei raggi del sole si vedono gli atomi: così alla luce della vita del giusto risaltano i nostri difetti. L’atomo è il finissimo pulviscolo, che diventa visibile se è attraversato dai raggi del sole ( Isidoro ). E perché noi ciechi non vediamo i nostri difetti? Per il solo motivo che non li guardiamo attraverso la luminosa vita dei santi. Giobbe li vedeva questi atomi, e diceva: Osserverò gli uomini e dirò: Ho peccato! ( cf. Gb 33,27 ). Il sole attrae a sé anche le gocce d’acqua, e anche il giusto converte a Dio i piccoli, gli umili. Il sole è splendente, caldo e rotondo: il giusto è splendente verso il prossimo, ardente verso Dio e rotondo, cioè perfetto, in se stesso. E questo è anche ciò che dice l’Apostolo: "Viviamo in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà" ( Tt 2,12 ). "Come arcobaleno splendente fra nubi di gloria". L’arcobaleno è originato dalla riflessione dei raggi del sole contro una nube carica d’acqua. La nube carica d’acqua è figura del giusto, sempre pieno di compassione e di compianto verso il prossimo. Egli, ricevendo su di sé i raggi del vero Sole, riversa da se stesso verso gli altri, come da una nuvola, la pioggia della dottrina. Nell’arcobaleno ci sono due colori: il rosso fuoco e l’azzurro ( celeste ). Il rosso fuoco è il simbolo dell’amore verso Dio, l’azzurro della compassione verso il prossimo. Quest’arcobaleno "risplende tra nubi di gloria". Il giusto di fronte agli uomini appare nebbioso, cioè disprezzato; dice infatti l’Apocalisse: Il sole divenne nero come un sacco di crine ( cf. Ap 6,12 ); ma al cospetto di Dio rifulge di gloria. "Come il fiore delle rose nella stagione di primavera". Nella rosa si notano due cose: la spina e il fiore, la spina che punge e il fiore che delizia. Così nella vita del giusto c’è la spina della compunzione e il profumo della gioia interiore; e questo nella stagione di primavera, perché nel tempo della prosperità si rallegra anche delle avversità. "E come il giglio lungo un corso d’acqua". Nel giglio è simboleggiata la purezza dell’anima e del corpo. Dice il Cantico: "Il mio diletto è sceso nel suo giardino a cogliere i gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli si pasce tra i gigli" ( Ct 6,1-2 ). Il giardino si chiama in lat. hortus, da orior, nascere, perché in esso nasce sempre qualcosa. Infatti mentre la terra comune produce solo una volta all’anno, il giardino non resta mai senza qualche frutto. Il giardino è figura dell’anima del giusto che dà frutti in continuità e mai ne resta priva. Ad essa scende il Diletto, quando il Figlio di Dio infonde in lei la grazia e nella sua purezza interiore ed esteriore trova il suo riposo. Io, dice l’anima del giusto, appartengo al mio diletto, ed egli appartiene a me: "Il Signore è mia parte di eredità" ( Sal 16,5 ). Egli è la mia eredità e io la sua. E questi gigli sono posti "lungo il corso d’acqua", cioè in questo mondo che va in rovina. Il giusto, anche in mezzo all’abbondanza terrena, conserva illibata la sua vita. "E come la pianta dell’incenso che spande il suo profumo nella stagione estiva". L’albero dell’incenso viene inciso in estate per preparare la raccolta autunnale. Così il giusto soffre ed è tribolato nella vita presente, ma in quella futura raccoglierà il frutto della vita eterna. Quest’argomento è trattato più a fondo nella terza parte del sermone della X domenica dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: "La mia casa si chiamerà casa di preghiera". "Come un vaso di oro massiccio". La concavità del vaso, atta a contenere ciò che vi si versa, è figura dell’umiltà di cuore del giusto, atta a ricevere le grazie divine. La superbia infatti impedisce l’infusione della grazia. E ben a ragione il giusto viene detto "vaso d’oro massiccio": vaso perché umile, d’oro perché limpido e prezioso, massiccio perché "la sua speranza è piena d’immortalità" ( Sap 3,4 ), ornato di ogni sorta di pietre preziose, cioè di ogni genere di virtù. "Come un ulivo verdeggiante". Olivo perché misericordioso, verdeggiante perché il giusto si crede sempre agli inizi della sua conversione. Verdeggiante, cioè che germoglia, si dice in lat. pullulans, come dire pollens cum lætitia, virtuoso con gioia: perché "Dio ama chi dona con gioia" ( 2 Cor 9,7 ). "Come un cipresso svettante in altezza". Il cipresso deve il suo nome al fatto che la sua cima è tondeggiante o conica. Il capo del giusto, cioè la sua mente, si innalza verso la rotondità, cioè alla perfezione dell’amore divino e si spinge fino alle altezze della contemplazione. Beato colui che abiterà in queste dieci città. Queste sono le "città rifugio": chi si rifugia in esse è salvo ( cf. Dt 19,2-3 ). Se dunque, insieme con Gesù, uscirai dalla regione di Tiro e, attraverso Sidone, giungerai al mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli, potrai dire anche tu, con il beato Paolo, nell’epistola di oggi: "Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Gesù Cristo davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio" ( 2 Cor 3,4-5 ). Può nutrire fiducia in Dio per mezzo di Gesù Cristo solo chi esce insieme con lui dal territorio di Tiro. Infatti il disprezzo delle cose terrene determina la fiducia in quelle eterne. E siccome la grazia preveniente e cooperante viene solo da lui, aggiunge appunto: "Non però che siamo capaci di pensare qualcosa di buono", da parte nostra, che ci difenda, come se provenisse da noi; "ma la nostra capacità viene solo da Dio". 7. Su questo abbiamo la concordanza nell’Ecclesiastico: "Egli trabocca di sapienza come il Fison e come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi. Fa traboccare il sentimento ( l’intelligenza ) come l’Eufrate e cresce come il Giordano nel tempo della mietitura; egli sparge la scienza come la luce e allaga come il Ghicon nel tempo della vendemmia" ( Sir 24,25-27 ). Osserva che qui vengono nominati cinque fiumi, nei quali è simboleggiata tutta la perfezione, sia della via che della patria. La perfezione della via comprende tre gradi: gli incipienti, i proficienti e i perfetti. Fison significa "cambiamento del volto", Tigri "freccia", Eufrate "fertile". Gesù Cristo è per gli incipienti come il Fison: coloro che poco prima parlavano la lingua egiziana, ora parlano la lingua di Canaan, e la loro faccia che era come bruciata dai peccati, adesso è risplendente. Come il fiume Fison si gonfia e inonda le terre, allo stesso modo Cristo fa abbondare la sapienza negli incipienti perché comprendano tutto ciò che riguarda Dio, essi che prima conoscevano solo le cose della carne ( cf. Rm 8,5 ). Similmente, per i proficienti Gesù Cristo è come il Tigri nei giorni dei frutti nuovi, cioè delle sementi: in quei giorni il Tigri inonda le terre. Considera che nella freccia ci sono tre componenti: il legno, il ferro, e la penna all’estremità posteriore della freccia, per imprimerle la giusta direzione. Cristo con il legno della sua passione, con il ferro del santo timore e la penna del suo amore colpisce e ferisce il cuore dei penitenti, i quali ogni giorno progrediscono e come la buona semente, ogni giorno crescono di virtù in virtù. Parimenti, Cristo è per perfetti come l’Eufrate: i loro sentimenti e la loro intelligenza si riempiono di fecondità. Di essi l’Apostolo, nella Lettera agli Ebrei, dice: "Il nutrimento solido è per i perfetti, per coloro che per la pratica hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo" ( Eb 5,14 ). E anche la perfezione della patria consiste in tre cose: nella glorificazione dell’anima, nella glorificazione del corpo e nella visione del Dio Uno e Trino. "Cresce come il Giordano nel tempo della mietitura". Il Giordano ingrossa le sue acque ricevendole da due fiumi, e questo sta ad indicare la duplice stola di gloria che ci rivestirà. Il tempo della mietitura simboleggia la felicità eterna. È detto giustamente che il Giordano moltiplicherà le sue acque, perché nel tempo della mietitura si riempie di acque più abbondanti e moltiplica le sue acque proprio quando gli altri fiumi ne scarseggiano. Così sarà anche nell’eterna beatitudine: non essendoci più il piacere del male, sarà moltiplicata nei beati stola su stola, cioè gloria e felicità sempre maggiori. E allora Dio sarà per noi come il Ghicon: egli illuminerà con la visione di sé la chiesa trionfante che sarà assisa di fronte a lui, la feconderà e la sazierà, e questo nel giorno della vendemmia. Giustamente quindi l’Apostolo dice: "La nostra capacità viene da Dio". Su questo argomento vedi il sermone della domenica II dopo Pentecoste, dove viene commentato il vangelo: "Un uomo imbandì una gran cena". Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci uscire dal territorio di Tiro e di farci arrivare, attraverso Sidone, al mare della penitenza, in pieno territorio della Decàpoli e di farci crescere nella perfezione durante la vita, in modo che meritiamo di salire alla perfezione della gloria. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La guarigione del sordomuto 8. "Gli condussero un sordomuto pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: Effatà!, cioè: àpriti! E subito gli si aprirono gli orecchi e si sciolse il nodo della sua lingua" ( Mc 7,32-35 ). Vediamo quale sia il significato morale del sordomuto, della mano di Gesù, del fatto di essere portato lontano dalla folla, delle dita, della saliva e del sospiro di Gesù. Il sordo è così chiamato dalle scorie ( lat. sordes ) che si sono formate nei fluidi degli orecchi. Il muto è chiamato così perché mùgola: la sua voce non si articola in parole ma è un mugolio di suoni indistinti; emette il soffio della voce per le narici, come se muggisse. Nel cuore dell’uomo, secondo l’affermazione di Salomone, c’è la vita, c’è la fonte del calore che vivifica e alimenta le varie membra ( cf. Pr 4,23 ). Il cuore è come il re, che dirige e governa quello "stato" che è il corpo: e dice l’Ecclesiastico: "Il re che siede in trono dissipa con il suo sguardo ogni male" ( Pr 20,8 ). Il trono si chiama in lat. solium, che suona come solido. Quando il cuore dell’uomo si insedia, siede in solio, vale a dire è fermo e costante, allora dissipa ogni male, elimina cioè ogni malizia del corpo, con lo sguardo, vale a dire con il suo discernimento. Questo re dispone di cinque ministri particolari, cioè dei cinque sensi del corpo, due dei quali gli sono particolarmente vicini: gli orecchi e la lingua. Con gli orecchi percepisce le cose esteriori, con la lingua esprime quelle interiori. Infatti Rut disse a Booz: "Tu hai parlato al cuore della tua serva" ( Rt 2,13 ); e Isaia: "Parlate al cuore di Gerusalemme" ( Is 40,2 ); e nel salmo: "La bocca del giusto mediterà la sapienza" ( Sal 37,30 ), cioè la proclamerà dopo aver meditato. Ma se le orecchie vengono otturate dai sedimenti e la lingua si inceppa, che cosa potrà fare il re, che cosa potrà fare il cuore? Il suo regno viene distrutto perché sono distrutti i ministri, per mezzo dei quali venivano trattati gli affari, i segreti di stato, i diritti regali. Che cosa dunque rimane da fare? Rimane un solo e unico partito: condurre il sordomuto da Gesù, e pregarlo che gli imponga la mano. Il re è lo spirito dell’uomo, gli orecchi simboleggiano l’obbedienza, la lingua la confessione. Dell’orecchio dell’obbedienza Giobbe dice: "Io ti ascoltai con le mie orecchie; ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne faccio penitenza in polvere e cenere" ( Gb 42,5-6 ). Osserva che in questo passo sono posti in evidenza cinque atti: l’obbedienza, la contemplazione, la confessione, la riparazione e il ricordo dell’abiezione e della fragilità. 9. L’obbedienza, quando dice: "Io ti ascoltai con le mie orecchie". L’udito si chiama così perché raccoglie il suono che vibra nell’aria ( in lat. auris, orecchio; haurit, raccoglie ). Auris può significare anche àvide rapit, rapisce avidamente. Audio, ascolto, vuol dire percepisco con gli orecchi. L’obbedienza è in realtà obaudientia, un prestare attenzione. Quando la voce del tuo superiore, che è aria, e nulla infatti devi avere della terra, si ripercuote nei tuoi orecchi, devi ascoltarla non con l’orecchio, ma con l’udito dell’orecchio, vale a dire con il sentimento interiore del cuore, dicendo con Samuele: "Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta" ( 1 Sam 3,10 ). La contemplazione, quando dice: "Ma ora i miei occhi ti vedono". Non vedrai se non sarai obbediente. Se sei sordo, sarai anche cieco. Obbedisci dunque con il sentimento del cuore, per vedere con l’occhio della contemplazione. Dice l’Ecclesiastico: Dio pose il loro occhio nel loro cuore ( cf. Sir 17,7 ). Dio pone l’occhio sul cuore, quando in colui che ubbidisce di cuore infonde la luce della contemplazione. Dice Zaccaria: "Il Signore è l’occhio dell’uomo e di tutte le tribù d’Israele" ( Zc 9,1 ). Finché il primo uomo nel paradiso terrestre fu obbediente, il Signore fu il suo occhio. Infatti dice la Genesi: "Il Signore, dopo aver plasmato tutti gli esseri animati della terra e gli uccelli del cielo, li condusse ad Adamo, per vedere", cioè per farglieli vedere, "per vedere come li avrebbe chiamati" ( Gen 2,19 ). Ma quando Adamo divenne disobbediente, non più Dio, ma il diavolo fu il suo occhio cieco. E infatti la Genesi soggiunge: "La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile all’aspetto: prese il suo frutto e ne mangiò" ( Gen 3,6 ). Tutte le tribù d’Israele raffigurano i penitenti il quali, finché obbediscono di cuore ai loro superiori, allora sono veramente "Israele", cioè persone che vedono Dio. La confessione, quando dice: "Perciò mi ricredo", vale a dire mi accuso nella confessione. Questi non era muto o sordo, perché sentiva chiaramente, e giustamente si rimproverava. E diceva in un altro passo: "Strazio le mie carni con i miei denti" ( Gb 13,14 ). Queste sono le parole del vero penitente: mi lacero le carni, cioè la mia carnalità, con i miei denti, vale a dire con i miei rimproveri. Leggiamo in proposito nel Cantico dei Cantici: "I tuoi denti sono un gregge di pecore tosate che tornano dal lavatoio" ( Ct 4,2 ). Il gregge di pecore tosate è figura di tutti i penitenti che si sono tosati delle cose temporali, delle tentazioni, e che progrediscono di virtù in virtù, che escono dal lavaggio delle lacrime con le quali diventano più bianchi della neve. Fratello, siano i tuoi denti come un gregge di pecore tosate: accusati cioè, rimpròverati e fa’ penitenza, come fanno i veri penitenti. La riparazione, quando dice: "E faccio penitenza". Penitenza suona quasi come punientia, punizione, perché l’uomo stesso si punisce per il male commesso. La penitenza deriva il suo nome da pena, con la quale l’anima si castiga nella sofferenza e la carne viene mortificata. Il ricordo della propria abiezione e fragilità, quando dice: "In polvere e cenere". Il testo latino dice: in favilla et cinere; "favilla" deriva il suo nome dalla parola greca fos, che significa luce, fuoco, perché è prodotta dal fuoco. Nella favilla è simboleggiato il ricordo della nostra abiezione. Ahimè, l’eccelso cedro del paradiso terrestre è stato trasformato in favilla dal fuoco del diavolo. Dice Gioele: "A te, Signore, ho gridato perché il fuoco ha divorato tutto lo splendore della steppa e la vampa ha bruciato tutti gli alberi della regione" ( Gl 1,19 ). Vedi anche il secondo sermone della domenica II di quaresima, che commenta il vangelo: "Gesù, partito di lì, si avviò verso le parti di Tiro e Sidone". Nella cenere è simboleggiata la nostra fragilità e mortalità: Sei cenere, è stato detto, e in cenere ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Chi dunque è privo del senso dell’obbedienza e della lingua della confessione, è veramente sordo e muto. Abbiamo detto che "sordo" viene da sordes, sozzura. Dice Geremia: "La sozzura è nei suoi piedi" ( Lam 1,9 ). I piedi raffigurano i sentimenti dell’anima, la quale diviene sorda quando i suoi sentimenti sono sopraffatti dalla sozzura dei vizi. Dice infatti Isaia: "Tutte le tavole sono talmente piene di vomito e di sozzure che non c’è più un posto pulito ( Is 28,8 ). Dove c’è il vomito, vale a dire il ritorno al peccato, c’è l’abiezione della sporcizia che ostruisce gli orecchi del cuore in modo tale che non c’è più posto, cioè non c’è più disposizione all’obbedienza. Di questo sordo si lamenta il Signore con le parole di Isaia: "Chi è sordo, se non colui al quale io mando i miei araldi? Tu che hai le orecchie aperte, non ascolterai?" ( Is 42,19-20 ). La Storia Naturale ci dice che il cervo, se tiene le orecchie dritte, ha un udito finissimo e subito individua il cacciatore che tenta di colpirlo; ma se tiene le orecchie penzoloni non sente nulla e neppure si accorge che qualcuno cerca di ucciderlo. Dice perciò Isaia: "Drizzami ogni mattina, drizzami ogni mattina gli orecchi, affinché io ti ascolti come un maestro" ( Is 50,4 ). O sordo, drizza dunque gli orecchi come il cervo, e ascolta il tuo maestro: allora scoprirai gli agguati del diavolo cacciatore. Ma se hai le orecchie penzoloni, rifiuterai cioè di obbedire, credimi pure che sei destinato alla morte. 10. Parimenti ci sono dei muti, che nella confessione si limitano a mugolare, perché confessano i loro peccati balbettando: essi si vergognano di confessarli, i peccati, e non di commetterli. Dice Agostino: La vergogna è la componente maggiore della penitenza. Qui si tratta della vergogna giusta, quella che conduce alla gloria, quando uno si vergogna del suo peccato e vergognandosi lo rivela in confessione. Dice infatti Isaia: "Vergògnati, Sidone, dice il mare" ( Is 23,4 ). Il mare, vale a dire l’amarezza interiore, fa sì che l’uomo, rivelando nella confessione il peccato, senta vergogna di averlo commesso. Dice Ezechiele: "Nel mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente" ( Ez 1,4 ). L’elettro è un metallo composto di oro e di argento. Nell’elettro è simboleggiata la confessione, che proviene dal centro del fuoco, cioè dalla contrizione. Il muto non ha questo elettro. Dice dunque il vangelo: "Gli conducono davanti un sordomuto e lo pregano di imporgli la mano". La mano si chiama così perché è il come il dono ( lat. manus, munus ), il servizio e la difesa di tutto l’uomo. Infatti la mano porta il cibo alla bocca e assolve tutte le altre funzioni. La mano è figura del Verbo Incarnato, che il Padre ha donato a tutto il corpo, cioè alla chiesa, come il massimo dei suoi doni. Dono, in lat. munus, viene da moneo, ammonire. E il dono così grande fattoci da Dio ci ammonisce e ci esorta ad amare sopra tutte le cose il Padre che l’ha dato a noi. E di questo dono dice anche Isaia: "Come i figli di Israele portano nella casa del Signore il loro dono in un vaso purissimo" ( Is 66,20 ). Il figli d’Israele sono i fedeli, i quali devono portare il loro dono, cioè la fede nel Verbo Incarnato, nel vaso purissimo, cioè nel loro cuore purificato, alla casa del Signore, vale a dire alla santa chiesa. Similmente, questa mano difende la chiesa, difende l’anima. Dice sempre Isaia: "Sion è la nostra città fortificata; il Salvatore sarà posto in essa come muro e baluardo" ( Is 26,1 ). Muro deriva da munizione, difesa, perché difende tutto ciò che sta dentro la città. Sion, cioè la santa chiesa, è la nostra città fortificata, fuori della quale non c’è salvezza, e in cui il nostro Salvatore stesso è posto come muro e baluardo. Il muro simboleggia la sua divinità, il baluardo la sua umanità. Se la chiesa dunque è difesa dalla mano del Verbo incarnato, si mantiene sicura. Parimenti questa mano somministra il cibo a tutta la chiesa. Dice il salmo: "Tu apri la tua mano e riempi di benedizione ogni vivente" ( Sal 145,16 ). Quando Cristo stese le mani sulla croce e dopo averle stese le aprì ai chiodi, allora attraverso il foro dei chiodi effuse un tesoro di misericordia e riempì ogni vivente di benedizione. Vivente è detto in lat. animal, perché viene animato e mosso dallo spirito. Ogni vivente, animal, vuol dire ogni anima che viene stimolata dallo spirito di contrizione, e si muove progredendo ogni giorno di virtù in virtù. Sempre questa mano compie tutte le opere: la creazione, la redenzione, l’infusione della grazia, l’eterna beatitudine. Di essa perciò è detto: "E lo pregavano che gli imponesse la mano". 11. "Gesù lo portò in disparte, lontano dalla turba". Turba deriva da turbare, perché è confusa e discorde. Chi è degno della guarigione viene portato lontano dai pensieri agitati, dagli atti scomposti e dai discorsi sconvenienti. Racconta infatti la Genesi che due angeli, preso Lot per mano, lo guidarono e lo condussero fuori della città ( cf. Gen 19,16-17 ). I due angeli sono il timore e l’amore di Dio, i quali prendono Lot per mano quando fermano l’azione del peccatore e lo conducono lontano dalla turba dei suoi pensieri e lo portano fuori dalla città delle cattive abitudini. "Gesù mise le dita nei suoi orecchi". Le dita si chiamano in lat. digiti, perché decet, conviene siano unite. Il primo si chiama pollice perché pollet, vale e ha più forza delle altre dita; il secondo si chiama indice, perché serve a indicare, o anche in lat. salutaris, perché lo si alzava in segno di saluto o anche per chiedere la grazia per il condannato. Il terzo è il medio, che sta al centro. Il quarto l’anulare, perché in esso si porta l’anello; è detto anche medicinale, perché con esso i medici raccolgono l’unguento dopo averlo preparato. Il quinto si chiama auricolare, perché con esso ci grattiamo l’orecchio. Considera che anche nella mano del Verbo Incarnato vi erano queste cinque dita. Egli fu pollice nell’Incarnazione, indice o salutare nella natività, medio nella predicazione, medicinale o medico nel compiere i miracoli e auricolare nella passione. Il pollice, più corto ma più forte e importante di tutte le altre dita, simboleggia l’umiltà e l’umiliazione del Figlio di Dio, che si fece piccolo nel grembo della Vergine. Per questo dice l’Ecclesiastico: "Piegò la sua forza davanti ai suoi piedi" ( Sir 38,33 ). Nei piedi è indicata l’umanità, nella forza la divinità; quindi davanti ai piedi dell’umanità ha piegato, cioè ha umiliato la potenza della divinità. Nella natività l’angelo mostrò quasi con il dito la salvezza, dicendo: "Oggi è nato per voi il Salvatore, e questo sarà per voi il segno: Troverete un bambino" ( Lc 2,11.12 ). Nella predicazione fu medio, annunziando a tutti il regno dei cieli. Medio viene da modo, cioè da misura. Ed egli misurava la parola di vita ad ognuno secondo la sua capacità. Egli fu medicinale, o medico nel compiere i miracoli. Dice l’Ecclesiastico: "Onora il medico perché ne hai necessità" ( Sir 38,1 ). Nell’orecchio ( nel dito che gratta l’orecchio ) è indicata l’obbedienza: "Egli fu obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" ( Fil 2,8 ), sulla quale portò a compimento l’opera che il Padre gli aveva affidata ( cf. Gv 17,4 ). Dice ancora l’Ecclesiastico: "Il vasaio, seduto al suo lavoro, fa girare con i piedi la ruota ed è sempre attento al suo lavoro" ( Sir 38,32 ) Il vasaio è figura di Gesù Cristo che si sedette, cioè si umiliò, al suo lavoro, vale a dire per la salvezza del genere umano, e con i piedi della sua umanità invertì la rotazione della natura umana affinché essa, che correva alla morte, si dirigesse verso la vita. E fu sempre pieno di sollecitudine, di attenzione nei nostri riguardi finché non ebbe portato a compimento la sua opera. Infatti alla fine disse: "Tutto è compiuto!" ( Gv 19,30 ). Con queste cinque dita, dunque, il Signore guarì la sordità del genere umano. 12. "E con la saliva toccò la sua lingua". Il testo latino usa il verbo spùere, sputare, che significa emettere dalla bocca la saliva. La saliva scende dalla testa ed è chiamata così perché è salata. Il serpente muore, se assaggia la saliva dell’uomo digiuno ( Plinio ). Finché è in bocca si chiama saliva, quando si emette si chiama sputo. La saliva del Signore è il sapore della sapienza, la quale dice: "Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo" ( Sir 24,5 ). Quindi il Signore emette la saliva, tocca con essa la lingua del muto per farlo parlare, quando con il contatto della sua pietà rende atte a pronunciare le parole della sapienza le bocche che per lungo tempo sono state mute al momento di confessare i loro peccati. In riferimento a ciò leggiamo in Isaia: "Uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le mole dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, questo ha toccato le tue labbra per far scomparire la tua iniquità e purificarti dal tuo peccato" ( Is 6,6-7 ). I due serafini sono figura del Figlio e dello Spirito Santo. Il Figlio volò a compiere la redenzione del genere umano. Egli, che era Figlio di Dio per la divinità, divenne figlio dell’uomo per l’umanità; ma anche così il Figlio restò uno solo, non due. Questo serafino, come scrive Isaia, aveva sei ali ( cf. Is 6,2 ), figura di quelle sei qualità che lo stesso profeta enumera dicendo: "Il suo nome sarà: ammirabile, consigliere, Dio, potente, padre del secolo futuro, principe della pace" ( Is 9,6 ). Fu ammirabile nella natività; infatti dice Geremia: Il Signore farà una cosa nuova sulla terra: la donna cingerà l’uomo ( Ger 31,22 ). Fu consigliere nella predicazione: "Se vuoi essere perfetto, vendi ciò che possiedi e seguimi" ( Mt 19,21 ). Fu Dio nel compimento dei miracoli: "Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e le orecchie dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo e si scioglierà la lingua dei muti" ( Is 35,4-6 ). Fu potente nella passione, quando con le mani inchiodate sulla croce sbaragliò le potenze dell’aria; e ci può essere potenza più grande che sconfiggere il proprio nemico con le mani legate? Fu padre del secolo futuro nella risurrezione: risorgendo dai morti ha dato anche a noi la sicura speranza di risorgere alla vita futura, nella quale ci sarà padre per sempre perché ci accoglierà presso di sé come figli suoi. Sarà il nostro principe della pace nell’eterna beatitudine, nella quale ci farà sedere alla sua mensa e passerà a servirci ( cf. Lc 12,37 ). E su questo abbiamo la concordanza nell’Ecclesiastico, dove il Signore parla al Padre: "Rinnova i segni e compi altre meraviglie, glorifica la tua mano e il tuo braccio destro; eccita lo sdegno e riversa l’ira; innalza l’avversario e abbatti il nemico; affretta il tempo e ricordati di giungere alla conclusione" ( Sir 36,6-10 ). Il Padre rinnovò i segni e compì altri prodigi nella natività del Figlio suo. Si ha il segno quando, da ciò che si vede, si capisce qualcos’altro che ha un significato diverso. Il primo Adamo fu formato con la terra vergine; e questo indicava che il secondo Adamo sarebbe nato da quella terra benedetta che fu la Vergine Maria. Fece meraviglie quando il fuoco ardeva e il roveto non si consumava ( cf. Es 3,2 ), quando la verga di Aronne senza rugiada produsse frutto ( cf. Nm 17,8 ). Il roveto e la verga sono figura della Vergine Maria che, conservando intatto il candore della verginità, partorì senza dolore il Figlio di Dio. Giustamente quindi è detto: "Rinnova i segni e compi altre meraviglie; glorifica la tua mano" nella predicazione, "e il tuo braccio destro", cioè lo stesso tuo Figlio, per mezzo del quale tutto hai creato: glorificalo con il compimento dei miracoli. Il Figlio stesso disse: "Glorificami, Padre" ( Gv 17,5 ). "Eccita il tuo furore e riversa la tua ira" sul diavolo, nella tua passione; "innalza" nella tua risurrezione "l’avversario", cioè la natura umana, e così "distruggerai" il suo nemico, il diavolo. Mai il nemico tanto si abbatte, come quando vede il suo avversario circonfuso di gloria. "Affretta il tempo" per venire presto al giudizio, dove renderai a ciascuno ciò che è giusto. Affretta il tempo di concedere la pace ai tuoi. "Signore, dice Isaia, tu ci darai la pace" ( Is 26,12 ). "Ricordati di giungere alla conclusione", quando ripagherai gli empi secondo le loro opere. Diciamo dunque: "Uno dei due serafini volò verso di me". "E nelle sue mani aveva un carbone ardente, che aveva preso con le molle dall’altare". Il carbone è una specie di sasso misto a terra; è detto in lat. calculus, da calcare, pestare, perché è piccolo e viene pestato. In questo passo però il termine calculus è usato invece di carbone. Questo carbone simboleggia l’umanità di Cristo che, con la sua umiltà e la sua umiliazione si mescolò alla terra, cioè ai peccatori, fu calpestato dai giudei, ma per noi fu un carbone ardente che ci liberò e ci purificò dai nostri vizi. Egli lo tenne in mano, cioè lo portò con la potenza della sua divinità, e con la molla del suo duplice amore l’aveva preso dall’altare della gloriosa Vergine Maria. Considera che la molla è chiamata in lat. forceps, fòrcipe, tenaglia del fabbro, perché afferra con forza; suona come ferricipes, che prende il ferro, o anche forcicapes, che afferra ciò che scotta. Quindi: il forcipe è usato dei fabbri; le forbici, in lat. forfices, da filo, sono adoperate dai sarti; le pinzette, in lat. forpices, da pelo, sono usate dai medici e dai barbieri. Giustamente Maria è detta altare. Altare suona come alta ara. Alto può significare sia alto che profondo. L’ara, cioè l’altare, è così chiamata perché su di essa ardono ( ardent ), bruciano le vittime, i sacrifici. La beata Vergine Maria fu alta per la sublimità della contemplazione e profonda per la sua grande umiltà. Fu ara perché, ardente di divino amore, offrì se stessa a Dio in sacrificio di soave profumo ( cf. Ef 5,2 ). "E con il carbone ardente toccò la mia bocca". E appunto ciò che dice il vangelo di oggi: "Con la saliva toccò la lingua del muto". Il serafino con il carbone ardente tocca la bocca di Isaia e il peccato viene cancellato. Gesù Cristo tocca con la sua saliva la lingua del muto, e questi parla; tocca la bocca del peccatore con il carbone ardente della sua umanità e la sua lingua con la saliva della sua divinità affinché confessi il suo peccato, parli rettamente e venga da esso liberato e purificato. 13. "E guardando al cielo, sospirò e disse: Effetà!, cioè: àpriti!". Commenta la Glossa: Ci insegnò a sospirare e a rivolgere verso il cielo il tesoro del nostro cuore, il quale per mezzo della compunzione viene purificato dal miserabile piacere della carne. Infatti sta scritto: "Ruggivo per il gemito del mio cuore" ( Sal 38,9 ); "E gli disse: Effetà" ( Mc 7,34 ); "Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per ottenere la salvezza ( Rm 10,10 ). "E subito gli si aprirono gli orecchi" all’obbedienza, "e si sciolse il nodo della sua lingua" per professare la sua fede. E fa’ attenzione che dice: "e parlava correttamente". Parla correttamente colui che confessa integralmente i suoi peccati con le relative circostanze e fa il proposito di non più ricadervi. Allo stesso modo, parla correttamente colui che testimonia con le opere ciò che predica con la bocca. E su questo abbiamo una concordanza nell’Ecclesiastico: "Le labbra di molti benediranno chi è splendido nel dare il pane, e vera è la sua testimonianza alla verità" ( Sir 31,28 ). Chi distribuisce fedelmente il pane della parola di Dio e non nasconde la testimonianza alla verità, sarà benedetto nel presente e nel futuro. Quanti sono oggi splendidi a parole ma lebbrosi con i fatti. Si racconta nell’Esodo che la faccia di Mosè apparve cornuta ( cf. Es 34,30 ). Commenta Origène: Come mai solo la faccia di Mosè apparve splendente, mentre la mano era lebbrosa e i piedi oscuri? Perché il Signore gli comandò di scalzarsi quando lo chiamò dal roveto. Questo si può applicare a quei predicatori che hanno fama e splendore soltanto per la predicazione, ma poi sono corrotti nella loro condotta, e possono essere detti scalzi e non veri sposi della chiesa, meritevoli che si sputi loro in faccia, perché al fratello morto, Gesù Cristo, non vogliono suscitare figli ( cf. Dt 25,5-10 ), anzi, se ce ne sono, li uccidono con il cattivo esempio della loro vita. È detto nel salmo: "Alzarono i fiumi, Signore, alzarono i fiumi la loro voce" ( Sal 93,3 ). Prima dovrebbero alzare, elevare se stessi, e poi alzare la loro voce; per questo è detto: "Parlava correttamente". 14. Con questa seconda parte del vangelo, concorda la seconda parte dell’epistola: "Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento ( della Nuova Alleanza ), non della lettera ma dello Spirito: perché la lettera uccide e invece lo Spirito dà vita" ( 2 Cor 3,6 ). Ecco come l’epistola concorda con il vangelo, e con l’epistola concorda anche l’introito della messa. Nel vangelo si dice che il Signore mise le dita negli orecchi del sordo, e nell’epistola che la legge fu scritta sulla pietra dal dito di Dio; nell’introito si canta: "Guarda al tuo testamento" ( Sal 74,20 ), e nell’epistola si legge: "Dio ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento, di una Nuova Alleanza". Diciamo dunque: "Ci ha resi ministri adatti del Nuovo Testamento". Si dice "ministro" come per dire "minore" in un posto, in un ufficio, o perché la sua incombenza la esegue con le mani. Il testamento poi si chiama così perché contiene una volontà espressa in scritto davanti a testimoni e confermata dal testatore; o anche perché il testamento non ha valore se non dopo che il testatore è stato posto nel monumento, cioè il sepolcro. Dice infatti l’Apostolo: Il testamento ha valore soltanto dopo la morte di colui che lo ha fatto ( cf. Eb 9,17 ). Sono ministri adatti del Nuovo Testamento quelli, che poste le cinque dita di Gesù Cristo negli orecchi, prima ascoltano e poi dicono: Vieni!; coloro che parlano correttamente, che si ritengono minori nell’assemblea dei fedeli, che compiono il dovere assegnato con le mani e con le opere, per poter essere degni di distribuire il verbo del Nuovo Testamento, confermato nella morte di Gesù Cristo. E a questo proposito, nell’introito della messa di oggi si canta: Guarda, Signore, al tuo testamento: non dimenticare mai, sino alla fine, le anime dei tuoi poveri. Sorgi, Signore, e difendi la tua causa, e non dimenticare la voce di coloro che ti cercano ( cf. Sal 74,20.19.23 ). O Signore Gesù, "guarda al tuo testamento"; tu, per non morire intestato, lo hai confermato ai tuoi figli con il tuo sangue: concedi loro di annunziare con fiducia la tua parola ( cf. At 4,29 ). Guarda "le anime dei tuoi poveri" che hai redento, che non hanno alcuna eredità se non te; "non abbandonarle, sino alla fine". Con il bastone della tua potenza sostieni, Signore, i poveri perché sono tuoi; conducili tu, non abbandonarli, affinché senza di te non vadano errando, ma guidali sino alla fine, perché in te realizzati, possano giungere a te che sei il loro fine. "àlzati, Signore", adesso che sembri addormentato, che sembri non accorgerti dei peccati degli uomini, perché attendi che facciano penitenza ( cf. Sap 11,24 ), "e difendi la tua causa", separala cioè dall’iniquità, dividi il grano dalla paglia; difendi le anime per le quali sei stato chiamato in giudizio davanti a Ponzio Pilato. Dice infatti il salmo: "Hai sostenuto il mio diritto e la mia causa" ( Sal 9,5 ). "E non dimenticare le voci di quelli che ti cercano". È ciò che dice il vangelo: "Parlava", ecco le voci, "correttamente", ecco quelli che ti cercano. Certamente Dio non dimentica queste voci, anzi le conserva nel tesoro della sua gloria e un giorno le retribuirà con l’eterna ricompensa. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, che con le dita della tua incarnazione tu ci apra gli orecchi, e con la saporosa saliva della tua sapienza tocchi la nostra lingua, affinché possiamo obbedirti, lodarti, benedirti, e meritiamo di giungere a te che sei benedetto e glorioso. Accordacelo tu, che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli eterni. E ogni anima fedele risponda: amen, alleluia! Prologo Rivolgiamo i sensi della nostra riconoscenza alla grazia settiforme, con il cui aiuto siamo giunti alla prima domenica del settimo mese. C’è da notare che in questa prima domenica e nella seguente si legge nella chiesa il libro di Giobbe. Secondo quanto ci sembrerà meglio, e Dio ci concederà, vedremo di concordare alcuni passi di questo libro con le parti del vangelo di questa domenica e della prossima. Domenica XIII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della tredicesima domenica dopo Pentecoste: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete"; lo divideremo in tre parti. – Anzitutto sermone sull’utilità della predicazione: "Un torrente divide la pietra della caligine". – Parte I: La natività e la passione del Signore: "Beato io sarò", e "Ho cucito un sacco sulla mia pelle". – Sermone sulla natività del Signore: "Se vi sarà un angelo presso di lui", e "Come il granello di senape". – Parte II: Sermone sull’amore di Dio e sulla posizione del cuore nell’uomo: "Amerai il Signore, Dio tuo". – Sermone sulla passione: "Il mazzetto della mirra". – Sermone sull’anima e le sue potenze: "Con tutta la tua anima". - Sermone contro i carnali: "Gli fu lieve la ghiaia". - Sermone sui tre amici di Giobbe e il loro simbolismo: "Elifaz, il Temanita, Bildad, il Suchita e Zofar il naamatita". – Sermone morale sulla vita del prelato o del predicatore "La lucerna di Dio brillava sul mio capo". – Sermone sulla vita del giusto: "Nella terra di Hus c’era un uomo di nome Giobbe". – Sermone contro coloro che bramano la lode degli uomini: "Se vedevo il sole risplendere". – Sermone ai penitenti: "Se ti rivolgi a Dio di buon mattino". – Parte III: Sermone sulla caduta del progenitore e la misericordia del Redentore: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico". – Sermone morale sui sette figli di Giobbe, figura delle sette beatitudini: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico". – Sermone sulla penitenza del giusto: "Perisca il giorno in cui nacqui". – Sermone contro gli ipocriti e coloro che bramano il prestigio delle dignità: "Avvenne che un sacerdote passasse di là"; e "Abimelech combatteva"; e "Sono come gli ònagri", e tutto ciò che segue. Esordio - Utilità della predicazione 1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete" ( Lc 10,23 ). Dice Giobbe: "Un torrente divide la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo che va peregrinando" ( Gb 28,3-4 ). Vediamo quale significato abbiano la pietra della caligine, l’ombra della morte, il torrente e il popolo che va peregrinando. Il torrente è la predicazione. Come il torrente abbonda di acqua in inverno e si prosciuga in estate, tanto che si dice che con la pioggia si gonfia e con la siccità si prosciuga, così la predicazione abbonda, e deve abbondare, nell’inverno della misera vita presente. A questo torrente, durante il cammino di questo esilio, l’anima, lontana dal volto e dagli occhi di Dio, deve dissetarsi e su di esso fermarsi e contemplare se stessa, come la colomba. Ma contro l’anima infelice, sempre Giobbe inveisce dicendo: "Non vedrà più corrente di fiumi, torrenti di miele e di burro" ( Gb 20,17 ). Nel fiume è simboleggiata l’acqua della compunzione che lava le brutture dei peccati; nel torrente di miele è simboleggiata la sacra Scrittura che consola e illumina: infatti il miele, come è scritto nel primo libro dei Re, rischiarò gli occhi a Gionata ( cf. 1 Sam 14,27 ); nel torrente di burro è simboleggiata la devozione prodotta dalla grazia, che arricchisce la mente. Quindi l’anima, dedita ai piaceri della carne, non vede più la corrente del fiume, perché non piange su se stessa, né vede i torrenti di miele e di burro perché non viene illuminata dalla dolcezza della predicazione né nutrita dalla devozione, prodotta dalla grazia. Questo torrente si prosciugherà nell’estate, cioè nella beatitudine della vita eterna. Dice infatti Geremia: Uno non dovrà più istruire il suo prossimo o il suo fratello, dicendogli: Riconosci il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande ( cf. Ger 31,34 ). Quanto grande però sia nel frattempo l’utilità della predicazione, lo afferma Giobbe dicendo: "Un torrente divide la pietra della caligine e l’ombra della morte dal popolo che va peregrinando". La pietra si chiama in lat. lapis, lapide, perché ferisce il piede ( in lat. laedit pedem ). La caligine, prodotta dalla densità dell’aria, è chiamata così perché è prodotta soprattutto dal calore dell’aria. La pietra della caligine raffigura la tentazione del diavolo il quale, avendo la sua dimora in quest’aria caliginosa, insinua nella mente la caligine della sua rovente suggestione, proprio per ferire e sconvolgere i sentimenti. L’ombra è l’aria senza sole, e si forma quando si pone un corpo davanti ai raggi del sole. La morte è così chiamata perché amara; e l’ombra della morte è la dimenticanza della mente. Il misero uomo mette davanti ai raggi del vero Sole l’impedimento, che sono le ricchezze, per trovare sotto di esse refrigerio come sotto un’ombra; ma quando è coperto da questa ombra, viene privato anche della conoscenza e del ricordo del Signore. Infatti le cose temporali fanno dimenticare Dio. Dice la Genesi: "Il capo dei coppieri del faraone, tornato alla prosperità, non si ricordò più di colui che gli aveva interpretato il sogno" ( Gen 40,23 ). Quindi il torrente, cioè la predicazione, separa la pietra della caligine, cioè la tentazione del diavolo, e l’ombra della morte, cioè la dimenticanza della mente, dal popolo che va peregrinando, vale a dire dai penitenti, dai poveri di spirito, dai seguaci degli apostoli, i quali si reputano miseri e pellegrini, esuli e ospiti in questo esilio; ad essi, nel vangelo di oggi, il Signore dice: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete". 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo sono poste in evidenza tre fatti. Primo, la beatitudine di chi vede il Cristo, quando dice: "Beati gli occhi che vedono". Secondo, l’amore di Dio e del prossimo, quando dice: "Un dottore della legge si alzò". Terzo, la discesa dell’uomo da Gerusalemme a Gerico, quando dice: "Un uomo discendeva da Gerusalemme a Gerico". Nell’introito della messa di oggi si canta: "Guarda, o Dio nostra difesa" ( Sal 84,10 ). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo apostolo ai Galati: "Ad Abramo sono state fatte le promesse" ( Gal 3,16 ). Divideremo il brano il tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: "Ad Abramo sono state fatte le promesse". Seconda parte: "Ora io dico: un testamento …". Terza parte: "Ora, non si dà mediatore …". E osserva che la ragione per cui questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo è che il contenuto di entrambi concorda con legge data a Mosè. I. Beatitudine di chi vede Cristo 3. "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono" ( Lc 10,23-24 ). Anche Tobia infatti diceva: "Beato sarò io se rimarrà un resto della mia discendenza, per vedere lo splendore di Gerusalemme" ( Tb 13,20 ), vale a dire l’umanità di Gesù Cristo. La futura discendenza del beato Tobia furono gli apostoli, "stirpe che il Signore ha benedetto" ( Is 61,9 ); e di esso sempre Isaia dice: "Progenie santa sarà quello che resterà di lei" ( Is 6,13 ), cioè la chiesa. Questa fu la discendenza di Tobia per mezzo della fede e della sofferenza, e perciò meritò di vedere il trionfo di Gerusalemme. E quindi viene loro detto: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete". Vedevano un uomo, ma credevano che era Dio ( cf. Gv 20,28 ). Beati gli occhi dei puri di cuore, che vedono Gesù Cristo. Dice infatti Giobbe: "Ora invece ti vedono i miei occhi" ( Gb 42,5 ). Beati gli occhi che lo sterco delle ricchezze non acceca, e che la cisposità delle preoccupazioni terrene non offusca, perché essi vedono il Figlio Dio avvolto in miseri pannicelli, adagiato in una mangiatoia, fuggiasco in Egitto, seduto su di un asinello, appeso nudo sul patibolo della croce. Così lo videro gli apostoli. Così non lo possono vedere gli occhi cisposi. Dice il salmo: "Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole" ( Sal 58,9 ). Gli occhi cisposi non sono in grado di vedere il sole. 4. Il sole è Cristo, il quale per poter essere veduto si avvolse in una nube. Infatti egli stesso dice: "Ho cucito un sacco sopra la mia pelle e ho coperto di cenere la mia carne. La mia faccia è gonfia per il pianto e le mie palpebre si sono oscurate. Ho sofferto tutto questo, benché le mie mani fossero senza peccato e le mie preghiere fossero pure davanti a Dio. O terra, non coprire il mio sangue, e non ci sia luogo in te dove resti soffocato il mio grido" ( Gb 16,16-19 ). Nel sacco e nella cenere sono indicate le tribolazioni e l’abiezione della natura umana. Gesù Cristo con il sacco della nostra natura si fece una tunica, che si confezionò con l’ago, cioè con il misterioso intervento dello Spirito Santo, e con il filo, vale a dire con la fede della beata Vergine, e se ne rivestì; quindi su questa tunica ( sulla sua umanità ) sparse la cenere dell’umiltà e dell’abiezione. Questo gli occhi cisposi e maledetti non sono in grado di vederlo. Ahimè! Il volto di Gesù Cristo fu gonfio di schiaffi e di lacrime, cosa che egli subì benché le sue mani fossero pure da iniquità: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca ( cf. Is 53,9 ); egli offrì a Dio Padre preghiere monde a favore degli immondi e degli scellerati; egli, come dice Isaia, pregò per i trasgressori della sua legge ( cf. Is 53,12 ), dicendo: "Padre, perdona loro …" ( Lc 23,34 ). O terra, o peccatore, non coprire con l’amore delle cose terrene il mio sangue, che è il prezzo della tua redenzione; permetti, ti prego, che questo sangue produca in te il suo frutto. Sulla tua fronte ho scritto con esso il segno Tau ( T ), affinché l’angelo mandato a colpire non colpisca anche te ( cf. Ez 9,4-5 ). Ti scongiuro, non coprire di terra quel segno, non distruggere l’iscrizione del titolo, che Pilato stesso non volle cancellare, ma confermò dicendo: "Ciò che ho scritto, ho scritto!" ( Gv 19,22 ). "Non si trovi in te luogo dove resti soffocato il mio grido". Il grido del nostro Redentore è il sangue della redenzione il quale, come dice l’Apostolo nella lettera agli Ebrei, ha la voce più eloquente di quella del sangue di Abele ( cf. Eb 12,24 ); infatti il sangue di Abele chiedeva la morte del fratricida, mentre il sangue del Signore ottenne la vita per i suoi uccisori. Ma questo sangue trova in noi un luogo dove viene soffocato il suo grido, se la lingua tace ciò che la mente crede. Questo sacco, questa cenere, gli occhi cisposi non li vedono; questo grido gli orecchi sordi non lo sentono. E perciò il Signore soggiunge: "Io vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono". Nei profeti sono raffigurati i prelati della chiesa, nei re i potenti di questo mondo. Sia quelli che questi desiderano vedere Cristo in cielo, ma non vogliono contemplarlo appeso al patibolo. Vogliono regnare con Cristo ma anche godere con il mondo. Tutti costoro dicono insieme con Balaam: "L’anima mia muoia della morte dei giusti" ( Nm 23,10 ). Essi vogliono vedere la gloria della divinità, che gli apostoli videro, ma non vogliono accettare l’ignominia della passione, la povertà di Cristo che i suoi apostoli hanno sopportato, e quindi non lo vedranno insieme con gli apostoli, ma insieme con gli empi vedranno soltanto colui che hanno trafitto ( cf. Gv 19,37 ). E non sentiranno il mormorio di una brezza leggera ( cf. 1 Re 19,12 ): "Venite, benedetti del Padre mio!", ma il tuono terrificante della condanna: "Via da me, maledetti, al fuoco eterno …" ( Mt 25,34.41 ). 5. Dice in proposito Giobbe: "Il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?" ( Gb 26,14 ). E di nuovo: "Non hai afferrato e scosso i lembi della terra e non ne hai sbattuto via i malvagi?" ( Gb 38,12-13 ). Il Signore ha afferrato i lembi della terra quando ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, per confondere i potenti ( cf. 1 Cor 1,27 ). Fa’ attenzione alle due parole "hai afferrato" e "hai scosso via". Il padre afferra con una mano il figlio e con l’altra lo scrolla e lo picchia; lo afferra perché non cada nel precipizio, e lo picchia perché non diventi superbo e insolente. Così il Signore afferra con la mano della sua misericordia il giusto perché non cada nel peccato; lo colpisce perché non si insuperbisca della grazia ricevuta dal Padre. Perciò dice l’Apostolo: "Affinché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne …", ecc. ( 2 Cor 12,7 ). "E hai sbattuto via da essa i malvagi". Nel giorno del giudizio il Signore scuoterà via i malvagi dalla nostra terra, nella quale hanno peccato, e li sbatterà all’inferno, come si sbatte la polvere da un sacchetto. La terra stessa, oppressa dal peso dei loro peccati, si scuoterà di dosso i malvagi e li sbatterà all’inferno, nel quale ci sarà pianto degli occhi che si sono perduti dietro alle vanità, e stridore dei denti ( cf. Mt 8,12 ) che hanno strappato ai poveri i loro beni. Gli occhi di tutti costoro non vedranno Gesù in cielo; vedranno invece la moltitudine dei demoni nell’inferno. Essi non sentiranno le melodie angeliche ma solo lo stridore dei denti. 6. Con questa parte del vangelo concorda l’introito della messa di oggi: "Guarda, o Dio, nostro protettore, guarda il volto del tuo Cristo. Vale più un sol giorno nei tuoi atri, che mille altrove" ( Sal 84,10-11 ). Beati gli occhi che vedranno nell’amarezza del cuore il volto di Gesù Cristo, gonfio di schiaffi e di lacrime, coperto di sputi, perché quel volto nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ), essi lo contempleranno splendente di gloria negli atri della Gerusalemme celeste. Dice in proposito Giobbe: "Vedrà nel giubilo il suo volto" ( Gb 33,26 ), come dicesse: Se prima l’uomo, nell’amarezza del cuore, avrà veduto quaggiù il volto di Cristo, come lo ebbe nella passione, lo vedrà poi, come lo avrà nella beatitudine eterna, nel giubilo dello spirito, un giubilo che non si può né esprimere né tacere. Questo splendore del volto di Cristo è quel "solo giorno" che illuminerà senza alcun impedimento la città di Gerusalemme, uno splendore superiore ad ogni altro; per essere degni di giungervi dobbiamo pregare il Padre dicendo: "Vedi, o Dio, nostro protettore!". La protezione di Dio ci sembra meno necessaria quando l’abbiamo in continuazione; conviene che talvolta venga sottratta, perché così l’uomo si convinca che senza di essa è un nulla. "Vedi, o Dio, nostro protettore, e guarda il volto del tuo Cristo". Padre, non guardare ai nostri peccati; guarda il volto del tuo Cristo, che per i nostri peccati è stato coperto di sputi, fu gonfiato di schiaffi e di lacrime per riconciliare con te noi peccatori. Egli, per ottenerci il tuo perdono, ti mostrò il suo volto colpito dagli schiaffi perché tu lo guardassi e, guardandolo, rivolgessi la tua benevolenza a noi, che siamo stati la causa della sua passione. 7. Anche su questo abbiamo una concordanza nel libro di Giobbe: "Se ci sarà un angelo che parlerà in suo favore e mostrerà la sola cosa in cui gli è simile, per annunziare la giustizia dell’uomo, Dio avrà misericordia di lui e dirà: Lìberalo, che non scenda nella fossa: ho trovato un motivo per essere benigno con lui. La sua carne infatti si è consumata nei tormenti; ritorni ai giorni della sua adolescenza" ( Gb 33,23-25 ). In quest’angelo è raffigurato Cristo; egli mostra al Padre la sola somiglianza che ha con noi. Egli infatti è infinitamente superiore a noi in tutte le sue manifestazioni: in una sola cosa non è diverso da noi, nella realtà della sua condizione di servo ( cf. Fil 2,7 ). Egli parla per noi al Padre proprio nella condizione per la quale si mostra simile a noi e parla al Padre per mezzo di ciò che lo rende a noi uguale. Il suo parlare è un mostrarsi uomo a nostro favore: al di fuori di lui non si troverebbe alcun giusto che, esente da peccato, intercedesse per i peccatori. "Avrà misericordia di lui". È mediatore, quindi ha pietà dell’uomo, perché dell’uomo ha assunto la condizione. "E dice: Lìberalo, perché non scenda nella corruzione". La sua parola è già liberazione dell’uomo: assumendo la natura umana, la dimostra libera, e per mezzo della carne che ha assunto, ha dimostrato libera anche quella che ha redento. "Ho trovato in lui un motivo per essergli benigno", come se dicesse apertamente: Poiché non c’era uomo alcuno che sembrasse degno di intercedere per gli uomini davanti a Dio, mi sono fatto uomo io stesso per intercedere a favore degli uomini. E presentandomi come uomo, nell’uomo stesso ho trovato il motivo per essere propizio agli uomini. "La sua carne si è consumata nei tormenti". Il genere umano infatti era oppresso da innumerevoli tormenti di vizi e di castighi ma, arrivato il Redentore, ritorna ai giorni della sua adolescenza, ritorna cioè all’integrità della sua primitiva vita, per non restare nella condizione in cui è caduto, ma con la redenzione ritorni a quello stato nel quale era stato creato. 8. Con questa prima parte del vangelo concorda anche la prima parte dell’epistola di oggi: "Ad Abramo sono state fatte le promesse e alla sua discendenza. Non dice: E ai suoi discendenti, come se trattasse di molti, ma: e alla sua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo" ( Gal 3,16 ), il quale fu come il granellino di senape, seminato nel giardino della beata Vergine Maria: per la povertà e l’umiltà fu il più piccolo di tutti i semi, cioè di tutti gli uomini, nella sua natività; crebbe quindi nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli: e in questo fu più grande di tutte le piante, cioè di tutti i patriarchi dell’Antico Testamento. Diventò poi un albero nella sua risurrezione e allargò i suoi rami con la predicazione degli Apostoli, e così gli uccelli del cielo, cioè i fedeli della chiesa, accorrono per mezzo della fede, e per mezzo della speranza e della carità prendono dimora tra i suoi rami ( cf. Mt 13,31-32 ), cioè nel suo insegnamento e nei suoi esempi. Beati quindi coloro che vedono ora, per mezzo della fede, colui nel quale sono benedette tutte le genti, e che lo vedranno poi di presenza nella gloria celeste e lo sentiranno dire: "Venite, benedetti del Padre mio" ( Mt 25,34 ). Cristo stesso si degni di condurci a questa visione e ad ascoltare questa voce, egli che è Dio benedetto nei secoli eterni. Amen. II. Amore di Dio e amore del prossimo 9. "Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova e gli chiese: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Quegli rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso. Gesù gli disse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai" ( Lc 10,25-28 ). Osserva che in questo brano del vangelo è racchiusa tutta la perfezione della via e della patria. Ogni parola di questo brano è di grande importanza e di grande utilità. Perciò tratteremo brevemente di ognuna di esse. Amore viene detto in lat. dilectio, perché lega tra loro due persone ( in lat. duos ligat ). Infatti l’amore incomincia da due ( persone ); l’amore di Dio e l’amore del prossimo dev’essere inteso soltanto in senso buono. Amare, diligere, significa legare tra loro due persone. Il Signore è detto in lat. Dominus, perché domina su tutto il creato, oppure perché "comanda nella casa", in lat. domui praeest, o anche perché "fa minacce", in lat. dat minas. Dio si dice in ebraico Eloe, che significa timore; in greco si dice Theòs, che viene da theorèo, vedo, perché Dio vede tutte le cose. Theo vuol dire anche corro, perché Dio tutto percorre, o perlustra. L’amore, dilectio, lega Dio e il prossimo. Questa è la linea di cui dice il Signore nel libro di Giobbe: "Chi ha teso sulla terra la linea ( la misura )? Su chi ha assicurato le sue basi? ( Gb 38,5-6 ). Il Signore ha teso la linea, la misura del suo amore sull’anima, affinché essa si prolunghi fino all’amore del prossimo. "Su chi", se non su Gesù Cristo, "sono assicurate le sue basi", cioè le rette intenzioni dell’anima, sulle quali si sorregge tutto l’edificio delle virtù? Se la base di ogni intenzione non è assicurata su Cristo, tutta l’opera di costruzione minaccia di rovinare, e la sua rovina sarà grande ( cf. Mt 7,27 ). "Ama dunque il Signore, Dio tuo!" Fa’ attenzione ai due termini: Signore e Dio. Signore, Dominus, perché domina su tutto il creato; Dio, perché tutto vede e tutto perlustra. Per questo Zofar, il Naamatita, dice di lui: "Dio è più alto del cielo: che cosa puoi fare? È più profondo degli inferi: come potrai conoscerlo? Si estende più della terra ed è più ampio del mare. Se tutto sconvolge, o se tutto vuole restringere, chi potrà opporsi a lui? O chi potrà dirgli: Perché fai cosi?" ( Gb 11,8-10; Gb 9,12 ). Osserva: gli angeli sono qui chiamati cieli, i demoni inferi, i giusti terra e i peccatori mare. Gli angeli dunque non arrivano alla sua altezza; giudica la malizia dei demoni molto più severamente di quanto pensino; la sua pazienza supera la longanimità dei giusti ed egli ha sempre presenti tutte le opere dei peccatori. Oppure: l’uomo diventa cielo con la contemplazione, inferno con l’offuscamento della tentazione, terra quando porta frutto, e mare quando si agita nella sua incostanza. Ma anche la contemplazione dell’uomo viene meno di fronte a Dio e se nelle tentazioni mette alla prova se stesso, teme i severi giudizi di Dio, e alla fine la ricompensa è superiore alle sue opere. E per quanto la mente si agiti nella ricerca, non arriverà mai a sapere quale sarà la severità del futuro giudizio. Parimenti, Dio ha larghezza nell’amare, lunghezza nel tollerare, altezza nel superare i desideri dell’intelletto, profondità nel giudicare gli impulsi illeciti dei pensieri. Egli sconvolge il cielo quando vanifica la contemplazione dell’uomo; sconvolge l’inferno quando permette che nelle tentazioni il pauroso abbia la peggio; sconvolge la terra quando con le avversità impedisce il frutto delle buone opere; sconvolge il mare quando confonde la nostra irresolutezza con il terrore del giudizio. Il cielo e l’inferno vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene innalzato con la contemplazione e oscurato con la tentazione. La terra e il mare vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene rafforzato da una fede sicura nelle cose eterne e anche tormentato dal soffio mutevole di qualche dubbio. Questo Dio, così fatto e così grande dev’essere amato. "Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore", ecc. Dice "tuo", e quindi da amare ancora di più: infatti amiamo più le cose nostre che quelle degli altri. È degno di essere da te amato perché, essendo egli il Signore, Dio tuo, si è fatto tuo servo, e così tu diventassi suo e non ti vergognassi di servirlo. Dice con le parole di Isaia: "Mi hai fatto servire nei tuoi peccati" ( Is 43,24 ). Per trentatré anni Dio si è fatto tuo servo per i tuoi peccati, per liberarti dalla schiavitù del diavolo. "Amerai dunque il Signore, Dio tuo" che ti ha creato, che ha fatto se stesso per te, che ha dato se stesso a te perché tu dessi tutto te stesso a lui. "Amerai dunque il Signore, Dio tuo". Nella creazione, quando tu non esistevi, ha dato te a te stesso; nella redenzione, quando esistevi nel male, ha dato se stesso a te perché fu fossi nel bene, e quando ha dato se stesso a te, ha anche restituito te a te stesso. Dato dunque e restituito, tu devi te stesso a lui, e ti devi due volte, e ti devi totalmente. "Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore". Colui che ha detto "tutto", non ti ha lasciato una parte di te, ma ha comandato che tu offrissi a lui tutto te stesso. Infatti con tutto se stesso ha comprato tutto te stesso, per essere lui solo a possedere tutto te stesso. "Amerai dunque il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore". Non voler dunque, come Anania e Saffira, trattenere per te una parte di te stesso, per non perire totalmente insieme con loro ( cf. At 5,1-10 ). Ama dunque con tutto te stesso, e non con una sola parte di te. Dio infatti non ha parti, ma è tutto dovunque, e quindi non vuole soltanto una parte di ciò che è tuo, perché è tutto in ciò che è suo. Se tu riservi per te una parte di te, sei tuo e non suo. Vuoi avere tutto? Da’ tutto a lui, ed egli darà a te tutto ciò che è suo; e così nulla avrai di te stesso, perché avrai tutto lui con tutto te stesso. "Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore". 10. Fa’ attenzione a queste quattro entità: cuore, anima, forze, mente. Il cuore è situato al centro del petto dell’uomo; tende un po’ verso sinistra: infatti si scosta un po’ dalla linea di divisione che separa le due mammelle; piega verso la mammella sinistra e sta nella parte superiore del petto; e non è grande e non è di forma allungata, ma tende piuttosto alla forma tondeggiante e la sua estremità è stretta e acuta. O uomo, la posizione e la forma del tuo cuore ti insegnano in che modo tu debba amare il Signore, Dio tuo. Il tuo cuore è posto al centro del tuo petto, tra le due mammelle. Nelle due mammelle è simboleggiato un duplice ricordo: quello dell’incarnazione del Signore e quello della sua passione, da cui l’anima prende il suo nutrimento come da due mammelle. Nella mammella destra è simboleggiato il ricordo dell’incarnazione, nella sinistra quello della passione. Tra queste due mammelle dev’essere posto il tuo cuore, perché qualunque cosa tu pensi, qualunque cosa tu faccia di bene, tutto tu riferisca alla povertà e all’umiltà dell’incarnazione e all’amarezza della passione del Signore. Dice in proposito la sposa del Cantico dei Cantici: "Il mio diletto è un sacchetto di mirra che riposerà tra le mie mammelle" ( Ct 1,12 ). L’anima, sposa di Gesù Cristo, Figlio amatissimo di Dio Padre, si confeziona un sacchetto di mirra con tutta la vita del suo diletto. Ripensa infatti come sia stato adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce e cacciato in Egitto, esule, povero e pellegrino; come spesso sia stato fatto oggetto di ingiurie e di bestemmie da parte dei Giudei; come sia stato tradito da un suo discepolo, incatenato dalla coorte del preside, condotto da Anna e Caifa, legato alla colonna, flagellato da Ponzio Pilato, coronato di spine, colpito con schiaffi, coperto di sputi, e come sia stato infine crocifisso tra due ladroni omicidi. Da tutti questi eventi dolorosi insieme raccolti e saldamente riuniti dal vincolo della devozione, l’anima si confeziona un sacchetto di mirra, vale a dire di amarezza e di compatimento, e lo pone tra le mammelle, dove ha sede il cuore. Sopra il cuore della sposa, cioè dell’anima, deve sempre stare il sacchetto della mirra. E considera che come il cuore tende un po’ verso la mammella sinistra, così la compassione e la devozione del cuore deve volgersi all’amarezza della passione del Signore. Per questo la Maddalena versò le sue lacrime e il suo profumo prima di tutto sopra i piedi del Signore, nei quali è simboleggiata la sua passione. Piange sopra i piedi del Signore colui che prende parte al dolore di chi soffre; li unge colui che rende grazie per il dono della passione. Entrambi i sentimenti infatti dobbiamo rivolgere alla Passione del Signore: il dolore e la devozione. E come il tuo cuore è posto nella parte superiore del petto, così le sue aspirazioni e i suoi desideri devono essere rivolti alla gloria del cielo. Dov’è il tuo tesoro, cioè Gesù Cristo – la manna nell’arca d’oro –, là dev’essere anche il tuo cuore ( cf. Mt 6,21 ). E come il tuo cuore non è grande e non è di forma allungata, ma tende leggermente alla forma rotonda, così anche tu non devi innalzarti verso la grandezza, o allungarti nella cupidigia, ma la tua vita dev’essere rotonda, cioè perfetta. Ciò che è rotondo infatti non subisce diminuzioni. E come l’estremità del cuore è stretta ed acuta, così devi sempre pensare che la conclusione della tua vita sarà stretta ed acuta. Stretta, perché dovrai passare per lo strettissimo passaggio della morte, attraverso il quale nulla potrai portare con te, eccetto i peccati, che non sono sostanza materiale; acuta, perché il timore del giudice ti trapasserà e l’orrore del castigo di trafiggerà. Perciò, finché hai il cuore in tuo potere, "ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore". 11. "E con tutta la tua anima". L’anima è una sostanza incorporea, intellettuale, razionale, invisibile, di origine sconosciuta, che nulla di terreno ha in sé mescolato. Anima, è quasi come dire ànemos, termine greco che significa vento, o movimento, perché è sempre in movimento spontaneo e muove i corpi; oppure è come dire anàmne, o anàmneia, che significa, sempre in greco, ricordo; oppure è composta da a e nemo, che, ancora in greco, significa conferire, perché conferisce la vita ai corpi; oppure anche anà, sopra, e àima, sangue, quindi sangue superiore. "Ama perciò il Signore, Dio tuo, con tutta la tua anima", affinché la tua attività, il tuo pensiero, la tua vita, tutto, tu riferisca al suo amore. "Con tutte le tue forze". Ricorda che tre sono le "forze" dell’anima: la forza razionale, la concupiscibile e la irascibile. Con la forza razionale distinguiamo il bene dal male; con la concupiscibile desideriamo il bene, con la irascibile ripudiamo il male. Queste forze le hanno perdute gli effeminati, dei quali Giobbe dice: "Fu gradito alla ghiaia del Cocìto, e dietro a sé trae tutto l’uomo" ( Gb 21,33 ). Sono ghiaia i sassi dei fiumi, che l’acqua trascina con la sua corrente. Cocìto, presso i greci, simboleggia il pianto delle donne e degli infermi. I letterati affermano che Cocìto è il fiume che scorre nelle regioni degli inferi e che laggiù c’è pianto e gemito per i malvagi. Gradito è dunque l’amore alla precipitosa ghiaia del Cocìto, cioè a coloro che non vogliono resistere energicamente ai piaceri e con le loro cadute di ogni giorno corrono vero l’eterno pianto. E il piacere dell’amore terreno trascina dietro a sé "tutto l’uomo", cioè la forza razionale, quella concupiscibile e quella irascibile. La prudenza del mondo trascina la forza razionale; il piacere della carne trascina quella concupiscibile, e la vanagloria quella irascibile. 12. Questi sono anche i tre amici di Giobbe, cioè Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita ( cf. Gb 2,11 ). Elifaz s’interpreta "disprezzo del Signore", e Temanita il vento "austro". Egli simboleggia la prudenza mondana, la quale proviene dall’austro, cioè dal vento caldo, che è la cupidigia del mondo, poiché i figli di questo mondo, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce ( cf. Lc 16,8 ). Questa prudenza mondana disprezza la sapienza del Signore, e perciò dalla sapienza del Signore viene anch’essa disprezzata. Dice Isaia: "Allorché, stanco, finirai di disprezzare, sarai disprezzato ( Is 33,1 ). Bildad s’interpreta "sola vecchiezza" e Suchita "che parla". Egli simboleggia il piacere della carne, che incominciò con i progenitori e di generazione in generazione rende vecchia la pelle dei figli. Questo patrimonio ce lo tramandò il vecchio Adamo; questa vecchiezza ebbe origine dal linguaggio del serpente. Dice infatti il penitente: "Dalla voce del mio gemito", cioè dalla suggestione del piacere che è causa dei miei gemiti, "il mio osso", cioè la mia ragione o la mia forza, "si attaccò alla mia carne" ( Sal 102,6 ), vale a dire alla mia carnalità. Zofar s’interpreta "distruzione dell’altezza" e Naamatita "decoro". Egli simboleggia la vanagloria, che ha origine dal fatto di ammantarsi di una falsa religione, e a causa di ciò viene distrutta l’altezza della contemplazione e di ogni altra opera buona. "Hanno ricevuto la loro ricompensa", dice il Signore ( Mt 6,5 ). Con questi tre peccati vengono distrutte le tre forze dell’anima, e quindi è necessario che il beato Giobbe che s’interpreta "dolente", cioè il penitente che si duole, per liberarsi dal suo dolore non ascolti, non dia retta a questi tre amici, che egli stesso chiama "miei amici verbosi" ( Gb 16,21 ), chiacchieroni, per poter amare il Signore, Dio suo, con tutte le sue forze. 13. "E con tutta la tua mente". La mente è la parte dell’anima che comprende l’intelligenza e la ragione. È chiamata mente perché è la parte più eminente dell’anima, o anche perché "ricorda" ( in lat. mèminit ). La mente infatti non è l’anima, ma ciò che è superiore nell’anima, la parte più eccellente, più efficace dell’anima, dalla quale procede l’intelligenza. Infatti l’uomo stesso è detto "immagine di Dio" in ragione della mente. Però tutte queste qualità sono unite all’anima in modo tale che essa resta una entità unica. L’anima è indicata con nomi diversi a seconda degli atti dei quali è causa efficiente. Infatti quando vivifica il corpo, è anima; quando vuole, è animo; quando sa, è mente; quando giudica rettamente, è ragione; quando ispira, è spirito; quando avverte qualcosa, è senso. "Ama, dunque, il Signore Dio tuo, con tutta la tua mente", affinché tutto ciò che ricordi, sai o comprendi, tu lo riferisca all’amore di Dio. "Ama il tuo prossimo come te stesso". E su questo argomento vedi il sermone della I domenica dopo Pentecoste, sul vangelo: "C’era un uomo ricco, vestito di porpora e bisso". E sullo stesso argomento abbiamo anche una concordanza nel libro di Giobbe, dove dice: "Se visiterai la tua specie non peccherai" ( Gb 5,24 ). Vedi l’esposizione di questo passo nella II parte del Sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: "In principio Dio creò il cielo e la terra". 14. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell’epistola: "Questo io dico, un testamento confermato da Dio" ( Gal 3,17 ). Il testamento è così chiamato perché è una volontà scritta e confermata alla presenza di testimoni. La volontà di Dio è la volontà del suo amore e dell’amore del prossimo, che fu scritta nella legge della natura, delle tavole, e della grazia, confermata da testimoni, ai quali ha detto: "Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda" ( Gv 15,12 ). Questo testamento fu confermato con la morte del testatore. Dice Giovanni: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" ( Gv 13,1 ), cioè fino alla morte. Questo, non perché con la morte finisca il suo amore, ma perché li amò talmente che l’amore lo portò fino alla morte. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, che tu ci leghi con l’amore verso di te e verso il prossimo in modo tale, da riuscire ad amarti "con tutto il cuore", cioè così profondamente da non essere mai distratti dal tuo amore; "con tutta l’anima", cioè con sapienza, per non essere ingannati da altri amori; "con tutte le forze e con tutta la mente", cioè con grande tenerezza per non essere mai indotti a separaci dal tuo amore; ed amare poi il prossimo come noi stessi. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. 15. "Fa’ questo e vivrai". Dice Giobbe: "La lampada di Dio splendeva sopra il mio capo. Mi lavavo i piedi nel latte e la roccia mi riversava ruscelli di olio" ( Gb 29,3.6 ). Nella lampada è simboleggiata la predicazione, nel capo la mente, nel latte la compunzione delle lacrime, nei piedi gli affetti e i sentimenti del cuore, nella roccia Cristo e nell’olio la grazia dello Spirito Santo. Quando dunque la lampada della predicazione splende sopra la mente del peccatore, essa lava le sozzure dei piedi, cioè degli affetti disordinati del cuore, nel latte della compunzione che sgorga dall’intensità dell’amore; e così la roccia, cioè Cristo, gli versa ruscelli d’olio, cioè l’abbondanza della grazia dello Spirito Santo, dalla quale illuminato nella vita presente, avrà anche la vita futura nella gloria. Dice infatti il Signore: "Fa’ questo, e vivrai". Considera queste tre parole: "Fa’", "questo"; "e vivrai". In esse sono indicate tre cose: la dottrina, la vita e la gloria. "Questo", ecco la dottrina; "fa’", ecco la vita; "e vivrai", ecco la gloria. O uomo, ciò che ascolti nella predicazione, eséguilo poi con le opere. Quando splende la lampada sopra il tuo capo, làvati i piedi nel latte, e così vivrai perché la roccia ti verserà ruscelli d’olio, cioè queste parole che senti: "Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente". Con questi quattro "modi di amare" concordano le quattro qualità di Giobbe, enumerate all’inizio della sua storia: "C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: semplice e retto, temeva Dio e rifuggiva dal male" ( Gb 1,1 ). Nella terra di Uz, cioè "del consiglio", dimora il giusto, che mette in pratica tanto i consigli del Signore come i suoi precetti. È semplice per la purezza del cuore, retto nell’affetto dell’anima, teme Dio con l’uso ordinato delle qualità naturali, e rifugge dal male con il fermo proposito della sua volontà. "Fa’ questo" per essere semplice, cioè senza ripieghi o imbrogli, cercando non la tua lode, ma quella di Dio, e dicendo con Giobbe: "Se vedendo il sole risplendere e la luna chiara avanzare, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la bocca mi sono baciato la mano, questo sarebbe stato un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l’Altissimo" ( Gb 31,26-28 ). Il sole nel suo splendore è figura dell’opera buona che si manifesta. La luna chiara che avanza è figura della buona riputazione la quale, splendendo nella notte di questa vita, prende incremento dalle buone opere. "E non si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore". Ci sono infatti alcuni che si esaltano con i propri elogi e se ne compiacciono. "E con la mano alla bocca ho mandato un bacio". Nella mano è raffigurata l’opera e nella bocca il discorso. Quindi si bacia la mano con la bocca colui che loda ciò che fa. "E questo è un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l’Altissimo", perché chi attribuisce a se stesso il merito di ciò che fa, dimostra di rinnegare la grazia del suo creatore. Fa’ questo, fa’ cioè in modo da non vedere il sole delle tue opere buone e la luna splendente della tua buona riputazione per non compiacertene, e non lodare ciò che dici o che fai, ma tutto attribuisci al tuo creatore. 16. "Fa’ questo", per essere retto. Dice Bildad il Suchita: "Se ti alzerai sul far del giorno, ti rivolgerai a Dio e pregherai l’Onnipotente; se camminerai nella purezza e nella rettitudine, egli certamente veglierà su di te e renderà tranquilla la dimora della tua giustizia. Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione, perché l’ultima sarà molto più splendida" ( Gb 8,5-7 ). "Se ti alzerai sul far del giorno", cioè nella contrizione del tuo cuore, "e ti rivolgerai a Dio Onnipotente" con la mente e con il corpo, "e lo pregherai" confessando il tuo peccato e proclamando la sua lode; "se camminerai nella purezza e nella rettitudine" compiendo le opere penitenziali della riparazione, "subito egli veglierà su di te" appena vede il tuo pentimento, "e renderà tranquilla la dimora della tua giustizia" perché hai confessato il tuo peccato; infatti chi fa un giusto giudizio di sé accusandosi nella confessione, rientrerà nel tranquillo possesso del suo corpo, nella quiete della sua coscienza. "Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione …" Ecco dunque che la penitenza aumenta la grazia nella vita presente e alla fine della vita accumula la gloria eterna. "Fa’ questo, dunque, e vivrai". "Fa’ questo", per essere timorato di Dio e poter dire con Giobbe: "Ho sempre temuto Dio come flutti rigonfi incombenti su di me, e davanti alla sua maestà non potevo resistere" ( Gb 31,23 ). Quando flutti tempestosi minacciano, ai naviganti non gli importa più nulla delle cose materiali, né tornano loro in mente i piaceri della carne; gettano fuori della nave anche quelle cose per le quali avevano intrapreso lunghe navigazioni. Teme dunque Dio, come si temono i violenti marosi che incombono su di sé, colui che, aspirando solo alla vera vita, disprezza tutto ciò che ha e possiede quaggiù. E nei marosi rigonfi vede il simbolo della suprema potestà di Dio, quando tutti gli elementi naturali saranno sconvolti ( cf. Mt 24,29 ), e il giudice supremo verrà e porterà tutto a quella conclusione, che i santi ogni giorno paventano. "E davanti alla sua maestà non potevo resistere", perché chi medita con serietà e attenzione l’avvento dell’ultimo giudizio, constata che veramente incombe su tutti tale spavento, quale non solo non è dato di provare, ma che ora non ci è dato neppure di minimamente immaginare. "Fa’ questo, dunque, e vivrai". 17. E ancora: "Fa’ questo" per rifuggire dal male. Zofar il Naamatita dice a Giobbe: "Se allontanerai l’iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l’ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare il volto senza macchia e sarai saldo e non avrai timori. Dimenticherai anche la miseria, e te ne scorderai come di acqua passata. Alla sera ci sarà per te splendore come di mezzogiorno, e quando ti crederai distrutto sorgerai come stella del mattino. Ed avrai fede in quello che speri, e sepolto, dormirai tranquillo. Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi" ( Gb 11,14-19 ). Commenta Gregorio: "L’iniquità nella mano raffigura il peccato nelle opere, l’opera peccaminosa; l’ingiustizia nella tenda è l’iniquità nella mente. La mente viene chiamata tenda, in quanto in essa ci nascondiamo dentro di noi quando all’esterno non siamo veduti nelle nostre opere. Alzare il volto vuol dire innalzare l’animo a Dio con gli esercizi di pietà: ma questo volto risulta macchiato se la coscienza ci accusa di peccato. "E sarai saldo e non avrai timori". Perché tanto meno avrà paura del giudizio, quanto più sarà stato saldo nel bene. "Ti dimenticherai della miseria". Tanto più crudamente sentirai i mali della vita presente, quanto più trascurerai di pensare al bene che verrà. Ma se fisserai il tuo occhio alle cose che dureranno in eterno, ti sembrerà un nulla tutto ciò che devi soffrire, ma che ti aiuta a raggiungere il fine. "E come lo splendore del mezzogiorno". Lo splendore del mezzogiorno al tramonto, raffigura il risveglio delle forze contro la tentazione. "E quando ti crederai distrutto …" Spesso infatti ci assalgono prove sì grandi da indurci alla disperazione e al crollo, ma il creatore guarda alla nostra oscurità e fa nuovamente brillare i raggi della luce che ci aveva tolto. E allora ti ritornerà la fiducia nella speranza che ti è data della misericordia divina. "Anche sepolto dormirai sicuro". Dormono sepolti al sicuro, coloro che si sottraggono agli onerosi impegni di questo mondo per esaminare attentamente il loro interno nella quiete e nella tranquillità. "Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi". Infatti chi fissa il suo desiderio nell’eternità, non essendoci nel mondo cosa alcuna che lo attiri, niente più teme di ciò che è del mondo. "Fa’ questo, dunque, e vivrai": vivrai della vita della grazia in questo mondo, e della vita della gloria nell’altro. A questa gloria si degni di guidarci colui che è Vita e Gloria e che è benedetto nei secoli eterni. Amen. III. L’uomo che discende da Gerusalemme a Gerico 18. "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto" ( Lc 10,30 ). In quest’uomo va inteso Adamo, nella sua umanità, il quale, preso dalla superbia, con la sua caduta e la sua disobbedienza discese dalla beatitudine della Gerusalemme celeste alle miserie e alle privazioni di questa vita, instabile ed esposta all’errore. E proprio per questo "incappò nei briganti", cadde cioè in potere degli angeli della notte, che si trasformano in angeli di luce, ma non sono in grado di mantenersi tali. E non vi sarebbe incappato se egli stesso, andando contro il celeste comandamento, non si fosse consegnato nelle loro mani. E i briganti gli tolgono anche le vesti della grazia spirituale, cioè l’immortalità e l’innocenza, e lo riempiono talmente di ferite, cioè di peccati, da violare anche l’integrità della natura umana, e introdurre per così dire la morte attraverso le viscere aperte. Chi conserva intatte le vesti che ha indossato, non può sentire le ferite dei briganti. "Se ne andarono", non perché avessero cessato di insidiarlo, ma perché occultarono i loro attacchi. "Lasciandolo mezzo morto", perché potevano sì spogliarlo dell’immortalità, ma non privarlo del sentimento e della ragione, in modo che l’uomo non avesse più il senso di Dio e la capacità di conoscerlo. Il sacerdote e il levita che passano, sono figura del sacerdozio e del ministero dell’antica Legge, o dell’Antico Testamento, quando le piaghe e le ferite del mondo languente si vedevano, ma non venivano curate. Il Samaritano, nome che s’interpreta "custode", è figura del Signore, il quale per noi si è fatto uomo, ha intrapreso il cammino della vita terrena ed è venuto presso il ferito, "divenendo simile agli uomini e apparendo in forma umana" ( Fil 2,7 ), affine a noi con l’assumere su di sé le nostre sofferenze, e vicino a noi con l’offrirci la sua misericordia. "Fasciò le sue ferite": condannando i peccati, pose ad essi un freno. "Versa sulle ferite olio" quando offre ai penitenti una speranza, dicendo: "Fate penitenza, perché è vicino il regno dei cieli" ( Mt 4,17 ). "Versa vino" quando nei peccatori infonde il timore del castigo, dicendo: "Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco" ( Mt 3,10 ). La cavalcatura è figura della sua carne, nella quale si è presentato a noi; su di essa carica il ferito, perché sul suo corpo ha portato i nostri peccati ( cf. 1 Pt 2,24 ). Viene posto sul suo corpo chi crede nella sua incarnazione ed è convinto di essere protetto dai suoi misteri contro le incursioni del nemico. "La locanda" è figura della chiesa militante, nella quale vengono ristorati i viaggiatori in cammino verso la patria eterna. Viene condotto alla locanda colui che è posto sulla cavalcatura, perché nessuno può entrare nella chiesa se non è battezzato, se non è "incorporato" al corpo di Cristo. "E si prese cura di lui", affinché l’ammalato non trascurasse le prescrizioni che aveva ricevuto. Ma non aveva tempo il Samaritano di restare a lungo sulla terra: doveva ritornare là da dove era disceso. E quindi il "secondo giorno", cioè dopo la sua risurrezione, quando lo splendore della luce eterna rifulse sul mondo più luminoso che prima della passione, "diede due denari", cioè i due Testamenti, nei quali sono racchiusi l’immagine e il nome del Re eterno, "all’albergatore", cioè agli apostoli, perché allora "aprì loro la mente affinché capissero il senso delle Scritture" ( Lc 24,45 ), e fossero così in grado di guidare il popolo. "E tutto ciò che spenderai in più". Spende di più l’Apostolo che dice: "Quanto alle vergini non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio" ( 1 Cor 7,25 ); e dà di più anche quando non si avvale del diritto di avere uno stipendio ( cf. 2 Ts 3,9 ). Quando ritornerà per il giudizio, "rifonderà le spese", dicendo: "Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nel gaudio del tuo Signore" ( Mt 25,21 ). "Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo?". Stando al racconto, è chiaro che quello straniero fu "più prossimo" per il cittadino di Gerusalemme, al quale usò misericordia, che non il sacerdote e il levita che erano suoi concittadini. Nessuno ci è più vicino di colui che ha curato le nostre piaghe, perché il capo è una cosa sola con le membra. Amiamolo dunque come Dio e Signore, e amiamolo anche come prossimo; e amiamo anche colui che è imitatore di Cristo. Infatti il vangelo continua: "Fa’ anche tu lo stesso". E per mostrare che veramente ami il prossimo come te stesso, fa’ con amore tutto ciò che è in tuo potere per alleviare le sue necessità corporali e spirituali. 19. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Ora non si dà mediatore per una sola persona, e Dio è uno solo. La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge. La Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo" ( Gal 3,20-22 ). Ecco che qui ti è detto apertamente che né il sacerdote, né il levita, cioè né il sacrificio né il ministero della antica legge avevano il potere di dare la vita e la giustificazione; ma il solo mediatore, e nostro Samaritano, Gesù Cristo, curò il ferito, ridiede vita a colui che era mezzo morto e, prendendolo su se stesso, lo ricondusse alla locanda della chiesa perché gli fosse data, giacché credeva nello stesso Gesù Cristo, la promessa della vita eterna. Dunque non dal sacerdote o dal levita viene la giustificazione, ma dalla fede in Gesù Cristo. "La Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto il peccato". Questo è quanto lo stesso Apostolo dice anche ai Romani: "Dio infatti ha racchiuso tutti nella disobbedienza ( nella incredulità ), per usare a tutti misericordia" ( Rm 11,32 ), come dicesse: Conosciuti i peccati per mezzo della legge, tutti sono rinchiusi, perché non possano accampare scuse, ma implorino misericordia dal Samaritano, dal nostro mediatore. E su questo abbiamo la concordanza in Giobbe: "Non c’è uno [ tra noi due ] che possa rimproverare entrambi e che ponga la sua mano su tutti e due" ( Gb 9,33 ) sia cioè arbitro? Se due nemici con la spada in mano combattono tra loro, chi oserà frammettersi tra loro e trattenerli, se non uno che sia in buoni rapporti con tutti e due? Dio e l’uomo si avversavano a vicenda: Dio con la spada della pena, l’uomo con la spada della colpa. Nessuno fu in grado di ricomporre questa lite. Venne Cristo, che è imparentato con entrambi perché Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, e si pose tra loro e li trattenne. Rimproverò l’uomo perché non continuasse a peccare, e con la sua passione si oppose a Dio Padre perché non colpisse. Pose la sua mano su tutti e due perché diede all’uomo un esempio da praticare, e mostrò a Dio le sue opere, con le quali doveva ritenersi soddisfatto. Fratelli carissimi, innalziamo la nostra preghiera a Dio perché guarisca le ferite dei nostri peccati, ci riconcili a sé affinché possiamo essere degni di ritornare, da questa Gerico, alla Gerusalemme celeste dalla quale siamo caduti. Ci aiuti egli stesso che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. 20. "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e incappò nei briganti…", ecc. ( Lc 10,30 ). Dice il Signore a Giobbe: "Dimmi, se lo sai, in quale via abita la luce, e dove hanno la loro dimora le tenebre" ( Gb 38,18-19 ). Nella luce è simboleggiata la giustizia, nelle tenebre l’iniquità. La luce abita a Gerusalemme; Gerico è la dimora delle tenebre. Perciò chi scende da Gerusalemme a Gerico, passa dalla luce della giustizia alle tenebre dell’iniquità. Infatti sta scritto: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico", ecc. Vedremo quale sia il significato morale dell’uomo, di Gerusalemme e di Gerico, dei briganti, del sacerdote e del levita, del samaritano, dell’olio e del vino, della cavalcatura, della locanda, del locandiere e dei due denari. Per quanto il Signore ce lo concederà, vedremo di concordare con tutti questi elementi alcuni passi del libro di Giobbe. Quest’uomo è figura del giusto il quale, quando è dedito alle opere di penitenza, e si mantiene nelle altezze della contemplazione, dicendo con Giobbe: "L’anima mia ha scelto le altezze" ( Gb 7,15 ), senza dubbio abita a Gerusalemme. Allora diventa veramente come Giobbe, uomo semplice, retto, timorato di Dio e alieno dal male, che ha sette figli e tre figlie ( cf. Gb 1,1-2 ). I sette figli del giusto sono le sette beatitudini proclamate dal Signore, nel vangelo di Matteo ( Mt 5,3-9 ). "Beati i poveri in spirito" ( Mt 5,3 ). Questa beatitudine comprende due atti: la rinuncia alle cose materiali e la contrizione dello spirito, perché anche chi è buono deve ritenersi inutile e inferiore agli altri. I poveri in spirito non cercano cose elevate, ma praticano ciò che porta al timore di Dio e alla vera umiltà. Dice infatti Giobbe: "Cambio il mio volto e mi tormento nel mio dolore. Io mi preoccupavo per tutte le mie opere, perché so che non perdoni al malvagio" ( Gb 9,27-28 ). Cambia il suo volto colui che non ha di se stesso grande concetto, come faceva prima, ma ha nei propri riguardi pensieri umili e dimessi, e così si tormenta nel dolore di quanto ha fatto in precedenza. Il povero in spirito è preoccupato di tutte le sue opere perché ha paura della pigrizia e della malizia. Un amore di Dio piuttosto tiepido produce pigrizia; l’amor proprio, l’amore di sé produce slealtà, in quanto per il bene compiuto si desidera la tacita approvazione del cuore umano, il vento del plauso o qualsiasi altro vantaggio esteriore. Beato invece colui "che scuote dalle sue mani ogni regalo" ( Is 33,15 ). Osserva che il "regalo dalla bocca" è la gloria ottenuta per mezzo di appoggi; il "regalo dal cuore" è l’approvazione attesa dal pensiero; il "dono dalla mano" è la consegna materiale del premio. Contro tutto ciò si deve avere quel timore che difende e premunisce, sapendo che Dio non perdona al malvagio. Dio, infatti, anche se chiama i peccatori a penitenza, tuttavia non lascia mai impunito il peccato: o è l’uomo che castiga, o è Dio. "Beati i miti perché possederanno la terra" ( Mt 5,4 ). Mite è colui il cui animo non è affetto da asprezze o irritazione, ma che nella semplicità della sua fede è in grado di sopportare con pazienza ogni offesa. Perciò si dice mite, quasi a dire muto, perché non risponde all’offesa che viene fatta. Dice in proposito Giobbe: "Se la grande folla mi intimidì e il disprezzo dei vicini mi spaventò, io preferii starmene in silenzio senza uscire di casa mia" ( Gb 31,34 ). Come se dicesse apertamente: Gli altri dal di fuori si agitavano contro di me, io invece nel mio interno me ne restai tranquillo. "E il disprezzo dei vicini mi spaventò". Ci sono quelli che hanno paura di essere disprezzati. Questi vengono costretti ad uscire dalla porta perché, spinti dalle ingiurie, mentre rivelano di sé cose che non si sapevano, vanno per così dire all’aperto attraverso la porta della bocca. Dice Gregorio: Il non desiderare nulla del mondo dà una grande sicurezza in quanto si è fissi nell’immutabile, e non c’è turbamento nello spirito per quanto tutti all’intorno siano sconvolti; e se c’è un turbamento esteriore, questo è dovuto alla fragilità della carne. Chi non ha paura del disprezzo non balza fuori con la lingua. E Agostino: Se coloro con i quali vivi non ti lodano per la tua vita onesta, essi sono in errore; se invece ti lodano tu sei in pericolo. "Beati quelli che piangono" ( Mt 5,5 ). Dice Giobbe : "Il mio volto si è gonfiato per il pianto e le mie palpebre si sono annebbiate" ( Gb 16,17 ). E ancora: "Avanzavo piangendo" ( Gb 30,28 ). Commenta Gregorio: Quell’uomo santo, famoso per ricchezze e onori, avanzava piangendo perché, anche se la gloria del potere lo metteva in evidenza davanti agli uomini, nel suo intimo, con il suo dolore, offriva al Signore il sacrifico di un cuore contrito. "Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia" ( Mt 5,6 ). Dice Giobbe: "Mi ero rivestito di giustizia come di un manto, e del mio giudizio come di un diadema" ( Gb 29,14 ). Si riveste di giustizia come di un manto colui che da ogni parte si riveste e si protegge con le opere buone, e nessun aspetto della sua attività lascia nuda con il peccato. Il giudizio dei giusti è detto "diadema", perché desiderano essere premiati lassù con quello, e non con le meschine cose terrene. "Beati i misericordiosi" ( Mt 5,7 ). E Giobbe: "Mai ho rifiutato ai poveri quanto bramavano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane senza che ne mangiasse anche l’orfano. Perché dalla mia infanzia è cresciuta insieme con me la compassione, e uscì con me dal seno di mia madre. Mai ho disprezzato chi moriva perché privo di vesti e il povero che non aveva di che coprirsi, e hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato" ( Gb 31,16-20 ). "Beati i puri di cuore" ( Mt 5,8 ). E Giobbe: "Il mio cuore non ha seguito i miei occhi e alla mia mano non si è attaccata sozzura. Il mio cuore non è stato mai sedotto da donna, e io mai ho insidiato la porta del mio vicino … Questa è una nefandezza e un grande delitto, e quello è un fuoco divorante fino allo sterminio, che estirpa tutti i germogli" ( Gb 31,7.9.11-12 ). Come dicesse: Non ho mai voluto vedere nulla che accendesse la concupiscenza, né vedendolo ho voluto ciò a cui la concupiscenza mi spingeva. Né si attaccò macchia alle mie mani, cioè non c’è stata mai colpa nelle mie azioni. E se qualche volta ho avuto qualche pensiero illecito, non ho mai permesso che questo pensiero si traducesse nella realtà. "È un fuoco divorante fino allo sterminio": perché il fuoco della lussuria non giunge solo a macchiare e contaminare, ma divora fino alla distruzione. "Ed estirpa tutti i germogli": i germogli raffigurano la santa attività dell’anima: se non si resiste al male della lussuria, vengono distrutte anche le opere che pur sembravano sante. "Beati i pacifici" ( Mt 5,9 ). Giobbe: "Mai mi sono sottratto al giudizio nei confronti del mio schiavo o della mia schiava, quando mi intentavano lite: che farei quando Dio si alzerà per giudicare me? E quando mi interrogherà, che cosa potrò rispondergli? Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu Uno solo a formarci nell’utero?" ( Gb 31,13-15 ). Commenta Gregorio: Giobbe accetta di essere chiamato in giudizio con i suoi schiavi come un loro eguale, perché teme il giudizio di colui che sta al di sopra di tutto. Vede se stesso quale servo del vero Signore, e quindi non si mette al di sopra dei suoi schiavi con la superbia del suo cuore. Chi non ha rifiutato di essere giudicato insieme con i suoi schiavi e le sue schiave, fa capire chiaramente di non essere mai stato arrogante e superbo con nessuno del suo prossimo. Per i potenti praticare la virtù dell’umiltà è una grande cosa, tenuto conto del loro stato e della loro situazione. 21. Queste sette beatitudini sono i sette figli del giusto, e la loro gloria lo rende nobile, potente e famoso. Le tre figlie poi sono la contrizione, la confessione e la riparazione, di cui si è già parlato abbastanza in molte parti [ dei sermoni ]. Ecco quanta luce, quanta gloria c’è in Gerusalemme, cioè nella vita santa. Ma quante tenebre e quanta miseria, quando da Gerusalemme si discende a Gerico, nome che s’interpreta "luna" o anche "odore", e sta ad indicare la corrotta prosperità temporale, della quale i figli di questo mondo dicono al predicatore, con le parole di Geremia: "Al discorso che tu hai fatto a noi nel nome del Signore, noi non daremo ascolto; anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che uscirà dalla nostra bocca ( ciò che abbiamo promesso ), cioè sacrificheremo alla regina del cielo e le offriremo libazioni. Da quando abbiamo cessato di offrirle sacrifici, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame" ( Ger 44,16-17.18 ). Regina del cielo era chiamata la luna, nella quale è indicata la corrotta prosperità temporale, della quale i carnali sono schiavi, e se ne vengono privati, credono di morire di fame e di spada, e quindi non vogliono ascoltare la parola del Signore. A questa luna non era disceso Giobbe, che diceva: "Mai ho considerato mia forza l’oro, né ho detto all’oro fino: tu sei la mia fiducia! Mai ho goduto perché grandi erano le mie ricchezze e perché molto aveva conquistato la mia mano: non ho contemplato il fulgore del sole, né la luna nella sua chiarità" ( Gb 31,24-26 ). Certamente avrebbe disperato del creatore se avesse posto la sua speranza nelle creature. Nulla, all’infuori di Dio, può bastare allo spirito che sinceramente cerca Dio. Scende da Gerusalemme a Gerico colui che, dalla luce della povertà, cade nelle tenebre delle ricchezze. Raccontano che un lupo, vedendo la luna nel pozzo, la credeva una forma di formaggio. Allora, su consiglio della volpe, scese nel pozzo, ma non vi trovò nulla e vi restò dentro deluso e avvilito. Quando i contadini ve lo trovarono, lo massacrarono con una tempesta di pietre. C’è anche qualche religioso che nel pozzo della vanità mondana vede la luna procedere luminosa. Crede lo stolto, su consiglio della volpe, cioè della concupiscenza della carne, che ciò che è passeggero e instabile sia invece autentico e duraturo. E il povero illuso scende da Gerusalemme a Gerico, dall’altezza della contemplazione al pozzo della cupidigia, e così incappa nei briganti che lo spogliano, lo coprono di ferite e se ne vanno lasciandolo mezzo morto. I briganti raffigurano i cinque sensi del corpo, sui quali abbiamo una concordanza in Giobbe: "Insieme sono venuti i briganti e si sono aperti la strada verso di me e hanno posto l’assedio attorno alla mia tenda" ( Gb 19,12 ). Il brigante è chiamato in lat. latro, da làtito, nascondersi, perché sta nascosto quando tende i suoi agguati. I sensi del corpo, nascosti sotto l’apparenza della necessità, tendono l’insidia del piacere; e per ingannare più facilmente, attaccano tutti insieme e alla misera anima aprono quella larga via che conduce alla morte. La tenda del nostro corpo viene tutt’all’intorno assediata dai sensi, affinché l’anima, da qualsiasi parte voglia uscire, cada in loro potere: allora essi la spogliano dei doni della grazia e la feriscono in quelli della natura. Infatti, dice ancora Giobbe: "Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha rovinato sotto ogni aspetto e io perisco, ha sradicato come una pianta la mia speranza" ( Gb 19,8-10 ). All’anima sventurata viene sbarrata la strada, quando essa, schiava dei sensi del corpo, vede il bene che c’è da fare ma non riesce a compierlo. E le tenebre vengono distese sul suo sentiero quando non riesce nemmeno più a vedere quello che deve fare. Viene spogliata della gloria quando viene come denudata della grazia dello Spirito Santo; e le viene tolta dal capo la corona quando viene privata anche della retta intenzione della mente: così distrutta va verso la rovina ed è come un albero privo della radice dell’umiltà, sradicato dalla terra dell’eterna stabilità dal vento della suggestione diabolica: ad essa non resta più neppure la speranza della misericordia divina. 22. Ecco a quale miseria si riduce colui che scende da Gerusalemme a Gerico! Deve perciò dolersene e piangere con Giobbe dicendo: "Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo. Quel giorno si cambi in tenebra, non se ne curi Dio dall’alto, non venga mai ricordato; né brilli mai su di esso la luce. Lo oscurino le tenebre e le ombre della morte, lo copra una densa caligine e lo avvolga da ogni parte l’amarezza. Quella notte se la prenda un turbine tenebroso, non si aggiunga ai giorni dell’anno e non entri nel computo dei mesi. Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode. La maledicano quelli che imprecano al giorno, gli esperti ad evocare il Leviatan. Le stelle vengano oscurate dalla sua caligine; attenda la luce ma senza mai vederla, e non veda il momento dell’aurora che sorge, perché essa non chiuse il varco del ventre che mi ha portato e non ha sottratto il male alla vista dei miei occhi. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dal grembo? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché allattato alle mammelle?" ( Gb 3,3-12 ). Considera che il giorno simboleggia il piacere del peccato, la notte la cecità della mente. L’uomo può essere descritto sotto tre punti di vista: della sua natura, della sua colpa e della sua fragilità. È giorno quando l’uomo nasce, è notte quando viene concepito, perché non è travolto dal piacere del peccato se prima non viene reso debole, fragile dalle tenebre che invadono la sua mente. Ma "perisca il giorno", cioè il piacere del peccato sia distrutto dalla forza della giustizia. "E perisca la notte", cioè quello che la mente accecata compie dando il consenso, non avendo prima ponderato con cautela le lusinghe del piacere. E affinché la colpa, che incomincia con le lusinghe, non trascini alla morte, "il giorno si tramuti in tenebra", vale a dire, all’inizio del piacere si deve vedere a quale mortale conclusione la colpa trascini, e quindi deve essere punita [ la notte ] con la penitenza. E se viene punita in questo modo "Dio più non la ricerchi" nel giudizio, per punirla, e non la illumini, non la metta in evidenza. Viene messo in luce, in evidenza, ciò che viene rinfacciato; invece ciò che dal giudice non viene ricordato, viene per così dire coperto e dimenticato. Infatti sta scritto: "Beati coloro i cui peccati sono stati coperti" ( Sal 32,1; Rm 4,7 ), per non essere messi in mostra davanti agli uomini. "Le tenebre non rischiarino, ma oscurino" il giorno del piacere, perché non venga visto da colui che tutto vede. "Le tenebre" sono i gemiti della penitenza o anche i giudizi misteriosi di Dio, con cui, prevenuti dalla sua grazia, veniamo assolti e che noi non siamo capaci di meritare. "L’ombra della morte" è la morte di Cristo secondo la carne, che ha distrutto la nostra duplice morte. Egli infatti restò nel sepolcro un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte. Viene detta "vera morte" quella che separa l’anima da Dio; invece è "ombra di morte" quella che separa l’anima dal corpo. In altro senso: è detta "ombra di morte" la dimenticanza, che fa in modo che qualcosa non sia più nella memoria, come la morte fa sì che non ci sia più ciò che ci tiene attaccati alla vita. "Copra quel giorno una densa caligine", cioè la confusione della mente che aspira alla gloria, "e da ogni parte sia avvolto dell’amarezza" della penitenza. "Quella notte se la prenda un turbine tenebroso", come dicesse: Un turbine di tempesta, suscitato dallo spirito di amarezza, che offusca di tristezza la mente. Questo è lo spirito ( il vento ) che squarcia la navi di Tarsis ( cf. Sal 48,8 ), è la forza della compunzione, che umilia le menti del mare, cioè quelle attaccate al mondo, irrorandole di salutare rugiada. "Non venga aggiunto ai giorni dell’anno e non entri nel computo dei mesi". L’anno della nostra luce si compie quando, all’arrivo del giudice, ha termine il nostro pellegrinaggio terreno. I giorni dell’anno sono le singole virtù; i mesi sono i vari atti di virtù. Il giusto teme che il giudice voglia compensare, mettere a confronto, con questi atti di virtù i peccati commessi; e allora prega che in quel momento ricompensi il bene fatto, senza tener troppo conto del male commesso. Infatti se questa notte ( il male ) fosse conteggiata con i giorni ( il bene ), tutto sarebbe oscurato. Perché dunque in quel momento non venga conteggiata, impugniamola adesso, perché nessuna colpa resti impunita, e nessuno difenda o giustifichi ciò che ha fatto, aggiungendo così malizia a malizia. Infatti soggiunge: "Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode". Ci sono quelli che approvano e difendono il male, e così il peccato non è uno solo, ma se ne commettono due. Contro costoro dice l’Ecclesiastico: "Hai peccato: non continuare" a peccare ( Sir 21,1 ), cioè a scusare e difendere il male fatto. Invece osteggia adeguatamente il male, colui che mai brama la prosperità di questo mondo. Infatti prosegue: "La maledicano quelli che imprecano al giorno". Colpiscono efficacemente la notte con la penitenza, coloro che calpestano il luccichio della prosperità, che non hanno "il giorno" del piacere. Oppure: il giorno simboleggia la suggestione del nemico. E il senso è questo: espiano veramente i peccati passati, coloro che sanno scoprire l’inganno del seduttore anche nella suggestione piacevole, provocando così ancor più contro di sé il Leviatan ( il diavolo ). Su questo vedi il Sermone della III domenica di Quaresima, IV parte, sul vangelo: "Quando lo spirito immondo esce da un uomo". Ma poiché, debellati i vizi, resta sempre qualche macchia, se pur minima, che non può essere eliminata, perché il vincitore non vada in superbia, aggiunge: "Le stelle siano oscurate dalla sua caligine", dalla caligine della notte, poiché anche quelli che risplendono per le loro virtù conservano qualche resto della notte, che resiste per un complesso di circostanze; e questo perché rifulgano ancor più, proprio a motivo di quelle imperfezioni che essi non vorrebbero, e dalle quali sono umiliati e posti in ombra. Si legge in proposito nel libro di Giosuè che, nella Terra Promessa, i Cananei non furono uccisi, ma divennero tributari della tribù di Efraim ( cf. Gs 17,13 ); infatti quando con la speranza entriamo nella sfera delle cose celesti, pur in mezzo a opere perfette rimangono dei vizi: questi tuttavia sopravvivono perché ci esercitiamo nella virtù dell’umiltà, e perché non monti in superbia colui che non è in grado di eliminare ogni male, sia pur piccolo. E anche nel libro dei Giudici: "Queste sono le nazioni che il Signore ha risparmiato, per mettere alla prova Israele per mezzo di esse" ( Gdc 3,1 ); sono cioè i vizi, con i quali il giusto è sempre alle prese, e mentre ha paura di essere vinto, viene represso in lui l’orgoglio per le proprie virtù, e di fronte ai piccoli difetti impara a capire che non è stato lui a vincere i più gravi. Altro senso: "Le stelle siano oscurate dalla caligine di quella notte", perché la notte, cioè il consenso alla colpa, tramandataci da Adamo, confonde talmente la vista, che anche quelli che brillano come astri di fronte al mondo, non sono in grado di vedere la luce eterna com’è veramente. E soggiunge: "Attenda la luce e non la veda", perché per quanto fervore abbiano in questo esilio, tuttavia finché sono in questa carne non vedranno mai quella luce com’è veramente, a motivo della condanna alla cecità, nella quale sono nati. "Né vedano il sorgere dell’aurora". Il sorgere dell’aurora simboleggia la nuova nascita della risurrezione finale, nella quale i santi nasceranno nella loro carne alla visione dell’eterna luce. Ma per quanto quaggiù gli eletti risplendano, non potranno mai comprendere come sarà la gloria della nuova nascita. Questa notte non chiuse, ma aprì le porte del ventre, perché all’uomo concepito al peccato, aprì le brame della concupiscenza. Aperte quindi queste porte, cioè le brame della concupiscenza carnale, siamo trascinati agli infiniti mali della corruzione. Perciò oppressi gemiamo, perché giustizia vuole che ciò che abbiamo fatto di nostra volontà, lo dobbiamo poi subire anche nolenti. "Perché non sono morto nella matrice materna?". La matrice, nella quale l’uomo viene concepito nel peccato, simboleggia la cattiva suggestione. Ah, fossi morto, mi fossi cioè ritenuto come morto in essa, in modo che la suggestione non mi trascinasse al piacere. "Perché non spirai appena uscito dal grembo?". È uscito dal grembo colui che, concepito nel peccato, è trascinato fuori dal piacere: ma fossi almeno perito in quel piacere, per non giungere fino alla follia di dare il consenso . "Perché sono stato accolto sulle ginocchia?". Si è accolti sulle ginocchia, quando tutti sensi e le membra, a motivo del consenso dello spirito, si sottomettono, si piegano al compimento dell’opera cattiva, come le ginocchia si piegano ad accogliere il neonato. "Perché allattato alle mammelle?". Si è allattati alle mammelle quando si è incoraggiati ( al male ) con vana sicurezza e ridicole scuse. Osserva anche che la colpa si commette dapprima di nascosto, e allora si è nella matrice; poi si commette apertamente, senza vergogna, davanti agli uomini, e allora esce nell’utero; in seguito diventa abitudine, e allora è come accolta sulle ginocchia; alla fine viene alimentata o da falsa speranza o dalla disperazione, e allora è come allattata alle mammelle. 23. Ecco, adesso vedi chiaramente quanto deve piangere e quanto deve pentirsi colui che discende da Gerusalemme a Gerico. E continua la parabola: "Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada, lo vide e passò oltre. Anche un levita, giuntogli accanto, lo vide e passò oltre" ( Lc 10,31-32 ). Nel sacerdote è raffigurata la passione del comando, nel levita l’ipocrisia. E su queste due passioni troviamo un riscontro nel libro dei Giudici, dove si legge che Abimelech combatteva valorosamente per conquistare una torre: "avvicinatosi alla porta, tentava di appiccarle il fuoco. Ma una donna gettò dall’alto un pezzo di màcina, colpì Abimelech alla testa e gli spaccò il cranio. Egli chiamò subito il suo armìgero e gli disse: Presto, tira fuori la spada e colpiscimi; perché non si dica di me che sono stato ucciso da una donna. Egli obbedì al comando del re, e lo uccise" ( Gdc 9,52-54 ). Vediamo che cosa significhino Abimelech e la torre, la porta e il fuoco, la donna e il pezzo di màcina, il cranio, e l’armìgero di Abimelech. Abimelech s’interpreta "mio padre re", e sta indicare colui che vuole comandare agli altri come padre e re. La torre raffigura l’altezza della dignità, o dell’autorità, alla quale si avvicina per conquistarla. Ma per poterla "bruciare" più facilmente, si serve di monete d’oro e d’argento, raffigurate nel fuoco – del quale dice il Profeta: "Il fuoco sta nella casa dell’empio" ( Mi 6,10 ), e le mette sotto la porta della torre, le dà cioè a coloro che sembrano essere la porta della chiesa, e poter così per mezzo di essi, bruciati da questo fuoco, salire sulla torre. Oppure anche: "appicca il fuoco alla porta", cioè ai portieri e ai notai della loro curia, che sono degli infami scrocconi, che succhiano il sangue dei poveri, svuotano le borse dei ricchi, e distribuiscono tutto a nipoti e nipotine, e forse anche figli e figlie; ratificano petizioni in carta, e in cambio incassano somme d’oro e d’argento. Di costoro dice Giobbe: "Il fuoco divorerà le tende di coloro che volentieri accettano regali" ( Gb 15,34 ). E sempre Giobbe: "Sono nell’abbondanza le tende dei predoni", o ladroni, "ed essi provocano sfacciatamente Dio, che pure ha posto lui stesso tutte quelle cose nelle loro mani" ( Gb 12,6 ). E ancora: "Sono come ònagri nel deserto: escono per il loro lavoro, braccano la preda, procurano il cibo ai figli", e anche alle loro nipotine; "Lasciano nudi gli uomini privandoli degli indumenti. Nelle città fecero gemere gli uomini, e le anime dei feriti chiameranno aiuto: ma Dio non lascerà tali cose impunite. Essi si ribellarono alla luce" ( Gb 24,5.7.12-13 ), e quindi saranno privati della luce della grazia e di quella della gloria. Lo sventurato Abimelech, che brama il potere, certamente non per essere utile, intraprende il viaggio senza temere gli imbrogli di chi lo ospita, il gelo delle Alpi, il caldo dell’Italia, i rischi e i pericoli della Toscana, i briganti di Roma. Gli basta avvicinarsi alla porta: appicca il fuoco, viene alleggerito dell’oro, viene caricato del piombo appeso al rescritto. E vediamo che cosa capita a questo disgraziato, bramoso di salire in alto. "Ecco una donna". La donna è questa nostra carne; il pezzo di màcina, con la quale gli viene rotto il cranio, raffigura la bramosia dell’ambizioso, per la quale le sue energie mentali si disperdono nelle cose di questo mondo, ed egli stesso sarà poi distrutto dalla condanna del severo giudizio. Dice Giobbe: "Sfuggirà alle armi di ferro, ma lo colpirà l’arco di bronzo. La spada, estratta e sguainata dal fodero, lo folgorerà nella sua amarezza" ( Gb 20,24-25 ). Commenta Gregorio: Le armi di ferro sono le necessità della vita presente, che pesano gravemente. Nel bronzo è raffigurata l’eterna sentenza la quale, essendo disattesa dal malvagio, è giustamente paragonata all’arco che colpisce a tradimento. "Sfuggirà perciò alle armi di ferro", perché, preoccupato delle necessità presenti, ruberà molto con la sua avarizia, esponendosi però ai colpi dell’eterno giudizio. "Estratta e sguainata": il malvagio, mentre ordisce misfatti nel suo pensiero, è come una spada nel fodero; ma esce dal fodero quando si palesa nell’esecuzione del suo misfatto. Con la parola "folgorazione" viene indicato il lampeggio prodotto dalla spada mentre colpisce. Quindi, di colui che, investito di autorità e di potere, fa del male agli altri, si dice che folgora perché, mentre di fronte ai buoni si innalza come in una luce di gloria, poi dalla vita stessa dei buoni viene condannato e tormentato. "Il re chiamò il suo armìgero". L’armigero è l’aiutante che porta le armi, ma con esse non combatte: quindi raffigura l’ipocrita; e lo sventurato Abimelech vuole morire per mano dell’armìgero, piuttosto che per mano di una donna, cioè a motivo dei peccati carnali. Dice Giobbe a proposito: "Quando è il momento, lo struzzo stende in alto le sue ali" ( Gb 39,18 ). Lo struzzo, le cui penne assomigliano a quelle della cicogna e dello sparviero, raffigura l’ipocrita che con le penne di una falsa santità allunga le frange del suo vestito. Costui ha le ali chiuse, tiene cioè nascosti i suoi pensieri, ma quando è il momento, le spiega verso l’alto, vale a dire che quando si presenta l’occasione propizia, rende palesi i suoi intenti con grande superbia. Ma per intanto si finge santo, e quindi tiene chiuse in se stesso le cose che pensa, e tiene per così dire le ali umilmente piegate sopra il corpo. Adesso capisci chiaramente chi sia il sacerdote che offre agli dei, come sacrifici, le sacre monete d’oro e d’argento: agli dèi, dei quali è detto: "Tutti gli dèi delle nazioni sono demoni" ( Sal 96,5 ); e sai anche chi sia il levita, che è il suo ministro. 24. Ricordiamoci dunque che il sacerdote e il levita, pur vedendo quell’uomo spogliato di tutto, piagato e mezzo morto, passarono oltre senza curarsene. Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe: "Lo struzzo abbandona le sue uova alla terra: forse che tu le riscaldi nella polvere? Dimentica che un piede le schiaccerà, o che una fiera della campagna le stritolerà. Tratta duramente i suoi figli, come non fossero suoi" ( Gb 39,14-16 ). Lo struzzo appunto è l’ipocrita che ambisce le grandezze temporali e abbandona le sue uova, cioè i figli che ha messo al mondo: non ne ha cura alcuna e non si preoccupa che, privi di amorevoli esortazioni, di istruzione e di vigilanza, vengano corrotti dai cattivi esempi, o portati alla rovina dalle fiere del campo. Il campo è il mondo e la fiera è il diavolo il quale, tendendo i suoi agguati con le ladrerie di questo mondo, spogliando e ferendo l’anima che discende da Gerusalemme a Gerico, si sazia ogni giorno della morte dell’uomo. E il senso è questo: anche se il diavolo, imperversando in questo mondo, assale coloro che sono stimati per la loro buona condotta, l’ipocrita non se ne preoccupa minimamente. Per questo è detto: "Tratta duramente i suoi figli": chi non è ricolmo e animato dalla grazia e dall’amore, guarda il suo prossimo come un estraneo, anche se è stato lui a generarlo a Dio. A ragione dunque è scritto: "Abbandona le sue uova alla terra". Abbandonare le uova alla terra, vuol dire non offrire ai figli alcun esempio di vita santa. Però, siccome la provvidenza celeste non li abbandona, soggiunge: "Tu forse li riscalderai nella polvere?". Come dicesse: Sono io che li riscaldo nella polvere, perché infiammo con il fuoco del mio amore le anime dei fanciulli, abbandonate in mezzo ai peccatori, i quali sono come "la polvere che il vento disperde dalla faccia della terra" ( Sal 1,4 ). 25. E il vangelo giustamente continua: "Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede al locandiere …", ecc. ( Lc 10,33-35 ). Il samaritano, nome che s’interpreta "custode", simboleggia la grazia dello Spirito Santo, della quale dice Giobbe: "Chi mi concederà di ritornare com’ero ai mesi passati, ai giorni nei quali Dio era il mio custode? Quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo anche in mezzo alle tenebre. Com’ero ai giorni della mia giovinezza, quando Dio abitava nel segreto della mia tenda. Quando l’Onnipotente stava con me e attorno a me stavano i miei figli" ( Gb 29,2-5 ). L’anima che discende da Gerusalemme a Gerico e che incappa nei briganti, vedendosi spogliata di tutto e ferita, pensando alla sua innocenza battesimale, alla dolcezza della contemplazione, alla purezza della sua vita di un tempo, sospira e piange dicendo: "Chi mi concederà di ritornare come ero un tempo", cioè alla vita santa; "ai giorni", vale a dire alla coscienza piena di luce, alla luce del buon esempio, quando Dio custodiva il mio entrare e il mio uscire? ( cf. Sal 121,8 ): il mio entrare nella contemplazione e il mio uscire all’attività; il mio entrare nella coscienza e il mio uscire nella stima del prossimo. "Quando brillava la sua lucerna", la sua grazia, "sopra il mio capo", nella mia mente, "e alla sua luce camminavo" nei sentieri della giustizia, "anche in mezzo alle tenebre", in mezzo cioè ai falsi fratelli. Ahimè, ahimè, chi mi concederà che io ritorni com’ero nei giorni della mia giovinezza, cioè dell’innocenza battesimale e della vita intemerata; "quando Dio abitava nel segreto della mia tenda", affinché nel segreto io progredissi nel bene: e con queste parole si pente anche della finzione di ostentare Dio in pubblico, ma poi non riconoscerlo in segreto. Ma quando uscii dal segreto incappai nei briganti. Finché ero nel segreto "l’Onnipotente era con me e attorno a me c’erano i miei figli", vale a dire i sensi del mio corpo, che mi obbedivano umilmente. Ma ahimè, ahimè, sventurato!, quando scesi da Gerusalemme uscii dal segreto e i miei figli sono diventati per me i briganti che mi spogliano e mi feriscono. Vediamo però che cosa faccia all’anima ferita la grazia dello Spirito Santo "che prega", cioè che fa pregare, con gemiti inesprimibili ( cf. Rm 8,26 ), che è "padre dei poveri, datore di doni e luce dei cuori" ( Sequenza della messa di Pentecoste ). "Fasciò le sue ferite versandovi sopra olio e vino". Nell’olio che illumina è simboleggiato il riconoscimento del peccato, nel vino che inebria la compunzione delle lacrime: compunzione che inebria l’anima affinché si dimentichi delle cose temporali. L’ebbrezza poi provoca anche le lacrime. Su queste due cose abbiamo la concordanza in Giobbe che dice: "Per quali vie si diffonde la luce e il calore si divide ( si spande ) sulla terra? Chi segnò il corso alla pioggia torrenziale e la strada al tuono rumoreggiante, per far piovere sopra la terra?" ( Gb 38,24-26 ). La via è la grazia dello Spirito Santo, per mezzo della quale si diffonde la luce, si riconosce cioè il proprio peccato, e quindi anche il calore, cioè l’ardore della contrizione, si diffonde ( si divide ) sulla terra, vale a dire fa sì che il peccatore divida il corpo del peccato, distingua cioè punto per punto tra il peccato stesso e le sue circostanze; così dà corso a una pioggia torrenziale, ossia alla compunzione delle lacrime, la cui violenza travolge gli ostacoli della colpa e della vergogna, dando il via al tuono fragoroso, aprendo cioè la via alla confessione, che come il tuono terrorizza i demoni. Si legge infatti nel primo libro dei Re: "Il Signore fece scoppiare tuoni fragorosi sopra i filistei terrorizzandoli, e così furono sbaragliati dai figli d’Israele" ( 1 Sam 7,10 ). Con il tuono e con la spada i filistei, cioè i demoni, terrorizzati, sono colpiti dai figli d’Israele, cioè dai veri penitenti. Giustamente quindi è detto: "Versando olio e vino fasciò le sue ferite". La grazia dello Spirito Santo fascia le ferite dell’anima, quando ripromette al penitente la speranza del perdono e la veste di gloria. "Caricatolo sul suo giumento", ecc. Il giumento, che suona come giovamento, è simbolo dell’obbedienza, la quale dice: "Stavo davanti a te come un giumento" ( Sal 73,23 ). Infatti, finché l’anima si sottomette alla volontà altrui, è aiutata e trasportata: mentre porta, è portata. La locanda, in lat. stabulum ( stalla ), simboleggia il fetore del proprio peccato e il locandiere lo spirito di contrizione. I due denari sono le due specie di pentimento, cioè quello dei peccati commessi e quello dei peccati di omissione. Il penitente infatti deve piangere perché ha fatto ciò che è era proibito, ma anche perché ha omesso di fare ciò che era comandato. L’anima ferita dal peccato, ma curata poi con il farmaco dello Spirito Santo, adagiata sul giumento dell’obbedienza viene portata ad stabulum, cioè al fetore della propria iniquità, per fermarsi lì insieme con Giobbe, del quale è detto appunto che "con un coccio si raschiava la marcia, seduto sopra un letamaio" ( Gb 2,8 ). Il coccio è un pezzo di vaso di terracotta; si chiama in lat. testa perché da molle che è, diventa duro con la cottura, quindi testa è come dire tosta. Il coccio simboleggia la durezza della penitenza, con la quale il penitente, seduto sul letamaio, cioè umiliandosi nel fetore del suo peccato, deve raschiare la marcia delle sue iniquità. La marcia è detta in lat. sanies, perché è prodotta dal sangue il quale, alterato dal bruciore prodotto dalla ferita, si cambia in marcia. La marcia perciò è la putrefazione del sangue, e quindi il penitente deve raschiare la marcia della colpa con la durezza della penitenza. E fa’ attenzione che nessuno è in grado di ritornare a Gerusalemme, se non viene caricato sopra il giumento dell’obbedienza. Per questo il Signore fece il suo ingresso in Gerusalemme seduto sopra un asinello. Di questo asinello dice Neemia: "Non c’era posto ( per cui passare ) per il giumento sul quale ero seduto" ( Esd 2,14 ). Il nostro corpo, che dev’essere come un umile giumento, obbediente e spregevole, sul quale deve stare seduta l’anima, non deve trovar posto in questo mondo, perché il posto dell’uomo è sopra tutte le cose. Sta scritto infatti: "Lo hai posto al di sopra di tutte le opere delle tue mani" ( Sal 8,7 ). Considera ancora ciò che si legge nella Storia Naturale: quando il giumento è nella fase dell’estro, se gli si taglia la criniera, si calma. Così dobbiamo fare anche con il nostro corpo: quando vuole godere dell’abbondanza delle cose temporali ed è portato alla lussuria dalla sfrontatezza della carne, allora dobbiamo sfigurarlo e tosargli la testa, come si fa con i pazzi. Per questo si legge di Giobbe che, rasatosi la testa, cadde a terra ( cf. Gb 1,20 ). Anche a chi è affetto di scabbia o da altra grave malattia, viene di solito rasata la testa. A questo nostro corpo, scabbioso e malato, dobbiamo tagliare i capelli delle ricchezze e dei piaceri, affinché, come un animale mansueto, sia in grado di portarci alla città di Gerusalemme. Fratelli carissimi, imploriamo dallo Spirito Santo la grazia, affinché versi sulle piaghe dell’anima nostra l’olio e il vino della sua misericordia, le fasci, ci carichi sul giumento dell’obbedienza, ci conduca alla locanda, cioè al ricordo delle nostre iniquità, ci affidi al locandiere, vale a dire allo spirito di contrizione, perché rimaniamo sotto le sue cure finché con i due denari, cioè con la duplice specie di compunzione, ricuperiamo il primitivo stato di salute che abbiamo perduto. Ci metta in grado, ricuperata la salute, di ritornare a Gerusalemme, dalla quale siamo caduti. Ce lo conceda egli stesso che, Dio unico con il Padre e il Figlio, vive e regna nei secoli eterni. E ogni anima penitente risponda: Amen, alleluia! Domenica XIV dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della quattordicesima domenica dopo Pentecoste: "Andando a Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sull’infusione della grazia: "La mia radice si protende verso le acque". – Parte I: L’edificio della vita spirituale: "Se ti rivolgerai all’Onnipotente". – Sermone contro i religiosi e i chierici: "La terra dalla quale si ricavava il pane". – Sermone sulla costanza della mente: "Invece di terra ti darà viva roccia". – Sermone ai contemplativi e sulla natura dell’aquila: "Forse che a un tuo comando si alzerà l’aquila?"; e sulla pietra ametista. – Parte II: Le cinque specie di lebbra e il loro significato: "Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi". – Sermone contro la gloria della dignità: "Forse che la luce del malvagio non si spegnerà?". – Sermone contro la lussuria: "L’occhio dell’adultero spia nel buio". – Sermone contro la rapina: "I malvagi spostano i confini". – Sermone contro l’invidia: "L’iracondia uccide lo stolto". – Sermone sui cinque luoghi dove si trova la lebbra, e il loro significato. – Sermone contro la discordia: "Se il sacerdote constaterà che la lebbra si è diffusa". – Sermone sulle cinque opere che il vero penitente deve compiere: "Porterà vesti strappate". – Sermone sulla giusta vergogna nella confessione e sul dovere di confessare le circostanze del peccato: "Ester con il volto del colore della rosa". – Parte III: Sermone sul dovere di rendere grazie a Dio per la misericordia concessa: "Uno di essi tornò indietro". – Sermone sulla rovina del giusto e sulle due specie di tentazione: "Il monte che frana". Esordio - L’infusione della grazia 1. In quel tempo: "Gesù, andando verso Gerusalemme, attraversò la Samaria e la Galilea" ( Lc 17,11 ). Dice Giobbe: "La mia radice è protesa verso le acque e la rugiada si fermerà sulla mia mèsse ( Gb 29,19 ). Fa’ attenzione a queste quattro cose: la radice, le acque, la rugiada e la mèsse. Nella radice è raffigurato il pensiero della mente pura, nelle acque l’infusione della grazia, nella rugiada la beatitudine della gloria e nella mèsse la separazione dell’anima dal corpo. Quando il pensiero di una mente pura si apre per mezzo della devozione, allora viene infusa l’acqua della grazia celeste. Leggiamo nell’Apocalisse: "Ecco, sto alla porta e busso: se uno mi apre", ecco "la radice aperta" ( protesa ), "io entrerò da lui" ( Ap 3,20 ), ecco "verso le acque". Infatti nel Cantico dei Cantici lo sposo parla alla sposa: "Aprimi, sorella mia, perché il mio capo è coperto di rugiada, e i miei riccioli delle gocce della notte" ( Ct 5,2 ). Come dicesse: O anima, se mi aprirai la radice della tua mente, dal capo della mia divinità effonderò su di te la rugiada e le gocce della grazia celeste, che ti rinfrescheranno nella notte della tribolazione. Giustamente le chiama gocce. Infatti la grazia, nella vita presente, è come una goccia rispetto al premio eterno. La goccia è quella che sta ferma, mentre la stilla è quella che cade ( da stillare ). Si dice goccia ( gutta ), come a dire glutinosa, viscosa, che non si sparge. Ha la goccia di grazia colui che non la perde; ha invece la stilla di grazia, colui che crede solo per un certo tempo e poi al momento della tentazione viene meno ( cf. Lc 8,13 ). Su questo abbiamo anche un’altra concordanza sempre in Giobbe: "L’albero ha una speranza: se viene tagliato, rinverdisce di nuovo e i suoi rami riprendono a crescere. Se la sua radice invecchia sotto terra e il suo tronco muore nella polvere, al sentore dell’acqua riprende a germogliare e rifà la sua chioma come quando era stato piantato la prima volta" ( Gb 14,7-9 ). L’albero è chiamato in lat. lignum, perché bruciato si trasforma in luce ( lat. lignum, lumen ); è figura del giusto il quale, quando si infiamma del fuoco dell’amore, si trasforma in luce di buon esempio. Egli, se è stato tagliato con la scure del peccato mortale, non deve disperare della misericordia di Dio, che è più grande della sua miseria, ma deve sperare, perché potrà di nuovo rinverdire per mezzo della penitenza; e i suoi rami, cioè le sue opere, ricresceranno. E anche se la radice, vale a dire l’attenzione del suo cuore, invecchierà nella terra, cioè nelle cose terrene, e il tronco, cioè le sue opere saranno morte nella polvere, vale a dire nella vanità del mondo, tuttavia se egli si convertirà a Dio, al sentore dell’acqua, cioè della grazia dello Spirito Santo, rigermoglierà nella confessione e rifarà la sua chioma nelle opere di riparazione. Giustamente quindi è detto: "La mia radice è aperta, cioè protesa verso l’acqua". "E la rugiada si fermerà sulla mia mèsse". La mèsse si raccoglie quando le anime, separate definitivamente dai corpi, come le messi mature tagliate dalla terra, se ne andranno ai granai celesti; allora la rugiada si fermerà sulla mèsse, perché il gaudio dell’eterna visione sazierà le anime degli eletti. E per conseguire il gaudio di questa rugiada, dobbiamo camminare con Gesù Cristo attraverso la Samaria e la Galilea, come dice il vangelo di oggi: "Gesù andò verso Gerusalemme, attraverso la Samaria e la Galilea". 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono posti in evidenza tre momenti. Il primo, l’andata di Gesù Cristo a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, quando dice appunto: "Gesù andando verso Gerusalemme attraversò … ", ecc. Il secondo, la guarigione dei dieci lebbrosi, quando dice: "Mentre entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi". Il terzo, il ritorno del lebbroso straniero per glorificare Dio, quando dice: "Uno di essi, vedendosi guarito, tornò indietro". Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Tendi a me, Signore, il tuo orecchio" ( Sal 86,1 ). Si legge quindi il brano della lettera del beato Paolo ai Galati: "Camminate secondo lo Spirito" ( Gal 5,16 ), che divideremo in tre parti, mostrandone la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. La prima: "Camminate secondo lo Spirito". La seconda: "Le opere della carne sono ben note". La terza: "Il frutto dello Spirito invece è l’amore". E osserva che questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo, perché nella lettera sono segnalati appunto quei vizi che producono nell’anima la lebbra del peccato, e vengono quindi indicate quelle virtù per mezzo delle quali l’anima viene purificata da ogni lebbra. I. Il passaggio di Gesù Cristo attraverso la Samaria e la Galilea 3. "Gesù, andando verso Gerusalemme, passò attraverso la Samaria e la Galilea". Tutte le parole di questa prima parte sono molto importanti. Chi vuole andare a Gerusalemme, è necessario che attraversi prima la Samaria e la Galilea. Samaria s’interpreta "custodia", Galilea "trasmigrazione" e Gerusalemme "visione di pace". Chi custodisce, chi osserva i comandamenti passa alle virtù, per poter poi giungere a Gerusalemme. Il beato Giobbe era passato per la Samaria, e perciò diceva: "Se ho camminato nella vanità e se il mio piede si è affrettato vero la frode, mi pesi Dio sulla sua giusta bilancia e riconoscerà così la mia integrità e la mia innocenza ( Gb 31,5-6 ). Il riconoscere di Dio è la sua conoscenza di ciò che noi facciamo. Con il nome di bilancia viene indicato il mediatore tra Dio e l’uomo; in lui, come per mezzo di una giusta bilancia, vengono pesati i nostri meriti e, confrontandoci con i suoi precetti, siamo in grado di riconoscere ciò in cui siamo venuti meno nella nostra vita. E il senso è questo: Se ho fatto qualcosa con leggerezza, se ho fatto qualcosa di dannoso, si presenti il mediatore affinché confrontandomi con la sua vita io possa controllare se veramente sono stato integro. Parimenti Giobbe aveva attraversato anche la Galilea, quando diceva: "Quello stesso che giudica scriva il libro di accusa perché io lo porti sulle mie spalle e me lo cinga come una corona. Lo proclamerei ad ogni gradino ( passo ) e glielo presenterei come a mio principe" ( Gb 31,35-37 ). "Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio" ( Gv 5,22 ). Il Figlio, venendo per la nostra redenzione, ha stabilito con noi la Nuova Alleanza: egli che ora è l’autore del documento, sarà a suo tempo artefice del giudizio, e allora esigerà inesorabilmente ciò che adesso comanda con dolcezza. Portare il libro sulle spalle significa mettere in pratica la sacra Scrittura. Prima infatti è detto: "portare sulle spalle", e poi: "cingersene come di una corona", perché i precetti della parola sacra, se si mettono in pratica con esattezza adesso, ci procureranno in cambio, nel giorno della retribuzione, la corona della vittoria. "Ad ogni mio gradino" ( passo ). Il progresso nella virtù lo chiama gradino perché progredendo si sale per giungere alla conquista delle cose celesti. E quasi ad ogni suo gradino proclama il libro, colui che dimostra di averne conseguito la conoscenza non soltanto a parole, ma con le opere. "E glielo presenterei come a mio principe". Ciò che offriamo, lo teniamo in mano: quindi offrire il libro a colui che viene per il giudizio, vuol dire aver praticato con le opere le parole dei suoi comandi. 4. Considera che su queste tre parole: Samaria, Galilea e Gerusalemme, c’è una concordanza in Giobbe, dove Elifaz, il Temanita, dice: "Se ritornerai all’Onnipotente sarai "riedificato" ( risorgerai ) e terrai lontana dalla tua tenda l’iniquità. Invece di terra ti darà selce, e invece di selce ti darà torrenti d’oro. L’Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l’argento. Allora nell’Onnipotente abbonderai di delizie e alzerai a Dio il tuo volto. Lo pregherai ed egli ti esaudirà e tu scioglierai i tuoi voti. Deciderai una cosa e ti riuscirà, e sul tuo cammino splenderà la luce" ( Gb 22,23-28 ). O peccatore, se allontanandoti da te stesso, in cui c’è la distruzione, ritornerai a Dio, in cui c’è la costruzione, sarai veramente ricostruito. Distruggi prima in te il tuo edificio, ed egli su di te edificherà il suo. Dice infatti con le parole di Isaia: "Io dico all’oceano: prosciùgati! Faccio inaridire i tuoi fiumi. Dico a Gerusalemme: Sarai ricostruita! E al tempio: Sarai riedificato dalle fondamenta!" ( Is 44,27-28 ). In questo passo l’oceano è chiamato "il profondo", cioè procul a fundo, lontano dall’aver un fondo; esso simboleggia l’abisso dei cattivi pensieri i quali, se saranno eliminati, e se i fiumi della concupiscenza che scorrono per i canali dei cinque sensi saranno prosciugati, allora il tempio, cioè la mente, avrà le fondamenta sui zaffiri. Dice infatti Isaia: "Avrai le tue fondamenta sui zaffiri" ( Is 54,11 ), cioè sui desideri e sulle aspirazioni all’eterna vita; e Gerusalemme, cioè la vita spirituale, sarà riedificata con i suoi baluardi. Continua infatti Isaia: "Farò di diaspro ( topazio ) i tuoi baluardi e le tue porte saranno di pietre scolpite" ( Is 54,12 ). Il diaspro è una pietra color verde e si dice che scacci i sogni stravaganti; questa pietra è simbolo della povertà che mantiene l’uomo nel vigore della fede e mette in fuga i sogni stravaganti, cioè la brama delle ricchezze, che poi sono destinate a deludere l’uomo. La fede infatti disprezza le cose temporali, mentre chi le ama rifiuta la fede. Se l’edificio della nostra vita spirituale viene edificato con i baluardi della povertà, non c’è d’avere più alcun timore delle frecce dell’antico avversario. Le porte sono i cinque sensi del corpo, che il Signore farà di pietre scolpite, quando i nostri occhi saranno "scolpiti" ( lavorati ) con l’effusione delle lacrime, la lingua con la condanna di sé, gli orecchi con la predicazione, le mani con l’elargizione di elemosine e i piedi con la visita agli ammalati. Di questa scolpitura dice il Signore per bocca di Zaccaria: "Ecco, io intaglierò la sua scultura ( iscrizione ), e in un giorno solo rimuoverò l’iniquità dalla sua terra" ( Zc 3,9 ). Intagliare o scolpire si dice in lat. cælare, da cælum, l’arnese di ferro che tutti chiamano scalpello. Quando il Signore sulle porte dei sensi scolpisce questa iscrizione, allora rimuove dalla nostra terra, cioè dal nostro corpo, l’iniquità; e questo "in un sol giorno", cioè con la "luce dell’unità" con la quale l’uomo esteriore si unisce a quello interiore nel servizio di Dio. Giustamente quindi è detto: "Se ritornerai all’Onnipotente sarai ricostruito, e così terrai lontana l’iniquità dalla tua tenda". Il corpo è inteso come tenda dell’anima e la mente come tenda dei pensieri. E il senso è questo: Se ritornerai a Dio sarai purificato sia nei pensieri che nelle opere. 5. "Invece della terra ti darà roccia, invece della roccia torrenti d’oro". Ecco Samaria, Galilea e Gerusalemme, cioè la custodia, la trasmigrazione e la visione di pace. La terra, a motivo della sua stabilità, simboleggia la custodia, l’osservanza dei precetti, della quale dice Giobbe: "La terra, dalla quale si traeva il pane, nel suo interno fu sconvolta come dal fuoco. Le sue pietre contengono zaffiri e le sue zolle l’oro" ( Gb 28,56 ). Questa terra raffigura l’osservanza dei precetti, dalla quale viene tratto il pane del celeste nutrimento. Infatti, se osservi i precetti, sarai ristorato con il pane del gaudio celeste. A chi fa la volontà del Signore e non la propria, il Signore stesso promette per bocca di Isaia: "Se non seguirai le tue vie e non farai la tua volontà, allora troverai la tua delizia nel Signore: io ti solleverò sulle altezze della terra e ti nutrirò con l’eredità di Giacobbe, tuo padre: la bocca del Signore ha parlato" ( Is 58,13-14 ). Il nostro meschino piacere consiste in due fatti: nella cattiva azione e nella cattiva volontà; se cessa questo piacere, allora troviamo le nostre delizie nel Signore. "Cerca le tue delizie nel Signore, ed egli esaudirà le tue richieste" ( Sal 37,4 ). E allora ti innalzerà al di sopra di tutte le altezze terrene, affinché tu disprezzi le cose temporali, sottometta la tua carne e custodisca i suoi precetti; e così ti nutrirà dell’eredità di Giacobbe, tuo padre. L’eredità che Giacobbe, nostro padre, cioè Gesù Cristo, ci ha lasciato, fu la povertà e l’umiltà, l’obbedienza e le sofferenze della passione, delle quali ci nutriamo quando le abbracciamo con il gaudio dello spirito. Dice Mosè nel Deuteronomio: "Succhieranno come latte le inondazioni del mare" ( Dt 33,19 ). Come il bambino succhia il latte dalle mammelle della madre con avidità e grande piacere, così noi dobbiamo succhiare dalla vita di Gesù Cristo le inondazioni del mare, vale a dire le amarezze della sua passione e delle tribolazioni. E fa’ attenzione che dice "succhieranno". Nessuno può succhiare qualcosa senza stringere le labbra. Se non stringiamo così le labbra, rifiutando l’amore alle cose temporali, non possiamo certo succhiare le sofferenze di Cristo. Diciamo dunque: "La terra, dalla quale si traeva il pane". "Nel suo luogo ( nel suo interno ) fu sconvolta dal fuoco". Il luogo del precetto di Dio sono i prelati della chiesa, i chierici e i religiosi, nei quali la chiesa deve avere un luogo, occupare un posto speciale. Ma ahimè! Gli stessi comandamenti di Dio, nel loro luogo, cioè nei chierici e nei religiosi, sono sconvolti dal fuoco della lussuria e dell’avarizia: la carità, la castità, l’umiltà e la povertà, che sono precetti spirituali del Signore, nei chierici e nei religiosi sono distrutte. Essi infatti sono invidiosi, lussuriosi, superbi e avari. "Le sue pietre sono luogo di zaffiri". Gli zaffiri sono color cielo. I prelati, i chierici e i religiosi erano di solito pietre di zaffiro, per l’amore e la brama delle cose celesti: adesso invece sono divenuti come sterco, per l’immondezza del peccato. "Le sue zolle erano oro". La zolla, detta anche gleba, da glebus, aratore dei campi, è un blocco di terra erbosa. Le zolle si formano quando la terra è impregnata di umidità. I pastori della chiesa e i professi di un Ordine religioso erano di solito delle zolle d’oro: zolle, perché per l’abbondante infusione di grazia sapevano mantenere l’armonia ( la coerenza ) tra professione e azione; d’oro, perché risplendevano per santità di vita e sapienza. Ma adesso, come deplora Geremia: "I figli di Sion, famosi e valutati come oro fino, sono reputati vasi di creta, opera della mani di un vasaio" ( Lam 4,2 ), cioè del diavolo, che da vasi pregiati li ha ridotti a volgari vasi di creta, da gettarsi nel letamaio della geenna. E anche noi, dopo averli gettati nel letamaio, ritorniamo al nostro argomento. 6. "Invece di terra darà selce", come dicesse: Chi osserva fedelmente, per quanto è nelle sue forze, i precetti, arriverà ad un’invitta costanza nella pratica delle virtù. La selce ( silex ) è una pietra dura, e deve il suo nome al fatto che da essa sprizza il fuoco ( lat. silex, exilio); è figura della costanza nella virtù, da cui scaturisce un fuoco che illumina e infiamma il prossimo all’amore di Dio. Di questa selce, il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: "Ti ho dato una faccia come il diamante ( adamas ) e come la selce: non li temere e non impaurirti davanti a loro, perché sono una genìa di ribelli" ( Ez 3,9 ). Nel diamante e nella selce è simboleggiata la costanza, che il Signore mette nel volto del predicatore perché non abbia paura di fronte al peccatore, che fa irritare Dio stesso. Infatti Dio dice del predicatore: "Egli si slancia coraggiosamente e con impeto va contro gli armati. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada" ( Gb 39,21-22 ). Commenta Gregorio: Il predicatore si slancia coraggiosamente perché non si lascia fermare dagli avversari. Va con impeto contro gli armati perché si mette contro coloro che fanno il male, in difesa della giustizia. Sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada: nella paura si teme la sofferenza futura, nella spada si avverte già il colpo della sofferenza presente. E poiché il predicatore non teme i futuri avversari, sprezza la paura; e poiché non si lascia vincere neppure dai colpi che gli arrivano, non indietreggia neppure davanti alla spada. Anche Giobbe, a proposito della selce, dice: "Contro la selce l’uomo porta la mano e sconvolge i monti dalla radice. Nella roccia scava ruscelli e posa il suo occhio su tutto ciò che è prezioso" ( Gb 28,9-10 ). Porta la mano contro la selce colui che si sforza in tutti i modi di essere costante nella pratica delle virtù. Questo è ciò che leggiamo nei Proverbi: "A forti cose stende la sua mano" ( Pr 31,19 ). E così distrugge in se stesso i monti, cioè la superbia del cuore; li distrugge dalle radici, cioè fino nei più reconditi pensieri, e scava ruscelli di compunzione nella roccia, vale a dire nella durezza del suo cuore. E allora, con l’occhio della sua mente illuminata, è in grado di vedere tutto ciò che è prezioso e al cui paragone tutte le altre cose perdono ogni valore. E a proposito di ciò che è prezioso, il testo aggiunge: "E invece della selce ti darà torrenti d’oro". Ecco Gerusalemme. Ecco tutte le cose preziose che vede l’occhio di colui che prima ha attraversato la Samaria e la Galilea! 7. E su questo abbiamo una concordanza, sempre nel libro di Giobbe, quando Dio stesso gli rivolge la parola: "Forse che a un tuo comando l’aquila si leverà in volo e porrà il nido sulle alture? Essa se ne sta sulle rocce e abita sulle selci scoscese e sui picchi inaccessibili: di lassù spia la preda e i suoi occhi vedono a grande distanza" ( Gb 39,27-29 ). L’aquila deve il suo nome all’acutezza della sua vista, ( lat. acies, acutezza ), in quanto può fissare il sole senza restare abbagliata. La Storia Naturale dice dell’aquila che è di vista acutissima, e costringe anche i suoi piccoli a fissare il sole ancora prima che abbiano le ali completamente formate, e a questo scopo li urta e li costringe a voltarsi verso il sole. E se ad uno dei suoi piccoli lacrimano gli occhi, lo uccide davanti agli altri, e nutre solo gli altri. Inoltre si dice che depone tre uova, ma che il terzo lo elimina. Alcuni veramente hanno osservato anche aquile con tre piccoli: ma se ne ha tre, getta fuori dal nido il terzo, perché le riesce troppo gravoso nutrirli. Si dice anche che essa metta nel nido una pietra preziosa, l’ametista, insieme con i piccoli, perché, in virtù di quella pietra preziosa, vengano allontanati da essi i serpenti. Nell’aquila è simboleggiata la sottile intelligenza e la sublime contemplazione dei santi, i quali rivolgono allo sguardo del vero Sole e alla luce della Sapienza i figli, cioè le loro opere, affinché allo splendore del sole sia manifesto se in esse si nasconde qualcosa di viziato o di estraneo alla loro condizione. Infatti ogni malvagità viene dalla luce condannata e le opere delle tenebre vengono dalla luce smascherate ( cf. Ef 5,13 ). E i santi, se vedono che qualche loro opera non è rivolta direttamente al sole, e che ai suoi raggi si sfigura e versa lacrime, immediatamente la eliminano. Il raggio della grazia mostra chiaramente quale sia il figlio vero. L’opera buona fissa direttamente il sole e resiste alla fiamma della tribolazione senza venir meno. Invece l’opera adulterata guarda verso terra, viene meno nella tribolazione, versa lacrime quando le vengono a mancare le cose terrene, e quindi dev’essere eliminata, affinché possa così essere incrementata l’opera buona. Infatti quando in te stesso elimini il male, rafforzi in te il bene; e tanto più il bene si rafforza, quanto più il male viene meno. Considera poi che le tre uova, o i tre piccoli dell’aquila, raffigurano i tre amori del giusto: cioè l’amore di Dio, l’amore del prossimo e l’amor proprio: quest’ultimo egli deve assolutamente scacciarlo dal nido della sua coscienza. L’amor proprio infatti è un grave ostacolo all’amore di Dio e del prossimo, e quindi dev’essere assolutamente eliminato. E Giobbe aveva cacciato dal suo nido quel figlio, quando diceva: "Strazio le mie carni con i miei denti" ( Gb 13,14 ). I denti sono così chiamati perché dividentes, cioè sminuzzano i cibi, e simboleggiano i sensi interni, che controllano ogni cosa e che, per così dire, masticano e sminuzzano le cose che pensano e quindi le passano al ventre della memoria. I santi, se scoprono in se stessi qualcosa di carnale, con questi denti ( i sensi interiori ) la combattono in se stessi con ogni energia e la eliminano dal nido della loro coscienza. 8. Osserva inoltre che l’ametista è una pietra preziosa molto singolare, color viola, che manda dei bagliori dorati e presenta dei puntini di color rosso vivo. Questa pietra simboleggia la vita di Gesù Cristo, che fu color viola per la povertà e l’umiltà, mandò fiamme e bagliori dorati nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli, e presentò dei punti color rosso vivo nella sua passione. Questa ametista il giusto deve fissarla nel nido della sua coscienza, affinché dai nati, che sono le sue opere, vengano scacciati i serpenti, cioè le suggestioni diaboliche. Diciamo dunque anche noi: "Forse che a un tuo comando l’aquila si leverà in volo?" Commenta Gregorio: Al comando di Dio l’aquila si leva in volo quando, nell’obbedienza ai divini comandi, la vita dei fedeli viene innalzata alle cose celesti. E nelle altezze colloca il suo nido, perché rifugge di fermare la sua mente, i suoi pensieri, nelle cose vili e basse di questo mondo. "Dimora nelle rocce". Nel vangelo, invece di roccia, viene usata la parola "pietra": e quando è al singolare s’intende Cristo, quando è al plurale s’intendono i santi cristiani. Perciò Pietro dice: "Voi siete come pietre vive" ( 1 Pt 2,5 ). È detto dunque che l’aquila si ferma sulla pietra ( roccia ), che cioè l’intelletto dei santi si ferma stabilmente nelle sentenze degli antichi e intrepidi Padri. Si possono intendere nelle pietre anche le potenze celesti, le quali, situate nelle altezze come le rocce, sono esenti ad ogni mutamento o instabilità, ciò che invece non avviene per le piante. Il santo dunque attende la gloria perenne degli angeli e, considerandosi ospite in questo mondo, bramando ardentemente ciò che contempla, è già fisso sulle altezze. "Dimora nelle selci scoscese e sui picchi inaccessibili". Che cosa sono le selci scoscese se non i potenti cori degli angeli? Sono "scoscesi", cioè "precipitosi", perché una parte di essi è precipitata, mentre un’altra parte è rimasta lassù. Essi stanno sì integri ed inviolati a motivo della natura del loro premio, ma sono anche scoscesi, precipitosi per ciò che riguarda la quantità del loro numero, e quindi li chiama anche "picchi inaccessibili". Infatti per il cuore dell’uomo peccatore, è veramente inaccessibile lo splendore degli angeli. Ma chi è rapito nella contemplazione in modo tale da ritrovarsi con la mente e l’intenzione tra i cori angelici, altro non gli manca se non di poter contemplare anche colui che è al di sopra degli stessi angeli. "Di lassù spia la preda": da quei cori angelici spinge l’occhio della mente alla gloria della suprema Maestà, alla quale ardentemente aspira, non avendola ancora contemplata, ma quando la contemplerà, finalmente sarà saziato. E poiché non ci è possibile vedere Dio così com’egli è finché siamo oppressi da questa carne, il testo conclude: "I suoi occhi scrutano da lontano". Come dicesse: i santi aumentano sempre più la forza del loro ardore, ma neppure così possono vedere più da vicino colui, il cui infinito splendore non possono penetrare. Beata dunque quell’aquila che affonda il rostro nel torrente d’oro della Gerusalemme celeste, del quale è detto nel salmo: "Saranno inebriati dell’abbondanza della tua casa, e li disseterai al torrente delle tue delizie" ( Sal 36,9 ). Dice infatti la Genesi che i fratelli di Giuseppe bevvero insieme con lui fino ad essere brilli ( cf. Gen 43,34 ). Considera che chi s’inebria ( si ubriaca ) cambia mente e lingua. E la mente dei beati, che saranno inebriati al torrente d’oro, sarà mutata, perché la loro fede e la loro speranza cesserà e in essi si compirà perfettamente il precetto: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore" ( Lc 10,27 ), ecc., che adesso non si è ancora compiuto perfettamente. E anche la loro lingua sarà mutata. Infatti: "La mia bocca non parli più come è abitudine degli uomini" ( Sal 17,4 ). Diciamo dunque: "Invece della terra darà selce, e invece della selce torrenti d’oro". Ecco che ti è chiaro finalmente che chi vuole andare a Gerusalemme e bere al torrente d’oro della beatitudine celeste, deve prima necessariamente passare attraverso la Samaria e la Galilea e possedere terra e selce. E poiché quando siamo giunti alla Samaria e di qui passiamo alla Galilea, incontriamo i nemici, cioè gli spiriti maligni, che ci attaccano, e che noi vinciamo per mezzo della grazia di Dio per poter giungere a Gerusalemme, il testo di Giobbe continua: "L’Onnipotente sarà con te contro i tuoi nemici e accumulerà per te l’argento"; come dicesse: Mentre scaccia da te gli spiriti maligni, ti riempie la coscienza di luce, "e allora nell’Onnipotente abbonderai di delizie". Abbondare di delizie nell’Onnipotente significa essere saziati del suo amore al banchetto di una coscienza pura. Leggiamo in proposito nei Proverbi: "Una coscienza tranquilla è come un perenne convito" ( Pr 15,15 ). "E alzerai a Dio il tuo volto"; alzare il volto a Dio significa innalzarsi alla ricerca delle verità superiori. "Lo pregherai, ed egli ti esaudirà". Perciò il giusto, nell’introito della messa di oggi dice: "Tendi l’orecchio, Signore, ed esaudiscimi" ( Sal 86,1 ). "E tu scioglierai i tuoi voti". Dice Gregorio: Chi ha fatto un voto, ma per la sua debolezza non è in grado di mantenerlo, in castigo del suo peccato viene privato della possibilità di fare il bene, anche se lo vuole. Se poi viene cancellata la colpa che era di ostacolo, subito riacquista la possibilità di adempiere il voto. "Deciderai una cosa e ti riuscirà": Si decide una cosa e riesce, quando, per divino favore, si riesce nella pratica di una virtù, che ardentemente si bramava acquistare. "E sul tuo cammino splenderà la luce": nel cammino dei giusti splende la luce, quando con le loro mirabili opere virtuose diffondono lo splendore della loro santità. 9. Con questa prima parte del vangelo, concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne" ( Gal 5,16 ). Chi vuole andare a Gerusalemme insieme a Gesù, deve camminare secondo lo Spirito e non secondo la carne. Cammina secondo lo Spirito colui che passa attraverso la Samaria e la Galilea; e perciò dice: "Camminate secondo lo Spirito", se volete andare a Gerusalemme; "e così non sarete portati a soddisfare i desideri della carne", cioè eviterete di darvi a quei piaceri che la carne suggerisce. "La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne". La carne è così chiamata perché è cara ( amata ); oppure il termine deriva da creare; infatti crementum ( accrescimento ) è il seme del maschio; infatti in greco la carne si chiama kreas. O carne cara e, perché cara, carente, priva di carità, e quindi piena di desideri contrari allo Spirito! O carne cara, che dopo un po’ diventerai odiosa, perché marcirai tra i vermi e puzzerai! La carne e lo spirito si combattono a vicenda, così che noi non riusciamo più a fare ciò che vogliamo ( cf. Gal 5,17 ). E su questo abbiamo la concordanza nel libro di Giobbe: "Un combattimento è la vita dell’uomo sulla terra" ( Gb 7,1 ). La vita dell’uomo è un combattimento, cioè una continua tentazione, perché la carne, già corrotta, si procura da sé i tormenti, e anche nel bene che compie sente sorgere il male, come per esempio la noia nella quiete della contemplazione, o la vanagloria nell’astinenza. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci passare attraverso la Samaria, vale a dire per l’osservanza dei tuoi precetti, e attraverso la Galilea, cioè nella pratica assidua delle virtù, per poter giungere a Gerusalemme e meritare di dissetarci al suo torrente d’oro. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La guarigione dei dieci lebbrosi 10. "Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce dicendo: Gesù maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse: Andate e mostratevi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono risanati" ( Lc 17,12-14 ). L’allegoria è chiara. Il villaggio ( in lat. castellum ) è il mondo, e quando il Signore vi entrò, gli corsero incontro dieci lebbrosi, nei quali vediamo raffigurato il genere umano che aveva peccato contro il decàlogo, non avendo amato né Dio né il prossimo, e perciò si era coperto della lebbra dell’infedeltà e dell’iniquità, e quindi gridava: "Gesù maestro! …" Invocò salvezza, implorò misericordia, il genere umano; e il Signore esaudì entrambe le richieste: con il sangue della redenzione e con l’acqua del battesimo lo purificò da ogni lebbra di infedeltà e di iniquità. Significato morale. Considera che questi dieci lebbrosi raffigurano tutti i peccatori, coperti da cinque specie di lebbra, la quale si manifesta in cinque "posti", che colpisce cioè cinque parti del corpo. Nel Levitico sono descritte le cinque specie di lebbra e i cinque posti che ne sono infetti. Le cinque specie di lebbra sono: la bianca, la lucida, l’oscura, la rossa e la pallida; c’è poi la lebbra nel capo, nella barba, nella pelle del corpo, nelle vesti e nella casa. Sta scritto dunque nel Levitico: "Chiunque sarà colpito da tale lebbra e che, a giudizio del sacerdote, verrà isolato, porterà vesti stracciate, il capo scoperto, il viso coperto da un panno, e griderà di essere contaminato e immondo. Per tutto il tempo che sarà lebbroso e immondo, starà isolato, fuori dell’accampamento" ( Lv 13,44-46 ). Vedremo il significato di tutto questo, esaminando ogni singolo termine. La lebbra bianca è figura dell’ipocrisia e della simulazione di religiosità; la lebbra lucida raffigura l’ambizione, lo smodato desiderio delle dignità di questo mondo; la lebbra oscura simboleggia l’immondezza della fornicazione; la lebbra rossa raffigura la rapina e l’usura; infine la lebbra pallida rappresenta l’invidia dell’altrui felicità. 11. Della lebbra bianca dell’ipocrisia e della simulazione, dice Giobbe: "I simulatori e gli astuti provocano l’ira di Dio" ( Gb 36,13 ). Simulatore viene da "simulacro"; i simulacri sono imitazioni. Il simulatore esibisce l’immagine di uno che non è lui. L’ipocrita è come un simulacro, in quanto esibisce l’imitazione della santità di un altro. E a questo simulacro si tributa onore perché si crede che vi sia in esso qualcosa di divino. Ma dice Giobbe: "La stirpe dell’ipocrita è sterile" ( Gb 15,34 ), perché non aspira a ricevere il frutto di ciò che fa, nel momento dell’eterna ricompensa. È detto sterile perché se ne sta lì arido e secco ( lat. sterile, stat aridum ). Infatti quando manca la retta intenzione, anche l’opera che sembra buona va perduta. Si infetta totalmente di lebbra bianca ciò che il giudizio umano stima retto, ma che non è fatto con retta intenzione. Della lebbra lucida, che raffigura la dignità passeggera, parla Bildad, il Suchita: "Forse che non si spegnerà la luce del malvagio e più non arderà la fiamma del suo fuoco? La luce si oscurerà nella sua tenda e la lucerna che pende sopra di lui si estinguerà" ( Gb 18,5-6 ). La luce del malvagio si spegnerà perché la prosperità di questa vita che passa finisce con lui. "E più non arderà la fiamma del suo fuoco": è chiamato fuoco l’ardore dei desideri terreni, la cui fiamma, alimentata dalla brama interiore, è il fasto, o anche il potere esteriore; ma non arderà più, perché nel giorno della morte ogni fasto esteriore scomparirà. "La luce si oscurerà nella sua tenda". Talvolta per tenebre si intende tristezza e per luce gioia. Quindi la luce si oscura nella tenda del malvagio, perché la gioia della sua coscienza, fondata sulle cose materiali, viene meno. "E la lucerna che sta sopra di lui si estinguerà". La lucerna è un lume racchiuso in un vaso di creta, quindi la luce nella creta raffigura il piacere della carne. La lucerna che sta sopra di lui si estingue, perché quando sull’empio si abbatte la giusta punizione per i suoi misfatti, il piacere della carne scompare dalla sua mente. E giustamente è detto "la lucerna che sta sopra di lui", e non quella che sta vicino a lui, perché è la mente dei malvagi che è posseduta dal piacere delle cose terrene. Della lebbra oscura della fornicazione dice Giobbe: "L’occhio dell’adultero spia nel buio e dice: Nessun occhio mi osserva; e si copre la faccia" ( Gb 24,15 ). Adultero è chi viola il tàlamo altrui, o anche chi opprime l’utero altrui ( lat. uterum terens ). La sozzura della fornicazione, che ottenebra l’occhio della ragione, cerca sempre il favore di un luogo nascosto, e con tanta maggiore sicurezza viene commessa, quanto minore è la paura di essere scoperta. Dice in proposito l’Ecclesiastico: "Per l’uomo dissoluto ogni pane è appetitoso. Chi è infedele al proprio letto, sprezza la sua anima e dice: Chi mi vede? Sono immerso nelle tenebre, i muri mi nascondono: nessuno mi vede, chi dovrei temere? Dei miei peccati non si ricorderà l’Altissimo. E non riflette che l’occhio di Dio vede tutte le cose" ( Sir 23,24-27 ). E quindi soggiunge: "E si copre, si vela il viso" proprio per non essere riconosciuto. Il "volto" del cuore umano è fatto a somiglianza di quello di Dio, e il malvagio lo copre per non essere riconosciuto dal severo giudice, quando avvilisce la sua vita con azioni disoneste. Della lebbra rossa dei depredatori, dice Giobbe: "Hanno spostato i confini, rubato i greggi, portato via l’asino degli orfani, hanno preso in pegno il bue della vedova. Hanno distrutto la vita dei poveri e hanno oppresso tutti quelli che se ne stavano in pace a casa loro" ( Gb 24,2-4 ). E la pazienza divina sopporta tutti costoro e aspetta che facciano penitenza; essi invece accumulano la collera su di sé per il giorno dell’ira ( cf. Rm 2,5 ). E della fortuna dei malvagi dice ancora Giobbe: "Perché i malvagi vivono, sono stimati e sereni nelle loro ricchezze? La loro prole prospera con essi e hanno intorno una folla di parenti e di nipoti. Le loro case sono tranquille e senza preoccupazioni: il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro bestiame non è sterile e le loro mucche figliano e non abortiscono. I loro ragazzi vanno fuori come un gregge e i loro figli saltano festosamente. Cantano al suono di timpani e cetre e si divertono al suono di altri strumenti. Passano nel benessere i loro giorni, ma poi in un istante scendono nel sepolcro. Eppure dicevano a Dio: Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’Onnipotente perché siamo obbligati a servirlo, e che cosa ci giova pregarlo? Tuttavia, poiché i loro beni non sono in loro potere, sia lontano da me il loro consiglio" ( Gb 21,7-16 ). Della lebbra pallida dell’invidia, dice sempre Giobbe: "L’ira uccide l’insensato e l’invidia uccide il meschino" ( Gb 5,2 ). Meschino è chi ama le cose terrene, grande invece è chi aspira alle eterne. Quindi il meschino viene distrutto dall’invidia, in quanto nessuno muore di questa peste se non colui che muore dal desiderio delle cose di quaggiù. Dice Gregorio: Chi vuole essere preservato da quella peste che è l’invidia, tenda a quell’eredità che il numero degli eredi, per quanto grande, non fa diminuire: è un’eredità che è una per tutti, e tutta intera per ognuno. 12. Analogamente la lebbra sul capo raffigura l’impurità nel pensiero. La lebbra della barba raffigura la malvagità portata ad esecuzione. La lebbra della pelle è figura del comportamento disonesto. La lebbra nelle vesti è il dissentire dalla fede in Cristo, oppure l’imprudenza nella pratica delle virtù. La lebbra nella casa è la discordia nella comunità. Dell’impurità nel pensiero, Giobbe dice: "Succhierà il capo ( il veleno ) dell’aspide e lo ucciderà la lingua della vipera" ( Gb 20,16 ). L’aspide, un piccolo serpente, raffigura l’oscura tentazione dei demoni; il suo capo, cioè l’inizio della tentazione, parte dal cuore il quale, una volta preso, viene trascinato oltre con violenza. La vipera ha il corpo piuttosto lungo e nasce in modo tale che esce con violenza. Il peccatore dunque succhia il capo dell’aspide e poi lo uccide la lingua della vipera, quando egli accoglie con piacere l’inizio della suggestione segreta e poi si consegna sconfitto alla violenza delle altre tentazioni. Parimenti sull’esecuzione dell’opera malvagia, dice Giobbe: "Ha steso la sua mano contro Dio e ha osato farsi forte contro l’Onnipotente. Correva contro Dio a testa alta, armato della sua grassa cervice. Il grasso copriva la sua faccia e la pinguedine pendeva dai suoi fianchi" ( Gb 15,25-27 ). Stendere la mano contro Dio vuol dire persistere nelle opere cattive, sprezzando i suoi giudizi. E osa farsi forte contro l’Onnipotente, perché Dio gli permette di trarre anche vantaggio dal male che compie. E corre contro Dio a testa alta, quando compie con arroganza ciò che al Creatore dispiace. "Correva", vale a dire non conosceva ostacolo o avversità nel suo iniquo operare. "Armato di grassa e dura cervice", cioè della superbia che proviene dalla ricchezza, superbia fomentata dall’abbondanza dei beni materiali come dalla grassezza del corpo. "Il grasso gli copre la faccia", perché l’abbondanza, tanto bramata, delle cose terrene gli opprime e gli chiude gli occhi della mente. "La pinguedine gli pende dai fianchi": i fianchi dei ricchi sono coloro che ad essi si appoggiano e si uniscono. Chi si unisce al malvagio potente, pende dai suoi fianchi come la sua pinguedine, perché anche lui va superbo della sua forza come della sua grassezza. Similmente, della vita disonesta il Signore, parlando del diavolo, dice per bocca di Giobbe: "Stenderà sotto di sé l’oro come fosse fango. Come una pentola farà bollire il mare profondo" ( Gb 41,21-22 ). L’oro simboleggia lo splendore della santità e il fango la sozzura dei piaceri carnali. Infatti molti che nella santa chiesa sembravano splendere del fulgore della santità, il diavolo se li è assoggettati con il contagio di un miserabile piacere e con la corruzione di una vita disonesta, e in questo modo ha steso sotto di sé l’oro, facendolo diventare fango. E fa anche bollire come una pentola il profondo del mare, cioè il cuore del peccatore, avvolgendolo con il fuoco della suggestione e facendogli sprizzare intorno a sé la schiuma della sua vita dissoluta. Parimenti, la veste di Gesù Cristo, inconsutile e tessuta tutta d’un pezzo ( cf. Gv 19,23 ), raffigura la fede in lui, l’unità della chiesa, che gli eretici, i falsi cristiani e i simoniaci vorrebbero spezzare. E questi sono raffigurati nei tre amici di Giobbe, cioè Elifaz, Bildad e Zofar, i quali fecero soffrire il beato Giobbe con le loro parole e lo offesero con le loro ingiurie. Elifaz s’interpreta "disprezzo del Signore", ed è figura degli eretici, che si rifiutano di obbedire alla chiesa di Cristo. Bildad s’interpreta "sola vecchiezza", ed è figura dei falsi cristiani i quali sono invecchiati solo nel male ( cf. Dn 13,52 ). Zofar s’interpreta "distruzione della vedetta", ed è figura dei simoniaci i quali distruggono la vedetta, la sentinella della dignità ecclesiastica, quando la comperano con il denaro. Ancora, a proposito della lebbra della casa, si legge nel Levitico che "se il sacerdote, constaterà che ( nella casa ) la lebbra si è diffusa, ordinerà che vengano rimosse le pietre infette dalla lebbra, e le farà gettare in luogo immondo, fuori della città; farà raschiare tutto l’interno della casa, e anche i calcinacci saranno gettati in luogo immondo fuori della città; poi si prenderanno altre pietre per sostituirle a quelle tolte prima" ( Lv 14,39-42 ). La lebbra della casa simboleggia la discordia nella congregazione, nella comunità. Se il sacerdote, o il prelato, constata che questa lebbra si diffonde e si aggrava, deve immediatamente ordinare che le pietre, cioè i frati della congregazione, nei quali alligna la lebbra della discordia, siano estromessi, affinché il compagno scabbioso non abbia la possibilità di strofinarsi contro il compagno semplice e puro e quel poco lievito non riesca a corrompere tutta la massa ( cf. 1 Cor 5,6; Gal 5,9 ) e quel poco veleno non riesca ad intossicare tutto il balsamo. E anche la casa, cioè la congregazione stessa, affinché non vi rimangano dei resti di quella lebbra, deve raschiarla, deve cioè investigare attentamente e se ne trova qualche traccia, deve eliminarla senza pietà, e al posto delle pietre infette, nell’edificio della congregazione deve inserire delle pietre nuove, che siano in grado di servire il Signore in unione di spiriti e uniformità di comportamenti. Chiunque fosse infetto da una di queste cinque specie di lebbra, se vuole ottenere misericordia dal Signore, deve assolutamente eseguire i cinque interventi su descritti: deve portare "vesti stracciate", non deve cioè confidare nei suoi meriti né presumere di alcuna sua opera buona; le vesti stracciate raffigurano anche le membra del corpo, castigate con severa penitenza; deve avere "il capo scoperto", manifestare cioè tutti i peccati commessi con i sensi del corpo; deve avere il "volto coperto con una tela", sempre cioè vergognarsi di ciò che ha commesso; deve "proclamarsi in ogni momento e infetto e contaminato"; e ritenendosi immondo, e tenendosi appartato dal tumulto delle cose temporali e dei pensieri cattivi, "dimorerà fuori dell’accampamento", si riterrà cioè indegno di rimanere nella comunità dei santi. Chi non applica questi cinque rimedi non può considerarsi un vero penitente. Chi dunque vuole veramente pentirsi abbia le vesti stracciate, vale a dire non presuma di alcuna delle sue opere; nella confessione scopra il capo davanti a Dio e ai suoi angeli; si vergogni di aver commesso tanti peccati; e non solo si proclami immondo e infetto, ma accetti anche umilmente che gli altri gli rinfaccino le stesse cose: se si comporta diversamente, dimostra di non essere veramente pentito; come lebbroso deve ritenersi indegno della compagnia dei santi e con l’umiltà della mente deve prostrarsi umilmente ai loro piedi. Per questo è d’uso che i pubblici penitenti sostino alla porta della chiesa, indossando il cilicio, e preghino i fedeli che entrano in chiesa e dicano loro: Noi, indegni peccatori, preghiamo voi, fedeli di Cristo, di implorare per noi la misericordia divina, perché siamo indegni di entrare in chiesa e di partecipare all’assemblea dei fedeli. Questi penitenti possono dire coraggiosamente: "Gesù Maestro ( praeceptor ), abbi pietà di noi". Fa’ attenzione a queste tre parole: Gesù, maestro, abbi pietà. Gesù s’interpreta "salvatore". Chi vuole la salvezza, osservi i comandamenti ( praecepta ) e così troverà misericordia. E osserva anche che "maestro" è posto tra "Gesù" e "abbi pietà". Infatti dove c’è l’osservanza dei precetti, là, a destra e a sinistra, c’è la salvezza e la misericordia, che custodiscono quelli che li custodiscono ( osservano ). Dice infatti l’Ecclesiastico: "Se tu vorrai custodire i comandamenti, essi custodiranno te" ( Sir 15,16 ). 13. "Gesù, vedendoli, disse: Andate e mostratevi ai sacerdoti". Fa’ attenzione a queste tre parole: andate, mostratevi, ai sacerdoti. Nell’"andate" è indicata la contrizione del cuore, nel "mostratevi" la confessione della bocca, nelle parole "ai sacerdoti" l’opera di riparazione. A proposito dell’"andate" della contrizione, il figlio prodigo dice: "Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te" ( Lc 15,18 ). E fa’ attenzione che prima dice "mi alzerò" e dopo "andrò", perché se prima non ti rialzi dal tuo torpore non puoi "andare" con la contrizione. "Mi alzerò", perché riconosco di giacere per terra; "andrò", perché mi sono molto allontanato; "dal padre", perché mi consumo nella più sordida miseria sotto il principe dei porci; "ho peccato contro il cielo", cioè davanti agli angeli e alle anime sante, nelle quali Dio ha la sua dimora, "e contro di te", cioè proprio nel segreto della coscienza, dove solo il tuo occhio può penetrare. A proposito del "mostrarsi" nella confessione, dice lo sposo del Cantico dei Cantici: "Mostrami la tua faccia, suoni la tua voce ai miei orecchi; la tua voce è dolce e la tua faccia è leggiadra" ( Ct 2,14 ). Si dice "faccia" in quanto "fa conoscere" l’uomo, e quindi giustamente nella faccia è raffigurata la confessione, perché questa rende l’uomo noto a Dio, il quale conosce il cammino dei giusti ( cf. Sal 1,6 ). E il giusto è il primo ad accusare se stesso ( cf. Pr 18,17 ). "Mostrami dunque la tua faccia" se vuoi che io ti mostri la mia, nella quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ). "La tua faccia è leggiadra". La faccia leggiadra è la confessione pudica. Gradita infatti a Dio è una confessione unita alla vergogna di aver peccato. Troviamo scritto nel libro di Ester, che essa "soffusa il volto di roseo colore, con occhi graziosi e brillanti, nascondeva un animo afflitto e il cuore stretto da grande angoscia. Attraversate una dopo l’altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re" ( Est 5,1c ). Ester è figura dell’anima penitente, il cui volto nella confessione deve essere perfuso del colore rosso della vergogna. La vergogna è detta in lat. verecundia, perché vera timeat, teme le cose vere. Chi teme i giudizi veritieri di Dio, nella confessione prova senz’altro la vergogna che conduce alla gloria. Chi invece non sente vergogna dei suoi peccati, è segno che non ha paura. Dice Geremia: "Hai la sfrontatezza della prostituta: non vuoi arrossire" ( Ger 3,3 ). Invece Ester aveva il cuore triste e attanagliato dall’angoscia, perché il penitente è oppresso dalla tristezza nella contrizione e stretto dall’angoscia nella confessione; e nella confessione ha gli occhi riconoscenti e luminosi, a motivo della profusione delle lacrime; e così attraversa una dopo l’altra tutte le porte, enumerando tutti i peccati come li ha commessi: peccati che ci chiudono, come le porte, l’ingresso alla vita eterna. Un’espressione importante per la confessione: "Attraversate una dopo l’altra tutte le porte, si fermò alla presenza del re". Non potrai stare davanti a Gesù Cristo se non avrai prima aperte una dopo l’altra tutte le porte: solo così potrai mostrargli la tua faccia. E come sia questa faccia, lo spiega lui stesso quando dice: "Suoni la tua voce ai miei orecchi, la tua voce è dolce". Lo sposo si compiace di ascoltare con gli orecchi della pietà la melodia della confessione. E osserva che dice "voce". La voce è l’aria che colpisce, percuote la lingua, e rivela la volontà dell’animo. La vera confessione è quella dove c’è la "percussione", cioè il rimprovero dei peccati, che svela tutto ciò che sta nascosto all’interno. Giustamente quindi è detto: "Mostratevi". Mostratevi da voi stessi, non per mezzo di altri. Hai peccato in te stesso e con te stesso, è giusto che in te stesso e da stesso vada a mostrarti. "Ai sacerdoti": poiché dai sacerdoti viene imposta la penitenza; dicendo "ai sacerdoti", richiama la necessità dell’opera riparatoria. Con questo capisci chiaramente che i peccatori devono, nella confessione, mostrarsi ai sacerdoti, ai quali soltanto è affidato il potere di legare e di sciogliere. "E mentre vi andavano, furono mondati". Ecco quanto grande è la misericordia di Dio, il quale con la sola contrizione purifica dai peccati, purché ci sia il fermo proposito di confessarli. Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe, quando Dio rivolge la parola ai suo amici: "Prendete sette tori e sette montoni e andata dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi" ( Gb 42,8 ). Il toro e il montone raffigurano la dura cervice e l’ostinazione della superbia: chi la uccide in se stesso, distrugge anche tutti i suoi vizi, indicati appunto nel numero sette. Nel vangelo il Signore dice: "Andate!", e in Giobbe: "Andate!". Nel vangelo: "Mostratevi!", e in Giobbe: "Offrite!". Nel vangelo: "Ai sacerdoti", e in Giobbe: "Al mio servo Giobbe". 14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Ben conosciute sono le opere della carne, che sono: la fornicazione" ( Gal 5,19-21 ), cioè, in lat. formae necatio, la distruzione della forma, dell’immagine di Dio; l’impurità, che si commette con la profanazione della mente, senza l’azione; la lussuria, così chiamata per l’eccesso e la sontuosità dei cibi e delle bevande; l’avarizia, che è la schiavitù degli idoli ( cf. Col 3,5 ) – avaro significa "avido di oro", avidus auri, quindi avarizia –; i venefìci ( stregonerie ), da veleno, il quale è così chiamato ( lat. venenum ) perché va per le vene, e infatti non può nuocere se non viene a contatto con il sangue; il veleno è freddo, e perciò l’anima, che è ignea, fugge il veleno; i venefìci sono le suggestioni demoniache e le adulazioni dei peccatori, le quali non possono nuocere se non arrivano al sangue, cioè se non strappano all’anima il consenso; le inimicizie ostinate; le contese nelle parole; le gelosie, quando due vogliono la stessa cosa; l’ira, l’improvvisa tempesta dell’anima; le risse, così chiamate da rictus, aprire la bocca quasi in un ringhio, quando si picchiano travolti dall’ira; i dissensi, quando nella chiesa si formano delle fazioni; le sette, cioè le eresie, dette sette perché sono delle sezioni, cioè divisioni fatte con un taglio; le invidie dei beni altrui; gli omicidi, le ubriachezze e le orge ( Gal 5,19-21 ). Da tutti questi vizi e peccati si origina nell’anima la lebbra, che la colpisce e la estromette dall’assemblea dei santi. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di mondarci dalla lebbra dei peccati, per poter essere riammessi nell’assemblea dei santi e meritare di salire con te alla celeste Gerusalemme. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. III. Il forestiero ritorna a glorificare Dio 15. "Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò con la faccia a terra ai piedi di Gesù per ringraziarlo: egli era un samaritano. Gesù osservò: Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? E gli disse: àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato" ( Lc 17,15-19 ). Osserva che questo straniero fece tre cose: ritornò, si gettò con la faccia a terra, e ringraziò Gesù. Ritorna colui che non attribuisce a se stesso alcun merito: il bene che fa lo considera dono della misericordia di Dio. Per questo è chiamato samaritano, cioè custode: egli attribuisce a Dio tutto il bene che riceve e così può dire con il salmista: "La mia forza la conserverò da te" ( Sal 59,10 ), cioè attribuendola a te. Vuoi conservare ciò che ricevi? Attribuiscilo non a te, ma a Dio. Se attribuisci a te ciò che non è tuo, sarai dichiarato reo di furto. E se non attribuisci a te ciò che è di altri, ciò che è di altri lo fai tuo. A questo proposito abbiamo una concordanza in Giobbe, dove il Signore gli dice: "Forse che tu scaglierai fulmini ed essi partiranno, e poi ritornando ti diranno: Eccoci?" ( Gb 38,35 ). I fulmini partono dalle nubi, e così anche dai santi predicatori si manifestano opere mirabili. Partono i fulmini quando i predicatori brillano con il fulgore dei miracoli. Però ritornando dicono: "Eccoci!", quando attribuiscono a Dio, e non alle proprie capacità, qualunque cosa riconoscano di aver compiuto di grande. Oppure anche, vengono mandati e vanno, quando dal segreto della contemplazione escono per svolgere la loro missione in pubblico; poi ritornano e dicono a Dio: Eccoci!, perché dopo la missione pubblica tornano di nuovo alla contemplazione. 16. Inoltre: "si getta con la faccia a terra" chi si vergogna dei peccati commessi. L’uomo si getta faccia a terra quando si umilia. Chi si getta con la faccia a terra, vede dove cade; chi invece cade all’indietro, non vede dove cade. I buoni dunque si gettano con la faccia a terra perché si umiliano in queste cose visibili, quando vedono ciò che li attende, per innalzarsi così alle cose invisibili. Invece i cattivi cadono all’indietro, nelle cose invisibili, quando non vedono ciò che li attende. Su questi due modi di cadere, abbiamo una concordanza in Giobbe. Primo modo di cadere: "Giobbe si strappò le vesti, si rase il capo e cadde a terra" ( Gb 1,20 ). Le vesti raffigurano le opere, che ci coprono affinché non ci vergogniamo di essere nudi, e mentre la colpa ci fa piangere, le castighiamo duramente quasi con mano sdegnata. Allora infatti cade dall’animo ogni pensiero di orgoglio e di vanità; in questo appunto consiste radersi il capo: eliminare ogni pensiero di presunzione e riconoscere in se stessi quanto si è fragili. È difficile compiere grandi opere e non nutrire poi grande fiducia in se stessi. Secondo modo di cadere: "I monte cadendo frana, e la roccia si stacca dal suo posto: le acque scavano le pietre e con l’alluvione a poco a poco la terra si disperde" ( Gb 14,18-19 ). Osserva che ci sono due specie di tentazioni: quella che ci assalta all’improvviso e quella che si insinua nella mente a poco a poco, e colpisce l’animo con subdole suggestioni. E il significato è questo: come queste cose inanimate a volte crollano all’improvviso, a volte franano a poco a poco perché si sgretolano a motivo delle infiltrazioni d’acqua, così anche chi è posto in alto come il monte, o precipita all’improvviso come Davide quando guardò Betsabea, oppure si logora con una lenta e lunga tentazione, come Salomone il quale, per l’eccessiva familiarità e pratica di donne, fu trascinato a costruire un tempio agli idoli, lui che prima aveva costruito il tempio a Dio. "La roccia", cioè la mente del giusto, si stacca dal suo posto, cioè dalla giustizia passa al peccato per eccessiva impulsività; e "le pietre", vale a dire le potenze dello spirito, vengono come scavate dalle acque, cioè dalle continue lusinghe del piacere. L’alluvione è l’inondazione delle acque, e viene da alluo, bagnare. 17. Per la sua guarigione, per essere stato mondato, il Samaritano rese grazie; e di questo il Signore stesso lo lodò, dicendo: "Non sono dieci i guariti?". Domanda dove sono gli ingrati, come fossero degli sconosciuti. Questo fatto ci insegna a rendere grazie al Signore per i benefici elargiti. Se infatti Giobbe benedisse il nome del Signore e lo ringraziò anche in mezzo alle sventure, quanto più noi dobbiamo rendere grazie al Signore per tanti benefici elargitici. Il re Ezechia, per non aver elevato il cantico di grazie al Signore dopo la vittoria, fu colpito da malattia ( cf. 2 Re 20,1ss ). Leggiamo invece che Maria, sorella di Mosè, e Debora e Giuditta elevarono il cantico di ringraziamento al Signore per le loro vittorie sui nemici. E da tutto questo dobbiamo imparare ad innalzare canti di lode e a rendere grazie a Dio, datore di tutti i beni. Fa’ attenzione che in questa parte del vangelo sono poste in evidenza tre parole molto importanti: uno solo, samaritano, e straniero: in esse sono indicate tre virtù. Uno solo, indica la concordia dell’unione; samaritano indica la pratica dell’umiltà; straniero indica il sapersi accontentare anche nelle privazioni della povertà. A queste tre parole corrispondono le tre parole del Signore: àlzati, va’, la tua fede ti ha salvato. Alzati perché sei uno solo; va’ perché sei samaritano; la tua fede ti ha salvato perché sei straniero. Chi vive nell’unità e nella concordia si alza per compiere le opere buone. Chi si premunisce con la pratica dell’umiltà va tranquillo e sicuro dovunque. Chi come straniero in questo mondo si orna del segno distintivo della povertà, la fede in Gesù Cristo che fu povero e ospite, lo farà salvo. 18. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza arte dell’epistola: "Invece i frutti dello Spirito sono: la carità" ( Gal 5,22 ), che Agostino definisce "desiderio dell’anima di fruire del Signore per lui stesso, e fruire di sé e del prossimo in ordine a Dio"; il gaudio, cioè la purezza della coscienza; la pace, così chiamata da patto, che è la libertà nella tranquillità; e la pazienza. Considera che la virtù della pazienza si pratica in tre modi: sopportando alcune cose da Dio, come i castighi; alcune cose dal nemico, come le tentazioni; alcune cose dal prossimo, come le persecuzioni, i danni e le ingiurie; in tutte queste circostanze dobbiamo stare molto attenti a non lamentarci troppo dei castighi e dei flagelli permessi dal creatore, per non essere indotti ad acconsentire al peccato, per non reagire malamente. Altri frutti dello Spirito sono: la longanimità nell’attendere; la bontà, cioè la dolcezza dell’animo; la benignità, vale a dire la generosità nelle cose: benigno vuol dire disposto a fare il bene, o bene infiammato ( lat. bene ignitus ) di zelo; la mansuetudine, che a nessuno rivolge ingiurie; mansueto vuol dire "avvezzo alla mano" ( lat. manui assuetus); la fede, per la quale crediamo con semplicità a ciò che in nessun modo siamo in grado di vedere: per la precisione infatti, e come la parola suona, si dice fede quando si avvera a puntino ciò che è stato detto ( fedeltà ); la modestia, che osserva la giusta misura sia nel parlare che nell’operare; la continenza, che si astiene anche dalle cose lecite; la castità, che usa rettamente di ciò che è lecito ( cf. Gal 5,22-23 ). Fortunato quell’albero che produce tali frutti! Fortunata quell’anima che si nutre di tali frutti! Non potrai mai avere questi frutti se non tornerai indietro con quell’unico samaritano e straniero, se non cadrai con la faccia a terra, se non renderai grazie. Allora soltanto meriterai di sentirti dire: "àlzati, va’ in pace, la tua fede ti ha salvato". Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di mantenerci nell’unità e nella concordia, di custodirci nell’umiltà e nella povertà, in modo che possiamo cogliere dall’albero della penitenza i frutti dello spirito, e nutrici così dell’albero della vita nella gloria celeste. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Domenica XV dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della quindicesima domenica dopo Pentecoste: "Nessuno può servire a due padroni"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sulla passione di Gesù Cristo, e sul formare la nostra vita sull’esempio della sua: "L’angelo Raffaele disse a Tobia: Sventra il pesce", ecc. – Parte I: Le due componenti dell’anima: "Nessuno può servire a due padroni". – Il dominio della ragione e quello della sensualità: "Il Signore fece avere a Tobia il favore di Salmanasar"; e "Morto Salmanasar"; inoltre sermone sulla natura del castoro. – Il testamento dell’amore di Dio: "Tutti i giorni della tua vita". – Parte II: Sermone contro la preoccupazione per le cose temporali: "Vi dico: non preoccupatevi"; inoltre: "Ciro voleva conquistare Babilonia". – Sermone ai contemplativi: "Guardate gli uccelli dell’aria"; e ancora: "Tobia era della tribù di Neftali"; la natura degli uccelli. – Sermone contro gli amanti della vanità: "Ho visto gli operatori di iniquità". – Sermone sul disprezzo del mondo e sulla contemplazione di Dio: "Se uno entra per mezzo di me". – Le tre proprietà del giglio e il loro significato: "Osservate i gigli del campo". – Sermone contro i saggi di questo mondo: "Io vi dico che neppure Salomone, in tutto il suo splendore", ecc. – Parte III: Sermone sulla triplice Gerusalemme e sulla sua triplice struttura: "Le porte di Gerusalemme sono fatte di zaffiro". Esordio - La passione di Gesù Cristo e la formazione della nostra vita 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Nessuno può servire a due padroni" ( Mt 6,24 ). Leggiamo nel libro di Tobia, che l’angelo Raffaele gli disse: "Sventra il pesce: prendine il cuore, il fiele e il fegato, e mettili da parte per te; sono necessari e utili medicamenti" ( Tb 6,5 ). Vediamo che cosa significhino il pesce, il suo cuore, il fiele e il fegato. Il pesce è figura di Cristo, che dice a Pietro: "Va’ al mare e getta l’amo, e il primo pesce che viene, prendilo, aprigli la bocca e vi troverai uno statere ( moneta d’argento ): prendila e consegnala a loro per me e per te" ( Mt 17,26 ). Il pesce dunque è figura di Cristo che abitò in questo mare grande e spazioso: egli risalì per primo, cioè si offrì alla morte per la nostra redenzione, affinché ciò che si trovò nella sua bocca, vale a dire nella confessione, fosse dato per Pietro e per il Signore. Giustamente fu pagato un unico prezzo, ma diviso, perché fu dato per Pietro come peccatore, mentre invece il Signore non aveva commesso peccato. La moneta è lo statere, che vale due didramme ( cioè quattro dramme ), perché fosse manifesta la somiglianza nella carne ( cf. Rm 8,3 ), in quanto il Padrone ( Signore ) e il servo vengono liberati allo stesso prezzo. Oppure anche, lo statere nella bocca di Cristo è figura della sua misericordia e della sua giustizia; misericordia quando disse: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi" ( Mt 11,28 ); giustizia quando dirà: "Andate, maledetti, al fuoco eterno" ( Mt 25,41 ). Sventra dunque questo pesce, medita cioè profondamente sulla vita di Cristo, e vi troverai il cuore, il fiele e il fegato. Con il cuore comprendiamo, con il fiele ci arrabbiamo e con il fegato amiamo. Nel cuore è simboleggiata la sapienza, nel fiele l’amarezza e nel fegato l’amore di Gesù Cristo. Con il sapore della sapienza, la quale si estende da un confine all’altro e governa con bontà eccellente ogni cosa ( Sap 8,1 ), condisci la tua insipienza; mescola l’amarezza della sua passione ai tuoi piaceri; metti il suo amore al di sopra di ogni altro amore, che senza il suo amore non può essere detto amore ma dolore. Questi sono i medicamenti utili all’anima tua, e se tu li riserverai per te sarai servo non del diavolo ma di Dio, non della carne ma dello spirito, non del mondo ma del cielo. La sapienza di Cristo spezza il potere del diavolo. Dice Giobbe: "La sua sapienza abbatté il superbo" ( Gb 26,12 ). L’antico avversario è stato sconfitto non dalla forza ma dalla sapienza, perché quando si avventò temerariamente contro Cristo, nel quale non cera nulla che lo riguardasse, a ragione gli sfuggì di mano l’uomo, sul quale aveva un certo diritto di dominare. L’amarezza della passione di Cristo riesce a soffocare anche gli appetiti della carne. Disse qualcuno: Il ricordo del Crocifisso crocifigge i vizi. E su questo vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: "Un cieco sedeva lungo la via". Così pure il contravveleno del suo amore elimina il veleno delle ricchezze. Infatti sta scritto nel libro di Tobia che "il suo fumo", cioè l’efficacia del suo amore, "scaccia ogni specie di demoni" ( Tb 6,8 ), cioè ogni brama di ricchezze, le quali, come demoni, straziano e fanno soffrire gli uomini. Tutti i ricchi di questo mondo sono come indemoniati, si affannano da una parte all’altra, fatti servi non del vero ma del falso padrone. È proprio di costoro che il vangelo di oggi dice: "Nessuno può servire a due padroni". 2. E osserva che vogliamo dividere il vangelo di oggi in tre parti. La prima: "Nessuno può servire a due padroni". La seconda: "Vi dico: Non preoccupatevi". La terza: "Cercate prima il Regno di Dio". La prima tratta dei due padroni, la seconda ci insegna ad eliminare ogni preoccupazione, la terza ci comanda di cercare prima di tutto il regno di Dio. Nota anche che in questa terza domenica di settembre si legge nella chiesa il libro di Tobia, dal quale prenderemo alcuni passi per vederne la concordanza con le tre parti del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Pietà di me, Signore, a te grido tutto il giorno" ( Sal 86,3 ). Si legge poi la lettera del beato Paolo apostolo ai Galati: "Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" ( Gal 5,25 ); la divideremo in tre parti e ne vedremo la concordanza con le suaccennate tre parti del vangelo. La prima parte: "Se viviamo nello Spirito". La seconda parte: "Portate i pesi gli uni degli altri". La terza parte: "Chi semina nello Spirito". E fa’ molta attenzione, perché questa epistola si legge con questo vangelo per il fatto che il Signore, nel vangelo, proibisce le preoccupazioni dell’anima, cioè dell’animalità; insegna a cercare il regno di Dio; e Paolo nell’epistola insegna a vivere secondo lo spirito, insegna a seminare non nella carne ma nello spirito, perché solo chi semina nello spirito raccoglierà la vita eterna. I. I due padroni 3. "Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona" ( Mt 6,24 ). Considera che l’anima ha due potenze: la ragione e la sensualità, che sono come due padroni. Del dominio della ragione, Isacco nella Genesi dice: "Io l’ho costituito tuo padrone e ho posto sotto il suo servizio tutti i suoi fratelli" ( Gen 27,37 ). E questo avviene quando la propria volontà e i sensi del corpo vengono sottoposti al dominio della ragione. Infatti, nello stesso libro, Giacobbe dice di Giuda: "Egli lega alla vigna il suo asinello, e alla vite il figlio della sua asina" ( Gen 49,11 ). Giuda è il penitente, la vigna è la ragione, la vite è la compunzione, l’asina la sensualità, l’asinello i suoi impulsi. Quindi Giuda lega l’asina alla vite e l’asinello alla vigna, quando il penitente domina la sensualità del cuore con la compunzione e costringe sotto il giogo della ragione gli stimoli della sensualità. E nella Genesi si tratta ancora di questo, dove Giuseppe dice ai suoi fratelli: "Mi sembrava che stessimo legando i covoni in mezzo alla campagna, quand’ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni gli si mossero intorno e si prostrarono davanti al mio. Gli dissero i suoi fratelli: Forse che diventerai nostro re? O che ci sottometteremo alla tua autorità?" ( Gen 37,7-8 ). Il covone, in lat. manipulus, manipolo o mannello, perché si prende con le mani, è un fascio di steli di grano. Giuseppe è figura del giusto, il cui mannello è la ragione, che quando si leva diritta per mezzo del disprezzo delle cose temporali e se ne sta immobile nell’altezza della contemplazione, gli altri covoni, cioè i sensi del corpo, si sottomettono al suo potere. Per questo Isacco dice: "Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre" ( Gen 27,29 ). E Isaia: "Verranno a te, a capo chino, i figli dei tuoi oppressori", cioè i desideri della carne, "e adoreranno le orme dei tuoi piedi coloro che ti hanno insultato" ( Is 60,14 ). E sul dominio della sensualità, dice Mosè: "Poiché non hai servito il Signore tuo Dio con la gioia e la letizia del cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai il tuo nemico, il quale ti metterà sul collo un giogo di ferro, finché ti avrà distrutto" ( Dt 28,47.48 ). Poiché Adamo non volle sottomettersi a colui che gli stava sopra, non si sottomise a lui colui che gli stava sotto; anzi Adamo stesso fu costretto a servire al suo nemico, cioè al diavolo, o alla propria carne, della quale nessun nemico è più agguerrito nel recar danno; e il suo ferreo giogo, cioè la sensualità o la carnalità, fu posto sopra il collo della ragione. Infatti l’Ecclesiastico dice: "Qual giogo pesante grava sui figli di Adamo, dal giorno della loro nascita!" ( Sir 40,1 ). Il giogo pesante sopra i figli di Adamo dal giorno della loro nascita è il peccato originale, ossia il fomite del peccato, o la concupiscenza, alla quale, dice Agostino, non si deve permettere di comandare. E ci sono le sue brame, cioè le concupiscenze di ogni giorno, che sono le armi in mano al diavolo, che provengono dalla debolezza della natura. Questa debolezza è il tiranno che dà origine ai cattivi desideri. Vuoi sentire quanto pesante è il giogo dei figli di Adamo? Ascolta che cosa sta scritto nei Dogmi ecclesiastici: Tieni per certo, senza il minimo dubbio, che tutti gli uomini, concepiti dall’accoppiamento dell’uomo e della donna, nascono con il peccato originale, soggetti all’empietà, destinati alla morte, quindi per natura figli dell’ira ( cf. Ef 2,3 ), dalla quale nessuno può essere liberato se non per mezzo della fede nel Mediatore fra Dio e gli uomini. 4. Quindi: "Nessuno può servire a due padroni". E su questi due padroni abbiamo una concordanza nel libro di Tobia dove si fa menzione di Salmanasar e di Sennacherib: "Il Signore permise che Tobia godesse del favore del re Salmanasar, il quale gli diede il permesso di andare dove voleva e la libertà di fare tutto ciò che voleva" ( Tb 1,13-14 ). Salmanasar s’interpreta "pacificatore degli angosciati", ed è figura della ragione che, quando è lei che comanda, ridà la pace alla mente angosciata, illumina la coscienza, consola il cuore, lenisce le asprezze, alleggerisce i gravami. E se l’uomo si sottomette alla ragione, trova la grazia, diviene libero, ha la possibilità di andare dove vuole e di fare ciò che vuole. O libera schiavitù e schiava libertà! Non è il timore che rende schiavo o l’amore che rende libero, ma piuttosto il timore che rende libero e l’amore che rende schiavo. Al giusto non viene imposta la legge ( cf. 1 Tm 1,9 ), perché è proprio lui legge a se stesso ( cf. Rm 2,14 ). Ha infatti la carità, vive sottomesso alla ragione, e quindi va dove vuole e fa ciò che vuole. "Io – dice il Profeta – sono il tuo schiavo e figlio della tua schiava" ( Sal 116,16 ). Fa’ attenzione alle parole: schiavo e figlio; schiavo e quindi figlio. O dolce timore che fai dello schiavo un figlio! O amore vero e benefico che fai del figlio uno schiavo! "Figlio della tua schiava" – dice. O uomo, se vuoi godere della libertà, infila il tuo collo nella sua catena e i tuoi piedi nei suoi ceppi ( cf. Sir 6,25 ). Non c’è gioia più grande della libertà: ma non potrai goderla se non piegherai il collo della superbia alla catena dell’umiltà, e non chiuderai i piedi degli affetti carnali nei ceppi della mortificazione. Solo allora potrai dire: "Io sono il tuo schiavo, figlio della tua schiava". E sempre nel libro di Tobia leggiamo che, morto il re Salmanasar, regnò al suo posto Sennacherib il quale, avendo in odio i figli di Israele, comandò che Tobia fosse ucciso e ne confiscò tutti i beni. Tobia però fuggì con il figlio e la moglie, e visse nascosto, privo di tutto ( cf. Tb 1,18.22-23 ). Sennacherib s’interpreta "che elimina il deserto", e raffigura la sensualità, cioè la concupiscenza della carne, la quale elimina dalla mente dell’uomo il deserto della penitenza. La concupiscenza comanda solo quando muore la ragione. Il regresso della virtù segna il successo del vizio. La concupiscenza ha in odio i figli d’Israele, cioè i penitenti, i quali crocifiggono la loro carne insieme con i vizi e le concupiscenze ( cf. Gal 5,24 ). Sta scritto nel libro dell’Esodo: Gli egiziani odiavano i figli d’Israele ( cf. Es 1,13 ). La concupiscenza per mezzo dei suoi complici, cioè dei sensi del corpo, fa ogni sforzo per uccidere lo spirito e svuotarlo di ogni sostanza, cioè delle virtù. E le virtù sono chiamate giustamente sostanza, perché sono il sostegno dell’uomo e fanno sì che non cada, che non si distacchi dalle cose eterne. E per essere in grado di conservare le virtù, è necessario che il giusto se ne fugga con moglie e figlio e viva nascosto e nudo, cioè privo di tutto. Fa’ attenzione a queste tre parole: fuggire, nudo, e nascosto. Vuoi anche tu sottrarti alla concupiscenza della carne? Fuggi! "Fuggite la fornicazione" ( 1 Cor 6,18 ). Nella Genesi si racconta che Giuseppe, "lasciato il mantello nelle mani della sua padrona, fuggì e uscì dalla casa" ( Gen 39,12 ). Lasciò il mantello per non perdere Dio. La Storia Naturale dice che quell’animale che si chiama castoro ha i testicoli che sono potenti rimedi per guarire dalla paralisi, ed è per questo che i cacciatori ne vanno a caccia. Ma quell’animale, indovinando il motivo per cui gli danno la caccia, se li strappa e li getta a coloro che lo inseguono. Per questo appunto è chiamato castoro, perché castra se stesso. Invece l’uomo, nella sua stoltezza, fa tutto il contrario e per salvare le sue miserabili glandole, assecondando la sua turpe lussuria, si consegna al diavolo. "Come alla vista del serpente, fuggi il peccato!" – dice l’Ecclesiastico ( Sir 21,2 ). Nudo, spiritualmente, è colui che nulla attribuisce a se stesso ma tutto a Dio, e che non si nasconde, come Adamo, con le foglie di fico; è colui che non si copre con il mantello della scusa di sé, e dell’accusa degli altri; è colui che si riconosce nudo, come quando è uscito dal grembo di sua madre. Ugualmente, vive nascosto colui che dimora tranquillo nel conclave, nel segreto della sua coscienza, lontano dal chiasso delle cose temporali e dei cattivi pensieri. È colui che sopporta con pazienza le ingiurie, che non si lamenta nelle avversità e che non si gloria quando le cose vanno bene. La moglie e il figlio di Tobia raffigurano la buona volontà e le opere buone: è ciò che dobbiamo portare sempre con noi, dovunque siamo diretti. Dice il vangelo: "Prendi il bambino", cioè le tue opere buone, "e sua madre", cioè la buona volontà che le ha prodotte, "e fuggi in Egitto", cioè riconòsciti esule e povero; oppure considera le tenebre dei tuoi peccati, "e rimani laggiù finché io te lo dirò" ( Mt 2,13 ), cioè riconòsciti peccatore, medita sul tuo esilio fino al tempo in cui io ti dirò "àlzati, affrèttati, amica mia, e vieni. Ormai l’inverno è passato, la pioggia è cessata, se n’è andata" ( Ct 2,10-11 ). Se dunque vuoi affrettarti, è necessario che tu fugga da Sennacherib e ti assoggetti alla ragione e non alla sensualità. Riconosciamo quindi che "nessuno può servire a due padroni". 5. "Infatti, o odierà l’uno e amerà l’altro; o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro". Fa’ attenzione a queste quattro parole: amerà, preferirà, odierà, disprezzerà. Se ami la vita, odi la vita; se preferisci il superiore, disprezzi l’inferiore. E viceversa: Ama te stesso, quale ti ha fatto colui che ti ha amato; odia te stesso, quale tu stesso ti sei fatto; rinfranca la parte superiore di te, e disprezza la parte inferiore. Ama te stesso per lo scopo per il quale ti ha amato colui che si è dato per te; odia te stesso, in quanto hai avuto il coraggio di odiare ciò che Dio ha fatto e amato in te. Questo è ciò che Tobia ha detto al suo figlio: "Tutti i giorni della tua vita, abbi sempre Dio nella tua mente; guardati dall’acconsentire al peccato e dal trasgredire i comandi del nostro Dio" ( Tb 4,6 ). O parola più dolce del miele e di un favo di miele. "Abbi sempre Dio nella tua mente!". O mente, beata più di ogni beato, felice più di ogni altro, se sempre avrai Dio! Che cosa ti manca? Che cosa puoi avere di più? Hai tutto, perché hai colui che tutto ha creato, che da solo è in grado di saziarti, e senza del quale tutto ciò che esiste è nulla. Abbi dunque sempre Dio nella mente. Ecco quale testamento Tobia affidò al suo figlio, quale eredità gli lasciò: "Abbi sempre Dio nella mente". O eredità che tutto possiede, fortunato chi ti possiede, felice chi ti consegue! O Dio, che cosa posso dare per avere te? Pensi che se darò tutto, potrò avere te? E a qual prezzo posso averti? Sei più sublime del cielo, sei più profondo degli inferi, sei più vasto della terra e più largo del mare. In che modo un verme, un cane morto, una pulce ( cf. 1 Sam 24,15 ), un figlio dell’uomo, potrà possederti? È come dice Giobbe: "Non può essere scambiato a peso d’argento, non può essere posto a confronto con le rare essenze delle Indie, non con le gemme più preziose e con gli zaffiri. Non potrà mai uguagliarlo l’oro o il cristallo, né si potrà permutare con vasi d’oro purissimo" ( Gb 28,15-18 ). O Signore Dio, io non ho tutto questo; che cosa dunque devo dare per avere te? Da’ te stesso a me – risponde – e io darò me stesso a te. Da’ a me la tua mente, e nella tua mente avrai me. Tieni per te tutte le tue cose, soltanto dammi la tua mente. Sono frastornato dalle tue parole, non ho bisogno di sapere i fatti tuoi: dammi solo la tua mente. Fa’ attenzione che dice sempre. Vuoi avere sempre Dio nella mente? Abbi sempre te stesso di fronte a te. Dove è l’occhio, lì c’è la mente; abbi sempre l’occhio fisso su te stesso. Tre cose ti ricordo: la mente, l’occhio e te stesso. Dio è nella mente, la mente è nell’occhio, l’occhio è in te. Quindi se vedi te, hai Dio in te. Vuoi avere sempre Dio nella mente? Abbi te stesso, quale egli ti ha fatto. Non andare in cerca di un diverso te stesso. Non voler far te stesso diverso da quello che lui ti ha fatto, e così avrai sempre Dio nella tua mente. "Non potete servire a Dio e a mammona". Qui la Glossa commenta: Mammona, in lingua siriaca, significa ricchezza: servire alla ricchezza significa rinnegare Dio. Non dice avere la ricchezza, ciò che è lecito, purché venga bene impiegata, ma esserne schiavi, il che è proprio dell’avaro. Si dice anche che questo sia il nome di quel demonio che presiede alle ricchezze: non perché siano in suo potere, ma perché di esse si serve per ingannare, accalappiando con i lacci delle ricchezze. Maledetta mammona! Ahimè, quanti religiosi ha accecato! Quanti claustrali ha infatuato! Quanti secolari ha precipitato all’inferno. Essa è lo sterco di rondine che ha reso ciechi gli occhi di Tobia ( cf. Tb 2,10-11 ). Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo "Un cieco sedeva lungo la via". 6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Se viviamo dello spirito, camminiamo anche secondo lo spirito" ( Gal 5,25 ). In questa prima parte l’Apostolo mette a confronto tra loro la ragione e la concupiscenza della carne. È la ragione che ci fa vivere e camminare secondo lo spirito, che ci guida cioè a condurre una vita santa; al contrario è la concupiscenza che ci fa "bramosi della vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri" ( Gal 5,26 ). Così pure è a causa della concupiscenza, se uno è soggiogato da qualche vizio; invece è frutto della ragione che gli spirituali, che usano cioè la ragione, correggano il colpevole con spirito di dolcezza: infatti è proprio della ragione, l’abbiamo detto, tranquillizzare gli angosciati ( cf. Gal 6,1 ). Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, di infondere in noi la luce della tua grazia, affinché viviamo guidati dalla ragione, sottomettiamo la carne, e possiamo giungere a te, che sei la vita. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. II. Bandire le preoccupazioni 7. "Io vi dico: non preoccupatevi di quello che mangerete, o per il vostro corpo di quello che indosserete. Forse che la vostra anima ( vita ) non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo … i gigli del campo … l’erba del prato", ecc. ( Mt 6,25-30 ). Fa’ attenzione che in questa seconda parte vengono poste in evidenza tre entità di particolare importanza, e cioè: gli uccelli, i gigli, l’erba. Trattiamone singolarmente. "Io vi dico" di non farvi distogliere dalle cose eterne, preoccupandovi di cose che non valgono nulla; "di non preoccuparvi", perché questo significa essere schiavi delle ricchezze; "dell’anima" ( della vita ), della vostra animalità, alla quale sono necessarie queste cose, cioè il vitto e il vestito. Dice la Glossa: Con il sudore del volto si guadagna il pane; quindi la fatica è necessaria, mentre la preoccupazione dev’essere bandita perché turba la mente, in quanto teme di perdere ciò che possiede o teme che non riesca ciò a cui si lavora. "L’anima non vale forse più del cibo?" Qui per anima si intende vita, che si mantiene con il cibo. È come se dicesse: Colui che ha dato il più, cioè la vita e il corpo, darà anche il meno, cioè il vitto e il vestito. E nessuno dubiti della veridicità di queste promesse; l’uomo sia come dev’essere, e subito gli verranno date tutte le cose, che del resto sono state create per lui. La preoccupazione distrae la mente, dopo averla distratta la divide, dopo averla divisa, il diavolo la rapisce e così la uccide. Nella Storia Scolastica ( Comestore ), dove parla delle vicende del profeta Daniele, si racconta che Ciro, essendo intenzionato a conquistare la città di Babilonia, lontano dalla città divise l’Eufrate in tanti canali, e rese così guadabile il letto del grande fiume che attraversava la città stessa. Andando per il letto del fiume, i suoi soldati entrarono nella città passando sotto le sue mura, e così fu ucciso il re Baltasar. Quella città è figura dell’anima; l’Eufrate è la mente dell’uomo, il letto del fiume è la grazia dello Spirito Santo. Il diavolo dunque, bramando impossessarsi della nostra anima, divide dapprima la mente tra svariate preoccupazioni, alcune sotto il pretesto della necessità, altre sotto il pretesto della carità fraterna; e quando la mente è divisa in questo modo tra diverse preoccupazioni, si inaridisce il fiume della compunzione; quando questo è del tutto disseccato, la città viene presa e la ragione viene uccisa. Per questo "vi dico: non preoccupatevi!" 8. "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre" ( Mt 6,26 ). Gli uccelli del cielo sono i santi, librati nell’aria sulle ali della contemplazione: essi sono così lontani dal mondo, che ormai in terra non si angustiano per nulla, non si affannano, ma vivono già in cielo per mezzo della contemplazione. E su questo abbiamo una concordanza nel libro di Tobia, dove si dice dello stesso Tobia e di Sara, figlia di Raguele, che furono come due uccelli del cielo. Di Tobia: "Tobia, della tribù e della città di Neftali, situata nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson, dopo la strada che porta a ponente, e che ha alla sua sinistra la città di Sefet" ( Tb 1,1 ). Tobia s’interpreta "buono del Signore", Neftali "larghezza", Galilea "ruota", Naasson "auspicio" e Sefet "lettera" o "bellezza". Tobia è figura del giusto, il quale è convinto che il bene che c’è in lui non gli appartiene ma è del Signore, e dice con il Profeta: "Hai usato bontà con il tuo servo, o Signore" ( Sal 119,65 ); e con Isaia: Sei tu, Signore, l’autore di tutte le nostre opere ( cf. Is 26,12 ). "Egli ci ha fatti, e non noi" ( Sal 100,3 ). Ed è scritto che questo "buono del Signore" era della tribù e della città di Neftali. Infatti egli è figlio e cittadino della larghezza, cioè della carità. "Molto largo è il tuo comandamento, Signore" ( Sal 119,96 ). Cristo ha dato il suo testamento ai figli, quando ha detto: "Questo è mio comandamento, che vi amiate a vicenda come io ho amato voi" ( Gv 15,12 ); e il giusto, in quanto suo figlio, per diritto ereditario, è in possesso di questo testamento, e dimora sempre in esso come in una città. "Io abiterò nell’eredità del Signore" ( Sir 24,11 ), "perché la mia eredità mi è molto preziosa" ( Sal 16,6 ). E dov’è questa città? "Nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson". Guarda il volatile che vola nelle regioni superiori: "Io, dice il Signore, sono di lassù, voi siete di quaggiù" ( Gv 8,23 ). Voi girate per terra come una ruota – la ruota si chiama così perché ruit, precipita –, e voi ruitis, precipitate di vizio in vizio. Invece la città del giusto, del "buono del Signore", si trova non nelle zone inferiori, ma nelle parti superiori della Galilea, perché supera la ruota del mondo, tende alle sfere superiori e abbandona quelle più basse e volubili. La sua città è sopra Naasson, perché auspica le cose superiori, contempla cioè le cose celesti. Ecco quindi che la storia di Tobia concorda mirabilmente con il vangelo. Auspicio si dice in lat. augurium, come dire avigarrium o avigerium, cinguettìo, ed è l’arte divinatoria, per la quale uno osserva gli uccelli, cosa fanno e come cantano o cinguettano. Uccello si dice in lat. avis, termine composto da a privativo, senza, e via, quindi senza via, perché l’uccello non percorre una via stabilita. Il contemplativo infatti, quando si alza alle sfere superiori, non ha una via stabilita o diritta, perché la contemplazione non è in potere del contemplativo, ma dipende dalla volontà del creatore, il quale elargisce la dolcezza della contemplazione a chi vuole, quando vuole e come vuole. Dice infatti Geremia: "Lo so, o Signore, che l’uomo non è padrone della sua via, e non è in potere di chi cammina dirigere i propri passi" ( Ger 10,23 ). Considera che alcuni uccelli hanno delle lunghe zampe, e quando volano le tengono distese all’indietro. E ce ne sono altri che hanno le zampe molto corte, e quando volano le tengono strette al ventre per non esserne impediti nel volo, e la cortezza delle zampe non impedisce il volo. Ci sono due categorie anche nei contemplativi. Ce ne sono alcuni che si dedicano agli altri e si prodigano per essi. Ce ne sono altri che non si dedicano né al prossimo né a se stessi e si privano perfino delle cose necessarie. I primi hanno le estremità lunghe, i secondi le hanno corte. I primi, quando si dedicano alla preghiera, si innalzano subito alla contemplazione; essi distendono all’indietro le estremità, cioè i sentimenti e gli affetti con i quali provvedono alle necessità del prossimo, per non essere impediti nel loro volo. O fratello, quando servi al tuo fratello, stendi i tuoi piedi davanti a te e impegna con lui tutto te stesso. Quando invece ti rivolgi a Dio, stendi i tuoi piedi all’indietro, perché il tuo volo sia libero. Incurante di ciò che sarà, del servizio e delle opere buone, di ciò che hai fatto e di ciò che farai, lascia da parte ogni fantasticheria quando sei in preghiera: è proprio in quel momento infatti che sopraggiungono tutti i pensieri inutili che ostacolano l’animo del contemplativo. I secondi invece, che hanno le gambe corte, che non attendono né agli altri né a se stessi, tengono i piedi stretti al ventre, riducono e attenuano nella mente i propri sentimenti, si raccolgono in se stessi affinché la mente, concentrata in una cosa sola, possa spiccare il volo con più facilità e fissare l’occhio dell’anima nell’aureo splendore del sole, senza restare abbagliata. Giustamente quindi è detto: "Tobia, della tribù e della città di Neftali, che si trova nella parte superiore della Galilea, sopra Naasson". 9. "Dopo la strada che porta a ponente, che ha a sinistra la città di Sefet". Il giusto abbandona la strada spaziosa che porta a ponente, cioè alla morte. Dice il Profeta: "La loro strada sia buia e scivolosa e l’angelo del Signore li perseguiti" ( Sal 35,6 ). La strada dei peccatori nella vita presente è buia a motivo della cecità della loro mente, e scivolosa a motivo delle iniquità che compiono. In punto di morte sarà l’angelo del male a perseguitarli e a incalzarli, fino a precipitarli nell’abisso ardente di fuoco. Il giusto invece ha alla sua sinistra la città di Sefet, cioè della cultura e della bellezza, perché reputa sinistra e falsa la scienza ingannatrice, e condanna la filosofia mondana e la bellezza passeggera. "Guardate, perciò, gli uccelli del cielo". Sempre nel libro di Tobia, si racconta che Sara "salì nella stanza al piano superiore della sua casa, e per tre giorni e tre notti restò senza mangiare e senza bere; continuò sempre a pregare e con le lacrime supplicava il Signore" ( Tb 3,10-11 ). Ecco dunque Sara, nome che s’interpreta "grazia" che, come un grande uccello, sale in alto. Anche il giusto prega nella stanza più alta della sua mente. Anche Cristo infatti prega sul monte e Daniele nella sua stanza. Anche Eliseo ed Elia hanno la loro stanza, e Cristo nella stanza, nel cenacolo, celebra la Pasqua. "Per tre giorni e tre notti". Il giusto infatti, sia nella prosperità che nelle avversità, innalza la sua preghiera alla Trinità. Fa’ attenzione, nel racconto di Sara, all’ordine delle parole: prima sale alla stanza del piano superiore; poi sta senza mangiare e bere; persevera nella preghiera, quindi si profonde in lacrime. Anche chi vuole volare deve seguire quest’ordine. Prima di tutto deve sollevare l’animo dalle cose terrene, poi castigare il suo corpo, quindi perseverare nella preghiera, e in fine piangere. Commenta la Glossa: La preghiera commuove Dio, le lacrime lo costringono. La lacrima unge, la preghiera punge. "Guardate dunque gli uccelli del cielo". Considera anche quanto appropriata sia la concordanza della storia di Tobia e Sara con l’introito della messa di questa domenica: Abbi pietà di me, o Signore, perché a te grido tutto il giorno. Tu sei benigno e dolce, Signore, e ricco di misericordia con quelli che ti invocano ( cf. Sal 86,3.5 ). Nel libro di Tobia si legge appunto che Tobia e Sara supplicarono il Signore, invocando la sua misericordia. Tobia "incominciò a pregare tra le lacrime dicendo: Tu sei giusto, Signore, e giusti sono tutti i tuoi giudizi, e tutte le tue vie sono misericordia e verità. E ora, Signore, agisci con me secondo la tua volontà" ( Tb 3,1-2.6 ), ed abbi misericordia. E Sara pregò così: "Benedetto è il tuo nome, Signore, Dio dei nostri padri, che dopo esserti adirato usi misericordia, e nel tempo della tribolazione perdoni i peccati a quelli che t’invocano. È certo, Signore, per chiunque ti onora, che se la sua vita è messa alla prova, egli sarà coronato; e se si troverà nella tribolazione sarà liberato; e se anche sarà castigato, conseguirà poi la tua misericordia. Infatti tu non godi della nostra rovina, e dopo la bufera fai ritornare il bel tempo, e dopo le lacrime e i sospiri infondi la gioia. Il tuo nome, Dio d’Israele, sia benedetto nei secoli" ( Tb 3,13.21-23 ). Tutti e due incominciano la loro preghiera con le parole dell’introito: "Abbi pietà, Signore! …". E quanto il Signore sia stato con loro benigno, dolce e ricco di misericordia, è chiaro dalle parole che seguono: "In quello stesso momento la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria del sommo Dio, e fu mandato il santo angelo di Dio Raffaele a risanarli, essendo state le loro preghiere presentate al cospetto di Dio nello stesso momento" ( Tb 3,24-25 ). 10. Ritorniamo al nostro argomento. "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non raccolgono e non ammassano nei granai". Fa’ attenzione a quelle tre parole. La prima è "seminare", la seconda "mietere", la terza "ammassare". Vediamone il significato. Dice Giobbe: "Ho visto quelli che coltivano l’iniquità, che seminano dolori e li raccolgono: al soffio di Dio periscono, e dallo sfogo della sua ira sono annientati" ( Gb 4,8-9 ). Semina dolori chi compie cattiverie, e li raccoglie chi facendo il male ne ricava vantaggi. A questo proposito, il profeta Osea dice: "Avete arato empietà e mietuto ingiustizia, avete mangiato il frutto della menzogna" ( Os 10,13). Ara l’empietà chi trama il male nel suo cuore. Miete ingiustizia chi mette in opera il male che ha tramato. Mangia il frutto della menzogna chi accampa falsi pretesti per il male compiuto e se ne ripromette l’impunità. Il serpente, nel paradiso terrestre, arò l’iniquità, Eva mieté l’ingiustizia e Adamo mangiò il frutto della menzogna, dicendo: "La donna che mi hai dato per compagna, mi ha ingannato" ( Gen 3,12 ). Il diavolo ara con le suggestioni, la carne miete con il piacere, lo spirito mangia quando la ragione acconsente alla sensualità. Ripeta dunque Giobbe: "Ho visto quelli che coltivano l’iniquità, che seminano dolori e li raccolgono: al soffio di Dio sono andati in rovina". Osserva che quando noi soffiamo, prima aspiriamo l’aria da fuori a dentro, poi la espiriamo da dentro a fuori. Si dice dunque che al momento della retribuzione Dio "soffia", perché dai fatti esterni egli formula dentro di sé il giudizio, quindi dal suo consiglio interiore proclama all’esterno la sentenza; dai nostri peccati, che egli vede come al di fuori, istituisce dentro di sé il giudizio, e da ciò che ha stabilito dentro di sé, rende pubblica la condanna. O ciechi, danarosi e voluttuosi, resi ciechi dallo sterco delle rondini, mammona dei demoni, guardate gli uccelli del cielo che contemplano le cose celesti: essi non seminano l’empietà, non mietono l’ingiustizia né accumulano i frutti della menzogna; per questo il Padre celeste li nutre con la compunzione delle lacrime, con l’amarezza dei sospiri, con il desiderio delle cose eterne. Li nutre quando immette in essi la povertà e l’umiliazione della sua Incarnazione, le sofferenze della sua passione, la letizia della sua risurrezione. Li nutre con la dolcezza della contemplazione, con il gaudio della beatitudine celeste. 11. Gesù stesso, nel vangelo di Giovanni, dice: "Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo" ( Gv 10,9 ). Se uno entra attraverso di me, vale a dire attraverso il mio costato aperto dalla lancia, se entra con la fede, con la passione e la compassione, sarà salvo, come la colomba che si rifugia nella fenditura della roccia ( cf. Ct 2,14 ) per sfuggire all’avvoltoio che le dà la caccia; e così entrerà per controllare, per discutere ed esaminare se stesso, e poi uscirà per considerare, calpestare, disprezzare e fuggire la vanità del mondo. La vita del giusto si fonda sempre su queste due realtà: quando entra in se stesso non trova che da piangere, quando esce non vede che cose da fuggire. Nell’entrare c’è la mestizia. Infatti il penitente dice con il salmo: "Entravo ogni giorno pieno di tristezza" ( Sal 38,7 ). Perché noi, miserabili, non ci rattristiamo? Di certo, perché non entriamo ( in noi stessi ) a considerare la nostra malizia e la nostra miseria. Oh, se tu entrassi in te stesso, non vedresti in te se non dolore e tribolazione. Allora cesserebbe il riso, non ci sarebbe posto per la gioia: l’afflizione e l’angoscia seppellirebbero ogni piacere. Sara, figlia di Raguele, era entrata in se stessa, quando diceva: "Tu sai, Signore, che mai ho desiderato un uomo, e ho sempre conservato la mia anima pura da ogni concupiscenza. Mai mi sono unita con chi vuole solo divertirsi, né ho cercato la compagnia di chi vive con leggerezza" ( Tb 3,16-17 ). Parimenti nell’entrare del giusto è simboleggiata la fuga. Dice infatti: "Mi sono allontanato fuggendo e abitai in solitudine ( nel deserto )" ( Sal 55,8 ). Dunque, entrerà e uscirà, e in tutto questo troverà i pascoli: li troverà cioè nel costato di Cristo, nelle proprie sofferenze, nel disprezzo del mondo. Nel costato di Cristo il giusto troverà il pascolo, e quindi può dire: La mia delizia è stare con il Figlio dell’uomo ( cf. Pr 8,31 ), sospeso sul patibolo della croce, confitto con i chiodi, abbeverato di fiele e di aceto, trafitto al costato. O anima mia, queste sono le tue delizie, di queste devi godere, in queste devi trovare la tua gioia. Anche Isaia ti dice: "Allora vedrai, sarai nell’abbondanza, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore" ( Is 60,5 ). Vedrai, o anima, il Figlio di Dio appeso al patibolo, e allora sarai inondata di delizie e di lacrime, palpiterà il tuo cuore per la misericordia del Padre che, pur vedendo il suo Figlio appeso alla croce, non lo deponeva. O Padre, come hai potuto trattenerti. Perché non hai squarciato i cieli e non sei disceso a liberare il tuo Figlio diletto? E nello stupore per tutto questo, il tuo cuore si dilaterà nell’amore del Padre, il quale ci ha dato il Figlio che ci ha redenti, e lo Spirito Santo che ha operato la nostra salvezza. Inoltre il giusto trova i suoi pascoli nella sofferenza del cuore e nel disprezzo del mondo. Giobbe, parlando dell’ònagro ( asino selvatico ), cioè del penitente, dice: "Gira intorno gli occhi ai monti del suo pascolo e cerca tutto ciò che verdeggia" ( Gb 39,8 ). I monti del pascolo raffigurano la contemplazione delle cose eterne, che è nutrimento interiore, e quando le considera è preso da afflizione e pianto. È proprio di questo penitente ricercare tutto ciò che verdeggia, sprezzando le cose transitorie e bramando solo quelle che durano per l’eternità. Tutte le cose poste quaggiù temporaneamente e destinate a finire, sono aride e riarse, e sono disseccate dai godimenti della vita presente come dal sole in estate. Al contrario, sono dette "verdeggianti" quelle cose che nessuna temporaneità può disseccare. Giustamente quindi dice il Signore: "Il Padre celeste li nutre". "Chi di voi, per quanto si sforzi, può aggiungere un cubito alla sua statura? E perché vi preoccupate del vestito?" ( Mt 6,27-28 ). Più sopra ha parlato del cibo, ora parla del vestito. Lasciate dunque la cura di coprire il corpo a colui che lo ha fatto giungere a questa misura. E il Signore convalida la sua esortazione a riguardo del vestito, con un esempio molto pertinente: "Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano e non filano. Ebbene, io vi dico che neppure Salomone, con tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi" ( Mt 6,28-29 ). La Glossa commenta: Quale porpora di re, quale disegno di tessitrice può essere paragonato ai fiori? Il colore stesso è detto "veste" dei fiori, come diciamo: Questi si è coperto di rosso. Salomone, che "fiorì" più di tutti gli altri sovrani, in tutta la sua gloria, in tutto il suo splendore, non fu mai coperto come uno di questi fiori. Infatti non poté coprirsi del colore della neve, come si copre il giglio, nel del color roseo come la rosa, e così dicasi degli altri colori. 12. Senso morale. Considera che nel giglio ci sono tre proprietà: il medicamento, il candore e il profumo. Il medicamento si trova nella sua radice, il candore e il profumo nel fiore. E queste tre proprietà raffigurano i penitenti, poveri nello spirito, che crocifiggono le membra con i loro vizi e le loro concupiscenze, che custodiscono l’umiltà nel cuore per soffocare l’impudenza della superbia, il candore della castità nel corpo e il profumo della buona fama. Essi sono detti gigli del campo, non del deserto, e non del giardino. Nel campo sono indicate due cose: la sodezza della santità e la perfezione della carità. Il campo è il mondo ( cf. Mt 13,38 ): per il fiore, resistere nel campo è tanto difficile quanto meritorio. Fioriscono nel deserto gli eremiti, che si mettono al riparo dall’umana compagnia. Fioriscono nel giardino recintato i claustrali, che sono tutelati dalla vigilanza umana. Ma è molto più meritorio ( eroico ) che i penitenti riescano a fiorire nel campo, cioè nel mondo, dove tanto facilmente si distrugge la duplice grazia del fiore, vale a dire la bellezza della vita santa e il profumo della buona fama. Per questo Cristo stesso si gloria di essere un fiore del campo, quando dice nel Cantico dei Cantici: "Io sono il fiore del campo" ( Ct 2,1 ). Così anche la beata vergine Maria, sua madre, può gloriarsi, perché nel mondo non ha perduto il fiore, pur non essendo né reclusa né monaca, ma ritenendo più eroico fiorire nel mondo, anziché in un giardino o nel deserto. Benché esporsi a questo, dice Agostino, sia piuttosto pericoloso, riuscire a farlo è un grande risultato. Nel campo, o nella campagna, si fanno di solito i combattimenti: anche nel mondo c’è una lorra continua: lotta ingaggiata dalla carne, dal mondo stesso e dai demoni; e nella lotta è indispensabile una santità solida, che deve mantenersi imbattibile contro ogni pericolo. Chi vuole uscire in campo per combattere, misuri prima le sue forze, se è in grado di resistere in così aspra lotta. È preferibile fiorire nel giardino o nel deserto, piuttosto che marcire nel campo; è molto meglio durare lì, che soccombere qui. Inoltre, nell’essere chiamati "gigli del campo", è indicata la perfezione della carità, in quanto i gigli sono alla portata di chiunque li voglia cogliere. "Da’ a chiunque ti chiede" ( Lc 6,30 ), dice il Signore; offri la tua buona volontà, se non hai la possibilità; e se le dai entrambe, molto meglio. "Osservate dunque i gigli del campo, come crescono: non lavorano né tessono". Fa’ attenzione a queste tre cose: crescono, non lavorano, non tessono. Per questo i giusti crescono di virtù in virtù, perché non lavorano e non tessono: tessere vuol dire attorcigliare i fili, ossia filare. Non lavorano a far mattoni in Egitto, vale a dire nei piaceri della carne; e non tessono, cioè non attorcigliano i vari fili dei pensieri attorno a cose temporali. Vuoi crescere? Non affaticarti intorno a te stesso e non tessere per il mondo, e così sarai povero. Dice infatti Giuseppe nella Genesi: "Dio mi ha fatto crescere nella terra della mia povertà" ( Gen 41,52 ). Nella terra della povertà, vale a dire nell’umiltà del cuore, cresce il giusto: quando diminuisce in stesso, in lui cresce Dio. Anche Giovanni Battista diceva: "Egli deve crescere, io invece diminuire" ( Gv 3,30 ). Quando diminuisci te stesso, cresce in te Dio. Dice Isaia: "Il più piccolo diventerà un migliaio, e il pargoletto diventerà una nazione fortissima" ( Is 60,22 ). E questo si avvera quando chi è umile ai propri occhi viene innalzato alla perfezione del pensiero e dell’azione. E il salmo: "L’uomo si avvicinerà al cuore profondo, e Dio sarà esaltato" ( Sal 64,8 ). Altus, in lat. si riferisce sia all’altezza che alla profondità: alto ( e profondo ) è il cielo, e alto ( e profondo ) è il mare. Quando dunque tu ti avvicini al cuore profondo, cioè alla profondità del cuore, vale a dire all’umiltà, allora in te viene esaltato Dio, il quale ti farà salire al di sopra di tutte le cose terrene, nelle quali "c’è solo vanità e afflizione di spirito" ( Qo 1,14 ). "Riflettete" dunque voi, o mondani, innamorati di questo tempo che fugge, "voi che vi affaticate e siete oppressi" ( Mt 11,28 ), voi che attorcigliate fili senza numero, "guardate come crescono i gigli del campo". 13. "Io vi dico che neppure Salomone". Il sapientissimo Salomone sta qui ad indicare i sapienti di questo mondo che, con la loro gloria frivola e passeggera, con tutta la loro scienza che gonfia, con tutta la loro eloquenza menzognera non sono vestiti come uno di questi poveri di Cristo. Questi sono vestiti del candore della purezza, quelli della ruggine della concupiscenza carnale; questi li copre la povertà e la nudità, quelli li scopre l’abbondanza. Sono coperti della loro iniquità ed empietà ( cf. Sal 73,6 ), ma scoperti di virtù; si vestono qui, ma solo per essere denudati altrove. E proprio per loro il Signore soggiunge: "Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?" ( Mt 6,30 ). L’erba è detta qui fieno, in lat. foenum; fieno perché alimenta la fiamma, che in greco si chiama phos; è figura dei carnali, che oggi, nella vita presente, Dio riveste, cioè permette che si rivestano così di cose temporali, e domani, cioè nella vita futura, li getterà nel forno ardente di fuoco. E così alimenteranno di se stessi la fiamma che li brucia. Infatti Isaia dice: "Ecco, voi tutti che accendete il fuoco e siete circondati di fiamme, andate alla luce del vostro fuoco e alle fiamme che avete acceso. La mia mano ha fatto questo per voi: voi giacerete fra i tormenti" ( Is 50,11 ). Anche tu brucerai nel fuoco che hai acceso quaggiù. Vuoi scampare a quel fuoco? Non accendere questo, e se lo hai acceso, spegnilo: spegni cioè l’incendio del peccato. Fa’ attenzione ai due avverbi: oggi e domani. Oggi il peccatore c’è, e domani non ci sarà più; oggi si riveste e domani sarà gettato nel forno. Leggiamo nel primo libro dei Maccabei: "Non abbiate paura delle parole dell’empio, perché la sua gloria andrà a finire in rifiuti e vermi; oggi è esaltato e domani non si trova più, perché è trasformato in terra e i suoi calcoli falliscono" ( 1 Mac 2,62-63 ). Oggi il peccatore si riveste, e domani sarà gettato nel forno. Isaia: "Ogni vestito macchiato di sangue sarà bruciato, sarà preda del fuoco" ( Is 9,5 ). L’anima che ha indossato le vesti della ricchezza insieme con il sangue dei piaceri carnali, sarà preda del fuoco eterno. "Ora, se Dio veste così l’erba del campo …"; come dicesse: Se Dio provvede ai carnali, che sono figli del fuoco eterno, anche il superfluo, che poi serve alla loro rovina, quanto più a voi, che siete i suoi fedeli, non provvederà il necessario? "Non preoccupatevi dunque, dicendo: Che cosa mangeremo, che cosa berremo, con che cosa ci copriremo?" ( Mt 6,31 ). Qui il Signore raccomanda ancor più caldamente e ripete ciò che ha detto all’inizio del discorso: che dobbiamo vivere senza preoccupazioni. E la Glossa commenta: Sembra che qui il Signore rimproveri coloro che, sprezzanti del vitto e del vestito comune, si procurano alimenti o indumenti più lussuosi o più austeri di quelli di coloro con i quali vivono. "Di tutte queste cose si preoccupano i pagani" ( Mt 6,32 ), i quali non si curano delle cose future. Che cosa ha in più del pagano, colui la cui infedeltà gli tormenta lo spirito e lo stanca con le preoccupazioni di questa vita? Le sue preoccupazioni lo rendono simile al pagano, lo rendono cioè infedele. "Il Padre vostro sa"; egli non chiude il suo cuore di fronte ai buoni figli. Quando ascolti il Padre, non dubitare. "Egli sa bene che avete bisogno di queste cose". E ve le dà, a meno che la vostra infedeltà non glielo impedisca. 14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo" ( Gal 6,2 ). Non puoi portare i pesi di un altro, se prima non ti liberi dei tuoi. Alleggerisciti prima dei tuoi, e poi sarai in grado di portare i pesi di un altro. Se sarai un uccello del cielo, un giglio del campo, allora potrai portare i pesi, cioè le tribolazioni, le infermità del prossimo, come fossero il tuo bagaglio, e così adempirai la legge di Cristo, imiterai cioè l’amore, la carità di Cristo, "il quale portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce" ( 1 Pt 2,24 ). Ti supplichiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di sollevarci dalla cose terrene sulle ali delle virtù, di rivestirci del candore della purezza, affinché possiamo portare il peso delle infermità dei fratelli e giungere così fino a te, che hai portato i nostri. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. Si deve cercare prima di tutto il regno di Dio 15. "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" ( Mt 6,33 ). Il regno di Dio è il bene supremo: per questo dobbiamo cercarlo. Lo si cerca con la fede, con la speranza e con la carità. La giustizia ( la santità ) di questo regno poi consiste nel mettere in pratica tutto ciò che Cristo ha insegnato. Cercare il regno di Dio, vuol dire praticare questa giustizia con le opere. Cercate, quindi, prima di tutto il regno di Dio, vale a dire ponetelo al di sopra di tutte le cose: tutto dev’essere fatto in vista di esso, nulla dev’essere cercato all’infuori di esso, e ad esso dev’essere ordinato tutto ciò che cerchiamo. E fa’ attenzione che nel vangelo è detto "vi saranno date in aggiunta", perché tutte le cose appartengono ai figli, e quindi tutte queste cose saranno date anche a coloro che non le cercano. E se a qualcuno vengono negate, si tratta di una prova; e se vengono elargite, ciò viene fatto perché siano rese grazie a Dio, poiché tutto concorre al loro bene ( cf. Rm 8,28 ). A proposito di questo regno, abbiamo una concordanza nel libro di Tobia, dove egli dice: "Le porte di Gerusalemme saranno costruite di zaffiri e di smeraldi, e tutto il recinto delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le sue piazze saranno lastricate di pietre candide e pure, e nelle sue strade si canterà: Alleluia! Benedetto il Signore che l’ha esaltata: duri in essa il suo regno nei secoli dei secoli. Amen". Considera che c’è una triplice Gerusalemme: quella allegorica che è la chiesa militante; quella morale che è l’anima fedele; quella mistica ( anagogica ), cioè la chiesa trionfante. Vedremo come sia ordinata ciascuna di queste tre "Gerusalemme", o chiese. Senso allegorico. Nel passo succitato del libro di Tobia sono nominate quattro specie di pietre: lo zaffiro, lo smeraldo, la pietra preziosa, e la pietra candida e pura: in esse vediamo raffigurati i quattro "ordini" della chiesa militante, e cioè: gli apostoli, i martiri, i confessori della fede e le vergini. Lo zaffiro, del colore del cielo terso, raffigura gli apostoli i quali, disprezzate le cose terrene, a ragione poterono dire: "La nostra patria è nei cieli" ( Fil 3,20 ). Lo smeraldo, di un color verde così intenso e brillante da superare il verde di qualsiasi erba e da colorare di verde l’aria che lo circonda e l’aspetto di chi lo ammira, raffigura i martiri i quali, con l’effusione del loro sangue, hanno irrigato le anime, piantate nel giardino della chiesa dalle fatiche degli apostoli, per conservale nella verdeggiante freschezza della fede. Perciò con lo zaffiro degli apostoli e lo smeraldo dei martiri sono state costruite le porte della chiesa militante, affinché per mezzo di essi fosse aperto l’ingresso al regno. La pietra preziosa raffigura i confessori della fede i quali, contro gli eretici, hanno opposto se stessi come muro per la difesa della casa d’Israele ( cf. Ez 13,5 ). E infine la pietra pura e candida è simbolo delle vergini, splendenti di purezza interiore e di candidezza esteriore, le quali con l’umiltà e con il martirio ( la testimonianza ) si sono sacrificate per il Signore; sul loro esempio le piazze – così chiamate dal greco plàtos, larghezza –, cioè i fedeli, si allargano e si distendono nella pratica della carità, per sottomettersi anch’essi al Signore. 16. Senso morale. Nello zaffiro è simboleggiato il disprezzo delle cose visibili e la contemplazione di quelle invisibili; nello smeraldo è raffigurata la compunzione delle lacrime unita alla confessione dei peccati. Con queste due pietre si costruiscono le porte dell’anima, attraverso le quali è aperto l’ingresso alla grazia dello Spirito Santo. Per mezzo di queste due porte è aperta l’entrata e l’uscita per gustare la dolcezza di Dio, per la vigilanza su te stesso e per il disprezzo del mondo. Nella pietra preziosa poi è raffigurata la pazienza, che è come il muro dell’anima, che la fortifica e la difende da ogni turbamento. La pietra candida e pura è simbolo della castità e dell’umiltà, sulle quali devono volgersi i pensieri e gli affetti della mente; e allora per le strade, e cioè nei sensi del corpo, risuonerà l’alleluia, vale a dire il canto di lode al Signore. E risuona veramente una deliziosa sinfonia quando l’attività dei sensi è in accordo con il candore e con la purezza dei pensieri. 17. Senso mistico. Nello zaffiro è simboleggiata l’ineffabile contemplazione della Trinità e dell’Unità. Nello smeraldo, che ristora gli occhi, la gioiosa visione di tutta la chiesa trionfante; nella pietra preziosa l’eterna fruizione del gaudio celeste; nella pietra candida e pura la duplice stola, cioè la glorificazione dell’anima e del corpo. Quando i santi avranno conseguito tutto questo, allora per le strade di Gerusalemme canteranno l’Alleluia. Nelle strade di Gerusalemme vediamo raffigurati i posti, dei quali il Signore dice: "Nella casa del Padre mio ci sono molti posti" ( Gv 14,2 ), e nei quali con voce instancabile i santi cantano alleluia, lode e gloria. Benedetto sia Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ha innalzato la Gerusalemme militante alla chiesa trionfante che è il suo regno, sul quale egli regna per i secoli eterni. Amen. Proprio di questo regno è detto nel vangelo: "Cercate prima il regno di Dio". Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Chi semina nello spirito, dallo spirito raccoglierà la vita eterna" ( ). Questa è la Gerusalemme costruita con pietre preziose. Questo è il regno di Dio che cerchiamo, quando seminiamo nello spirito. Seminare nello spirito significa cercare la giustizia del regno, della quale è detto ancora: "Non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo" ( Gal 6,9 ), quando anche noi per le vie di Gerusalemme canteremo con voce instancabile: Alleluia. Fratelli, supplichiamo quindi il Signore Gesù Cristo, che ci conceda di cercare il suo regno, di costruire in noi la Gerusalemme morale, in modo da poter giungere a quella celeste ed essere degni così di cantare per le sue strade l’alleluia, insieme agli angeli. Ce lo conceda egli stesso, il cui regno permane per i secoli eterni. E ogni anima virtuosa risponda: Amen, alleluia! Domenica XVI dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della sedicesima domenica dopo Pentecoste: "Gesù era diretto verso una città di nome Naim"; si divide in due parti. – Anzitutto sermone sull’anima penitente, come debba liberarsi dal peccato, perseverare nelle opere di penitenza e ornarsi di tutte le virtù: "Giuditta scese in casa sua". – Parte I: Come si riconosce il peccato mortale: "In ciascuno di noi, quando si cade in peccato…". – Le quattro porte del nostro corpo: "Ognuno secondo la sua schiera". – La vista: "Come l’oriente illumina il mondo". – L’udito: "Il meridione è così chiamato perché…". – Il gusto: "L’occidente è così chiamato perché…"; natura del serpente. – Il tatto: "L’aquilone, o settentrione, è così chiamato perché…". – Sermone sull’astuzia del diavolo: "Oloferne, mentre faceva un giro d’ispezione". – Parte II: Sermone sulla misericordia di Dio, che si manifesta nell’incarnazione e nella passione; la natura del cipresso: "Quando Assuero vide Ester". – I quattro elementi della natura e il loro simbolismo: "Quelli che portavano la bara si fermarono". – L’odio al peccato: "Tu sai, Signore, che ho sempre odiato". – L’umiltà del cuore contrito: "Ester ricorse al Signore". – La confessione: "O Dio, Re e Signore". – La riabilitazione del penitente: "L’uomo che Dio vuole onorare" – La larghezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità e il loro significato: " Radicati e fondati nella carità". Esordio - L’anima penitente 1. In quel tempo: "Gesù era diretto ad una città di nome Naim" ( Lc 7,11 ). Leggiamo nel libro di Giuditta, che questa donna scese nella sua casa "si tolse il cilicio e depose le vesti di vedova. Si lavò il corpo e si profumò con mirra finissima. Si spartì ( Glossa: distinxit, distinse, o divise ) i capelli del capo e vi pose sopra il diadema; indossò le vesti della gioia, mise i sandali ai piedi, si cinse i braccialetti con i gigli, gli orecchini, gli anelli e si abbellì con tutti i suoi ornamenti" ( Gdt 10,2-3 ). Giuditta s’interpreta "che manifesta", ed è figura dell’anima fedele che nella confessione manifesta il suo peccato e innalza la lode del Signore. Essa scende nella sua casa quando, rientrando nella sua coscienza, ripensa ai suoi peccati nell’amarezza della sua anima ( cf. Is 38,15 ). Disse infatti l’angelo ad Agar: "Ritorna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano" ( Gen 16,9 ). Agar s’interpreta "avvoltoio", ed è figura dell’anima che quando, attraverso i sensi del corpo, esce per compiere le opere della carne, è come l’avvoltoio che si getta sui cadaveri. Ad essa l’angelo, cioè la grazia dello Spirito Santo, dice: "Ritorna dalla tua padrona", cioè rientra nella coscienza, "e sotto la sua mano", vale a dire sotto il dominio della ragione, "umìliati" nell’amarezza della penitenza. "Si tolse il cilicio". Nel cilicio è simboleggiato il fetore del peccato: l’anima lo elimina da sé quando, entrando nella sua coscienza, ripensa a ciò che ha commesso e a ciò che ha omesso. Dice il salmo: "Di notte meditavo nel mio cuore, mi impegnavo ed esaminavo il mio spirito" ( Sal 77,7 ). Fa’ attenzione alle tre parole: meditare, impegnarsi ed esaminare. Il peccatore che si trova nella notte del peccato deve meditare nel suo cuore su ciò che ha commesso, su ciò che ha perduto e su ciò che ha acquistato. Ha commesso, ha dato la morte alla sua anima, ha perduto la gloria eterna, si è conquistato la geenna, la dannazione. E per tutto questo deve impegnarsi nella contrizione e nell’amarezza del cuore, deve esaminare e purificare il suo spirito dal fetore del peccato con la confessione della bocca. "Depose le vesti della sua vedovanza". In lat. vestimentum suona quasi come vestigimentum, cioè veste che si allunga fino al vestigium, orma, cioè fino ai piedi. È detta vedova una donna che è sola e non ha più doveri coniugali, derivanti dalla convivenza con l’uomo. La veste della vedovanza raffigura il peccato mortale: quando l’anima ne è rivestita, diventa vedova del vero Sposo; e smette questa veste quando, nella confessione, depone il suo peccato con tutte le relative circostanze. Dice infatti il Signore, come dice Geremia, per bocca di Baruch: "Deponi, Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione; rivestiti della bellezza e dell’onore di gloria, che ti viene da Dio per sempre" ( Bar 5,1 ). La veste del lutto e dell’afflizione è il peccato, nel quale appunto è lutto e afflizione. Il lutto, così chiamato perché è ulcus, cioè piaga ( ulcera ) per il cuore umano, per la cui guarigione si impiegano le consolazioni. Come la piaga affligge il corpo, così il peccato affligge l’anima, alla quale viene rivolta l’esortazione: "O Gerusalemme, deponi" nella confessione "la veste del lutto e dell’afflizione, e rivestiti della bellezza" delle virtù "e dell’onore" di gloria, che è la purezza della coscienza, per essere in grado di giungere alla gloria sempiterna. "E lavò il suo corpo", lavò cioè le opere della carne con le lacrime della penitenza. Disse il Signore a Mosè: "Va’ dal popolo e purificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno" ( Es 19,10-11 ). Fa’ attenzione ai giorni, che sono tre, e raffigurano la contrizione, la confessione e la riparazione. Oggi e domani, cioè con la contrizione e la confessione dobbiamo purificarci, e lavare con le lacrime le vesti, cioè le opere della carne, e così saremo pronti per il terzo giorno, vale a dire per compiere le opere di riparazione. "Si cosparse di mirra finissima", cioè praticò la mortificazione della carne, per uccidere i vermi della concupiscenza. Infatti nel vangelo di Giovanni si racconta che Nicodemo arrivò "portando una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre". Nicodemo stesso e Giuseppe di Arimatea "presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende di lino, insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire presso i Giudei" ( Gv 19,39-40 ). Nicodemo s’interpreta "sottopone a giudizio", e sta ad indicare uno spirito profondamente contrito, che sottopone i sensi del corpo a severo giudizio, perché non vadano errando per i prati del piacere illecito. Questo spirito reca la mistura di mirra e di aloe, cioè la mortificazione della mente e del corpo, nella quale consiste tutta la perfezione dell’uomo: e questo è il senso delle circa cento libbre. Giuseppe s’interpreta "aggiunta", ed è figura della confessione, che deve aggiungersi allo spirito di contrizione. Queste due cose seppelliscono il giusto nel sepolcro di una vita nuova, avvolgendolo con le bende di lino di una coscienza pura, insieme con gli oli aromatici della buona fama. Questa infatti è l’usanza di seppellire dei Giudei, vale a dire dei veri penitenti. "E divise, e spartì i capelli del capo"; divise cioè con attenta discrezione i singoli pensieri della mente. Dice il Signore per bocca di Geremia: "Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca" ( Ger 15,19 ). Una pietra è detta preziosa, per distinguerla da quella vile, che non ha valore; la pietra preziosa è rara. Si dice in lat. vilis da villa; da villa viene la parola villano, cioè colui che non è cittadino, che non ha alcuna urbanità ( urbs, città ), che è senza educazione, senza buone maniere. "Se, dunque, saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, vale a dire il pensiero puro, che è raro, da quello impuro, che viene dalla carne, "sarai come la mia bocca", perché io non dico cose terrene, ma cose celesti. "Si pose sul capo il diadema". È ciò che troviamo anche nell’Ecclesiastico: "Una corona d’oro sopra il suo turbante" ( di Aronne ), "su cui era scolpito il sigillo della santità, insegna di onore e lavoro stupendo" ( Sir 45,14 ). E di questo parla anche l’Esodo, quando il Signore dice a Mosè: "Farai una lamina d’oro purissimo, sulla quale, con lavoro di cesello, inciderai la scritta: Sacro al Signore. La legherai con un cordone di porpora viola al turbante, sopra la fronte del pontefice" ( Es 28,36-38 ). Il capo raffigura la mente; il turbante sul capo simboleggia il fermo proposito della mente di compiere le opere buone; la lamina d’oro sul turbante è l’aurea pazienza sulla quale viene inciso "Sacro al Signore", vale a dire il tetragramma, le quattro lettere joth, he, vau, he ( jhwh ) il nome di Dio, Jawèh. E significa: "Questi è il principio della vita e della passione". Come dicesse ad Aronne: "Questi, che io prefiguro, è il principio della vita, perduta in Adamo, ma anche "della passione", che verrà cioè ricostituita con la sua passione: il genitivo, secondo l’uso della lingua greca, sta per l’ablativo ( di mezzo ). Nella lamina dell’aurea pazienza viene inciso: Passione del Signore, che è la nostra gloria, il nostro onore e l’opera su cui si fonda la nostra forza. "Indossò le vesti della gioia". Le vesti della gioia sono le opere della carità. Dice il salmo: "Felice l’uomo pietoso, che dà in prestito" ( Sal 112,5 ). "Mise i sandali ai piedi": difese cioè tutto l’insieme delle sue opere con i precetti del vangelo. Leggiamo nel vangelo di Marco che gli apostoli erano calzati di sandali ( cf. Mc 6,9 ). E la Glossa spiega: Calzati di sandali, perché il piede non fosse né del tutto coperto, né nudo sul terreno: questo perché il vangelo non rimanga nascosto, né si appoggi a vantaggi terreni. "Si infilò i braccialetti", che in lat. si chiamano dextraliola, cioè ornamento, premio della destra, e simboleggiano il premio della destra [ di coloro che stanno alla destra del giudice ], cioè il premio della vita eterna ( cf. Mt 25,34 ). Disse Gesù: "Gettate le reti alla destra della barca, e prenderete" ( Gv 21,6 ). Gettare a sinistra vuol dire perdere, perché sinistra significa sinens extra, che lascia fuori. Tutto ciò che fai per questo mondo, lo lasci tutto qui, e quindi lo perdi. Invece gettare a destra significa trovare, perché destra significa dare fuori. Se fatichi per la vita eterna, dal tesoro interiore della vita che è posto al di fuori di te, ti viene data la grazia con la quale potrai ritornare alla patria. "Con i gigli", cioè con la castità e la purezza, virtù delle quali è detto nel Cantico dei Cantici: "Il mio diletto che si pasce tra i gigli" ( Ct 2,16 ). Tra i gigli della duplice continenza riposa e si delizia il Figlio della Vergine Maria. "Gli orecchini", cioè i sacrifici dell’obbedienza. È detto nel libro di Giobbe: "E ognuno gli diede una pecora e un orecchino d’oro" ( Gb 42,11 ). Nella pecora è raffigurata l’innocenza, nell’orecchino d’oro l’obbedienza, cioè l’umile ascolto adorno, della grazia dell’umiltà. Qui però c’è da notare che con l’orecchino viene offerta una pecora, e con la pecora viene offerto un orecchino, perché allo spirito innocente si unisce l’ornamento dell’obbedienza, secondo quanto afferma il Signore: "Le mie pecore ascoltano la mia voce" ( Gv 10,27 ). Le pecore, dice il Signore, non i lupi. Chi non ascolta la voce del prelato, non si dimostra pecora, ma lupo. E poiché l’obbedienza stessa non deve essere eseguita per timore, ma per amore, viene riferito che i tre amici di Giobbe gli offrirono appunto un orecchino d’oro. "E gli anelli", cioè il segno della fede operante. Infatti, del figlio prodigo, il padre dice: "Mettetegli l’anello al dito" ( Lc 15,22 ). L’anello al dito simboleggia la fede operante: affinché con le opere sia mostrata la fede e con la fede siano convalidate le opere. "Si abbellì con tutti i suoi ornamenti", cioè con tutte le altre virtù con le quali si abbellisce l’anima. Dice il salmo: "Alla tua destra sta la regina in veste dorata, con grande varietà di ornamenti" ( Sal 45,10 ). Tutte queste cose deve avere colui che viene risuscitato insieme con il figlio della vedova e che viene restituito alla madre sua, la celeste Gerusalemme. Per questo nel vangelo di oggi è detto: "Gesù stava recandosi in una città chiamata Naim". 2. Fa’ attenzione che in questo vangelo vengono poste in evidenza due fatti: l’avvicinamento di Gesù alla porta della città di Naim, e la risurrezione del figlio morto della vedova. Il primo dove dice: "Gesù stava recandosi", ecc. Il secondo dove dice: "Il Signore, vedendo la madre, ne sentì una grande pietà". E nota anche che in questa domenica e durante la settimana si leggono i libri di Giuditta e di Ester, dai quali prenderemo alcuni passi per vederne la concordanza con le parti del vangelo. Nell’introito della messa di oggi si canta il salmo: "Tu sei giusto, Signore, e retto nei tuoi giudizi" ( Sal 119,137 ). Si legge quindi la lettera del beato Paolo agli Efesini: "Vi scongiuro di non perdervi d’animo per le mie tribolazioni per voi" ( Ef 3,13 ). Noi la divideremo in due parti e ne vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. La prima parte: "Vi scongiuro". La seconda: "Radicati e fondati nella carità". E considera anche che questo brano della lettera si legge insieme con questo vangelo, perché nel vangelo si racconta come Cristo risuscitò il figlio della vedova, e Paolo nella lettera dice: "Cristo abiti nei vostri cuori con la fede": è per mezzo della fede che l’uomo risuscita interiormente dai suoi peccati. I. Gesù Cristo si avvicina alla porta della città 3. "Gesù stava recandosi in una città chiamata Naim; camminavano con lui i suoi discepoli e una folla numerosa. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di sua madre: e questa era vedova, e molta gente della città era con lei" ( Lc 7,11-12 ). La Glossa interpreta così il racconto evangelico: "Quando il Verbo, fatto uomo, introdusse il popolo pagano nella Gerusalemme celeste attraverso le porte della fede, ecco che il popolo giudaico, più giovane, morto a motivo della sua infedeltà, viene portato al sepolcro; la madre chiesa, che in questo mondo lo ritiene come suo, circondata da grande numero di popoli, lo piange con pio affetto, e si adopera con pietose lacrime di richiamarlo in vita. Nel frattempo ottiene ciò nei pochi Giudei che si convertono, ma alla fine lo otterrà in pienezza. La bara nella quale il defunto viene portato è figura del corpo umano; i portatori sono i cattivi costumi che conducono alla morte il corpo stesso. Ma Gesù tocca la bara quando innalza sul legno della croce la fragile natura umana; allora i portatori del feretro si fermano, perché non sono più in grado, come prima, di portare alla morte. Quindi Gesù parla, lancia cioè i suoi richiami di salvezza: sentendo le sue parole, il languente si rialza alla vita e con le buone opere viene riconsegnato alla madre". Considera e osserva con attenzione come la storia di Giuditta concordi in maniera appropriata e convincente con il vangelo di questa domenica. Nel vangelo si deve fare attenzione in modo particolare a tre cose: alla città di Naim, al figlio della vedova che vi era morto, e alla vedova stessa. Similmente nel racconto di Giuditta ci sono pure tre cose particolari: la città di Betulia, il suo popolo che vi sta quasi morendo, tormentato dalla sete, e la stessa vedova Giuditta. Il Signore, mosso a pietà dalle lacrime della vedova, le risuscita il figlio; e per le lacrime e le preghiere dalla vedova Giuditta libera il popolo di Betulia dall’assedio dei nemici. Vediamo quale sia il significato morale di tutto questo. La città di Naim e la città di Betulia significano la stessa cosa. Naim s’interpreta "movimento", "agitazione dell’onda" o "fluttuante"; Betulia "casa dolente" o "casa della partoriente": sono entrambe figura del nostro corpo, nel quale c’è il movimento degli impulsi istintivi, il flutto dei cattivi pensieri, il dolore delle tribolazioni, il parto dei gemiti e delle lacrime. Parliamo di queste quattro cose. 4. Considera che in ciascuno di noi, quando si cade in peccato, null’altro avviene se non ciò che è avvenuto ai tre antichi protagonisti, vale a dire al serpente, alla donna e all’uomo. Infatti prima di tutto c’è la suggestione, o per mezzo del pensiero o per mezzo dei sensi del corpo. Se, per effetto della suggestione, la nostra concupiscenza non è indotta al peccato, è sventato il tranello del serpente. Ma se è indotta al peccato, è convinta come lo fu la donna. Avviene talvolta che la ragione riesca a frenare e domare con virile energia la concupiscenza già stimolata. E quando ciò si verifica, noi non cadiamo in peccato ma, pure lottando, riusciamo vincitori. Se invece anche la ragione acconsente e stabilisce di eseguire ciò a cui la libidine la spinge, allora l’uomo viene espulso da ogni vita beata, come lo fu dal paradiso terrestre. Ormai infatti il peccato viene imputato anche se non segue l’azione, perché la coscienza è giudicata colpevole per aver acconsentito. È necessario fare una considerazione anche più profonda e analizzare che cosa nell’anima sia peccato mortale e peccato veniale. Se il peccato non viene trattenuto a lungo, con compiacenza, nel pensiero, ma appena l’impulso sensuale ha colpito la donna, cioè la parte inferiore della ragione, esso viene represso dall’autorità dell’uomo, cioè della ragione, allora è peccato veniale. E quindi di questi pensieri si deve chiedere perdono e battersi il petto dicendo: "Rimetti a noi, Signore, i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori" ( Mt 6,12 ). Se invece, anche col solo pensiero, ci si sofferma volentieri e a lungo su piaceri illeciti, dai quali si deve stare sempre lontani e, pur senza decidere di passare a cattive azioni, se ne rivive con compiacenza il ricordo, allora è peccato mortale, per il quale, se non ci si pente, c’è la dannazione. Leggiamo nella Genesi che Noè generò Cam, e Cam generò Canaan ( cf. Gen 9,18 ), del quale è detto: "Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli" ( Gen 9,25 ). Noè s’interpreta "riposo", Cam "calore" e Canaan "impulso". Dal riposo, cioè dalla tiepidezza e dall’oziosità viene generato il calore della concupiscenza. Dal calore della concupiscenza nasce l’impulso della misera carne. Infatti chi è pieno di calore subito si muove. "Sia maledetto Canaan", sia maledetto l’impulso carnale, che dobbiamo soggiogare e ridurre in schiavitù. E dell’onda dei cattivi pensieri dice Isaia: "Il cuore dell’empio è come un mare agitato che non può mai calmarsi e le cui onde portano su melma e fango" ( Is 57,20 ). E il Signore: "Non v’è pace per gli empi" ( Is 57,21 ). Il cuore dell’empio è come un mare agitato: si gonfia di superbia, ribollisce di lussuria, e allora le onde dei cattivi pensieri portano su melma e fango, producono cioè due danni: calpestano la grazia e portano il sudiciume del peccato. Inoltre, della sofferenza della tribolazione, dice il salmo: "Ho trovato tribolazione e sofferenza" ( Sal 115,3 ). Adamo, cacciato dal paradiso terrestre, trovò le spine della sofferenza nella mente, e i tormenti della tribolazione nel corpo. "La terra ti produrrà spine e triboli" ( Gen 3,18 ). Spina viene da pungere, perché le spine sono appuntite come gli aghi, e tribolo viene da tribolare. Le spine dei dolori pungono l’animo; i triboli delle tribolazioni tribolano il corpo, il quale così partorisce lacrime e gemiti. Ecco la città di Naim, nella quale muore un figlio unico, ecco la città di Betulia nella quale un popolo è tribolato. Il figlio e il popolo sono figura dell’anima umana, tribolata dalle tentazioni e dagli attacchi di nemici invisibili; e se ad essi acconsente o cede, muore miseramente nel corpo stesso. Diciamo dunque: "Ecco che veniva portato al sepolcro un morto, che era figlio unico di sua madre". Si dice defunto, dal verbo lat. defungi, portare a termine, compiere: cessare da un officio o aver eseguito un compito; è defunto chi ha compiuto i doveri della vita, oppure ha finito la vita. Il defunto che viene portato fuori della porta davanti a molta gente, è simbolo di colui che commette il peccato come un criminale, che non nasconde cioè il suo peccato nella cella del cuore, ma lo manifesta agli altri con opere e parole, come attraverso le porte della sua città. La porta per la quale viene portato fuori il defunto è figura di uno dei sensi, con il quale si è caduti in peccato, e soprattutto è figura della vista. La porta è così chiamata perché attraverso di essa è possibile portare dentro o fuori qualcosa. Attraverso gli occhi si porta fuori l’anima a guardare le donne, cioè i falsi piaceri e i loro posti ( cf. Gen 34,1 ), e sempre attraverso gli occhi si porta dentro all’anima la morte, che ne distrugge tutte le virtù. 5. E osserva che la città di Naim, cioè il nostro corpo, ha quattro porte: la porta orientale, l’occidentale, la meridionale e la settentrionale, attraverso le quali viene portata fuori l’anima defunta. Perché non venga portata fuori, queste porte devono venire sbarrate da spranghe e difese da sentinelle. Infatti il Signore, come si legge nel libro dei Numeri, disse a Mosè: Ognuno si accamperà, con la schiera cui appartiene, intorno della Tenda dell’Alleanza. Giuda si accamperà ad oriente, e vicino a lui si accamperanno Issacar e Zabulon. Nella zona meridionale si accamperanno Ruben, Simeone e Gad. Nella zona occidentale si accamperanno Efraim, Manasse e Beniamino. Infine a settentrione si accamperanno Dan, Aser e Neftali ( cf. Nm 2,2-29 passim ). La tenda dell’alleanza raffigura il corpo. Dice infatti Pietro: "Io credo giusto, fino a che sono in questa tenda del corpo, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda" ( 2 Pt 1,13-14 ), cioè questo mio corpo. Le quattro porte di questa città, oppure i quattro lati di questa tenda, sono la vista, l’udito, il gusto e il tatto. Nell’oriente è indicata la vista, perché come l’oriente illumina il mondo, così gli occhi illuminano tutto il corpo. E alla loro custodia si devono mettere Giuda, Issacar e Zabulon. Giuda che, essendo entrato per primo nel Mar Rosso, si meritò il primato su tutte le tribù: dalla sua tribù provennero Davide e Cristo; egli simboleggia la dignità dell’animo regale, che ha il potere di impedire ogni incursione degli impulsi illeciti e disonesti e che, come un leone, non teme alcun assalto di tentazioni. Issacar, che s’interpreta "ricompensa" e simboleggia la ricompensa della vita eterna. Zabulon, che s’interpreta "dimora della fortezza", e simboleggia il fermo proposito della perseveranza finale. Di questi due ultimi dice Mosè: "Rallègrati, Zabulon, nella tua uscita, e tu Issacar, nelle tue tende" ( Dt 33,18 ). Chi persevera nel Signore sino alla fine, cioè fino alla sua uscita da questo mondo, allora potrà veramente rallegrarsi perché passerà alle tende della ricompensa eterna. Se queste tre cose, e cioè la dignità dell’animo regale, l’attesa della ricompensa eterna e la fermezza della perseveranza finale sono riunite tutte insieme, certamente difendono gli occhi da ogni sguardo illecito. Alla regalità dell’animo ripugna guardare cose disoneste; l’attesa della ricompensa invisibile trattiene l’occhio dal fermarsi sulle cose visibili; il proposito della perseveranza mette al riparo dal contagio del peccato, il quale, se entrasse attraverso l’occhio, indebolirebbe la risolutezza dell’animo. Nel meridione è simboleggiato l’udito. Si dice in lat. meridies, come a dire medies, cioè medius dies, a metà del giorno; oppure meridies vuol dire anche più puro, dal termine greco ( sic ) merum, che vuol dire puro. L’udito è come in mezzo tra la vista e il gusto. Vedo da più lontano di quanto non senta; sento da più lontano di quanto non possa gustare. Gustare è come il grado positivo, udire il grado comparativo, vedere il grado superlativo. Quindi Ruben, Simeone e Gad devono accamparsi nell’udito. Mosè disse di Ruben: "Viva Ruben e non muoia, benché sia piccolo di numero" ( Dt 33,6 ). In queste parole è indicata l’umiltà. Poiché eri piccolo ai tuoi occhi, sei divenuto grande ai miei ( cf. 1 Sam 15,17 ). Simeone s’interpreta "sente dispiacere" o "tristezza"; Gad significa "armato". Considera che tre sono le cose che imbrogliano il nostro udito: le parole dell’arroganza, quelle della detrazione, e quelle dell’adulazione. Contro le parole dell’arroganza sii accorto, umile e paziente: "Il modo migliore per vincere – dice il Filosofo – è la pazienza". Contro i detrattori sii come uno che ascolta con dispiacere e con tristezza. Dice Salomone nei Proverbi: "Il vento di tramontana disperde le piogge e un volto pieno di tristezza scoraggia la lingua del detrattore" ( Pr 25,23 ). Contro gli adulatori sii armato con il ricordo della tua iniquità, e credi più alla voce della tua coscienza che alla lingua altrui. Nell’occidente è simboleggiato il gusto. Si chiama occidente perché fa occìdere, cadere ( morire ) il giorno. Nasconde la luce al mondo e vi fa sopravvenire le tenebre. Considera che con la lingua pecchiamo in tre modi: con l’adulazione, con la detrazione e con l’assumere cibo e bevanda oltre il necessario. Aduliamo chi è presente, critichiamo chi è assente, siamo schiavi del piacere della gola, e così tramonta per noi il sole di giustizia e sopravvengono le tenebre dell’ignoranza. In questa zona devono piantare le tende Efraim, nome che s’interpreta "crescente", Manasse che s’interpreta "dimentico", e Beniamino che s’interpreta "figlio dell’amarezza". Quando vuoi far crescere e innalzare uno con la tua lode, tu diminuisci in te stesso. Senti che cosa disse Giuseppe, quando gli nacque il figlio Efraim: "Il Signore mi fece crescere nella terra della mia povertà" ( Gen 41,52 ). Disse "della povertà", non dell’adulazione. Vuoi crescere davanti a Dio e non davanti agli uomini? Non alla creatura, ma al creatore rivolgi ogni lode e ogni gloria. Vuoi liberarti dalla detrazione? Sii Manasse, cioè dimentico di ogni rancore del cuore, di ogni rivalità. Quando parli, non parlare mai di chi è assente, se non in bene. Di ogni persona assente, che non ami in verità e purezza, ti prego, fratello mio, dimenticati, mentre parli, per poter dire ciò che disse Giuseppe, quando gli nacque Manasse: "Il Signore mi ha fatto dimenticare tutti i miei affanni" ( Gen 41,51 ). È veramente un grande affanno danneggiare la vita altrui con la lingua della detrazione, fare proprio il male degli altri, prendere su se stessi il peso degli altri. "Sotto la sua lingua – dice il salmo – affanno e dolore" ( Sal 11,7 ). E Geremia: "Hanno teso la loro lingua come un arco di menzogna e non di verità" ( Ger 9,3 ). E fa’ attenzione, che dice "hanno teso". Nella Storia Naturale si racconta che il serpente protende con astuzia la lingua, nella quale ha due appendici: prima morde con il dente, poi, nella ferita praticata, affonda le due appendici, e allora entra nella ferita un po’ di liquido velenoso, e così avvelena l’uomo ( Plinio ). Il serpente, così chiamato perché serpit, serpeggia, striscia, raffigura il detrattore che mormora e sussurra di nascosto. Nella sua lingua ci sono due appendici: o dice male di colui che non ama, o, se ha paura e non è creduto, lo loda con ironia: Sarebbe perfetto – dice – se non avesse quel tal vizio. Mentre ne morde la vita con la lingua della detrazione, gli inocula il veleno della sua malvagia insinuazione. Similmente, contro i piaceri della gola sii Beniamino, cioè figlio dell’amarezza, vale a dire della passione di Gesù Cristo. Disse Booz a Rut: "Intingi il tuo boccone nell’aceto" ( Rt 2,14 ). E su questo, vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: "Un cieco sedeva lungo la via". Nel settentrione è simboleggiato il tatto. Il settentrione si chiama in lat. aquilo, aquilone, come uno che aquas ligat, lega le acque. L’iniquità ti lega le mani perché tu non le stenda alle opere buone. E in questa zona devono piantare le tende Dan, che s’interpreta "giudizio", Aser, che s’interpreta "ricchezze" e Neftali che s’interpreta "larghezza". Osserva che con il tatto delle mani pecchiamo in tre modi: toccando cose disoneste e turpi, rubando le cose altrui, rifiutando ai poveri ciò che loro appartiene. Contro il primo giudica e condanna te stesso. Contro il secondo sii contento di ciò che hai in giusta misura: "Grande ricchezza è una gioiosa povertà e accontentarsi di ciò che si ha" ( Seneca ). E contro il terzo allarga te stesso: Stendi la mano al povero ( cf. Pr 31,20 ), per ricevere poi il doppio dalla mano di Gesù Cristo ( cf. Is 40,2 ). Se dunque le porte del tuo corpo saranno rese sicure da queste sbarre e da queste sentinelle, il defunto non sarà portato fuori per le porte della città di Naim. 6. Finora hai sentito parlare del figlio defunto, ascolta adesso qualcosa del tribolato popolo di Betulia. Si racconta nel libro di Giuditta che Oloferne, mentre faceva un giro d’ispezione, scoprì che le acque della città provenivano da una sorgente situata nella zona meridionale, fuori della città: allora fece tagliare l’acquedotto che la riforniva ( cf. Gdt 7,6 ). Oloferne s’interpreta "che fiacca il vitello grasso", ed è figura del diavolo che, con l’ardente febbre della lussuria, con la scabbia dell’avarizia e con la vertigine della superbia, fiacca il vitello grasso di questo mondo, vale a dire il peccatore ubriaco di cose temporali. Il diavolo va in giro ad ispezionare, cercando chi divorare ( cf. 1 Pt 5,8 ), e allora scopre che la sorgente, ecc. La sorgente è la grazia dello Spirito Santo; l’acquedotto è la devozione della mente; la zona meridionale raffigura la fede in Gesù Cristo: "Dio verrà dall’austro" ( Ab 3,3 ), vento del sud; la città è figura dell’anima. Quindi la sorgente della grazia fluisce per mezzo dell’acquedotto della devozione, dall’austro dell’incarnazione del Signore, alla città che è l’anima fedele. Però il diavolo, quando lo scopre, con le preoccupazioni del mondo taglia l’acquedotto della mente, e così l’anima che prima era solita attingere nella gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore ( cf. Is 12,3 ), bruciata dalla sete, svuotata della grazia, viene a trovarsi sulle soglie della morte. E considerando tra sé che tutto questo si è avverato per giusto giudizio di Dio e perché l’ha meritato, l’anima, insieme con il popolo di Betulia, prorompe nel canto dell’introito della messa di oggi: "Giusto sei tu, Signore, e retto è il tuo giudizio. Agisci con il tuo servo secondo la tua misericordia" ( Sal 119,137.124 ). La stessa cosa si legge nel libro di Giuditta, dove si dice che "ci fu un pianto generale e nell’assemblea tutti alzarono grandi grida, e per molte ore supplicarono il Signore ad una voce, dicendo: Abbiamo peccato noi e i nostri padri, abbiamo commesso ingiustizie. Tu, Signore, che sei pietoso, abbi misericordia di noi" ( Gdt 7,18-20 ). 7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Vi scongiuro di non perdervi d’animo a motivo delle mie tribolazioni per voi: sono gloria vostra" ( Ef 3,13 ). Invece Oloferne tendeva proprio a questo, quando minacciava il popolo di Betulia: voleva che, oppressi dalle sventure, giungessero alla disperazione e gli consegnassero la città. Così anche il diavolo tormenta l’uomo perché si perda di coraggio, si disperi e cada. "Ma vi scongiuro", dice l’Apostolo, "di non perdervi d’animo nelle tribolazioni, che sono la vostra gloria". E anche Giuditta dice: "Abramo, nostro padre, fu tentato e, dopo la prova di molte tribolazioni, divenne l’amico di Dio" ( Gdt 8,22 ). "Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori" ( Ef 3,14-17 ). E la stessa cosa si legge nel libro di Giuditta, dove dice che "prostrandosi davanti al Signore, lo supplicò dicendo: Signore, Dio di mio padre, Dio dei cieli, creatore delle acque e Signore di tutto il creato, esaudisci me misera, che a te ricorro e che tutto spero dalla tua bontà. Ricordati, Signore, della tua alleanza e mettimi tu le parole sulla bocca, e rendi forte il mio cuore in questa impresa, affinché la tua casa", cioè la chiesa, "resti sempre nella tua santità" ( Gdt 9,1-2.17-18 ). E l’Apostolo: "Cristo abiti per la fede nei vostri cuori". Preghiamolo e supplichiamolo, fratelli carissimi, perché egli difenda le porte della nostra città per opera delle suddette sentinelle; custodisca lui l’acquedotto dell’acqua viva perché non venga tagliato da Oloferne, e abiti nei nostri cuori affinché meritiamo di abitare con lui nei cieli. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. Gesù risuscita il figlio della vedova 8. "La donna era vedova e molta gente della città era con lei. Il Signore, quando la vide, mosso a pietà, le disse: Non piangere! Si accostò e toccò la bara; i portatori si fermarono. Poi disse: Giovinetto, dico a te: àlzati! Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. E Gesù lo consegnò a sua madre" ( Lc 7,12-15 ). La Glossa commenta: Prima si muove a pietà: ecco un esempio di pietà da imitare; poi risuscita: in questo si fonda la fede nella sua mirabile potenza. E su queste due cose abbiamo la concordanza nel libro di Ester. "Quando Assuero vide dinanzi a sé, in piedi, la regina Ester, ella piacque ai suoi occhi: tese verso di lei lo scettro d’oro che aveva in mano", e questo era il segno di clemenza. "Ella, avvicinatasi, baciò la sommità del suo scettro" ( Est 5,2 ). Assuero s’interpreta "beatitudine", ed è figura di Gesù Cristo, che è la beatitudine dei santi. Egli, quando vede Ester, che s’interpreta "nascosta", cioè l’anima che si deve nascondere dalla vista del diavolo nel fianco aperto di Cristo stesso, quando la vede davanti a sé in piedi, e non esitante in mezzo alle tribolazioni, non piegata dai desideri terreni, non seduta nell’ozio del corpo, non adagiata sul letto dei piaceri, essa piace ai suoi occhi. O Gesù beato, beato chi piace ai tuoi occhi, infelice chi piace ai propri. Vuoi piacere a Dio? Dispiaci prima a te stesso. Dice Ezechiele: "Avranno orrore di se stessi per le iniquità commesse e per tutte le loro nefandezze" ( Ez 6,9 ). E allora potrai dire con Davide: "La tua misericordia è davanti ai miei occhi, e mi compiaccio della tua verità" ( Sal 26,3 ). Considera che la misericordia del Signore si manifesta nell’incarnazione e nella passione. Quindi dobbiamo avere davanti agli occhi della nostra mente la misericordia, cioè l’incarnazione e la passione, perché umilino gli occhi della nostra superbia. Dice Salomone nei Proverbi: "Queste cose non si allontanino mai dai tuoi occhi" ( Pr 3,21) . E nell’Esodo: "Questo sarà per te come un segno e un ricordo che pende davanti ai tuoi occhi" ( Es 13,16 ). Dice così sull’esempio di chi fa un nodo ( nel fazzoletto ), o qualcosa di simile, per non dimenticare un impegno, o un fatto che non deve svanire dalla sua memoria. "E mi sono compiaciuto nella tua verità". Dice il salmo: "Nella tua verità mi hai umiliato" ( Sal 119,75 ). Come dicesse: Quando considero l’umiltà della Verità, cioè del tuo Figlio, umilio me stesso e così io ti piaccio. Oppure: "Mi sono compiaciuto nella tua verità" ( fedeltà ), vale a dire nell’adempimento delle tue promesse. Infatti, prima che il Signore adempisse le sue promesse, l’uomo era come sfigurato o degradato, e quindi non poteva certo compiacersi di sé. Ma dopo essere stato rinnovato e ricostituito nella sua dignità per mezzo dell’incarnazione del Figlio di Dio, con la quale le promesse del Signore si adempirono, ha in sé di che compiacersi. E poiché fu Gesù Cristo a operare questo rinnovamento, egli stesso dice nell’Ecclesiastico: "Io sono come un cipresso sul monte Sion" ( Sir 24,17 ). Leggiamo nella Storia Naturale che la foglia del cipresso elimina ( guarisce ) la morfea, che è una specie di lebbra. Così Cristo eliminò la macchia di corruzione che risaltava nella nostra figura, e quindi meritò di sentire per sé e per i suoi battezzati: "Questi è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto" ( Mt 3,17 ). Giustamente quindi è detto che Ester piacque agli occhi di Assuero. "E stese verso di lei lo scettro d’oro". Lo scettro d’oro è la croce della passione di Cristo, con la quale conquistò il potere. Infatti disse: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" ( Mt 28,18 ). E l’Apostolo: "Per questo Dio lo ha esaltato …" ( Fil 2,9 ). Egli tende questo scettro verso l’anima, quando si avvicina e tocca la bara. Ecco la concordanza. La bara raffigura la coscienza dell’uomo: quando il Signore la tocca con lo scettro d’oro della sua passione, vale a dire le imprime i segni del suo sangue e le ravviva il ricordo dei suoi dolori, allora l’anima si rialza, fidando nella sua misericordia, e bacia la sommità dello scettro. La sommità dello scettro, cioè della passione del Signore, fu l’amore, del quale l’Apostolo nell’epistola di oggi dice: "Conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza" ( Ef 3,19 ), e che non potrà mai essere conosciuto appieno. L’amore di Cristo, con il quale egli ci amò sino alla fine, fu superiore ad ogni umana immaginazione. Dio infatti si fece uomo, il giusto morì per gli ingiusti ( cf. 1 Pt 3,18 ). Quindi l’anima bacia la sommità dello scettro, quando si unisce inseparabilmente all’amore di Cristo, e allora può dire con l’Apostolo: "Chi mai potrà separarmi dall’amore di Cristo?" ( Rm 8,35 ). 9. "I portatori della bara si fermarono". Osserva che il peccatore viene come portato dai quattro elementi di cui è composto. Viene portato dalla terra quando pensa solo alle cose terrene; infatti dice il salmo: "Hanno stabilito di volgere i loro occhi alla terra" ( Sal 17,11 ). Viene portato dall’acqua quando medita lussuria; leggiamo infatti nella Genesi che Giacobbe disse a Ruben: "Sei disperso come acqua, non crescerai, perché sei salito sul letto di tuo padre e hai violato il suo talamo" ( Gen 49,4 ). È detto infatti che Ruben si unì con Bila, concubina di suo padre ( cf. Gen 35,22 ). Viene portato dall’aria quando fa tutto per averne lode dagli uomini. L’aria ha molto minore densità di tutti gli altri elementi, e quindi simboleggia la vanagloria, che è un frivolo ed evidente inganno. Dice il salmo: "I figli degli uomini sono bugiardi sulle bilance, per ingannare" ( Sal 62,10 ). O falso ipocrita, per chi vuoi spacciarti? Perché ti vuoi vendere agli uomini ad un peso diverso da quello indicato dalla bilancia o dalla statera della verità? Soppesa prima te stesso con maggior discernimento e non vantare con noi un valore più grande di quello che ti ha indicato la bilancia della giustizia. E infine viene portato dal fuoco quando s’infiamma d’ira. Dice il salmo: "Come cera che fonde saranno eliminati; cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole" ( Sal 58,9 ). Quando il fuoco dell’ira, che viene dal diavolo, cade sul cuore del peccatore, allora si scioglie come cera in parole blasfeme, allora egli si distrugge da se stesso ed esce fuori di sé. Questi quattro "elementi" portano l’anima alla sepoltura dell’inferno; ma se il Signore con la mano della sua misericordia e con lo scettro d’oro della sua passione tocca la coscienza del peccatore, i suddetti quattro vizi vengono distrutti, la mente, ritornata in se stessa, risponde obbedendo al Salvatore e va incontro alla vita. Infatti il vangelo continua: "Giovinetto, dico a te: àlzati! Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Egli lo diede a sua madre". Fa’ attenzione a queste quattro parole: àlzati, si levò a sedere, incominciò a parlare, lo consegnò a sua madre. Questo è il giusto procedimento per ritornare in vita. Per prima cosa il peccatore deve alzarsi: rialzarsi dal peccato, esecrarlo e detestarlo. In secondo luogo deve porsi a sedere, vale a dire umiliarsi nella contrizione del cuore. Terzo punto, deve parlare, con la confessione, e così il Signore – quarto punto – lo restituirà a sua madre, cioè alla grazia dello Spirito Santo. E su queste quattro cose abbiamo anche la concordanza nel libro di Ester. 10. Sull’esecrazione e la detestazione del peccato, dice Ester: "Tu, Signore, che conosci tutte le cose, sai che io odio la gloria dei nemici e detesto il letto dei non circoncisi e di qualunque straniero. Tu conosci la mia debolezza e sai che mi trovo nella necessità, che detesto l’emblema della mia grandezza e della mia gloria, posto sul mio capo nei giorni in cui devo fare la mia comparsa: lo detesto come un panno immondo" ( Est 4,14-16 ). Anche l’anima che vuole rialzarsi dal peccato deve odiare la gloria dei mondani ed esecrare il segno della grandezza e della gloria passeggera e detestarlo come un panno immondo. Parimenti, del cuore contrito nell’umiliazione, leggiamo nel medesimo libro che "Ester si rivolse al Signore, angosciata per il pericolo che le sovrastava. Deposte le sue vesti regali, ne indossò altre più adatte al pianto e al lutto. E invece dei suoi vari profumi, si cosparse la testa di cenere e di immondizie. Mortificò il suo corpo con il digiuno e con i capelli sconvolti si aggirava negli ambienti nei quali prima faceva festa. E scongiurava il Signore, Dio d’Israele" ( Est 4,1-3 ). Anche l’anima, temendo il pericolo della morte eterna che sovrasta i peccatori, deve rivolgersi alla misericordia del Signore, spogliarsi delle vesti della gloria temporale e darsi al pianto e al lutto della penitenza; e invece dei vari profumi, invece dei piaceri della carne, deve cospargersi il capo della mente di cenere, cioè con il ricordo della sua fragilità, e di immondizie, vale a dire con il ricordo della sua iniquità; deve mortificare il suo corpo con il digiuno e percorrere con i capelli sconvolti gli ambienti nei quali prima si divertiva, in modo da sacrificare di se stessa tutto ciò da cui prima ricavava piacere. Parimenti sulla confessione, sempre nel libro di Ester, Mardocheo dice: "O Dio, Re e Signore, esaudisci la mia supplica e sii propizio alla tua eredità; cambia il nostro lutto in gioia" ( Est 3,15.17 ). Ed Ester pregava: "Mio Signore, che sei il solo nostro Re, soccorri anche me che sono sola e non ho altro aiuto fuori di te" ( Est 4,3 ). Mardocheo s’interpreta "amara contrizione", dalla quale proviene poi la vera confessione che ottiene il perdono e che cambia il lutto della penitenza nella gioia della gloria. 11. Inoltre, su come il Signore restituisca il peccatore alla grazia, leggiamo sempre nel libro di Ester: "L’uomo che il re vuole onorare dev’essere rivestito di vesti regali, assiso sul cavallo e con la sella del re, e sopra la sua testa sia posta la corona del re. Il primo dei prìncipi reali tenga il cavallo e, girando per la piazza della città, gridi ad alta voce: Così è onorato colui che il re vuole onorare" ( Est 6,7-9 ). E tutto questo il re Assuero comandò che fosse eseguito nei riguardi di Mardocheo ( cf. Est 6,10 ). Vedremo che cosa significhino le vesti regali, il cavallo e la sella del re, la corona del re e il primo dei prìncipi reali. Le vesti sono così chiamate in quanto vehunt, in quanto cioè presentano e indicano la condizione propria dell’uomo. Il re è figura di Cristo, le cui vesti sono le virtù con le quali riveste l’anima che si è convertita a lui. Dice infatti Ezechiele: "Ti ho lavata con acqua, ti ho ripulita dal tuo sangue, e ti ho unta con l’olio; ti ho rivestita di abiti ricamati, ti ho calzata di sandali color giacinto, ti ho cinta di bisso e ricoperta di leggiadrissimi veli. E ti ho adornata con magnificenza" ( Ez 6,9-11 ). Il sangue è chiamato così perché è soave, e sta a indicare l’immondezza della lussuria che è piacevole per l’uomo, ma poi gli riempie la bocca di sassetti ( cf. Pr 20,17 ), vale a dire dei carboni ardenti della geenna. Il Signore lava questo sangue dall’anima e la purifica con l’acqua della compunzione, la unge con l’olio della sua paterna consolazione, la ricopre di vesti ricamate, cioè con le varie virtù, la calza di sandali color giacinto, le infonde cioè il desiderio delle cose eterne, perché possa calpestare i serpenti e gli scorpioni; la cinge con il bisso della castità, e la avvolge di sottilissimi veli, cioè della semplicità della retta intenzione, e infine la ricopre con l’ornamento della dignità. L’anima, così rivestita, può essere assisa sopra il cavallo che viene sellato per il re. Il cavallo raffigura il corpo; la sella, dal verbo sedere, come dire sedda, sedia, simboleggia l’umiltà o la povertà di Gesù Cristo, nella quale egli fu per così dire seduto, quando si umiliò nella carne umana. Quindi del corpo che vive nell’umiltà e nella povertà è detto giustamente che è della sella del re. Sopra questo cavallo l’anima viene posta, quando la carne viene sottomessa allo spirito, e allora viene incoronata con il diadema regale, vale a dire con l’amore di Dio e del prossimo. "E il primo dei prìncipi reali". Considera che Dio ha costituito per l’uomo tre prìncipi perché lo custodiscano: la ragione, l’intelletto e la memoria. Il primo, e cioè la ragione, deve guidare il cavallo, perché il corpo non vada errando qua e là, e deve condurlo nella piazza della città, cioè nella concordia fraterna, perché non abbia a deviare. O carissimi, così verrà onorato colui che il re, Gesù Cristo, vorrà onorare. Chi dunque vuole essere degno di tale onore, deve anzitutto alzarsi, poi mettersi a sedere, quindi deve incominciare a parlare, ed allora sarà restituito onoratamente a sua madre, cioè alla grazia dello Spirito Santo, per essere in seguito fatto partecipe dell’onore della gloria eterna. 12. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell’epistola: "Radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere, con tutti i santi, quale sia la larghezza, la lunghezza, la sublimità e la profondità" ( Ef 3,17-18 ). Osserva che queste quattro dimensioni concordano con le sopra descritte azioni, e cioè: àlzati, si pose a sedere, incominciò a parlare, e lo consegnò a sua madre. Quando uno si rialza dalla meschinità del peccato, entra in una nuova larghezza di mente. Dice il salmo: "Mi portò al largo e mi salvò perché mi vuole bene" ( Sal 18,20 ). E il Signore, dopo aver risuscitato Lazzaro, disse ai suoi discepoli: "Scioglietelo e lasciatelo andare" ( Gv 11,44 ). Quando uno si rialza dal fetore del peccato, è in grado di andarsene libero. Parimenti, nell’umiltà del cuore contrito sta la lunghezza, dimensione che riguarda il passato, il presente e il futuro. Il passato per piangerlo, il presente per considerare la propria miserevole condizione, il futuro per vivere vigilanti, per premunirsene. Così pure nella confessione sta la sublimità. L’eccelso viene detto sublime: come dire sub limen, oltre il confine. Nel confine sono posti l’ingresso e l’uscita; in essi sono raffigurati il nostro ingresso e la nostra uscita dalla vita. Nell’ingresso alla vita c’è la miseria ( l’affanno ), nell’uscita la tribolazione. La confessione invece è nel sublime, ci situa cioè oltre il confine, perché ci libera sia dalla miseria che dalla tribolazione. La confessione portò il ladrone nel sublime, perché lo liberò dalla miseria e dalla tribolazione. Infatti meritò di sentirsi dire: "Oggi sarai con me", dove non esiste alcuna miseria, ma solo gloria, "in paradiso" ( Lc 23,43 ), dove non c’è alcuna tribolazione ma solo gioia e letizia. E infine nella restituzione del peccatore pentito alla madre sua, c’è la profondità della misericordia di Dio. O profondità della divina clemenza, ben oltre il fondo dell’umana intelligenza, perché la sua misericordia è senza numero. Sta scritto nel libro della Sapienza: "Dio, avendo tutto disposto con misura, calcolo e peso" ( Sap 11,21 ), non volle rinchiudere la sua misericordia entro queste leggi, entro questi termini, anzi è la sua misericordia che tutto racchiude e tutto abbraccia. La sua misericordia è dovunque, anche nell’inferno, perché neppure il dannato viene punito nella misura che la sua colpa esigerebbe. "Della misericordia del Signore è piena la terra" ( Sal 119,64 ), e noi tutti, miseri, abbiamo ricevuto dalla sua pienezza grazia su grazia ( cf. Gv 1,16 ). Paolo: "Per la misericordia di Dio sono quello che sono" ( 1 Cor 15,10 ), e senza di essa sono nulla. O Signore, se tu mi privi della tua misericordia, io sprofondo nell’eterna miseria. La tua misericordia è la colonna che sostiene il cielo e la terra, e se tu la togli, tutto cade in rovina. "È in grazia delle tue molte misericordie – dice Geremia –, se noi non siamo annientati" ( Lam 3,22 ). Veramente molte sono le tue misericordie! Ogni volta che con la mente o con il corpo abbiamo commesso il peccato mortale, e non siamo stati strozzati all’istante dal diavolo, se siamo ancora in vita, dobbiamo attribuirlo all’infinita misericordia di Dio. Egli infatti aspetta che ci convertiamo e quindi non permette che il diavolo ci strozzi. Quindi, di tutte queste misericordie dobbiamo rendere grazie al Padre misericordioso, ogni volta che abbiamo peccato e non siamo stati annientati. O noi miseri! Perché siamo tanto ingrati di fronte a sì grande misericordia? "Dio gli ha dato il tempo di fare penitenza – dice Giobbe dell’empio –, ed egli ne abusa e monta in superbia" ( Gb 24,23 ); e così facendo accumula su di sé la collera per il giorno dell’ira ( cf. Rm 2,5 ). Abbi quindi pietà della tua anima, perché le misericordie del Signore datano da gran tempo ( cf. Sal 89,50 ): egli non si dimentica di aver pietà ( cf. Sal 77,10 ) di colui che ha pietà di se stesso. Queste quattro dimensioni, larghezza, lunghezza, sublimità e profondità, si possono concordare, ma in ordine inverso, con le quattro espressioni che sono riportate alla fine del brano evangelico: "tutti furono presi da timore", ecco la profondità del timore; "e glorificavano Dio", ecco la sublimità della devozione; "e dicevano: Un grande profeta è sorto tra noi", ecco la lunghezza del tempo favorevole: infatti è sorto da lontano, cioè dal seno del Padre, ed è venuto tra noi nella pienezza dei tempi; "e Dio ha visitato il suo popolo" ( Lc 7,16 ), ecco la larghezza della carità, per la quale si è degnato di visitare il mondo. Fratelli carissimi, preghiamo lo stesso Signore Gesù Cristo di farci risorgere dal peccato, di farci risiedere nella contrizione del cuore, confessare i nostri peccati per essere restituiti alla madre, cioè alla grazia, e meritare così di essere condotti per mano degli angeli alla celeste Gerusalemme, la nostra madre di lassù ( cf. Gal 4,26 ). Ce lo conceda colui che è pietoso, benigno, misericordioso e paziente, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima risuscitata a vita nuova risponda: Amen, alleluia. Prologo Rendiamo grazie al Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, perché sotto la sua guida, egli che è via, siamo arrivati alla prima domenica del mese di ottobre. C’è da tener conto che dall’inizio di ottobre all’inizio di novembre vengono letti nella chiesa i libri dei Maccabei, e in questo tempo ci sono quattro domeniche nelle quali vengono letti quattro brani del vangelo, le cui parti noi vedremo di concordare, il meglio possibile – e Dio ce lo conceda –, con alcune parti della storia dei Maccabei. Domenica XVII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della diciassettesima domenica dopo Pentecoste: "Gesù era entrato in casa di uno dei capi dei farisei"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sul predicatore e sul prelato della chiesa e le sue armi: "Giuda Maccabeo indossò la corazza". – Parte I: In quale modo il diavolo capo riuscì ad ingannare Adamo e come ogni giorno faccia di tutto per ingannare i fedeli: "Gesù entrò in casa", e "Antioco entrò nel santuario". – Il funesto ternario che il Signore distrusse con la sua passione per darci la pace: "In quel giorno il Signore ti libererà", e "I frutti delle fatiche dell’Egitto". – Le cinque raccomandazioni che l’Apostolo rivolge nella prima parte della sua lettera: "Vi esorto, io, prigioniero nel Signore". – Parte II: Le acque della concupiscenza: "Le acque di Nemrim"; natura del leopardo e suo simbolismo. – L’idropico, ossia l’avaro: "Ed ecco un uomo". – In che modo il Signore, con la mano della sua misericordia, toglie il peccatore dall’iniquità: "Tobia afferrò il pesce". – Come il penitente debba strappare da sé tutto ciò che è superfluo: "Sefora prese subito una selce taglientissima". – Sermone morale sull’unità e la pace, che il diavolo si sforza di distruggere, e sulla natura e la proprietà delle perle e il loro significato: "Preoccupatevi di conservare l’unità dello Spirito", e tutto ciò che segue. – Parte III: Sermone sull’umiltà: "Quando sei invitato". – Sul castigo del simoniaco: "àlcimo, versando del denaro". – Sermone ai religiosi sul dovere di custodire il cuore: "Uno dei profeti gridò al re". Esordio - Il predicatore e le sue armi 1. In quel tempo: "Un sabato Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei per mangiare il pane, ed essi lo osservavano" ( Lc 14,1 ). Nel primo libro dei Maccabei si racconta che Giuda Maccabeo "indossò la corazza come un gigante, si rivestì delle armi da guerra e impegnò battaglia difendendo il campo con la sua spada. Nelle sue gesta fu simile a un leone, come leoncello ruggente sulla preda" ( 1 Mac 3,2-4 ). Giuda s’interpreta "che glorifica", Maccabeo "che protegge", o "che batte" ( martello ), ed è figura del predicatore, il quale deve appunto fare queste tre cose: glorificare Dio, proteggere il prossimo e battere il diavolo. Il predicatore deve indossare la corazza come un gigante. Fa’ attenzione a queste due cose: il gigante e la corazza. Nel gigante è simboleggiata la costanza, nella corazza la pazienza: queste due virtù sono assolutamente necessarie al predicatore, per essere costante quando parla, e paziente quando i cani latrano contro di lui. Deve infatti esultare come un gigante che percorre la via ( cf. Sal 19,6 ). Di lui dice Giobbe: "Esulta coraggiosamente e con impeto va contro gli armati. Sprezza la paura e non indietreggia di fronte alla spada" ( Gb 39,21-22 ). E così "dalla sommità del cielo", dall’empireo, cioè dal cielo di fuoco, simbolo dell’amore, "sarà la sua uscita" ( Sal 19,7 ) a cacciare il diavolo che abita nel cuore del peccatore; e allora gli è necessaria la corazza della pazienza. La corazza si chiama in lat. lorìca, perché non è fatta con cinghie di cuoio – in lat. loris caret –, ma è intrecciata solo di cerchi di ferro. Così la vera pazienza non è vincolata a favori umani o a paura, ma è intessuta unicamente con i vincoli immutabili dell’amore. Invece la falsa pazienza si astiene dal vendicarsi dell’offesa ricevuta più per vergogna o paura del mondo, che non per amore di Dio. Giuda Maccabeo "si rivestì delle armi di guerra", delle quali l’Apostolo dice: "Abbiate i fianchi cinti con la verità, i piedi calzati con lo zelo per propagare il vangelo della pace; tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza" ( Ef 6,14-17 ). "E difendeva il campo con la sua spada", cioè con la parola di Dio ( cf. Ef 6,17 ) a lui affidata. Il predicatore deve proteggere le anime dei fedeli da tre pericoli: dall’ardore del sole, cioè dalla tentazione della carne; dalla tempesta di fulmini, cioè dalle avversità di questo mondo; dagli attacchi del nemico, ossia dalle tentazioni del diavolo. Ti sei accovacciato per riposare, come un leone" ( Gen 49,9 ). Il predicatore deve prendere le spoglie, cioè strappare dalle mani del diavolo, con la caccia della sua predicazione, le anime prigioniere, come fece Cristo, Leone della tribù di Giuda, che salì sulla croce proprio per impadronirsi della preda, cioè per cacciare il diavolo, nella cui casa poté cosi entrare e impadronirsi delle sue cose ( cf. Mt 12,29 ). Per questo il vangelo di oggi dice: "Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei". 2. Osserva che in questo vangelo sono evidenziati tre momenti: l’ingresso nella casa del capo fariseo, la guarigione dell’idropico, la raccomandazione di Gesù Cristo di praticare sempre l’umiltà. Il primo momento, dove dice: "Gesù entrò". Il secondo: "Ecco che un idropico". Il terzo: "Quando sei invitato a nozze". Nell’introito della messa di oggi si canta: "Largisci la pace, Signore, a quelli che ti aspettano" ( Sir 36,18 ). Si legge poi la lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: "Vi esorto dunque io, prigioniero del Signore" ( Ef 4,1 ); la divideremo in tre parti, considerandone la concordanza con le tre parti del vangelo. La prima parte: "Vi Esorto". La seconda parte: "Preoccupatevi di conservare". La terza parte: "Un solo Signore". Considera poi che si legge questa lettera insieme con questo vangelo perché il Signore nel vangelo parla in particolare dell’umiltà, per mezzo della quale si mantiene l’unità della chiesa: ed è appunto l’unità della chiesa che l’Apostolo, nella lettera di oggi, raccomanda caldamente di mantenere. I. L’ingresso di Gesù Cristo nella casa del capo fariseo 3. "Un sabato Gesù era entrato a mangiare il pane nella casa di un capo dei farisei, ed essi lo osservavano". Vediamo quale sia il senso allegorico della casa, del capo, dei farisei, del sabato e del pane. Il capo è chiamato così perché si prende ( lat. capit ) per primo un posto o una carica, ed è figura del diavolo che per primo prese il primo uomo con un frutto, come si prende il pesce con l’amo. Osserva che chi vuol prendere un pesce all’amo ha bisogno di almeno tre strumenti: il filo, l’esca e il ferro. Nel frutto ci sono tre qualità: il profumo, il colore e il sapore. Il profumo che tira a sé come il filo; il colore che attrae come l’esca; il sapore che prende come l’amo. E con quest’amo il primo uomo fu preso dal capo dei demoni. Su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Antioco "entrò con arroganza nel santuario, ne asportò l’altare d’oro e il candelabro dei lumi, la tavola dell’offerta e gli ornamenti d’oro posti nella facciata del tempio" ( 1 Mac 1,23 ). Antioco s’interpreta "silenzio del povero", e sta ad indicare il diavolo, che al primo uomo, dopo averlo spogliato di tutta la sua gloria, gli nascose la realtà della morte, e gli promise che sarebbe diventato come Dio. Il diavolo con la superbia, per la quale era stato precipitato dal cielo, entrò nel santuario, cioè nel paradiso terrestre, e ne asportò l’altare d’oro, cioè la purezza del cuore, per mezzo della quale viene offerto a Dio l’incenso della devozione. Dice Giovanni nell’Apocalisse: "Udii una voce dai quattro lati dell’altare d’oro, che si trova dinanzi agli occhi di Dio" ( Ap 9,13 ). L’altare d’oro è il cuore puro, che ha quattro lati, cioè le quattro virtù cardinali, dalle quali proviene la voce della contrizione e della confessione. Questo altare sta sempre dinanzi agli occhi di Dio, perché Dio stesso lo guarda con misericordia. Infatti dice Isaia: A chi guarderò, se non all’umile e al mansueto? …" ( cf. Is 66,2 ). "Prese il candelabro dei lumi", spense cioè la luce della ragione, di cui dice il Signore: "Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra?" ( Mt 6,23 ). "E la tavola dell’offerta", cioè la dolcezza della contemplazione, della quale dice il salmo: "Hai preparato davanti a me una mensa" ( Sal 23,5 ). "E gli ornamenti d’oro", vale a dire la carità che orna la facciata del tempio, cioè tutte le opere del cristiano, il quale, come dice l’Apostolo, è il tempio santo di Dio ( cf. 1 Cor 3,17 ). Tutte queste cose il diavolo le tolse al primo uomo, e ogni giorno tenta in tutti i modi di toglierle a tutti gli uomini. È detto in questo passo "capo dei farisei": farisei significa "separati", e raffigurano coloro che si separano dai giusti e formano dei gruppi tra loro. E su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Maccabei: "In quei giorni uscirono da Israele uomini empi che convinsero molti dicendo: Andiamo e facciamo lega con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo allontanati da loro ci sono capitati molti mali. Parve buono ai loro occhi questo ragionamento" ( 1 Mac 1,12-13 ). La casa di questo capo ( diavolo ) era il mondo, di cui egli era diventato padrone come di casa sua a causa del peccato del primo uomo: in questa casa entrò il Signore quando assunse la nostra carne. Giustamente dunque è detto: "Gesù entrò nella casa di un capo dei farisei". E a che scopo vi entrò? "Vi entrò di sabato per mangiare il pane". Fa’ attenzione a queste tre parole: sabato, mangiare, e pane. Sabato s’interpreta "riposo". Mangiare, in lat. manducare, è come portare la mano alla bocca ( lat. manum ducere ad os ). Il pane è così chiamato perché viene presentato insieme con tutti i cibi, o anche perché tutti i viventi lo cercano. Il Signore entrò nel mondo di sabato, cioè per farci riposare, per liberarci dalla schiavitù del diavolo. 4. Dice infatti Isaia: "E in quel tempo, dopo che il Signore ti avrà dato riposo dalla tua fatica, dall’estorsione e dalla dura schiavitù, con la quale eri stato asservito, intonerai questa canzone contro il re di Babilonia, e dirai: Come mai non si vede più l’aguzzino ed è finita l’estorsione? Il Signore ha spezzato il bastone degli empi e lo scettro dei dominatori, che nel loro furore colpivano i popoli di rovina irrimediabile, assoggettavano le nazioni con il terrore, le perseguitavano con crudeltà. Ora finalmente la terra è quieta e tranquilla, gioisce ed esulta" ( Is 14,3-7 ). In quel giorno, quando nelle tenebre spuntò una luce ( cf. Sal 112,4 ), il figlio di Dio, Gesù Cristo, ci diede riposo dalla fatica, dall’estorsione e dalla schiavitù. Giovanni, nella sua prima lettera, ci dice: "Tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne", ecco la fatica, "è concupiscenza degli occhi", cioè avarizia, ecco l’estorsione, "ed è superbia della vita" ( 1 Gv 2,16 ), ecco la dura schiavitù del diavolo. Di queste tre "concupiscenze", il Padre, con le parole di Isaia, dice al Figlio: "Il travaglio dell’Egitto, il commercio dell’Etiopia, e i Sabei di alta statura, passeranno a te e saranno tutti tuoi: cammineranno dietro a te con le mani in catene, si prostreranno davanti a te e ti supplicheranno" ( Is 45,14 ). Egitto si interpreta "tribolazione che attanaglia", ecco la concupiscenza della carne che tormenta e attanaglia l’anima; Etiopia s’interpreta "tenebre" o "caligine", ecco la concupiscenza dell’avarizia, che oscura gli occhi dei saggi; Sabei s’interpreta "prigionieri", ecco la dura schiavitù del diavolo, cioè l’arroganza e la superbia. E contro queste tre concupiscenze il Signore schierò tre virtù, e cioè: l’innocenza della vita contro il travaglio della carne, la povertà dello spirito contro la disonestà dell’avarizia o del commercio, la sua passione e il suo sangue contro l’arroganza e la superbia. Il Signore, quando ti ha mostrato in se stesso queste tre virtù perché tu le imitassi, attraverso l’umiliazione della sua passione ti ha dato riposo dal travaglio dell’Egitto, dal commercio e dalla disonestà dell’Etiopia, dalla schiavitù del diavolo, dall’arroganza e dalla superbia; e ti darà poi il riposo perfetto quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità ( cf. 1 Cor 15,53 ). E allora tu "intonerai questa canzone contro il re di Babilonia", cioè contro gli stimoli della carne, contro il mondo e contro il diavolo, "e dirai: Come mai non si vede più l’aguzzino?", cioè la tirannia della carne, che ogni giorno pretendeva il salario del piacere? "È cessata anche l’estorsione dell’avarizia e della cupidigia? "Il Signore ha spezzato il bastone", cioè la prepotenza "degli iniqui e lo scettro", cioè l’arroganza e la superbia "dei dominatori, che colpivano i popoli, sottomettevano le nazioni e le perseguitavano con crudeltà. Allora la terra, cioè la nostra carne, sarà tranquilla, sarà cioè in accordo con lo spirito, avrà tregua dal travaglio delle tentazioni, sarà liberata dalle estorsioni della cupidigia del mondo, gioirà ed esulterà per essere scampata dalla schiavitù della tracotanza diabolica. Giustamente quindi è detto: "Gesù entrò di sabato nella casa di un capo dei farisei". 5. "A mangiare". Cristo mangiò perché portò la mano dell’azione alla bocca della predicazione; senti infatti come mangiò: "Gesù incominciò a fare e ad insegnare" ( At 1,1 ). E ancora: Era "potente in opere e parole" ( Lc 24,19 ). E a Pietro fu detto: Uccidi e mangia! ( cf. At 10,13 ). Come se al predicatore fosse detto: Uccidi con la spada della predicazione e mangia, cioè porta la mano alla bocca, in modo da fare per primo ciò che predichi agli altri. Su questo infatti c’è la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove "Timoteo disse ai capi del suo esercito: Se Giuda, col suo esercito, si avvicinerà al fiume dell’acqua e lo varcherà per primo contro di noi, non potremo resistergli, perché sarà molto potente contro di noi. Se invece avrà paura di varcarlo e porrà il campo al di là del fiume, lo varcheremo noi, andremo noi contro di lui e avremo la meglio" ( 1 Mac 5,40-41 ). Timoteo s’interpreta "benèfico", ed è figura del diavolo, il quale finge di elargire ai suoi amatori grandi benefici, che sono invece malefìci, e quindi dovrebbe essere chiamato malèfico e non benèfico. Egli ha molta paura che Giuda, cioè il predicatore, varchi il fiume della predicazione, passi cioè dalla riva delle parole a quella delle opere. Se lo farà, metterà in fuga lo stesso Timoteo con il suo esercito. Ma, ahimè! Oggi molti arrivano fino al fiume, si fermano alla riva delle parole e non vogliono passare a quella della opere; e perciò il diavolo non li teme più, e le loro parole perdono di efficacia. Quei predicatori infatti non sono della stirpe degli uomini valorosi che hanno portato la salvezza ad Israele ( cf. 1 Mac 5,62 ). Gli uomini valorosi furono gli apostoli i quali, varcando il fiume, hanno compiuto una vasta opera di salvezza in mezzo al popolo di Dio. Gesù entrò a mangiare "il pane". Il pane è la volontà di Dio, la quale deve essere posta prima e insieme con ogni altro cibo. Disse Giuda Maccabeo: "Sia fatto secondo la volontà del cielo" ( 1 Mac 3,60 ). Ogni opera è sterile se non le si unisce il pane della divina volontà. Volontà di Dio è che il peccatore si converta e viva ( cf. Ez 33,11 ). Il Signore stesso dice per bocca di Isaia: "La tua terra non sarà più detta devastata, ma sarà chiamata mia volontà: e sarà abitata perché il Signore si è compiaciuto in te" ( Is 62,4 ). Quando il peccatore si converte, la terra, cioè la sua mente, viene occupata dalla grazia, e così in essa si ritrova la volontà del Signore, che è vita. Gesù dunque entrò nella casa, di sabato, a mangiare il pane: venne cioè in questo mondo per fare la volontà del Padre. Infatti disse: "Il mio cibo è fare la volontà del Padre mio, che mi ha mandato" ( Gv 4,34 ). Ed Ezechiele: "Egli sederà sulla porta per mangiare il pane davanti al Signore" ( Ez 44,3 ); egli cioè si umilierà nella Vergine per fare la volontà del Padre. E questo è il pane vivo, e chi ne mangerà non morrà in eterno ( cf. Gv 6,50 ). "La carne", vale a dire la volontà della carne, "non giova a nulla" ( Gv 6,64 ). Invece questo pane, cioè la volontà del Signore, sostiene il cuore dell’uomo ( cf. Sal 104,15 ). Dice il Signore nell’Esodo: "Alla sera mangerete le carni, e al mattino vi sazierete di pane, e saprete che io sono il Signore, Dio vostro" ( Es 16,12 ). Nella sera della colpa, quando tramonta il sole della grazia, i peccatori mangiano le carni, cioè fanno la volontà della carne, ma la mia spada, dice il Signore, divorerà le carni ( cf. Dt 32,42 ). Le loro carni sono come le carni degli asini, e il loro estro è come quello dei cavalli ( cf. Ez 23,20 ). "Trafiggi con il tuo timore le mie carni" ( Sal 119,120 ). "La sera, dunque, mangerete carne, e al mattino", cioè al sorgere della grazia, nella contrizione del cuore, nella rinuncia al peccato, "vi sazierete di pane", cioè della volontà del Signore, che più di tutte le cose ristora e sazia l’anima del penitente, e allora "saprete che io sono il Signore, vostro Dio". Quando dalla sera della colpa ci convertiamo al mattino della grazia, allora veramente sappiamo che egli è il Signore, il nostro Dio. E a questo pane aspira ogni essere vivente. Infatti: "Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra" ( Mt 6,10 ), come dicesse: Come si compie nei giusti, così la mia volontà si compirà anche nei peccatori. Visita dunque la terra e inondala, perché non germogli triboli e spine, ma grano che riempia la spiga, cioè la confessione nella contrizione che punge, e con quel grano si faccia il pane della tua volontà, che sostiene il cuore dell’uomo. "E quelli lo osservavano", cioè gli preparavano dei tranelli, oppure astutamente lo tenevano d’occhio per vedere se osservava il sabato. "Il peccatore spia il giusto" ( Sal 37,12 ). Lo spiavano per poterlo rimproverare, non per mettere in pratica i suoi precetti. "Temi Dio – dice Salomone – e osserva i suoi precetti: ogni uomo deve fare questo" ( Qo 12,13 ). Si legge nella Storia Naturale che esiste un animaletto, la raganella ( Plinio ) che si apposta sull’apertura dell’alveare per la quale entrano le api, vi soffia dentro energicamente e aspetta finché escono, e quando qualche ape si accinge a spiccare il volo, la cattura e se la mangia ( Aristotele ). Allo stesso modo, l’uomo superbo e astuto si apposta sull’apertura dalla quale entrano le api, spia cioè la vita e i costumi, le parole e le opere dei giusti, per mezzo delle quali essi entrano nel Regno, e soffia, cioè li loda o li ingiuria. Spera infatti di insuperbirli con le lodi o di abbatterli con le ingiurie. E sta attento se qualcuno di loro esce, se va cioè fuori di sé nell’infatuazione della mente perché lo ha lodato, o prorompe in parole di rabbia perché lo ha ingiuriato. E allora subito lo biasima e discredita la sua vita. Come l’oro si purifica nel crogiolo, così l’uomo viene provato dalla bocca di chi lo loda ( cf. Pr 27,21 ). Il fuoco della lode distrugge il piombo e la paglia, mentre invece rende più splendente l’argento e l’oro. L’ingiuria subìta mette in chiaro quale veramente sia ognuno nel suo intimo. 6. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola di oggi: "Vi esorto io, prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà e mansuetudine, e sopportandovi a vicenda con pazienza nella carità" ( Ef 4,1 ). Considera che in questa prima parte l’Apostolo ci ricorda cinque virtù: il buon comportamento, l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza e la carità. Comportiamoci in modo degno, perché il principe delle tenebre non ci sorprenda; con ogni umiltà, contro la superbia dei farisei; nella mansuetudine, per osservare devotamente il sabato; con la pazienza, perché possiamo mangiare il pane della volontà di Dio; sopportando con carità coloro che ci spiano, che ci osservano, che ci calunniano e che ci perseguitano. E con questa parte dell’epistola concorda pure l’introito della messa di oggi: Concedi la pace, Signore, a quelli che sperano in te, perché i tuoi profeti siano trovati degni di fede; ascolta le preghiere del tuo servo e del tuo popolo, Israele ( cf. Sir 36,18 ). È ciò che viene proclamato anche nel racconto di questa domenica, che troviamo nel secondo libro dei Maccabei: "Apra il Signore il vostro cuore alla sua legge e ai suoi precetti, e vi conceda la pace" ( 2 Mac 1,4 ). Quando il cuore si apre per mezzo della compunzione, la legge della grazia viene scritta in esso per mezzo del dito di Dio, i precetti vengono osservati e ritorna la pace, perché venga celebrato il sabato della mente, si mangi a sazietà il pane della volontà di Dio, e si possa sopportare nella carità la critica e la detrazione. E così i profeti, cioè i giusti o i predicatori santi, saranno trovati degni di fede, e le preghiere del popolo fedele saranno esaudite. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di entrare nella casa della nostra coscienza, di scacciarne il capo dei farisei, cioè l’impulso dei cattivi pensieri che si dividono tra loro il nostro cuore e dividendolo lo distruggono; di restituire alla nostra mente il sabato della pace e del riposo, di farci mangiare il pane della tua volontà, per essere degni così di giungere a te, che sei il pane degli angeli. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. Guarigione dell’idropico 7. "Ed ecco che davanti a Gesù stava un idropico. Rivolgendosi ai dottori della legge e ai farisei, Gesù disse: È lecito o no curare di sabato? Ma essi tacquero. Egli allora lo prese per mano, lo guarì e lo congedò" ( Lc 14,2-4 ). Spiega la Glossa: Ydor, in greco, vuol dire acqua, quindi idropisia vuol dire malattia da acqua. È un sintomo proprio dell’idropico che quanto più beve, tanto più ha sete; per questo viene a lui paragonato colui che è impelagato in un eccesso di piaceri carnali. L’idropico viene paragonato anche a un ricco avaro. Le acque del piacere carnale e della cupidigia mondana producono nell’anima l’idropisia, che mai può essere placata. Queste sono le acque nelle quali sono ammassati tutti i malefìci: chi le berrà se ne vedrà gonfiare il ventre e avvizzire i fianchi ( cf. Nm 5,22.27 ). Queste sono le acque dell’Egitto che furono cambiate in sangue ( cf. Es 7,19-20 ), e delle quali dice Isaia: "Le acque di Nemrim saranno un deserto perché l’erba si è seccata, sono morti i germogli, tutto il verde è scomparso. Saranno castigati in proporzione del male operato e li condurranno al torrente dei salici" ( Is 15,6-7 ). Nemrim s’interpreta "leopardi". Il leopardo è una belva ferocissima che, provocata, assale bramosa di sangue, e nel salto corre incontro alla morte. Si racconta nella Storia Naturale che il leopardo, se inghiotte un veleno, cerca dello sterco umano e lo mangia. Per questo i cacciatori mettono quello sterco sugli alberi in un vaso: e quando il leopardo si avvicina agli alberi e spicca dei salti per prenderlo, lo ammazzano. Il leopardo è figura del superbo di questo mondo, coperto di varie macchie di peccati. Egli, eccitato dal veleno della suggestione diabolica, va in cerca dello sterco delle cose temporali, per mangiarlo e immedesimarsene. Tutto ho reputato come sterco, dice l’Apostolo, al fine di guadagnare Cristo ( cf. Fil 3,8 ). E il Signore dice ad Ezechiele: Coprirai il tuo pane con lo sterco che esce dall’uomo ( cf. Ez 4,12 ). Il pane è il pensiero e l’opera del peccatore, che sono coperti dallo sterco della gola e della lussuria, della superbia e dell’avarizia; il cacciatore, cioè il diavolo, per prenderlo più facilmente, mette lo sterco sopra un albero. L’albero, così chiamato da robur, forza, ( lat. arbor, robur ), raffigura la dignità di questo mondo: si crede ch’essa sia fondata su di una radice salda, e invece viene sradicata dal vento della morte e gettata nel mare dell’inferno. Dice infatti Giobbe: "Ho visto lo stolto fondato su salda radice, e subito ho maledetto la sua floridezza" ( Gb 5,3 ). Su quest’albero il diavolo mette lo sterco come esca, e quando il superbo spicca il salto per cibarsi dello sterco della gola, della lussuria, della vanagloria e del denaro, viene dal diavolo ucciso. Quindi "le acque di Nemrim saranno un deserto". E su questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove si racconta che Antioco "pieno di superbia, spirando il fuoco della sua ira, comandava di accelerare la corsa. Avvenne così che cadde dal carro in corsa, riportando per la caduta gravi contusioni in tutte le membra del corpo. E così colui che era convinto di poter comandare anche alle onde del mare, che nella sua superbia si credeva un superuomo, in grado di pesare sulla statera i monti più alti, ora, gettato a terra, doveva farsi trasportare in lettiga. E colui che poco prima credeva di toccare le stelle del cielo, ora nessuno poteva sopportarlo per il nauseabondo fetore che emanava dal suo corpo" ( 2 Mac 9,7-8.10 ). Ecco come le acque di Nemrim diventano un deserto: così l’erba della gloria temporale si secca, il germoglio dei figli, dei nipoti e dei vari parenti viene meno, e tutto il verde vigore dei piaceri carnali, della gola e della lussuria scompare. "In proporzione della grandezza del male operato" e dell’iniquità dei superbi "sarà anche il loro castigo", perché la pena sarà proporzionata alla colpa, e con il bicchiere con il quale hanno versato da bere agli altri, sarà versato da bere anche a loro, e i demoni che hanno ascoltato quando li istigavano al male, li trascineranno nudi e in miseria, con le mani legate di dietro, "al torrente dei salici", cioè degli eterni tormenti, "dove nessun ordine, ma un orrore sempiterno dimora" ( Gb 10,22 ). Queste sono le acque che gonfiano la mente, che producono l’idropisia e che, bevute, aumentano ancor più la sete. 8. Ecco dunque che "un idropico stava davanti a lui". L’idropico raffigura l’avaro. L’avaro è chiamato così perché è avido d’oro, ( lat. avidus auri ), e non è mai sazio di beni e di ricchezze. Come il corpo si riempie d’aria, così l’avaro si riempie d’oro. È come un abisso senza fondo, che non ne ha mai abbastanza. Dice il salmo: L’abisso della gola chiama l’abisso della lussuria; l’abisso delle gozzoviglie chiama l’abisso delle spese; l’abisso del denaro chiama l’abisso della geenna ( cf. Sal 42,8 ). Ben a ragione questo idropico può dire insieme con il profeta Giona: "Le acque mi hanno accerchiato fino all’anima", ( cioè fino a togliermi il respiro ); l’abisso mi ha avvolto e le onde hanno coperto il mio capo" ( Gen 2,6 ). Nelle acque è simboleggiato il piacere della carne che tiene l’anima assediata come un nemico nell’accampamento; nell’abisso è raffigurata la profondità della cupidigia umana che avviluppa l’anima stessa perché non possa liberarsene; nelle onde è raffigurata la superbia che copre il capo, cioè la mente, perché non possa scoprire la verità. Questi tre pensieri sono riportati anche nel salmo: "Salvami a Dio, perché le acque mi sono arrivate fino all’anima" ( Sal 69,2 ), ecco il primo. "Sono immerso nel fango profondo e non c’è sostanza" ( Sal 69,3 ), cioè consistenza, ecco il secondo. Mentre lo sventurato ammassa sostanze transitorie, perde la sostanza eterna. "Buona è la sostanza ( la ricchezza ) se non lascia peccati nella coscienza" ( Sir 13,30 ). Fa’ attenzione alle tre parole: Sono immerso, nel fango, profondo. Il fango è detto anche limo, perché è molle e cedevole ( lat. limus, lenis ). L’avaro è immerso a causa della cupidigia, nel fango a causa del piacere e nel profondo a causa della disperazione. Il peccatore – dice Salomone – quando ha toccato il fondo del vizio, non bada più a nulla ( cf. Pr 18,3 ). Subentra la disperazione quando non c’è più alcuna speranza di progredire nel bene: fino a che uno è attaccato al peccato, non spera certo nella gloria futura. Infine, "Sono arrivato dove il mare è profondo, e la burrasca mi ha sommerso" ( Sal 69,3 ), ecco il terzo pensiero. La profondità del mare simboleggia la tracotanza della superbia, nella quale c’è la bufera che sommerge per sempre l’uomo nell’abisso della geenna. O Signore Gesù, stendi la tua mano e afferra questo idropico, assediato dalle acque, avvolto dall’abisso e coperto dai flutti. 9. "Gesù lo prese per mano, lo guarì e lo congedò". Fa’ attenzione a queste tre azioni: lo prese, lo guarì e lo congedò. Primo: "Lo prese". Il Signore prende per mano il peccatore quando, stesa la mano della sua misericordia, lo strappa dal profondo dei vizi. Si legge nel libro di Tobia, che Tobia afferrò un grande pesce, lo trasse in secco, lo sventrò e ne tolse il fegato, il fiele e il cuore ( cf. Tb 6,4-5 ). Il grande pesce è il peccatore, avviluppato nella rete di gravi peccati, che Tobia, cioè Gesù Cristo, afferra con la mano della sua pietà e trae dal profondo della disperazione nel secco del pentimento. Il secco è chiamato così perché è senza succo. E il succo si chiama così perché si spreme dal sacco. La penitenza è un luogo secco, perché senza succo. Infatti il succo della gola e della lussuria si spreme con il sacco ( cilicio fatto di sacco ) della penitenza, della quale è detto nel salmo: "In terra deserta, impervia e senza acqua" ( Sal 63,3 ). Vedi anche il sermone della terza domenica di Quaresima, parte IV, sul vangelo: "Quando uno spirito immondo esce da un uomo". Il Signore sventra questo pesce quando colpisce il peccatore con la spada del suo timore, e allora estrae da lui il fegato, cioè l’amore alla lussuria, il fiele, cioè l’amarezza del denaro, nel quale è fatica e dolore, perché con fatica si conquista, con timore viene custodito e con dolore si perde; e gli toglie il cuore, cioè la gonfiezza della superbia. Del fegato dice Geremia: "Si riversa per terra il mio fegato" ( Lam 2,11 ). E questo avviene quando uno si consuma nell’amore delle cose terrene con il piacere della lussuria. E del fiele dice Pietro a Simone mago: "Ti vedo chiuso in fiele amaro e in lacci di iniquità" ( At 8,23 ). Chi pecca di simonia o di avarizia, si trova chiuso nell’amarezza della mente e nei lacci delle opere. E del cuore dice Giobbe: "Perché il tuo cuore s’innalza e hai gli occhi assorti come chi è immerso in profondi pensieri? Perché il tuo spirito ribolle contro Dio, sì da proferire simili discorsi dalla tua bocca?" ( Gb 15,12-13 ). Secondo: "Lo guarì". Il Signore guarisce il peccatore quando risana la sua anima da ogni infermità di peccato. Infatti: "Risana la mia anima, perché ho peccato contro di te" ( Sal 41,5 ). Si dice sano da sangue, perché chi è sano non è pallido. Dove c’è il sangue delle lacrime, c’è anche la salute dell’anima. Le lacrime sono chiamate così da lacerazione, s’intende della mente: quando laceri la mente con il dispiacere, scorre il sangue delle lacrime, il quale bagna le tue guance, e allora le tue guance sono rosee come uno spicchio di melagrana, senza tener conto di ciò che è nascosto nell’intimo", cioè la contrizione del cuore ( cf. Ct 4,3 ). Dunque sei stato guarito, vedi che non ti accada di peggio ( cf. Gv 5,14 ). E a questo proposito, dice il Signore al re Ezechia: Ho ascoltato la tua preghiera e ho visto le tue lacrime, ed ecco che ti ho guarito ( cf. Is 38,5 ). Con la preghiera e con le lacrime viene per così dire confezionato un rimedio che scaccia la malattia dall’anima. Terzo: "E lo congedò". Il Signore congeda il peccatore convertito, quando lo lascia andare sciolto e libero da ogni vincolo di colpa, di pena e di tentazione diabolica, nella gioia della coscienza. "Scioglietelo e lasciatelo andare" ( Gv 11,44 ), disse Gesù. "Màndala via perché continua a gridare dietro di noi" ( Mt 15,23 ), dicevano gli apostoli. Troviamo un fatto analogo nell’Esodo, dove si racconta che "Sefora prese subito una pietra affilatissima e recise il prepuzio del suo figlio; toccò poi con quello i suoi piedi e disse: Tu sei per me uno sposo di sangue. E lo lasciò andare dopo aver detto: Tu sei per me uno sposo di sangue" ( Es 4,25 ). Si deve intendere questo passo alla lettera, come dice Agostino: che il sangue cioè toccò i piedi del bambino. Perciò Sefora, adirata, disse a Mosè suo sposo: Non sei tu per me uomo di sangue? Solo perché sono sposata con te sono costretta a compiere un sì grande crimine, da versare il sangue di mio figlio? Oppure Sefora toccò i piedi di lui, cioè di Mosè, e indignata gettò il prepuzio ai piedi di Mosè e, com’è scritto nel testo ebraico, disse: Per me sei un genero di sangue, cioè tu sei diventato genero di mio padre, per essere per me, vale a dire per la mia carne nel figlio, causa di sangue, cioè di morte. Senso morale. Sefora s’interpreta "uccello", ed è figura del penitente che deve essere come un uccello, coperto cioè delle penne delle virtù. Questi con una pietra affilatissima, vale a dire con la contrizione del cuore, deve recidere il prepuzio del suo figlio, cioè le attività inutili, superflue. Si dice prepuzio, come a dire davanti al pudore ( lat. prae, davanti, putium, pudore ). Le attività inutili infatti ci impediscono di solito di vedere la nefandezza della nostra iniquità. Si taglino dunque, affinché sgorghi il sangue delle lacrime e tocchi e lavi i piedi del figlio, cioè della nostra attività. Infatti se sarà pura l’intenzione, cioè la volontà, sarà puro anche il risultato, cioè l’opera. E dopo tale circoncisione il Signore lascia l’uomo libero di ritornare ai suoi fratelli e alla sua casa, cioè alla sua luminosa coscienza. 10. "Poi disse ai farisei: Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato? E non potevano rispondere nulla a queste parole" ( Lc 14,5-6 ). Giustamente, dice la Glossa, il Signore paragona a un animale che cade nel pozzo quel povero idropico che stava morendo a causa di un fluido nocivo. Vediamo quale sia il significato di queste tre entità: l’asino, il bue e il pozzo. L’asino, come a dire alta sinens, che lascia le cose alte, è più forte nelle parti posteriori, mentre è debole in quelle anteriori, e lì porta la croce. L’asino è figura del lussurioso che abbandona le altezze della vita santa e avanza invece sulle pianure del piacere; nelle opere della croce e nelle fatiche spirituali è debole, ma nei fianchi, dove ha sede la lussuria, è forte. Su questo argomento dell’asino vedi anche il sermone della prima domenica di Quaresima, dove è trattato il vangelo: "Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto". Vedi anche il sermone della domenica delle Palme, dove si parla del vangelo: "Gesù si avvicinava a Gerusalemme". Il bue è figura del superbo, infatti il bue viene chiamato anche cornùpeta, da cornu e peto, che cozza con le corna: anche il superbo cozza con le corna della superbia. Su questo argomento delle corna vedi il sermone della terza domenica di Quaresima, terza parte, sul vangelo "Quando un uomo forte, bene armato". Quando dunque l’asino e il bue, cioè il lussurioso e il ricco superbo, raffigurati nell’idropico, precipitano nel pozzo dei vizi, per tirarli fuori sono necessari dei vecchi stracci. Leggiamo infatti in Geremia che Abimelech prese dei vecchi stracci e dei vestiti che stavano marcendo, li calò con delle corde nella cisterna a Geremia e così lo tirò fuori dalla cisterna ( cf. Ger 38,11-13 ). I vecchi stracci raffigurano la povertà e l’umiltà di Gesù Cristo, che fu avvolto i panni, giustamente detti "vecchi". Infatti siamo soliti dare i panni vecchi agli altri. Noi non volgiamo praticare la povertà e l’umiltà di Gesù Cristo; non vogliamo rivestirci di queste virtù: più volentieri le predichiamo agli altri. Oggi tutti i predicatori si sforzano di rivestire gli altri di povertà e di umiltà, e voglia il cielo che poi essi non restino nudi. Vogliono formare gli altri, ma stiano attenti a non restare deformati loro. Le vesti quasi marcite raffigurano gli esempi dei santi, giustamente detti marciti, perché in questi nostri tempi corrotti vengono disprezzati e buttati via come cose marce. Diamo agli altri le cose vecchie, gettiamo via quelle marce. O peccatore, non potrai mai venir estratto "dalla fossa della miseria e dal fango della palude" ( Sal 40,3 ), se non per mezzo dei miseri panni della povertà e dell’umiltà di Gesù Cristo. Con questi infatti vengono tirati su dal pozzo dell’abisso il bue e l’asino. 11. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Cercate di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati" ( Ef 4,3-4 ). Dice la Glossa: Dovete conservare l’unità, in modo da essere un solo corpo servendo il prossimo, e un solo spirito con Dio, facendo la sua volontà; oppure, un solo spirito con i fratelli, volendo e non volendo le stesse cose con loro ( Cicerone ). Questa unità non la conserva l’idropico, ossia il lussurioso e l’avaro: uno macchia il suo corpo, l’altro soffoca il suo spirito con le spine dell’avarizia. Se fossero stati legati con i vincoli della pace e dell’unità, non sarebbero mai precipitati nel pozzo: ma poiché mancano sia di unità che di pace, giacciono ora nel pozzo della disperazione. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di stendere la mano della tua misericordia, di afferrarci e di tirarci fuori dal pozzo dei vizi con i panni della tua povertà e umiltà; di guarirci dall’idropisia della lussuria e dell’avarizia, in modo da poter conservare l’unità dello spirito e poter così giungere a te che sei Dio, Uno e Trino, con il Padre e con lo Spirito Santo. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. 12. "Cercate di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace". Fa’ attenzione alle tre parole: cercate, unità e vincolo della pace, che a noi, fratelli miei, sono veramente necessarie. Il diavolo volle seminare nel cielo la zizzania della discordia, e ora fa di tutto per farlo anche nelle comunità dei penitenti. Leggiamo infatti nel libro di Giobbe: "Un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore, e in quel giorno anche Satana andò in mezzo a loro" ( Gb 1,6 ). Fa’ attenzione alle singole parole: dice "Un" ( giorno ), per escludere ogni diversità; "giorno", per escludere la successione della notte; "i figli", adottati con la grazia; "di Dio", per la povertà dello spirito; "andarono" con la devozione; "a presentarsi" con la mortificazione del corpo; "davanti al Signore", non davanti al mondo; "e anche Satana andò in mezzo a loro", appunto per seminare la zizzania della discordia. Invece noi, fratelli, cerchiamo di essere solleciti e non pigri; cerchiamo di conservare e non di rompere l’unità dello spirito. Custodiamo l’unità dello spirito, o carissimi, con grande sollecitudine, come le conchiglie marine custodiscono con grande cura le loro perle. Si legge nella Storia Naturale che nelle conchiglie marine si producono delle pietre preziose, cioè le perle; le conchiglie, ad un dato tempo dell’anno, sono bramose di rugiada come marito, e sotto tale stimolo si aprono, e quando più copiosa scende la pioggia lunare ( rugiada ), come boccheggiando assorbono il fluido sospirato: così concepiscono e vengono ingravidate. Se il fluido assorbito è puro, i piccoli grani che si formano sono candidi; se il fluido è torbido, i grani sono opachi o anche striati di colore rossiccio. Così le conchiglie figliano più di cielo che di mare. Inoltre, quando assorbono il seme dell’aria del mattino, la perla è più limpida; quando lo assorbono alla sera la perla risulta piuttosto offuscata; e quanto più ne avranno assorbito, tanto più grandi saranno le perle prodotte. Se brilla improvvisa una luce, si rinchiudono come spaventate. Nelle conchiglie c’è una certa sensibilità: esse temono che i loro parti si macchino; e quando il giorno si accende di raggi più ardenti, perché le perle non si offuschino per causa del calore del sole, si immergono in profondità e si riparano dal caldo tra i gorghi. Nell’acqua la perla si rammollisce, nel vino si rassoda; mai se ne trovano due insieme, distinte, e quindi una grossa perla, formata da due che si sono fuse insieme, si chiama "unione" ( solitario ). Le conchiglie temono gli agguati dei pescatori: è per questo che si nascondono tra gli scogli. Nuotano in gruppo e le loro schiere hanno sempre una guida sicura. Vediamo quale sia il significato morale di tutto questo. Le conchiglie, il cui nome viene da "concavità", raffigurano i penitenti, gli umili, i poveri nello spirito, i quali si tengono nella concavità, cioè nell’umiltà del cuore. Anch’essi anelano alla rugiada come a marito, e infatti dicono: "L’anima mia ha sete di Dio, fonte viva" ( Sal 42,3 ). La rugiada della grazia celeste, come uno sposo, impregna l’anima con il fermo proposito di rettamente operare. Per il desiderio di questa rugiada essi si aprono, e infatti dice Giobbe: "La mia radice è aperta, protesa verso le acque, e la rugiada si fermerà sulle mie messi" ( Gb 29,19 ). Vedi su questo anche il sermone della domenica quattordicesima dopo Pentecoste sul vangelo: "Gesù andava verso Gerusalemme". "E quando più copiosa scende la pioggia lunare", ecc. Nella pioggia lunare sono simboleggiate tre cose: la prosperità, l’avversità e l’infusione della grazia. Nello splendore della luna è raffigurata la prosperità; nella notte l’avversità e nella pioggia l’infusione della grazia, che i giusti bramano con ardore e assorbono quasi aprendo la bocca del cuore, sia nello splendore della prosperità come nella notte dell’avversità, in modo che né la prosperità li insuperbisce, né l’avversità li deprime. Isaia infatti dice: "L’anima mia ha sospirato a te nella notte, e al mattino mi volgerò a te con il mio spirito e il mio cuore" ( Is 26,9 ). "E se il fluido assorbito è puro", ecc. Considera che l’infusione della grazia ha due effetti: o illumina, o turba. Illumina la mente alla contemplazione, e allora le perle diventano candide, sono cioè puri i pensieri e gli affetti. Dice il Signore per bocca di Osea: "Sarò come rugiada, e Israele germoglierà come giglio" ( Os 14,6 ). Quando la rugiada della contemplazione delizia la mente, Israele, ossia l’anima umile fa germogliare, quale giglio, pensieri di purezza. Analogamente, la grazia turba suscitando il dolore dei peccati, e allora nelle perle subentra il colore pallido o rossiccio: pallido a motivo della mortificazione del corpo, rossiccio per la contrizione del cuore. Si legge nel Cantico dei Cantici: Annunciate al mio diletto che io languisco di amore ( cf. Ct 5,8 ). Fu detto anche: Impallidisca ogni innamorato ( Ovidio ). E il salmo: "L’estremità del dorso della colomba è del pallore dell’oro" ( Sal 68,14 ). "Così i parti delle conchiglie sono più di cielo che di mare". Chi è impregnato di mare, cioè dell’amaro del mondo, partorisce vipere; chi invece è impregnato di cielo, partorisce perle. Dei primi è detto: "Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira che ci sovrasta?" ( Lc 3,7 ). Dei secondi: "Le viti in fiore hanno sprigionato il loro profumo" ( Ct 2,13 ). E ancora: "I tuoi effluvi sono un paradiso" ( Ct 4,13 ). "Quando le conchiglie assorbono il seme dell’aria del mattino la perla è più limpida, quando invece lo assorbono la sera, la perla risulta piuttosto offuscata", ecc. Questo lo dice anche il salmo: "Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia" ( Sal 30,6 ). Osserva che triplice è la sera e triplice il mattino: in ognuno di questi momenti c’è il pianto e la gioia. La prima sera fu la colpa di Adamo, nella quale ci fu il pianto quando, cacciato dal paradiso terrestre, si sentì dire: "Mangerai il pane nel sudore della tua fronte" ( Gen 3,19 ). Il primo mattino fu la natività di Cristo, nella quale ci fu la gioia. Infatti l’angelo disse: "Io vi annunzio una grande gioia …" ( Lc 2,10 ). La seconda sera fu la morte di Cristo, nella quale ci fu il pianto. Dice Luca: "Figlie di Gerusalemme, non piangete sopra di me ma sopra voi stesse" ( Lc 23,28 ). Il secondo mattino fu la sua risurrezione, nella quale ci fu la gioia. "Vedendo il Signore, gli apostoli furono pieni di gioia" ( Gv 20,20 ). La terza sera è la morte di ogni uomo, nella quale c’è il pianto. Dice la Genesi: "Sara morì nella città di Arbee ( Ebron ): arrivò Abramo per piangere e a fare il lamento su di lei" ( Gen 23,2 ). Il terzo mattino sarà per i santi nella risurrezione finale, nella quale splenderà sul loro capo – come dice Isaia – la perenne letizia ( cf. Is 35,10 ). "Se brilla improvvisa una luce, si rinchiudono come spaventate". La tentazione del diavolo è come un sinistro bagliore, di cui i giusti hanno una grande paura; e quando l’avvertono, subito si ritirano e chiudono le porte dei sensi. Dice Giovanni: "Essendo venuta la sera di quel giorno …, mentre tutte le porte erano chiuse" ( Gv 20,19 ). Vedi anche il commento su questo vangelo nel sermone dell’Ottava di Pasqua. "Nelle conchiglie c’è una certa sensibilità: esse temono che i loro parti si macchino", ecc. La sensibilità consiste in uno stimolo della mente che attraverso il corpo viene trasmesso all’anima. I giusti temono che i loro parti, cioè le loro opere, si macchino, e perciò, quando divampa il calore della prosperità terrena, ed essi stessi ne sono oggetto, subito scendono in profondità: meditano cioè sulla loro fragilità, sulla loro iniquità e miseria, si nascondono nei singhiozzi e nelle lacrime, perché, se facessero altrimenti, le loro perle si offuscherebbero e si macchierebbero per il calore del sole, vale a dire con la fiamma dell’onore e della grandezza terrena. "Nell’acqua la perla si rammollisce". Nell’acqua del piacere la mente del giusto si rammollisce; invece nel vino, cioè nell’austerità, si rassoda; infatti davanti a un volto austero e severo si corregge l’animo del malvagio. Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Hai delle figlie?". Ti sono cioè affidate delle anime? "Custodisci il loro corpo, e non mostrare loro un volto troppo indulgente" ( Sir 7,26 ). In una conchiglia non si trovano mai due perle insieme, perché nella mente del giusto non c’è il sì e il no allo stesso tempo ( cf. 2 Cor 1,17.19 ), non ci sono due parti, non c’è discordanza, ma "unità"; il giusto cerca sempre di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace ( cf. Ef 4,3 ). "Le conchiglie temono gli agguati dei pescatori", e anche i giusti temono gli agguati delle suggestioni del diavolo, il quale in questo grande mare del mondo getta il suo amo, e quindi essi si nascondono tra gli scogli Lo scoglio è una roccia che affiora sul mare; si chiama scoglio da scandagliare, e simboleggia l’umiltà della mente, nella quale chi si nasconde non ha più ragione di temere gli agguati degli spiriti maligni. "Le conchiglie nuotano in gruppo", e in questo è indicata egregiamente l’unione degli spiriti. "Le loro schiere hanno sempre una guida sicura", e in ciò è simboleggiata l’obbedienza. Il prelato è la guida che si deve seguire, alla quale tutti siamo tenuti a obbedire di buon animo, per mantenere l’unione degli spiriti con il vincolo della pace. Si degni di concederci tutto questo il Signore Gesù Cristo, al quale è onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. III. L’esortazione di cristo a praticare sempre l’umiltà 13. "Quando sei invitato alle nozze, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! allora dovrai con vergogna metterti all’ultimo posto" ( Lc 14,8-9 ). E la Glossa commenta: Quando per la grazia della fede, chiamato dal predicatore, ti unisci ai membri della chiesa, non insuperbirti gloriandoti dei tuoi meriti, come tu fossi migliore degli altri. Osserva che in questa terza parte il Signore tocca due argomenti: la superbia, quando dice: "Non metterti al primo posto"; l’umiltà quando aggiunge: "Mettiti all’ultimo posto". È una grande superbia, nelle nozze, vale a dire nella chiesa di Gesù Cristo, volersi mettere al primo posto, cioè occupare le più alte cariche. Infatti il Signore ha detto: "Amano i primi seggi nelle sinagoghe" ( Mt 23,6 ), essi che saranno privati dei secondi. O sciagurata ambizione, che non sai ambire le cose veramente grandi! Qual tenace esploratore – dice Bernardo parlando dell’ambizioso superbo – si aggira arrampicandosi mani e piedi, per potersi infiltrare in qualche modo nel patrimonio del Crocifisso, e non sa, il miserabile, che quello è prezzo di sangue ( cf. Mt 27,6 ). "Non mangerete carne con sangue", dice la Genesi ( Gen 9,4 ). Mangia carne con sangue chi, vivendo carnalmente, dissipa nei suoi eccessi il patrimonio del Crocifisso. E quindi sarà eliminato dal popolo di Dio ( cf. Es 12,15 ). Non metterti dunque al primo posto perché, come dice il Signore: "Io detesto la superbia di Giacobbe e odio le sue case" ( Am 6,8 ). Sulle alture si fanno sacrifici agli idoli ( cf. 1 Re 3,2-3 ). Il Signore è concepito a Nazaret, in un posto umile; invece viene crocifisso nel luogo più alto di Gerusalemme. "Non metterti, dunque, al primo posto". Dice Gregorio: "Non è certo in grado di coltivare l’umiltà quando è sulla vetta, chi non ha mai smesso di fare il superbo quando era nei posti più insignificanti. Tu che aspiri alle più alte cariche cerchi, così facendo, la rovina dell’anima tua, la perdita della tua buona riputazione, il pericolo per il tuo corpo, perché quanto più alta è la tua posizione, tanto più rovinosa sarà la caduta. È proprio il colmo della follia esporsi a sì grandi pericoli. "Non metterti dunque al primo posto", perché poi dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto, all’inferno. 14. E su tutto questo hai anche la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Àlcimo, avendo comperato con il denaro il sommo pontificato ( cf. 1 Mac 7,21 ), "ebbe un attacco apoplettico, la sua bocca restò impedita, rimase tutto paralizzato: non poté più dire una parola né dare disposizioni per la sua casa. E morì in quel tempo con grandi sofferenze" ( 1 Mac 9,55-56 ). Àlcimo s’interpreta "fermento di malvagio disegno", ed è figura del simoniaco il quale, con il fermento del denaro – nel loro conciliabolo non entri l’anima mia ( cf. Gen 49,6 ) perché il loro convegno è riunione di malvagi – corrompe lo spirito di quelli che vendono colombe. Il simoniaco, per il fatto che, senza essere chiamato da Dio come Aronne, vuole salire a dignità ecclesiastiche, dopo essere colpito da paralisi come Àlcimo, morirà senza confessione, senza testamento e in mezzo a grandi sofferenze, e con somma vergogna dovrà occupare l’ultimo e più immondo posto dell’inferno, lui che in questo mondo voleva comparire primo e circondato di gloria. Fratello, "mettiti dunque all’ultimo posto", così meriterai di sentirti dire: "Vieni più in su" ( Lc 14,10 ). Dice il filosofo: Per non cadere, lìmitati alle piccole cose ( Seneca ), perché, dice anche Salomone, "chi costruisce la casa troppo alta, va in cerca di rovina" ( Pr 17,16 ). Per questo, ci dice l’Apostolo, Abramo abitò nelle tende, insieme con Isacco ( cf. Eb 11,9 ). "Mettiti dunque all’ultimo posto". L’ultimo posto è il pensiero della morte, e chi sempre ci pensa non ha alcuna voglia di mettersi al primo posto. Dice Girolamo: Chi pensa abitualmente che dovrà morire, non ha alcuna difficoltà a disprezzare tutte le cose. In questo ultimo posto, o fratello, fissa la tua dimora; siediti lì, guardando e salutando da lontano la celeste Gerusalemme ( cf. Eb 11,13 ), il cui architetto e costruttore è Dio stesso ( cf. Eb 11,10 ), e sii convinto di essere su questa terra soltanto pellegrino e ospite ( cf. Eb 11,13 ). E così mettiti all’ultimo posto, senza mai preferirti ad alcuno, reputandoti più indegno di tutti; allora ti sentirai dire: "Amico, vieni più in su". Ti riconosce come amico dalla tua umiltà, colui che ti manda indietro per la tua presunzione. Amico è come dire animi custos, cioè custode dell’animo ( dello spirito ). L’umiltà è la custode delle virtù, e chi la pratica custodisce il suo animo perché non fugga da lui, nulla essendo più fugace dell’animo. "Con ogni cura custodisci il tuo cuore" ( Pr 4,23 ), è detto nel libro dei Proverbi. Vuoi quindi essere amico di Dio? Custodisci il tuo cuore, ossia conserva il tuo animo, perché se esso ti fuggisse, lo pagheresti con la tua anima. 15. A questo proposito, nel terzo libro dei Re si racconta che uno dei profeti "si rivolse al Re e gli disse: Il tuo servo era uscito per combattere. Essendosi un uomo dato alla fuga, un altro lo prese, lo condusse da me e mi disse: Custodisci quest’uomo perché se fugge di nuovo pagherai la sua vita con la tua, oppure pagherai un talento d’argento. Mentre io sconvolto mi voltavo di qua e di là, l’uomo improvvisamente scomparve. Il Re d’Israele disse: Tu stesso hai pronunciato la tua condanna!" ( 1 Re 20,39-40 ). Tutti noi che siamo entrati in una religione, siamo usciti a combattere contro gli spiriti maligni. In questo combattimento un uomo, cioè il nostro animo, fugge da noi; ma la grazia di Dio riporta in noi il nostro animo, facendoci ridiventare coraggiosi, e dicendo a ciascuno di noi: "Custodisci quest’uomo", ecc. Custode viene da cura, e cura è come dire cor agitat, muove il cuore. Custodisci dunque quest’uomo, abbi cura di lui affinché l’uomo non si cambi in donna, e come una prostituta non fugga da te e corra dietro ai suoi amanti. "Se fuggirà da te, la tua anima, la tua vita risponderà della sua". Ecco qual è la minaccia del Signore. Si deve fare attenzione a quello che dice: "Se fuggirà". Se ne va in un momento ciò che è stato conquistato in lungo tempo ( Catone ). Nel primo libro dei Re, Saul dice: "Ho visto che il popolo se ne è fuggito da me" ( 1 Sam 13,11 ). E Geremia: "La mia vita è caduta nella fossa" ( Lam 3,53 ). Ahimè, quante volte il mio animo, dal quale proviene la vita, fugge, cade nella fossa della miseria e nel fango della palude! ( cf. Sal 40,3 ). La mia anima, cioè la mia vita, pagherà dunque per l’anima, oppure dovrò pagare per essa un talento d’argento? Ahimè, Signore Dio, io ho un’anima, ma non sono in grado di pagare un talento di argento, non ho cioè la purezza della vita da mettere sulla bilancia del tuo giudizio. Non farmi pagare dunque con la mia anima questa caduta. Certamente, Signore, i tuoi giudizi sono giusti, e io merito di essere condannato per non aver custodito il tuo deposito ( cf. 2 Tm 1,12.14 ), il mio cuore, la mia vita, e quindi merito di essere privato della vita. "Mentre sconvolto mi voltavo di qua e di là, quell’uomo improvvisamente scomparve". Ecco come l’animo scompare. Fa’ attenzione alle due parole: "sconvolto" e "mi voltavo". Sconvolto, il testo latino dice turbatus, come a dire terrae mixtus, mescolato con terra. Non c’è da farsi meraviglia che il tuo animo scompaia, se tu sei sconvolto, cioè immischiato nelle cose della terra. Vuoi perciò conservare il tuo animo? Conserva la tranquillità della tua coscienza. Pensa quanto giustamente ha detto: "Mentre io mi voltavo di qua e di là": quando tu ti volti di qua, cioè alla carne, o di là, cioè al mondo, perdi il tuo animo. Non devi perciò voltarti a destra o a sinistra, ma camminare diritto sulla via regia, per essere sempre presente a te stesso. E non giudicare mai la vita o le azioni di questo o di quello. Non mormorare mai di nessuno. "All’improvviso, quello scomparve". Ogni volta che tu ti volti, se non a Dio o a te stesso, immediatamente il tuo animo scompare. Quindi non voltarti, ma abbi sempre il volto rivolto verso Gerusalemme affinché essa sia nel tuo cuore; e se custodirai il tuo cuore, diverrai amico di Dio. Possa dunque il Signore dirti: "Vieni più in su". Chi si trova all’ultimo posto, non può che salire più in su, "perché chi si umilia sarà esaltato" ( Lc 14,11 ). "E allora ne avrà onore di fronte a tutti i commensali" ( Lc 14,10 ). Infatti, dice sempre Luca: "Li farà accomodare a tavola e passerà a servirli" ( Lc 12,37 ). È veramente un grande onore che il Signore, il Padrone serva il servo. 16. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio, Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" ( Ef 4,5-6 ). Se tu stai all’ultimo posto dell’umiltà, temi il Signore, mantieni la fede e conservi l’innocenza battesimale. Fa’ attenzione alle cinque parole elencate: Il Signore, Dio, Padre, la fede e il battesimo. Perciò chi vuole sentirsi dire: "Amico, vieni più in su", mediti sulla potenza del Signore, sulla sapienza di Dio, sulla misericordia del Padre, sull’eccellenza della fede e sul valore del battesimo. Mediti sulla potenza per averne timore, sulla sapienza per provarne il gusto, sulla misericordia per aver fiducia, sull’eccellenza della fede per disprezzare le cose temporali, sul valore del battesimo per combattere sempre valorosamente. Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo di farci sedere all’ultimo posto, di custodire il nostro animo, e di farci poi salire fino a lui, che è la gloria, nel regno di coloro che siedono alla sua mensa. Ce lo conceda egli stesso, che è al di sopra di tutti, che agisce in tutti, che è presente in tutti e che è Dio benedetto nei secoli eterni. E ogni anima umile risponda: Amen, alleluia! Domenica XVIII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica diciottesima dopo Pentecoste: "Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro", ecc. Si divide in due parti. – Parte I: Anzitutto sermone per la natività del Signore, sulle quattro stagioni dell’anno, sulle tre proprietà del sole, sulle tre della terra e sulle tre del fuoco, e il loro significato: "Venne il tempo in cui il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, incominciò a risplendere". – Parte II: Sermone morale ai religiosi sull’ornamento delle virtù, sulla natura e la proprietà del balsamo: da dove proviene, come si ottiene; e come il miele viene guastato dal ragno; che cosa significhino tutte queste cose, e anche di altre ad esse inerenti. Esordio - Le quattro stagioni dell’anno e le proprietà della terra e del fuoco 1. In quel tempo: "Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: Che ne pensate del Cristo? Di chi è figlio? Gli risposero: Di Davide" ( Mt 22,41-42 ). Si legge nel secondo libro dei Maccabei: "Venne il tempo in cui il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, cominciò a risplendere, e si accese un gran fuoco con grande meraviglia di tutti" ( 2 Mac 1,22 ). Considera che nell’anno ci sono quattro stagioni, cioè l’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno. L’inverno consuma, la primavera pianta e semina, l’estate miete e trebbia, l’autunno vendemmia. L’inverno durò da Adamo fino Mosè, e in quel tempo tutto fu consumato, distrutto. Dice infatti l’Apostolo: "Da Adamo fino a Mosè regnò la morte" ( Rm 5,14 ). La primavera durò da Mosè fino a Cristo, e in quel tempo la Legge fu per così dire seminata e impiantata, ed essa produsse soltanto i fiori, come promessa del frutto. L’incarnazione di Cristo portò l’estate, e fu il tempo nel quale il sole, che prima era coperto di nubi, era cioè nel seno del Padre, incominciò a splendere su di noi: e in quel tempo ci fu la mietitura e la trebbiatura. "Ecco, dice Gesù, io vi dico: Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano di messi. E chi miete riceve il salario e raccoglie il frutto per la vita eterna" ( Gv 4,35-36 ). E poi ci sarà l’autunno, nel quale gli acini e le vinacce saranno gettate nello sterquilinio dell’inferno, e il vino raffinato sarà riposto nelle cantine del regno dei cieli. Ma è necessario che prima preceda la trebbiatura della tribolazione, perché solo attraverso il calice della sofferenza si arriva alla gloria. Infatti "Quando venne la pienezza dei tempi" ( Gal 4,4 ), "il sole, che prima era nascosto dalle nuvole", nascosto a noi, "incominciò a splendere" a quelli che dimoravano nella terra e nell’ombra della morte, "e divampò un grande fuoco", del quale Cristo stesso dice: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che cosa voglio se non che arda?" ( Lc 12,49 ). E fa’ attenzione che dice di esser venuto a portare il fuoco sulla terra e non altrove. E giustamente! Infatti era venuto a "curare i contrari con i contrari, a curare ogni cosa col suo contrario. Considera che nel fuoco ci sono tre proprietà: il calore, lo splendore e la leggerezza. Nella terra ci sono tre proprietà contrarie: la freddezza, l’oscurità e la pesantezza. Il fuoco è figura dell’amore di Dio, nel quale ci sono tre proprietà: il calore dell’umiltà, lo splendore della castità e la leggerezza della povertà. Nella terra, cioè nelle cose terrene, ci sono le tre proprietà contrarie: la freddezza della superbia, l’oscurità della lussuria, e la pesantezza dell’avarizia. Cristo venne dunque a portare sulla terra il fuoco, perché alla freddezza e al ghiaccio della superbia ha contrapposto il calore dell’umiltà. Dice il salmo ( Sal 147,18 ): "Manda la tua parola", che è questa: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ), "ed ecco si scioglie" il cuore dei superbi. All’oscurità della lussuria ha contrapposto lo splendore della castità. Leggiamo negli Atti: "Apparve un angelo del Signore, e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e gli disse: Àlzati in fretta! E le catene gli caddero dalle mani" ( At 12,7 ). Nell’angelo, che è vergine per sua natura, è indicata la grazia della castità, il cui splendore illumina la cella del carcere, cioè il cuore del peccatore, accecato dalle tenebre della lussuria. Carcere, è come dire undecumque arcens, che caccia via da ogni parte. Il lussurioso infatti caccia via da sé tutto ciò che può spegnere la sua lussuria. Ma quando l’angelo lo colpisce al fianco con la lancia del timore per far uscire da lui il fluido della libidine, allora lo sveglia dal sonno della morte e lo esorta al alzarsi per mezzo della contrizione, in fretta per mezzo della confessione, e così le catene delle cattive abitudini cadono dalle sue mani, cioè dalle sue opere. Infine alla pesantezza dell’avarizia contrappose la leggerezza della povertà. "Se vuoi essere perfetto, va’ e vendi tutto quello che hai, e dàllo ai poveri" ( Mt 19,21 ). E Geremia: "Il corridore leggero e agile percorre la sua via" ( Ger 2,23 ). Il povero nello spirito è il corridore leggero e agile, che corre con il gigante dalla duplice natura [ Cristo ]. Di quale peso si libera colui che nulla vuole avere, e poter così correre per la sua via! Dice la Sapienza: "Ti indicherò a via della sapienza, ti guiderà per i sentieri della rettitudine", cioè della povertà; "quando li percorrerai non saranno intralciati i tuoi passi", cioè i tuoi affetti, "e se correrai non troverai inciampo" ( Pr 4,11-12 ). Giustamente quindi è detto : "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra". E quando il Signore fa questo, è proprio una meraviglia ai nostri occhi ( cf. Sal 118,23 ). Diciamo perciò: "Venne il tempo, nel quale il sole, che prima era nascosto dalle nuvole, incominciò a splendere. E si accese un grande fuoco e tutti ne furono meravigliati". Di questo sole, cioè di Gesù Cristo, è detto nel vangelo di oggi: "Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio?" 2. Osserva che nel vangelo di oggi ci sono due parti. La prima tratta dell’amore di Dio e del prossimo, del quale non vogliamo parlare in questo sermone, perché l’argomento è stato già trattato nel sermone della domenica XIII dopo Pentecoste, dove è stato commentato il vangelo: "Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete". La seconda parte tratta di Cristo, e su questo argomento vogliamo fare alcune considerazioni. Nell’introito della messa di oggi si canta: Io sono la salvezza del popolo ( cf. Sal 35,3 ). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Paolo apostolo ai Corinzi: "Ringrazio continuamente il mio Dio per voi" ( 1 Cor 1,4 ), che viene letta insieme con questo vangelo proprio perché sia nel vangelo che nella lettera, si parla soprattutto e in modo speciale di Cristo. I. La divinità, l’umanità e la gloria di Cristo 3. "Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli risposero: Di Davide. Ed egli a loro: Come mai allora Davide, ispirato, lo chiama Signore, dicendo: Disse il Signore al mio Signore?" ( Mt 22,41-44 ). In questo brano si compendia tutta la sublimità della nostra fede, in quanto sappiamo che proclamando Gesù Cristo "Signore e Figlio di Davide", lo crediamo vero Dio e vero uomo, che siede alla destra del Padre. Signore, in quanto ha fatto tutte le cose e lo stesso Davide; figlio, in quanto anche lui è della stirpe di David, secondo la carne. I Giudei non vengono rimproverati perché affermano che Cristo è figlio di David, ma perché non credono che egli è anche figlio di Dio. Il Figlio stesso dice loro: "Come mai Davide", ispirato dal Spirito Santo e non mosso dal suo cuore, "lo chiama Signore, dicendo: "Disse il Signore", cioè il Padre, "al mio Signore", cioè al Figlio? ( Sal 110,1 ). La Glossa spiega: Questo "dire" ( dixit ) significa "generare" un figlio uguale a se stesso. "Al Signore", non in quanto è nato da lui, ma in quanto "fu" in eterno dal Padre. "Siedi alla mia destra", cioè tra i beni essenziali, "finché" ( fino a quando ) – usa questa congiunzione determinata invece di una indeterminata – "metterò i tuoi nemici", cioè coloro che non ti ascoltano, "a sgabello dei tuoi piedi": li sottometterò a te, volenti o nolenti. Che sia il Padre a sottomettere al Figlio i nemici, non significa che il Figlio sia debole, ma sta ad indicare l’unità della natura del Padre e del Figlio, perché l’uno opera nell’altro; infatti anche il Figlio sottomette i nemici al Padre ( cf. 1 Cor 15,27-28 ), quando glorifica il Padre sulla terra ( cf. Gv 17,4 ). "Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?" ( Mt 22,45 ). Come dicesse: Voi credete che il Cristo sarà un semplice uomo: quindi quando esisteva Davide, ancora non esisteva il Cristo, e quindi non esisteva il "Signore" di Davide. E allora David ha mentito? Infatti sono piuttosto i padri ad essere e a venir chiamati "signori" dei figli, e non i figli "signori" dei genitori. Esecriamo perciò la perfida malvagità dei Giudei, e insieme con Pietro proclamiamo: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo" ( Mt 16,16 ), il quale, come dice Abacuc, uscì insieme con il suo Cristo a salvare il suo popolo ( cf. Ab 3,13 ). 4. Cristo stesso, nell’introito della messa di oggi, dice: Io sono la salvezza del popolo ( cf. Sal 35,3 ). Quando grideranno a me, in qualsiasi tribolazione, io li esaudirò ( cf. Sal 91,15 ), e sarò il loro Signore per sempre ( cf. Sap 3,8 ). Qui vediamo quanto bene il canto dell’introito concordi con la storia dei Maccabei, dove si tocca con mano che il Signore fu la salvezza del suo popolo e che li ha ascoltati ed esauditi in tutte le loro sofferenze. Fa’ attenzione a questi tre fatti: salvezza del popolo, li esaudirò, sarò il loro Signore. Nell’epistola di oggi ci sono tre espressioni che si accordano a questi tre fatti. La prima, quando l’Apostolo dice: "Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù" ( 1 Cor 1,4 ), il quale dice: Io sono la salvezza del popolo: soltanto con la grazia infatti egli salvò il suo popolo dai suoi peccati ( cf. Mt 1,21 ). La seconda, quando soggiunge: "Perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza"" ( 1 Cor 1,5 ), e questo è come dire: "Quando grideranno a me, in qualsiasi tribolazione, io li esaudirò". Fa’ attenzione alle tre parole: tribolazione, grideranno, esaudirò. Se nella tribolazione, cioè con il cuore contrito e addolorato, griderai nella confessione, il Signore ti esaudirà con la remissione dei tuoi peccati. Quindi in ogni parola di qualsiasi confessione e in ogni opera di perfetta riparazione dei peccati siete divenuti ricchi in lui, perché vi siete fatti poveri e umili in voi stessi. Le ricchezze dell’anima consistono nel perdono dei peccati e nell’infusione della grazia. La terza quando conclude: "Aspettate – in voi – la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, il quale vi confermerà sino alla fine" ( 1 Cor 1,7-8 ), e questo vuol dire: "Io sarò il loro Signore per sempre". Preghiamo, dunque, fratelli carissimi, lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, nelle cui mani, forate dai chiodi sulla croce, è posta la nostra salvezza ( cf. Gen 47,25 ), perché ci salvi dagli attacchi dei nemici, ci esaudisca concedendoci la remissione dei peccati, ci confermi sino alla fine, per essere degni di giungere fino a lui, che siede alla destra del Padre. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto. Amen. II. Sermone morale sull’ornamento delle virtù 5. "Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide". Si legge nel primo libro dei Maccabei: "Ornarono la facciata del tempio con corone d’oro e dedicarono l’altare al Signore" ( 1 Mac 4,57 ). Vedremo che cosa significhino il tempio, la sua facciata, le corone d’oro, l’altare e la sua dedicazione. Tempio viene da contemplazione, e si può intendere anche come ampio tetto. Dice l’Apostolo: "Santo è il tempio di Dio, che siete voi" ( 1 Cor 3,17 ). Noi siamo tempio di Dio e santi, se realizziamo in noi i tre significati suddetti, e cioè se contempliamo, se siamo un tetto, e ampio. Se contempliamo Dio per mezzo della rinuncia alle cose temporali. Dice l’Apostolo: "Noi contempliamo non le cose che si vedono, ma quelle che non si vedono" ( 2 Cor 4,18 ). Se siamo tetto nei nostri riguardi, per mezzo della mortificazione della carne. Dice Matteo: "Chi è sul tetto non scenda a prendere la roba di casa" ( Mt 24,17 ). E la Glossa commenta: Chi ha superato le tentazioni della carne, non ritorni con l’animo a certi atti del suo comportamento precedente; vale a dire non coltivi più nessun attaccamento carnale. Se siamo ampio, nei riguardi del prossimo, partecipando alle sofferenze altrui. Ampio, in lat. amplus, è come dire in utraque parte plus, di più da tutte e due le parti. Di più da tutte e due le parti: devi cioè impegnarti di più nella contemplazione di Dio e nella partecipazione alle sofferenze del prossimo, che non verso la tua stessa carne. Se saremo un tale tempio, allora saremo veramente santi. "Ornarono dunque la facciata del tempio". La facciata, detta in lat. facies, faccia, perché serve a far riconoscere l’uomo, raffigura le nostre opere, delle quali il Signore dice: "Li riconoscerete dai loro frutti" ( Mt 7,16 ). La corona d’oro sulla facciata del tempio simboleggia la retta intenzione nel nostro operare. Adorniamo dunque le nostre opere con le corone d’oro della retta intenzione, insieme con i veri Maccabei, e non con i cosmetici con la prostituta Gezabel, della quale il quarto libro dei Re narra che "si dipinse gli occhi si stibio ( antimonio ) e si ornò il capo e si mise alla finestra" ( 2 Re 9,30 ). Considera questi tre momenti. Gezabel s’interpreta "sterquilinio", che è il luogo pieno di sterco, così chiamato appunto perché imbrattato e impregnato di sterco; ed è figura dell’ipocrita che si spalma dello sterco della vanagloria, e quindi le mosche moribonde, che distruggono la soavità del profumo, si addensano su di lui. Lo stibio è un colorante azzurro, di cui le donne si servono per tingersi le sopracciglia, e raffigura il favore popolare con il quale l’ipocrita si dipinge ( si riempie ) gli occhi. Infatti quando è lodato dalla gente, i suoi occhi ridono e la sua faccia è allegra. Si orna il capo quando egli stesso loda le sue opere, e così si mette alla finestra per vedere e per essere visto! Va per ammirare e per essere ammirato egli stesso ( Ovidio ). Vi prego, orniamo la facciata del tempio non con falsi cosmetici, ma con corone d’oro. "E dedicarono l’altare al Signore". Dedicare vuol dire "dare a Dio" ( lat. dedicare, Deo dare ). Altare è come dire alta ara; l’altare è il nostro cuore, che dev’essere alto per l’amore, e ara per la contrizione, e così lo dedicheremo, cioè lo daremo a Dio, che dice: Figlio, dammi il tuo cuore ( cf. Pr 23,26 ). Chi dà a Dio il suo cuore è veramente "cristo", cioè unto, consacrato dalla grazia, ed è figlio di Davide. Dice infatti il vangelo di oggi: "Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide". Su questi due nomi, Cristo e Davide, vogliamo fare alcune brevi considerazioni morali. 6. Il termine "cristo" viene da "crisma". Il crisma si fa con l’olio e con il balsamo. Il balsamo è un albero che assomiglia alla vite e come la vite deve essere sostenuto. È alto due cubiti [ poco meno di un metro ] e si distingue per la sua chioma sempre verde. Viene inciso con un vetro o con piccoli coltelli di osso, perché se lo si tocca con il ferro lo si danneggia e muore in poco tempo. Ed emette delle gocce di straordinario profumo. La considerazione maggiore va alle gocce che stillano, poi alla semente, quindi alla corteccia e infine al legno. Il balsamo conserva la giovinezza, preserva dalla corruzione. Le gocce che stillano, se mescolate al miele, si guastano; se invece, mescolate al latte, si coagulano, questo prova che il miele non è presente. Non è possibile tenerlo sulla nuda mano, esposta all’ardore del sole. Fermiamoci un po’ su tutte queste qualità del balsamo e parliamone dettagliatamente. La pianta del balsamo simboleggia la vita del giusto, che è e dev’essere simile alla vite e come la vite essere sostenuta. Infatti la vite viene zollata all’intorno, viene potata e sostenuta con dei paletti. Così il giusto scava nella sua vita con il sarchio della compunzione; la pota con la falce della confessione, e la sostiene con i paletti delle opere di riparazione. Sul primo punto leggiamo in Luca: Abbi pazienza ancora quest’anno, le scaverò all’intorno e vi metterò il concime ( cf. Lc 13,8 ). Sul secondo punto abbiamo nel Cantico dei Cantici: "È giunto il tempo della potatura; la voce della tortora", cioè la confessione del penitente, "si è sentita nella nostra terra" ( Ct 2,12 ). [ Sul terzo punto ] Il paletto è un piccolo palo, nel quale è simboleggiata l’umiltà nel compiere le opere di riparazione, con le quali la vita del giusto viene come sorretta. Per bocca di Isaia il Signore dice: "Lo conficcherò come un paletto nel luogo dei fedeli" ( luogo solido ) ( Is 22,23 ). Il paletto viene conficcato nel luogo dei fedeli, quando la vita del giusto viene conservata con l’umiltà nella santa chiesa. La pianta di balsamo è alta due cubiti. I due cubiti sono i due precetti della carità, per mezzo dei quali la vita del giusto viene innalzata al di sopra delle cose terrene. Del primo cubito, cioè dell’amore verso Dio, parla il Signore nella Genesi, quando dice a Mosè: "Farai nell’arca una finestra, e un cubito più in alto sarà la sommità dell’arca" ( Gen 6,16 ). L’arca, così chiamata perché arcet, tiene lontani i ladri o gli sguardi, raffigura la vita del giusto che tiene lontano da sé ogni vizio. La finestra, così detta perché ferens extra, porta al di fuori, simboleggia la devozione della mente, attraverso la quale esce ed entra la colomba, cioè l’anima. L’anima esce per contemplare Dio, e rientra per considerare se stessa. Quindi la finestra nell’arca simboleggia la devozione nella vita del giusto, la quale si conquista e si perfeziona un cubito più in alto, cioè nell’amore verso Dio. "Beati quelli che muoiono nel Signore", dice Giovanni ( Ap 14,13 ); e anche Stefano "si addormentò nel Signore" ( At 7,60 ). Similmente, a proposito del secondo cubito, cioè dell’amore al prossimo, fu ordinato a Mosè che nell’altare fosse scavata una fossa di un cubito ( cf. Ez 43,13 ). La fossa di un cubito nell’altare simboleggia la compassione verso il prossimo nell’animo del giusto. La pianta del balsamo si distingue per la sua chioma sempre verde, e in questo è simboleggiata la perseveranza del giusto, di cui Giobbe dice: "La pianta, all’odore ( sentore ) dell’acqua, germoglierà e farà la chioma" ( Gb 14,7.9 ). Odore è chiamato così da aria; infatti che cos’è l’odore se non aria aspirata? L’odore raffigura l’infusione della grazia, e quando la aspiri, produci subito il germe delle opere buone e così produci anche la chioma della perseveranza. Viene incisa [ la pianta del balsamo ] con un vetro oppure con piccoli coltelli di osso, perché toccandola con un ferro la si danneggia, e senz’altro muore. Nel vetro è raffigurata la luminosità della vita eterna. Infatti Giovanni nell’Apocalisse dice: "La città di Gerusalemme era di oro purissimo simile a terso cristallo" ( Ap 21,18 ). Qualsiasi liquido contenuto nel vetro si vede dall’esterno tale e quale esso è. Nella patria eterna godremo nell’oro e nel vetro della compagnia dei santi, i quali splenderanno nel fulgore della beatitudine, e la corporeità delle membra non nasconderà agli occhi di alcuno il pensiero dell’altro. Infatti per coloro che contemplano lo splendore di Dio, non ci sarà nulla nelle creature di Dio che essi non possano vedere. Nei piccoli coltelli di osso sono raffigurati gli esempi dei santi, che sostengono la nostra fragilità, come le ossa sostengono la carne. Quindi la pianta del balsamo viene incisa con il vetro e con piccoli coltelli di osso, quando la vita o la mente del giusto si apre alla compunzione con il desiderio dello splendore eterno, oppure per mezzo dell’esempio dei santi. Ma se viene colpita dal ferro, cioè dal peccato mortale, subito muore, perché "l’anima che peccherà, essa stessa morrà" ( Ez 18,4.20 ). Emette delle gocce di straordinario ( lett. esimio ) profumo. È detto esimio perché si alza dal basso ( lat. ex imis ) e si espande molto. E in questo profumo è indicato il profumo della vita santa che si diffonde ovunque. Dice l’Apostolo: Noi infatti siamo, dinanzi a Dio, il buon profumo di Cristo, che si diffonde in ogni luogo ( cf. 2 Cor 2,14-15 ). E leggiamo nel libro dell’Ecclesiastico: "Il mio profumo è come il balsamo non mischiato" ( Sir 24,21 ). L’odore della vita dell’ipocrita è quello del balsamo mischiato, cioè guasto, perché mentre al suo esterno appare la santità, nell’interno si nasconde la malvagità. Invece il profumo del giusto è come il balsamo non mischiato, perché al profumo della sua buona riputazione corrisponde la purezza interiore della coscienza. La considerazione maggiore va alle gocce, poi al seme, quindi alla corteccia, e in minima parte al legno. Fa’ attenzione a questa graduatoria: nella goccia del balsamo è raffigurata la soavità della contemplazione, nel seme la parola della predicazione, nella corteccia l’asprezza della penitenza, e nel legno questo nostro corpo mortale. Sul primo punto, leggiamo nel libro dei Giudici che Acsa, seduta su di un’asina, implorò con le lacrime che le fosse data la sorgente superiore ( cf. Gdc 1,15 ). Questo si avvera quando l’anima, domata la carne, tende alla contemplazione con grande ardore e con tutta la devozione della mente. Sul secondo punto, leggiamo nel vangelo di Luca: "Il seminatore uscì a seminare la sua semente" ( Lc 8,5 ). Sul terzo punto: corteccia è come dire corium tegens, cioè pelle che copre, e s’intende l’asprezza della penitenza che copre i peccati. Infatti: "Beati coloro i cui peccati sono coperti" ( Sal 32,1 ) cioè perdonati. Sul quarto punto leggiamo in Giobbe: "Il legno ( l’albero ) ha una speranza: se viene tagliato, ancora ributta" ( Gb 14,7 ). Così l’uomo ha e deve avere la speranza che il legno, cioè il suo corpo, dopo essere stato tagliato dalla scure della morte, rifiorirà nella risurrezione finale. A questo legno va la considerazione minore e ad esso quasi nessuna cura è dovuta, come a un servo inutile. Invece alla corteccia della penitenza va una grande considerazione, perché opera veramente grandi cose. Alla semente della predicazione va una considerazione ancora maggiore, perché è solo per mezzo di essa che si giunge alla corteccia, cioè alla penitenza. E infine alle gocce, cioè alle lacrime della contemplazione va la massima e principale considerazione, in quanto è in essa che è racchiusa la più grande e principale soavità e consolazione. Il balsamo conserva la giovinezza. La soavità della vita contemplativa conserva l’anima nella giovinezza della grazia. È detto infatti nel salmo: "Si rinnoverà come quella dell’aquila la mia giovinezza" ( Sal 103,5 ). Tiene lontana la corruzione. Infatti la mente, sempre immersa nella soavità della contemplazione, si mantiene inattaccabile dal consenso corruttore del peccato. Parlando per contrasto, il Signore dice per bocca di Geremia: "Farò imputridire l’orgoglio di Giuda e la grande superbia di Gerusalemme" ( Ger 13,9 ), cioè dei chierici e dei laici. La goccia di balsamo, mescolata con il miele, si guasta, ma se, mischiandola con il latte, si coagula, ciò significa che non c’è miele. La soavità della contemplazione viene guastata, come per un adulterio, se ad essa viene mischiato il miele delle cose temporali. 7. Si legge nella Storia Naturale che nei favi di miele nascono i ragni e tutto quello che è nei favi si guasta. Negli alveari delle api si producono dei piccoli vermi, ai quali in seguito spuntano delle piccole ali e quindi sono in grado di volare ( Aristotele ). Il ragno si chiama in lat. aranea, perché tende i suoi fili nell’aria ( in aëre nent ). Dal piacere delle cose temporali nasce il ragno, cioè il venefico orgoglio che tende i suoi fili nell’aria, in quanto è sempre alla ricerca di cose grandi, superiori alle sue forze ( cf. Sal 131,1 ); e nascono i vermi, cioè la gola e la lussuria, vizi che fanno, per così dire, volare l’uomo a desiderare le cose altrui. Non c’è quindi da meravigliarsi se con questo miscuglio si guasta il balsamo della vita contemplativa o quello della purezza di coscienza. Vivendo insieme si formano gli usi e i costumi, e l’uva sana prende la muffa dall’uva guasta che le sta vicino ( Giovenale ). Tu avrai la prova di non avere il miele del piacere transitorio se, mescolandoti con il latte dell’incarnazione del Signore, ti coagulerai, cioè ti restringerai con lo spirito di povertà. Il pane degli angeli, dice Agostino, è divenuto latte dei piccoli, affinché con esso i piccoli venissero nutriti. Non è possibile tenere il balsamo sulla mano nuda, esposta all’ardore del sole. Il balsamo sulla mano simboleggia la purezza di coscienza nell’operare. Quando il sole ardente dell’amore di Dio illumina e infiamma la mente del giusto e gli fa vedere quale egli veramente è, ogni attività, ogni energia viene meno. Dice infatti Daniele: "Ebbi una grande visione, e non rimase in me vigore, e anche il mio aspetto si alterò, e caddi in deliquio e restai senza forze" ( Dn 10,8 ). Quando il sole della grazia si unisce al balsamo della pura coscienza, nel giusto non resta più alcuna fiducia sul proprio operato. Questo dunque è il balsamo "che è più prezioso dell’oro e del topazio" ( Sal 119,127 ). Magari venisse la regina di Saba e ci desse anche solo una piccola radice di balsamo, per impiantare in noi una vigna balsamica! Racconta Giuseppe [ Flavio ] che la regina di Saba, quando andò a consultare la sapienza di Salomone, gli fece dono di una radice di balsamo, dalla quale poi originarono e si moltiplicarono le vigne balsamiche di Engaddi. 8. Ecco dunque che con questo balsamo, mescolato all’olio della misericordia di Dio, si confeziona il crisma con il quale viene unto il giusto, che diventa così cristo ( consacrato ) e figlio di Davide, del quale appunto si dice nel vangelo di oggi: "Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio? Gli rispondono: Di Davide". Il vero giusto, unto con il crisma confezionato con il balsamo e l’olio, è figlio di Davide. Davide s’interpreta "di mano forte", o anche "di bell’aspetto" ( cf. 1 Sam 16,12 ). Il pugile che si accinge ad affrontare un avversario usa ungersi il capo di olio: così il giusto si unge con il balsamo mescolato a olio per aver forza nelle mani, cioè nelle opere e poter così debellare il nemico, il diavolo. In questo modo diventa quaggiù figlio di Davide, cioè figlio della fortezza, e diverrà poi, nella vita futura, figlio della gloria, e lì sarà bello di aspetto, perché potrà contemplare faccia a faccia colui, nel quale gli angeli desiderano tener fisso lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ). Gesù Cristo stesso, figlio di Davide, si degni di condurre anche noi a quella splendida gloria: egli che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Domenica XIX dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica diciannovesima dopo Pentecoste: "Gesù, salito su una barca"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sulla prerogativa della grazia spirituale che Dio conferisce al predicatore, e sulla sua buona condotta: "Il giovinetto Antioco". – Parte I: La croce di Cristo: "Gesù, salito su una barca". – La discesa dell’anima dalla superbia: "Scendi e siedi sulla polvere". – L’ascesa e il rinnovamento dell’anima: "Saliamo a purificare il santuario". – I quattro strumenti necessari per governare una barca e il loro simbolismo: "Considera che per governare una barca". – Parte II: I cinque modi con i quali vengono le malattie: "Gli portarono un paralitico". – Sermone contro i piaceri della carne: "Ho intessuto di corde il mio letto". – I quattro che portano il paralitico e il loro simbolismo, e il quadruplice tetto: "Ed ecco che gli portarono un paralitico". – Sermone sulla fede: "Gesù, vedendo la loro fede". – Parte III: I cinque figli di Mattatia e il loro simbolismo: "Álzati, prendi il tuo lettuccio". – Sermone sulla mortificazione della carne e la repressione dei sensi: "Davide colpì i Filistei". Esordio - La grazia spirituale del predicatore e la sua santa condotta 1. In quel tempo: "Gesù, salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città" ( Mt 9,1 ). Nel primo libro dei Maccabei si racconta che il giovinetto Antioco "concesse a Gionata [ Sommo Sacerdote ] la facoltà di bere in vasi d’oro, di vestire la porpora e di portare la fibbia d’oro" ( 1 Mac 11,58 ). Vediamo che cosa significhino Antioco, Gionata, l’oro, la porpora e la fibbia. Antioco s’interpreta "povero silenzioso", e in questo passo è figura di Gesù Cristo che fu povero e silenzioso. Fa’ attenzione a queste due parole. Cristo fu povero perché non ebbe dove posare il capo ( cf. Mt 8,20; Lc 9,58 ), se non sulla croce, dove "piegato il capo rese lo spirito" ( Gv 19,30 ); fu silenzioso perché fu portato alla morte come un agnello e pur essendo maltrattato non aprì la sua bocca ( cf. Is 53,7 ). Dice infatti Geremia: "Dalla bocca dell’Altissimo non usciranno né i beni né i mali" ( Lam 3,38 ). Gionata s’interpreta "dono della colomba", ed è figura del predicatore che dalla colomba, ossia dallo Spirito Santo, ha ricevuto il dono di chiamare i peccatori a gemere nella penitenza come colombe. Infatti, nel primo libro dei Re, [ un altro ] Gionata, [ il figlio di Saul ], dice a Davide: "Se dirò al ragazzo: Ecco, le frecce sono più in qua di dove ti trovi, prendile!, allora vieni, perché sei al sicuro e non c’è per te alcun pericolo; viva il Signore! Ma se io dico al ragazzo: Ecco, le frecce sono più avanti di dove ti trovi; vattene in pace perché è il Signore che ti manda via" ( 1 Sam 20,22 ). Considera che le frecce sono tre, e cioè: il timore della separazione, per cui l’anima teme di venir separata da Dio; il dolore nella confessione; l’ardore dell’amore. Queste frecce, scoccate dall’arco della predicazione, feriscono l’anima per farla prorompere in gemiti e pianto. Ma se queste frecce sono al di là del ragazzo, cioè al di là della ragione infantile, per Davide non c’è più salvezza. Se invece sono al di qua del ragazzo, in modo ch’egli possa vederle, per Davide c’è salvezza e non c’è alcun pericolo: Viva il Signore! A questo Gionata dunque, cioè al predicatore, Cristo dà la facoltà di bere in vasi d’oro, di portare la porpora e di avere la fibbia d’oro. Nell’oro è simboleggiata la luce della sapienza, nella porpora il sangue della passione del Signore, e nella fibbia d’oro la repressione della propria volontà. Beato quel predicatore al quale è concessa la facoltà di bere in vasi d’oro. A molti è concessa oggi la facoltà di avere l’oro, ma non di bere nell’oro. Beve nell’oro colui che dalla luce della sapienza che ha ricevuto, beve prima lui e quindi offre da bere agli altri. Leggiamo nella Genesi che Rebecca disse al servo di Abramo: "Bevi, signore, e poi darò da bere anche ai tuoi cammelli" ( Gen 24,14 ). La stessa cosa dice la sapienza al predicatore: "Bevi, signore!" Lo chiama "signore" perché la potestà che ha, gli è stata concessa da Cristo. Infatti dice la Genesi: "Sarai sotto la potestà dell’uomo, ed egli ti dominerà" ( Gen 3,16 ). Fortunato colui che domina la sapienza che gli è stata data. Domina la sapienza colui che non l’attribuisce a se stesso, ma a Dio, e che vive in conformità a ciò che predica. "Bevi, dunque, Signore, e poi darò da bere anche ai tuoi cammelli", vale a dire ai tuoi uditori. La stessa cosa la dice anche il Signore: "Adesso attingete e quindi portate all’architriclino", cioè al direttore di mensa ( Gv 2,8 ). Architriclino è un termine greco che deriva da archòs, capo, tria, tre e kline, letto; quindi architriclino, capo di tre letti. Infatti gli antichi mangiavano sdraiati su dei lettini, disposti a tre a tre. Anche nella chiesa ci sono tre letti, vale a dire tre "ordini", o tre categorie, nelle quali, come in un letto, riposa il Signore, e cioè i coniugati, gli astinenti che vivono in castità, e i vergini. Di tutti costoro il capo è il prelato, o anche il predicatore, il quale per primo deve bere e quindi offrire da bere ai commensali. "Antioco, dunque, concesse a Gionata la facoltà di bere in vasi d’oro". "E di portare la porpora". Porta la porpora quel predicatore che con Paolo, predicatore insigne, porta nel suo corpo le stimmate di Gesù Cristo ( cf. Gal 6,17 ). Leggiamo nel Cantico dei Cantici: "La porpora del re unita ai canali" ( Ct 7,5 ). Il canale è chiamato così perché è cavo, e sta ad indicare l’umiltà del cuore. Quindi: la porpora del re, cioè la passione di Gesù Cristo, è unita ai canali, cioè ai predicatori umili, attraverso i quali fluisce l’acqua della dottrina per irrigare le aiuole delle erbe aromatiche, cioè le anime dei fedeli. Nulla deve frapporsi tra la passione di Cristo e la vita del predicatore, perché questi possa dire con l’Apostolo: "Per me il mondo è stato crocifisso, come io lo sono per il mondo" ( Gal 6,14 ). "E avere la fibbia d’oro". La fibbia, in lat. fibula, da fìgere, legare, è così chiamata appunto perché léga, e sta ad indicare la repressione della propria volontà: repressione che giustamente è detta "d’oro", perché da essa dipende la purezza dell’anima e del corpo. Il predicatore dev’essere legato con questa fibbia, per poter dire con l’Apostolo: "Io soffro per il vangelo fino a portare le catene: ma la parola di Dio non è incatenata" ( 2 Tm 2,9 ). Quando la volontà del predicatore è legata, allora nella sua bocca la parola di Dio si scioglie, per giungere senza impedimenti al cuore degli ascoltatori. Quindi se il prelato della chiesa o il predicatore berrà all’oro della sapienza, se porterà la porpora della passione del Signore e se legherà la sua volontà con la fibbia d’oro, allora potrà veramente salire nella barca insieme con Gesù, passare all’altra sponda e arrivare alla sua città: come sta scritto nel vangelo di oggi: "Gesù salì su una barca", ecc. 2. Osserva che in questo vangelo sono posti in evidenza tre momenti. Primo, Gesù Cristo che sale nella barca, quando dice: "Gesù, salito su una barca". Secondo, la presentazione del paralitico, quando aggiunge: "Gli presentarono un paralitico". Terzo, la guarigione del paralitico, quando conclude: "àlzati, prendi il tuo lettino". Nell’introito della messa di oggi si canta: "Tu sei giusto, Signore, in tutto ciò che hai fatto a noi" ( Dn 3,27 ). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo agli Efesini: "Rinnovatevi nello spirito della vostra mente"; lo divideremo in tre parti, esaminandone la concordanza con le tre suddette parti del brano evangelico. Prima parte: "Rinnovatevi". La seconda: "Ripudiate la menzogna". La terza: "Chi è avvezzo a rubare". Fa’ attenzione che la guarigione del paralitico, il rinnovamento della mente e il ripudio della menzogna praticamente significano la stessa cosa: è per questo che i due brani del vangelo e dell’epistola vengono letti insieme. I. Gesù Cristo sale nella barca 3. "Gesù, salito su di una barca, passò all’altra sponda e arrivò nella sua città". Senso allegorico. La barca raffigura la croce: su di essa sale Gesù. Infatti egli ha detto: "Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me" ( Gv 12,32 ), con l’uncino, per così dire, della croce. Leggiamo a questo proposito nel libro del profeta Amos: "Amos, che cosa vedi? Io risposi: Vedo un uncino per cogliere i frutti. E il Signore a me: È arrivata la fine per il mio popolo Israele: non lo lascerò più a lungo impunito" ( Am 8,2 ). Considera che nei frutti ci sono tre qualità: il sapore, il colore e l’odore. I frutti sono figura dei giusti, nei quali c’è il sapore della contemplazione, il colore della santità e l’odore del buon nome, della stima di cui godono. Il Signore attira ogni giorno a sé questi frutti con l’uncino della sua croce; quando il Signore salì sulla croce arrivò per noi la fine, perché ebbe fine la nostra miseria; egli non ci oltrepassò, ma piuttosto ci fece passare con lui alla gloria. È ciò che dice il vangelo: "Passò all’altra sponda e giunse alla sua città". E anche Giovanni dice: "Gesù, sapeva ch’era giunta la sua ora, di passare da questo mondo al Padre" ( Gv 13,1 ). Ed è anche ciò che si legge nel salmo: "Lungo il cammino si disseta al torrente, e solleva alta la testa" ( Sal 110,7 ); egli bevve dal torrente della sua passione, durante il cammino del suo pellegrinaggio terreno, e perciò levò alta la testa, che prima aveva reclinato sulla croce, quando aveva reso lo spirito. 4. Senso morale. Fa’ attenzione. Adesso vediamo quale sia il significato delle parole: salì, barca, attraversò ( il lago ), e città. Chi vuole salire, è necessario che prima discenda. L’Apostolo infatti dice di Cristo: "Che cosa vuol dire con la parola ascese, se non che prima era disceso quaggiù nelle parti più basse della terra? ( Ef 4,9 ). E in che modo tu debba discendere, te lo indica Isaia dicendo: "Discendi, siedi nella polvere, o vergine, figlia di Babilonia" ( Is 47,1 ). Fa’ attenzione alle singole parole. O anima peccatrice, che vieni detta vergine a motivo della tua sterilità in fatto di opere buone, figlia per la tua effeminatezza, Babilonia per il disordine del peccato, discendi dalla superbia del tuo cuore, siedi per mezzo dell’umiltà, nella polvere in considerazione della bassezza in cui sei caduta. Queste sono le parti più basse della terra; se prima scenderai per considerarle e meditare, poi potrai risalire. Leggiamo nella Genesi che Abramo, dall’Egitto, salì con tutto ciò che possedeva, dirigendosi verso mezzogiorno ( cf. Gen 13,1 ). Troviamo la stessa cosa un po’ più avanti: "Giacobbe, radunata tutta la sua famiglia, disse: Alzatevi e saliamo fino a Betel" ( Gen 35,2.3 ). Abramo e Giacobbe raffigurano il penitente, il quale dall’Egitto, cioè dalle tenebre della sua miseria, sale con tutta la sua famiglia, cioè con i pensieri e gli affetti della mente, di cui nulla assolutamente deve restare in Egitto. Devi infatti salire totalmente verso il mezzogiorno, cioè verso la contrizione della mente, che è Betel, "la casa di Dio", la casa in cui Dio dimora. Anche Isaia infatti dice: "L’Eccelso e il Sublime dimora nell’eternità, ma è anche con il contrito e l’umile di spirito" ( Is 57,15 ). E su questo argomento vedi anche il sermone della I domenica di Quaresima, sul vangelo "Gesù fu condotto dalla Spirito nel deserto". 5. Su tutto questo abbiamo la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove Giuda Maccabeo dice: "Saliamo a purificare il santuario e a riconsacrarlo. Così si radunò tutto l’esercito e salirono al monte di Sion. Trovarono il santuario abbandonato, l’altare profanato, le porte arse e cresciute le erbacce nei cortili come in un luogo selvatico e montuoso, e gli appartamenti sacri in rovina. Allora si stracciarono le vesti, fecero grande pianto, si cosparsero la testa di cenere e si prostrarono con la faccia per terra" ( 1 Mac 4,36-40 ). Da questo passo si può ben comprendere in che modo l’anima venga distrutta e come si possa riedificarla. Giuda, cioè il penitente, radunato tutto l’esercito, cioè tutti i suoi pensieri e i suoi affetti, deve salire al monte di Sion, che s’interpreta vedetta, deve concentrarsi cioè nella sua mente, con la quale può meditare sull’oriente della sua nascita, sull’occidente della sua morte, sul settentrione delle avversità, e sul meridione della prosperità di questo mondo. Sul primo, per umiliarsi, su secondo per piangere, sul terzo per mantenersi forte, sul quarto per non insuperbirsi. E poiché l’uomo si accorge dei beni che ha perduto, quando considera a fondo i mali che ha commesso, il passo continua dicendo: "E trovarono il santuario abbandonato", ecc. Il santuario è abbandonato e deserto quando l’anima, santificata dall’acqua del battesimo, cade nel peccato mortale e così diviene deserta e abbandonata, cioè priva della grazia dello Spirito Santo. L’altare viene profanato quando si distrugge la fede. Le porte vengono arse, quando i sensi del corpo vengono distrutti dal fuoco della concupiscenza. Nei cortili crescono le erbacce quando il cuore è invaso da una moltitudine di pensieri e di desideri vani. Gli appartamenti sacri, detti in greco pastoforia, erano quelli nei quali dormivano i leviti, ai quali era affidata la cura della casa del Signore; di essi fa memoria anche Ezechiele nell’ultima sua visione ( cf. Ez 40,45-46 ). Questi appartamenti sacri vengono ridotti in rovina quando gli intimi recessi della mente vengono profanati da illecite brame. Ecco in che modo l’anima viene distrutta: ma vediamo anche in che modo possa venire riedificata. "Si stracciarono le vesti" ecc. Fa’ attenzione a queste quattro azioni: stracciarono, piansero, si imposero, caddero. Nello stracciare delle vesti è indicata la contrizione del cuore; nel pianto la confessione bagnata dalle lacrime; nell’imposizione delle ceneri sul capo l’umile riparazione del male commesso; nella prostrazione con la faccia a terra il pensiero del finale dissolvimento del nostro essere. Infatti al primo uomo è stato detto: "Sei polvere e in polvere ritornerai" ( Gen 3,19 ). Chi sale in questo modo al monte di Sion insieme con Giuda per purificare e riconsacrare il santuario, sale realmente sulla barca insieme con Gesù. 6. Considera inoltre che per governare una barca sono necessari almeno quattro strumenti: l’albero, la vela, i remi e l’ancora. Nell’albero è simboleggiata la contrizione del cuore, e nella vela la confessione della bocca: come la vela è unita all’albero, così la confessione dev’essere unita alla contrizione; nei remi sono simboleggiate le opere di riparazione e di penitenza, cioè il digiuno, la preghiere e l’elemosina; nell’ancora è simboleggiato il pensiero della morte. Come l’ancora trattiene la barca perché non affondi tra gli scogli, così il pensiero della morte trattiene la nostra vita perché non precipiti nei peccati. Dice infatti Salomone: "Medita sugli ultimi eventi della tua vita [ i novissimi ], e mai più cadrai nel peccato" ( Sir 7,40 ). Perciò chi desidera passare dalla riva di questa vita mortale alla riva dell’immortalità, cioè alla città della Gerusalemme celeste, salga sulla barca della penitenza. È qui che la prima parte del vangelo concorda con la prima parte dell’epistola: "Rinnovatevi nello spirito della vostra mente e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera" ( Ef 4,23-24 ). Ecco che qui ti viene indicato in che modo si purifica e si consacra di nuovo il monte di Sion. "Salì Giuda a purificare e a riconsacrare il santuario". E l’Apostolo: "Rinnovatevi nello spirito della vostra mente", nella contrizione del cuore, "e rivestitevi dell’uomo nuovo", nella confessione della bocca, "creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera", cioè nelle opere di riparazione: e così sarai in grado di salire nella barca e giungere alla città della gloria celeste. Ad essa ci conduca colui che salì sulla barca della croce, e risuscitò come uomo nuovo nel terzo giorno: a lui sia onore e gloria nei secoli eterni. Amen. II. Il paralitico portato a Gesù Cristo 7. "Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su di un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" ( Mt 9,2 ). Considera, avverte la Glossa, che alcune malattie vengono a causa dei peccati, e quindi devono essere prima rimessi i peccati perché possa avvenire la guarigione. In cinque modi, o per cinque motivi, vengono le malattie: o per aumentare i meriti dei giusti con la pazienza, come avvenne con Giobbe; o per custodire le virtù e non essere tentati dalla superbia, come con Paolo; o per espiare i peccati, come avvenne con Maria, sorella di Mosè, colpita dalla lebbra, e con il paralitico di cui stiamo parlando; o per manifestare la gloria di Dio, come avvenne con il cieco nato e con Lazzaro; oppure anche come inizio dell’eterno castigo, come avvenne con Erode, e così si veda già da quaggiù che cosa seguirà poi nell’inferno; infatti Geremia dice: "Con duplice flagello colpiscili, o Signore!" ( Ger 17,18 ). Vediamo quale sia il significato morale del paralitico, del letto, e di coloro che portano il paralitico a Gesù. La paralisi deve il suo nome al fatto che immobilizza una metà del corpo; se tutto il corpo fosse immobilizzato, allora avremmo l’apoplessia. Più precisamente, la paralisi è dovuta al fatto che il corpo è colpito da un forte raffreddamento, nella sua totalità o solo in parte. La paralisi è una specie di disfacimento delle membra, e sta a significare il piacere della carne che è come un letto nel quale il paralitico, cioè l’anima giace disfatto. Dice Geremia: "Fino a quando ti distruggerai nei piaceri, o figlia vagabonda?" ( Ger 31,22 ). Quando la carne viene distrutta dal piacere, l’anima, come il paralitico, giace disfatta nello sfinimento della carne. 8. Di questo letto, la prostituta dice: "Ho sospeso il mio letto con corde, e vi ho steso sopra coperte ricamate d’Egitto; ho profumato il mio giaciglio di mirra, aloe e cinnamomo. Vieni, inebriamoci alle mammelle, godiamoci i bramati amplessi fino allo spuntare del giorno" ( Pr 7,16-18 ). Il letto, cioè il piacere carnale, è sorretto dalle funi dei peccati; vi sono stese coperte ricamate, cioè i vari piaceri, che vengono dall’Egitto, vale a dire dalle tenebre della coscienza. E poiché il riso si mescola al dolore, e il piacere all’amarezza, il testo aggiunge: "Ho profumato il mio giaciglio di mirra, aloe e cinnamomo". Nella mirra e nell’aloe, che sono spezie amare, è indicata l’amarezza del castigo; nel cinnamomo, che è profumato, è raffigurato il piacere della carne. Dice dunque la prostituta, cioè la carne, al giovane, cioè allo spirito: "Vieni!", con il consenso della mente, "inebriamoci alle mammelle", cioè ai piaceri della gola e della lussuria, passando alle azioni; "godiamoci i bramati amplessi", con i legami dell’abitudine, "fino allo spuntare del giorno". E questo è proprio vero, perché la carne non può ingannare nessuno se non nella notte dell’ignoranza; e quindi la carne nulla teme tanto, quanto il giorno, la luce dell’intelligenza. Ecco dunque in che modo il paralitico giace disfatto nel suo letto. Leggiamo nel libro di Giuditta che "Oloferne giaceva nel suo letto, sprofondato nel sonno, ubriaco fradicio" ( Gdt 13,4 ). Oloferne s’interpreta "che svigorisce il vitello ingrassato", e raffigura lo spirito del peccatore che, con il consenso della mente, infiacchisce il vitello ingrassato, cioè la carne, ingrassata con l’abbondanza delle cose temporali, nel cui piacere giace come in un letto, sprofondato nel sonno, ubriaco fradicio. Leggiamo nei Proverbi: "Sarai come uno che dorme in mezzo al mare, come un timoniere immerso nel sonno, che ha abbandonato il timone, e dirai: Mi hanno bastonato ma non sento male, mi hanno trascinato, ma non me ne sono accorto" ( Pr 23,34-35 ). Dorme in mezzo al mare colui che impigrisce nei flutti dei pensieri, nell’amarezza dei peccati, ed è come un timoniere immerso nel sonno che ha abbandonato il timone, cioè la guida della ragione, e porta la barca della sua vita verso il Cariddi della morte eterna. E così non sente dolore quando viene colpito dai demoni, e di nulla si accorge, quando essi lo trascinano ai vari vizi, "come un bue condotto al macello" ( Pr 7,22 ). Ecco dunque che il paralitico giace sul suo letto, del quale così parla Salomone: "Il pigro dice: C’è un leone nella strada e una leonessa si aggira per i sentieri. Come una porta gira sui cardini, [ così il pigro si gira nel suo letto ]" ( Pr 26,13-14 ). Il leone è il diavolo, la leonessa è la concupiscenza della carne. Pigro, in lat. piger, come dire pedibus æger, ammalato ai piedi, è figura del goloso e del lussurioso, i quali sono ammalati ai piedi, cioè mancano dei sentimenti della buona volontà, e quindi giacciono ammalati e paralizzati nel letto del miserabile piacere; non essendo in grado di resistere alle tentazioni del diavolo e di reprimere la concupiscenza della carne, non vogliono uscire a combattere, cioè a darsi alle opere di penitenza, e così si voltolano nei piaceri della carne, come un porta gira sui suoi cardini. 9. "Ecco dunque che portarono a Gesù un paralitico steso sul suo letto" ( Mt 9,2). Marco scrive così: "Andarono da Gesù con un paralitico, portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo proprio dinanzi a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto sotto il quale Gesù si trovava e, fatta un’apertura, calarono il letto su cui giaceva il paralitico" ( Mc 2,3-4 ). L’umiltà e la povertà, la pazienza e l’obbedienza sono raffigurate in quei quattro portatori; sono le quattro virtù che portano a Gesù l’anima che giace disfatta nei piaceri della carne. E poiché a motivo della turba, cioè del turbamento provocato dai desideri carnali, non sono in grado di portarla, scoperchiano e aprono il tetto e calano davanti a Gesù il letto con sopra il paralitico. Considera che c’è un quadruplice tetto: quello della superbia, quello dell’avarizia, quello dell’ostinazione e quello dell’ira. Questi, come è detto nei Proverbi, sono "i tetti gocciolanti" ( Pr 19,13 ), che accecano cioè l’occhio della ragione. E Isaia: "Che hai anche tu che sei salito sui tetti?" ( cf. Is 22,1 ). E Davide: "Siano come l’erba dei tetti: prima che si strappata, dissecca" ( Sal 129,6 ). Questo tetto, che copre ed oscura il volto dell’anima perché non veda la luce della giustizia, le quattro suddette virtù lo scoperchiano con la contrizione del cuore, lo aprono con la confessione della bocca, e così calano davanti a Gesù, fiduciose nella sua misericordia, l’anima e il corpo con le opere penitenziali di riparazione. Nessuno infatti può giungere a Gesù se non viene trasportato da queste quattro virtù. Dice la Glossa: Viene come portato da quattro persone, colui che da queste quattro virtù viene innalzato fino a Dio con la fiducia dello spirito. Di esse è detto nel libro della Sapienza: Essa insegna la temperanza e la sapienza, la giustizia e la fortezza ( cf. Sap 8,7 ). Altri le chiamano: prudenza, fortezza, temperanza e giustizia. 10. Gesù, veduta la loro fede, disse al paralitico: "Abbi fiducia, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati". La Glossa commenta: Davanti a Dio ha molto valore la propria fede, e in quella circostanza anche la fede degli altri ebbe tanto valore da far sì che un uomo si rialzasse subitamente guarito nell’anima e nel corpo e che per merito degli altri gli fossero perdonati i suoi errori. Incredibile umiltà di Gesù che chiama figliolo quell’ammalato, trascurato dagli uomini e disfatto in tutte le membra! Certamente lo chiama così perché gli sono perdonati i peccati. Fa’ attenzione a questi tre particolari: Veduta la loro fede, abbi fiducia, ti sono rimessi i peccati. La fede senza l’amore è inutile; invece la fede unita all’amore è propria del cristiano. Da notare quindi che "altro è credere a Dio, altro credere Dio, e altro credere in Dio". "Credere a Dio" significa credere vero ciò che egli dice, e questo lo fanno anche i cattivi; anche noi crediamo all’uomo, ma non crediamo nell’uomo. "Credere Dio" significa credere che Dio esiste, ciò che fanno anche i demoni. Infine, "credere in Dio" vuol dire credere ed amarlo, credere e andare a lui, credere e aderire a lui e venire così incorporati nelle sue membra. Questa è la fede che giustifica l’empio. Quindi dove c’è questa fede, c’è la fiducia nella misericordia di Dio, e c’è anche la remissione della colpa. "Allora alcuni scribi incominciarono a pensare: Costui bestemmia" ( Mt 9,3 ). Poiché non credono che Gesù sia il vero Dio, pensano che Gesù bestemmi, quando dice di rimettere i peccati. "Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore?" ( Mt 9,4 ). Il pensiero è detto in lat. cogitatio, perché cogit, costringe spesso la mente a ricordare. Gesù vede i pensieri. Infatti nella lettera agli Ebrei è detto: "Ai suoi occhi tutto è nudo e scoperto" ( Eb 4,13 ). E l’Ecclesiastico: "Gli occhi del Signore sono infinitamente più luminosi del sole; essi vedono tutte le azioni degli uomini, vedono nelle profondità dell’abisso, penetrano nel cuore degli uomini e fino nei luoghi più segreti. Tutte le cose erano note al Signore Dio ancor prima di essere create, e allo stesso modo vede tutto anche dopo la creazione" ( Sir 23,28-29 ). "Perché dunque pensate cose malvagie nel vostro cuore?" Dice il profeta Michea: Guai a voi che pensate cose cattive nel vostro letto, e allo spuntare del sole le mettete in esecuzione ( cf. Mic 2,1 ). Quando con la compiacenza e il consenso della mente meditiamo e tramiamo il male nel nostro letto, cioè nel nostro cuore, in quel momento quel male lo facciamo alla luce del giorno, cioè davanti agli occhi del Signore, anche se non lo mettiamo in esecuzione. Egli ha detto: "Chi guarda una donna per desiderarla", cioè la guarda proprio con lo scopo di desiderarla, "nel suo cuore ha già commesso adulterio con lei" ( Mt 5,28 ). In questo quegli scribi potevano riconoscere che Gesù era Dio, perché vedeva i loro pensieri. "Che cosa è più facile dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati; oppure dire: Álzati e cammina?" ( Mt 9,5 ). la Glossa: Ma siccome non credete possibile questo prodigio spirituale, esso sarà comprovato da un miracolo visibile che certamente richiede una potenza non inferiore, affinché così possiate constatare che nel Figlio dell’uomo è nascosta la potenza della maestà, con la quale egli può perdonare i peccati, in quanto è Dio. 11. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Ripudiate la menzogna; ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Arrabbiatevi ma non vogliate peccare: il sole non tramonti sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo" ( Ef 4,25-27 ). Poco sopra abbiamo detto che quattro sono le virtù che portano l’anima paralitica a Gesù, e cioè l’umiltà e la povertà, la pazienza e l’obbedienza; ebbene, per mezzo di queste quattro virtù noi rigettiamo i quattro peccati di cui parla l’Apostolo. La menzogna della superbia o della vanagloria, che finge a se stessa di essere qualcosa mentre non è proprio niente, la rifiutiamo per mezzo dell’umiltà: infatti la menzogna è detta in lat. mendacium, in quanto inganna la mente di un altro. "Ciascuno dica la verità" per mezzo dell’amore alla povertà. Infatti, perché mai oggi avviene che quasi tutti dicono la menzogna al loro prossimo, se non a motivo dell’avarizia, la quale divide tra loro quelli che dovrebbero essere uniti come membra di Cristo? "Arrabbiatevi" contro voi stessi, il che vuol dire pentirsi e fare penitenza, "e non vogliate peccare". Chi infatti è preso dall’ira pensa male, e così permette che il diavolo entri in lui per fargli compiere il male. La pazienza è necessaria proprio per vincere l’ira. Altro senso: "Arrabbiatevi", cioè indignatevi contro voi stessi con tanta forza, da farvi desistere dal peccato. "Il sole", cioè Cristo, "non tramonti", cioè non abbandoni la mente; l’ira è come un monte che si frappone, e ci oscura questo sole. Ecco dunque che, con queste parole, l’Apostolo ci invita alla pazienza. Parimenti ci invita all’obbedienza quando dice: "Non date occasione al diavolo". Il primo uomo, quando peccò con la sua disobbedienza, diede appunto occasione al diavolo. Voi invece obbedite, perché l’obbedienza preclude al diavolo ogni occasione, ogni possibilità di introdursi in un’anima. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di abbattere con l’umiltà l’illusione e la falsità della nostra superbia, di distruggere la nostra avarizia per mezzo della povertà, di reprimere l’ira con la pazienza ed eliminare la disobbedienza imitando l’obbedienza della tua passione; e così meritiamo di essere presentati a te, di ricevere il perdono dei peccati e godere con te senza fine. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. guarigione del paralitico 12. "Allora disse al paralitico: Alzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua. Ed egli si alzò e andò a casa sua. A quella vista, ecc." ( Mt 9,6-8 ). Fa’ attenzione alle tre parole: àlzati, prendi, e va’. Il paralitico si alza, quando il peccatore si libera dai vizi ai quali si era abbandonato. E su questo abbiamo la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si legge che "Mattatia si alzò e andò a stabilirsi sul monte Modin. Egli aveva cinque figli" ( 1 Mac 2,1-2 ) che si chiamavano Giuda, Simone, Gionata, Giovanni e Eleazaro ( cf. 1 Mac 2,15 ). Mattatia s’interpreta "dono di Dio", ed è figura del penitente che, per dono di Dio, si rialza dal peccato e va a stabilirsi su monte Modin, che s’interpreta "giudizio". Dice Agostino: "Sali al tribunale della tua mente, la ragione sia il giudice, la coscienza sia l’accusatore, il timore sia il carnefice, il dolore sia il tormento, e le opere facciano da testimoni". Questo è il monte di Modin, e chi vi si stabilisce risorge veramente dai suoi peccati. Questo Mattatia, cioè il penitente, ha cinque figli, che sono: Giuda, cioè colui che si confessa; Simone, colui che obbedisce; Gionata, la colomba; Giovanni, la grazia ed Eleazaro l’aiuto di Dio. Questi sono i figli del penitente, cui viene elargito il dono di Dio, dal quale procedono le altre cinque grazie: Giuda purifica, Simone edifica, Gionata rinnova, Giovanni orna, Eleazaro protegge e conserva. Giuda purifica il tempio, in quanto la confessione purifica la coscienza dai vizi e dai peccati. Si legge nel libro dei Giudici che "i figli d’Israele consultarono il Signore, dicendo: Chi salirà davanti a noi contro il Cananeo, e chi sarà il condottiero di questa guerra? Rispose il Signore: Salirà Giuda: ecco, io ho messo questa terra nelle sue mani" ( Gdc 1,1-2 ). Cananeo s’interpreta "geloso", ed è figura del diavolo che arde di focosa gelosia nei confronti dell’anima del peccatore e mette in azione ogni astuzia per impedirle di ritornare a Cristo. Contro di lui il penitente deve salire alla confessione, deve sradicarlo dalla terra della sua coscienza e purificare questa terra da ogni vizio. Simone edifica, perché a questo fine si affatica con l’obbedienza, per far crescere in altezza l’edificio delle opere buone. Dice di lui Mattatia: "Ecco Simone, vostro fratello: so che è un uomo saggio, ottimo consigliere; ascoltatelo sempre ed egli sarà per voi come un padre" ( 1 Mac 2,65 ). L’obbedienza è la migliore consigliera, perché insegna a reprimere la propria volontà, che è la via che conduce all’inferno, e a compiere la volontà di colui che è la via al cielo. E di questo edificio dice Gregorio: L’obbedienza è l’unica virtù che unisce a sé le altre virtù e che le custodisce e le conserva. Gionata non cessa mai di rinnovare il santuario, perché la semplicità della colomba riedifica ciò che l’astuzia dell’antico serpente ogni giorno distrugge, e distrusse nel primo uomo Leggiamo infatti nella Genesi che al tramonto la colomba ritornò da Noè nell’arca, portando nel suo becco un ramo di ulivo con le foglie verdeggianti ( cf. Gen 8,11 ). Vediamo quale sia il significato della colomba, del tramonto, di Noè, dell’arca, del ramo di ulivo e delle foglie verdeggianti. Colomba, è come dire colens lumbos, che cura i lombi, e simboleggia la semplicità e la purezza, virtù che curano i lombi, perché combattono e reprimono la lussuria. Questa colomba va da Noè nell’arca, cioè dal penitente, ed entra nella sua mente: e questo al tramonto, vale a dire quando in lui si raffredda il sole della prosperità mondana e l’ardore della concupiscenza carnale. E allora porta il ramo di ulivo con le foglie verdeggianti. Nel ramo è raffigurata la costanza della volontà; nell’ulivo la serena tranquillità della coscienza; nelle foglie verdeggianti la parola della salvezza. La colomba porta tutto questo, quando nella mente del penitente entra la semplicità, e così Gionata è in grado di ricostruire ciò che era andato in rovina. Giovanni orna la facciata del Tempio con corone d’oro, perché la grazia dello Spirito Santo adorna le nostre opere con la purezza dell’intenzione. Dice Isaia: "Mi ha rivestito delle vesti della salvezza e mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo adorno della corona" ( Is 61,10 ). Il Signore riveste il penitente con le vesti della salvezza per mezzo della contrizione, e lo avvolge con il manto della giustizia per mezzo della confessione e, come uno sposo insignito di corona, lo adorna con le opere di riparazione, che devono procedere dalla purezza della mente. Ma, poiché tutte queste cose non conseguono effetto alcuno se non interviene l’aiuto di Dio, ecco che c’è anche il quinto fratello, Eleazaro. Con l’aiuto di Dio infatti ciò che si è incominciato si accresce, e ciò che è cresciuto si conserva, ciò che si è conservato conserva a sua volta il penitente e lo incorona poi con il premio della vita eterna. Il Signore dunque dica al paralitico: "Àlzati!" 13. "Prendi il tuo letto". Dice la Glossa: Prendere il letto vuol dire distogliere la carne dai desideri terreni e innalzarla alle aspirazioni dello spirito, perché ciò che fu testimonianza di malattia, sia ora prova di guarigione. "Prendi dunque il tuo letto", allontana cioè la tua carne dai piaceri terreni per mezzo della continenza e con la speranza dei beni celesti. A questo proposito, troviamo un riferimento nel secondo libro dei Re, dove si racconta che "Davide sconfisse i Filistei e li assoggettò; tolse dalla mano dei Filistei il diritto del tributo. Sconfisse i Moabiti e, stesili a terra, li misurò con la corda: e misurò due corde, una per metterli a morte, e l’altra per lasciarli in vita. I Moabiti divennero sudditi di Davide e suoi tributari" ( 2 Sam 8,1-2 ). Questo è il senso letterale: "Davide sconfisse i Filistei e tolse loro di mano il diritto", cioè il potere, "del tributo", che avevano su Israele. "E sconfisse anche i Moabiti e li misurò con la corda", diede cioè l’eredità a chi volle, "e li fece stendere a terra", cioè li umiliò grandemente. "E misurò due corde", ecc., decise cioè a suo arbitrio chi far mettere a morte e chi lasciare in vita. E questo è il senso morale: Filistei s’interpreta "che cadono ubriachi", e raffigurano i sensi del corpo, che ebbri per essersi dissetati alle vanità del mondo, cadono nella fossa del peccato. Sono detti anche "doppia rovina", perché portano alla rovina se stessi e la propria anima. Infatti di tale rovina il Signore dice: "Chi ascolta le mie parole e non le mette in pratica, è simile ad uno stolto, che costruisce la sua casa", cioè il suo modo di vivere e di comportarsi, "sulla sabbia", vale a dire sull’amore delle cose temporali. "Venne la pioggia" della suggestione diabolica, "strariparono i fiumi" della concupiscenza carnale, "soffiarono i venti" dell’avversità, o della prosperità del mondo, "e si abbatterono su quella casa, ed essa crollò", perché le sue fondamenta poggiavano sulla sabbia. Dire arena è come dire arida: infatti i beni temporali sono privi dell’umore della grazia. "E la rovina di quella casa fu grande" ( Mt 7,26-27 ). Davide sconfigge e sottomette i Filistei, quando il giusto sconfigge i sensi del corpo per mezzo della mortificazione della carne e li umilia e li sottomette con la considerazione della sua bassezza. E allora toglie il vincolo del tributo, cioè la concupiscenza della gola e della lussuria, con la quale prima i sensi del corpo erano soliti di tener legato lui, perché non potesse cibarsi del fieno dell’incarnazione del Signore, posto nella mangiatoia, ma solo dissetarsi all’acqua dei piaceri terreni. Il cavallo che ha il morso non può mangiare, ma solo bere. Di questo tributo si lamenta Geremia nelle Lamentazioni: "La Signora tra le province è sottoposta a tributo" ( Lam 1,1 ). L’anima, che una volta era Signora di province, comandava cioè ai cinque sensi, è stata sottoposta al tributo della concupiscenza carnale; ma Davide toglie dalle loro mani, cioè dal loro potere, il vincolo del tributo, quando prende il suo letto, crocifigge cioè la sua carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze ( cf. Gal 5,24 ). "E sconfisse i Moabiti". Moab s’interpreta "dal padre", e simboleggia gli stimoli carnali che abbiamo ereditato dai nostri genitori. Questo Moab, ogni volta che alza la testa, dobbiamo subito colpirlo, cioè reprimerlo, e con la corda, cioè con una severa penitenza, sempre però applicata con discrezione, dobbiamo farlo stendere a terra, cioè umiliarlo, in modo che il castigo sia proporzionato alla colpa commessa. Dobbiamo anche misurare due corde, cioè due specie di compunzione: una che riguarda i peccati, e questa per uccidere, vale a dire per distruggere gli stimoli della carne; l’altra che riguarda il desiderio della gloria futura, e questo per sostenere e vivificare il nostro spirito. Infatti il vangelo continua: "E va’ a casa tua". Andare a casa significa ritornare nel paradiso, che fu la prima dimora dell’uomo, o anche riprendere la vigilanza interiore di sé, per non ricadere nel peccato. "E il paralitico si alzò e ritornò a casa sua". Dice la Glossa: Grande potenza che la guarigione segua immediatamente al comando di Gesù. E giustamente quelli che erano presenti, cessate le bestemmie, presi da meraviglia, prorompono nella lode di tanto potere. "A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini" ( Mt 9,8 ). Fa’ attenzione alle due parole: "presa da timore" e "rese gloria a Dio". Infatti nell’introito della messa di oggi si canta: Tutto quello che ci hai fatto, Signore, l’hai fatto con retto giudizio, perché abbiamo peccato contro di te, e non abbiamo obbedito ai tuoi comandi ( cf. Dn 3,28-31 ). E questo ti dice chiaramente che il paralitico era stato colpito da quella malattia a causa dei suoi peccati, e da essa non poteva guarire se prima non gli venivano perdonati. Quindi dobbiamo sempre credere che tutto ciò che il Signore fa, lo fa con retto giudizio, e dobbiamo imputare il castigo ai nostri peccati, e anche glorificarlo insieme con la folla e dire: Da’ gloria al tuo Nome e agisci con noi secondo la tua clemenza ( cf. Dn 3,42-43 ). Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Chi era avvezzo a rubare, non rubi più": ecco l’"àlzati!"; "anzi si dia da fare lavorando onestamente con le sue mani", ecco "prendi il tuo letto": chi si applica alle opere buone toglie via il letto della sua carne; "per farne parte a chi si trova in necessità" ( Ef 4,28 ): ecco "va’ a casa tua!". Va a casa sua colui che alla sua anima che si trova nella necessità, impone il dovere di compiere le opere di misericordia. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo, perché ci faccia risorgere dal peccato, prendere il letto della nostra carne, e ritornare alla casa della beatitudine celeste. Ce lo conceda colui che è benedetto, pietoso e degno di amore nei sei secoli eterni. E ogni anima che si alza da letto della carne dica: Amen, alleluia! Domenica XX dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica ventesima dopo Pentecoste: "Il regno dei cieli è simile ad un re". Si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sui tre templi, sul candelabro d’oro, i suoi sei bracci e il loro significato: "Collocarono al suo posto il candelabro". – Parte I: Le tre nozze e le loro circostanze: "Il Regno dei cieli è simile a un re che celebrò", ecc. – L’Annunciazione del Signore: "La Sapienza si è costruita una casa", e tutto ciò che segue. – Parte II: Le tre tende che corrispondono alle tre nozze: "Il Signore colpirà di grande rovina". – Sermone contro l’ubriachezza: "Non ubriacatevi di vino, nel quale è la lussuria", e tutto ciò che ne consegue. – Parte III: Le tre vesti nuziali che corrispondono alle tre nozze: "Entrò allora il Re per vedere". – Sermone sui quattro giardini e sul loro significato: "Il mio diletto è sceso nel giardino". – Sermone sulla triplice battaglia: "La terza battaglia avvenne in Gob"; si parla anche della natura della salamandra e del passero, e delle pene dell’inferno. Esordio - Il triplice tempio e il suo candelabro 1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un re, che celebrò le nozze del suo figlio" ( Mt 22,2 ). Si legge nel primo libro dei Maccabei che "portarono nel tempio il candelabro, l’altare degli incensi e la mensa" ( 1 Mac 4,49 ). Di queste quattro cose - tempio, candelabro, altare e mensa -, vedremo il significato allegorico, quello morale e quello anagogico, ossia mistico. Considera che ci sono tre templi: il grembo verginale, l’anima fedele e la Gerusalemme celeste, e in ciascuno di essi c’è il candelabro, l’altare degli incensi e la mensa. Del tempio, che è il grembo verginale, si parla nel terzo libro dei Re, quando dice che Salomone costruì il tempio con tre materiali: marmo, cedro e oro. Il marmo veniva rivestito di legno di cedro e il cedro veniva rivestito d’oro ( cf. 1 Re 6,7-22 sparsim ). Nel marmo è simboleggiata la verginità della beata Maria; nel cedro, che con il suo profumo scaccia i serpenti, è simboleggiata la sua umiltà, e nell’oro la sua povertà. Il marmo della verginità viene rivestito, cioè viene preservato e protetto con il cedro dell’umiltà. La vergine superba infatti non è vergine, e perciò la beata Maria, quasi dimentica della sua verginità, mostra la sua umiltà dicendo: "Ecco l’ancella del Signore" ( Lc 1,38 ). Il cedro dell’umiltà viene rivestito e ornato con l’oro della povertà. Infatti l’abbondanza delle ricchezze produce di solito la malvagità della superbia. In questo tempio furono portati il candelabro, l’altare degli incensi e la mensa. Come nella divinità ci sono tre persone e una sola sostanza, così nell’umanità di Cristo ci sono tre sostanze [ entità ] e una sola persona. In Gesù Cristo c’è Dio e l’uomo, e nell’uomo c’è l’anima e il corpo. Nel candelabro è raffigurata la divinità di Cristo, nell’altare degli incensi la sua anima, che era ricolma del profumo di tutte le virtù, e nella mensa la sua carne, con la quale ci ristoriamo e ci saziamo nel sacramento dell’altare. Benedetto e glorioso questo tempio, illuminato dal candelabro della luce eterna, profumato dall’altare degli incensi e saziato con la mensa dell’offerta. Del secondo tempio, che è l’anima fedele, dice l’Apostolo: "Santo è il tempio di Dio, che siete voi" ( 1 Cor 3,17 ). In questo tempio dobbiamo portare il candelabro della carità, l’altare degli incensi, cioè una mente devota, e la mensa dell’offerta, cioè la parola della sacra predicazione. Del candelabro della carità si parla nel libro dell’Esodo, quando il Signore dice a Mosè: "Farai un candelabro duttile di oro purissimo, e da esso partiranno le coppe, le sfere e i gigli. Dai due lati si dirameranno sei bracci, tre da un lato e tre dall’altro" ( Es 25,31-32 ). Duttile significa che si può lavorare a martello. Il candelabro della carità viene battuto con il martello della tribolazione, perché la carità, una volta nata, cresca non in sé ma nella mente dell’uomo. Dice infatti Agostino, commentando la prima lettera di Giovanni: La carità perfetta è questa: che uno sia pronto anche a morire per i fratelli. Ma forse che, appena germogliata, è già del tutto perfetta? No di certo, ma nasce proprio per crescere fino alla perfezione; quando nasce viene alimentata; alimentata si fortifica; fortificata diviene perfetta; e quando è giunta alla perfezione dice: "Desidero essere sciolta ( dal corpo ) per essere con Cristo" ( Fil 1,23 ). Queste parole suggeriscono appunto il concetto del progresso e del continuo perfezionamento della carità. Il candelabro della carità poi è fatto di oro purissimo. Infatti la carità non ammette alcun difetto o vizio: essa è più preziosa di tutte le altre virtù, proprio come l’oro è più prezioso di tutti gli altri metalli. Da questo candelabro devono diramarsi le coppe, le sfere e i gigli. La coppa, che nella sua cavità contiene ciò che vi si versa e lo porge per bere, è simboleggiata l’umiltà unita alla compunzione della mente. La concavità infatti è in grado di ricevere ciò che vi si versa, il rigonfiamento ( la convessità ) invece lo respinge. Nella sfera, che gira all’intorno, è simboleggiata la sollecitudine per le necessità del prossimo. Nei gigli è indicato il nitore della castità. Perciò tu, che hai la carità, abbi anche le coppe nei riguardi di Dio, le sfere nei riguardi del prossimo e i gigli nei riguardi di te stesso. Considera anche che il candelabro della carità ha sei bracci, tre a destra e tre a sinistra, con i quali abbraccia Dio e il prossimo. I tre bracci con i quali abbraccia Dio sono l’esecrazione del peccato, il disprezzo delle cose temporali e la contemplazione delle cose celesti. Del primo braccio, il Salmista dice: "Ho avuto in odio l’iniquità e l’ho detestata" ( Sal 119,163 ). Del secondo, dice l’Apostolo: Tutto considero come spazzatura, al fine di guadagnare e abbracciare Cristo ( cf. Fil 3,8 ). E del terzo: Fissate lo sguardo non sulle cose visibili, ma su quelle invisibili ( cf. 2 Cor 4,18 ). Parimenti i tre bracci che abbracciano il prossimo sono: perdonare al peccatore, correggere chi sbaglia, ristorare chi ha fame. Sul primo, leggiamo nel vangelo: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno ( cf. Lc 23,34 ). Sul secondo, dice Giacomo: "Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati" ( Gc 5,20 ). E sul terzo, dice Salomone: "Se il tuo nemico ha fame, dàgli da mangiare; se ha sete, dàgli da bere" ( Rm 12,20; cf. Pr 25,21 ). Se saranno portati nella nostra anima l’altare della devozione e la mensa della sacra predicazione insieme con questo candelabro, allora il tempio sarà veramente santo e in esso abiterà Dio. Infine c’è il terzo tempio, che è la Gerusalemme celeste. Di essa dice il salmo: "Entrerò nella tua casa", cioè nella chiesa militante, "mi prostrerò nel tuo santo tempio" ( Sal 5,8 ), cioè nella chiesa trionfante, e in ambedue "proclamerò il tuo nome" ( Sal 138,2 ). Si legge nel libro di Daniele, che "Daniele entrò nella sua casa e nella sua stanza, le cui finestre erano aperte su Gerusalemme; tre volte al giorno si metteva in ginocchio per adorare e lodare il suo Dio" ( Dn 6,10 ). In questo tempio sta in candelabro della luce. Dice l’Apocalisse: "La gloria di Dio lo illumina e la sua lampada è l’Agnello" ( Ap 21,23 ). E lì c’è anche l’altare degli incensi: "Venne un angelo e si fermò davanti all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti incensi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell’angelo il fumo degli incensi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi" ( Ap 8,3-4 ). E questo è anche ciò che dice Raffaele a Tobia: "Quando pregavi piangendo, e seppellivi i morti, e trascuravi il tuo pranzo, io ho offerto la tua preghiera al Signore" ( Tb 12,12 ). E lì c’è anche la mensa. Dice Luca: "E io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa, nel mio regno" ( Lc 22,29-30 ). Con questi tre templi vogliamo concordare e celebrare tre nozze, a proposito delle quali dice appunto il vangelo di oggi: "Il regno dei cieli è simile ad un re che celebrò le nozze del suo figlio". 2. Considera i tre momenti posti in evidenza in questo vangelo. Il primo, la preparazione delle nozze e gli inviti, dove dice: "Il regno dei cieli è simile a un re". Il secondo, l’uccisione degli assassini, la presenza alle nozze dei buoni e dei cattivi, quando continua: "Il re, sentendo questo, si indignò". Il terzo, la condanna dell’uomo che non indossava la veste nuziale, quando conclude: "Il re entrò per vedere i commensali". Nell’introito della messa di oggi si canta: "In tuo potere, Signore, sono tutte le cose" ( Est 13,9 ). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: "Vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta" ( Ef 5,15 ). Divideremo questo brano in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. La prima: "Vigilate!" La seconda: "Non ubriacatevi di vino!" La terza: "Siate ricolmi di Spirito Santo". In questo vangelo il Signore parla di nozze, nella lettera di oggi l’Apostolo invita anche noi a celebrarle con salmi, inni e canti: è per questo che viene letta insieme con questo vangelo. I. Le tre nozze 3. "Il regno dei cieli è simile a un re". Considera che ci sono tre specie di nozze: nozze di unione, nozze di giustificazione, e nozze di glorificazione. Le prime furono celebrate in quel tempio che fu la beata Vergine Maria; le seconde vengono celebrate ogni giorno nel tempio che è l’anima fedele; le terze saranno celebrate nel tempio della gloria celeste. [ Le prime nozze ] Nelle nozze, come si sa, si uniscono insieme due persone, cioè lo sposo e la sposa. Anche se due famiglie sono in discordia, di solito, per merito del matrimonio, si rappacificano, quando la persona di una famiglia sposa quella dell’altra. Una grande discordia c’era tra noi e Dio. Per eliminarla e per riportare la pace, fu necessario che il Figlio di Dio prendesse la sua sposa nella nostra parentela. E per concludere questo matrimonio intervennero molti intermediari e pacieri, con insistenti preghiere, e a stento poterono ottenerlo. Finalmente il Padre fu d’accordo, e mandò il suo Figlio, il quale, nel talamo della beata Vergine, unì a sé la nostra natura, e allora il Padre celebrò le nozze del suo Figlio. Dice infatti in proposito Giovanni Damasceno: Dopo il consenso della santa Vergine, lo Spirito Santo discese in lei, secondo la parola di Dio comunicata dall’angelo, purificandola e infondendole la potenza atta a ricevere e anche a generare la divinità del Verbo. E allora la Sapienza dell’Altissimo la coprì direttamente della sua ombra, e la sua Potenza, cioè il Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, fu presente come seme divino; e unì a se stesso la carne del nostro primitivo impasto, prendendola dal santissimo e purissimo sangue della stessa Vergine; carne animata con anima razionale e intellettiva, non generandola da seme, ma creandola per opera dello Spirito Santo. E poi ripete la tessa cosa: Tutto ciò che egli aveva "impiantato" nella nostra natura, il Verbo di Dio lo assunse in se stesso, vale a dire il corpo e l’anima intellettuale; il Tutto assunse il tutto, per dare gratuitamente la salvezza a tutto me stesso. E Agostino: La divinità volle unirsi nel modo più nobile, ma anche la carne non poté essere sposata in modo più sublime! Parimenti, il secondo tipo di nozze si celebra quando l’anima peccatrice si converte, allorché scende su di lei la grazia dello Spirito Santo. Essa infatti, per bocca del profeta Osea, dice: "Andrò e ritornerò al mio primo sposo, perché allora io ero molto più felice di adesso" ( Os 2,7 ). E poco dopo: "Mi chiamerà ‘Marito mio’, e non mi chiamerà più ‘Baal’. Le toglierò dalla bocca i nomi di Baal, e dei loro nomi mai più si ricorderà. E in quel giorno stabilirò un patto con le bestie della campagna, con gli uccelli del cielo e con i rettili della terra; ed eliminerò dalla terra gli archi, le spade e la guerra; e li farò riposare tranquilli" ( Os 2,16-18 ). Lo sposo dell’anima è la grazia dello Spirito Santo; quando lo Spirito la chiama alla penitenza con l’ispirazione interiore, qualsiasi richiamo dei vizi perde efficacia e attrattiva; per questo è detto: "E non mi chiamerà più Baal", nome che s’interpreta "superiore" o "divoratore", e sta ad indicare il vizio della superbia, la quale tende ad essere sopra tutto, e anche i vizi della gola e della lussuria che tutto divorano: la grazia elimina i loro nomi dalla bocca del penitente. "Siano eliminate dalla vostra bocca le cose vecchie" ( 1 Sam 2,3 ), e il penitente elimini dal suo cuore e dalla sua bocca non solo il peccato, ma anche le occasioni e le pericolose fantasie. "E in quel giorno", cioè nel momento dell’infusione della grazia dalla quale l’anima viene illuminata, "stabilisce un patto con loro", si riconcilia cioè con i peccatori, "con le bestie della campagna", vale a dire con gli avari e con i rapinatori, "con gli uccelli del cielo", cioè con i superbi, "e con i rettili della terra", vale a dire con i golosi e con i lussuriosi. Ed allora distruggerà dalla terra, cioè dalla mente del peccatore, gli archi della suggestione diabolica, le spade lucenti della prosperità mondana e la guerra della carne. E così li farà riposare tranquilli e celebrare le nozze, come lo sposo con la sposa nel talamo di una coscienza purificata. C’è infine il terzo tipo di nozze, che verranno celebrate quando, nel giorno del giudizio, arriverà lo sposo Gesù Cristo, del quale è detto: "Ecco, viene lo sposo, andategli incontro" ( Mt 25,6 ); egli prenderà con sé la sua sposa, la chiesa, della quale dice Giovanni nell’Apocalisse: "Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello. E mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio" ( Ap 21,9.10-11 ). La chiesa dei fedeli discende dal cielo, da Dio, perché da Dio ha ottenuto che la sua dimora fosse nel cielo, dove adesso vive con la fede e la speranza, ma dove tra poco celebrerà le sue nozze con il suo sposo, del quale dice l’Apocalisse: "Beati quelli che sono invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello" ( Ap 19,9 ). Di queste tre nozze, dice il Signore per bocca di Osea: "Ti farò mia sposa per sempre" ( Os 2,19 ): ecco le nozze della glorificazione. E Isaia: "Felicità perenne sarà sul loro capo: giubilo e felicità li seguiranno" ( Is 51,11 ). "Ti farò mia sposa nel giudizio e nella giustizia, nella misericordia e nella benevolenza" ( Os 2,19 ): ecco le nozze della giustificazione. Nel giudizio, quello della confessione, dove l’anima giudica se stessa davanti al confessore e si accusa; nella giustizia della riparazione con la quale applica la giustizia su se stessa, il Signore fa sua sposa l’anima nella misericordia, vale a dire perdonandole i peccati, e nella benevolenza, infondendole la sua grazia e conservandogliela sino alla fine. "Ti farò mia sposa nella fede" ( Os 2,20 ): ecco le nozze dell’unione. Infatti nella fede della beata Vergine, la quale credette all’angelo, unì a sé, nel vincolo nuziale, la nostra natura. Anche noi, dunque, diciamo: "Il regno dei cieli è simile ad un re che celebrò le nozze del suo figlio". Dice qui la Glossa: "Il regno dei cieli", cioè la chiesa qui in terra, oppure la comunità dei giusti, "è simile a un re", cioè a Dio Padre, "che celebrò le nozze del suo Figlio", vale a dire unì al Figlio suo la chiesa, mediante il mistero dell’incarnazione. 4. "Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire loro: Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto: venite alle nozze" ( Mt 22,3-4 ). È la stessa cosa che Salomone dice nei Proverbi: "La Sapienza si è costruita la casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola. Ha mandato le sue ancelle a fare gli inviti sulla rocca e sulle mura della città" ( Pr 9,1-3 ). La Sapienza, il Figlio di Dio, ha costruito la casa della sua umanità nel grembo della beata Vergine, casa sorretta da sette colonne, cioè dai doni della grazia settiforme. Questo è lo stesso che dire: Celebrò le nozze del suo Figlio. Ha ucciso i suoi animali, ha preparato il vino e imbandito la mensa. Ed è lo stesso che dire: Ecco, ho preparato il mio pranzo, ecc. Mandò le sue ancelle, ecc. È lo stesso che dire: Mandò i suoi servi, ecc. Considera che il Signore chiama e invita i peccatori alle tre suddette nozze, che sono simboleggiate nella rocca e nelle mura della città. Nella rocca è simboleggiata l’umiltà dell’incarnazione del Signore; nelle mura sono raffigurate le opere di penitenza, per mezzo delle quali uno sale alla città della gloria celeste. Il Signore chiama per mezzo dei predicatori, i quali sono indicati con il nome di servi e di ancelle. Servi per l’umiltà: "Siamo servi inutili", dicono nel vangelo di Luca; "abbiamo fatto solo quanto dovevamo fare" ( Lc 17,10 ). Ancelle a motivo della cura solerte che esercitano verso le anime, proprio come le ancelle verso la loro padrona. Dicono infatti nel salmo: "Come gli occhi dell’ancella alle mani della sua padrona, così i nostri occhi, ecc." ( Sal 123,2 ). E a queste tre nozze si riferiscono le tre che troviamo nel vangelo e in Salomone ( cf. Pr 9,1-5 ), e cioè: "Ecco, ho preparato il mio pranzo", nelle nozze dell’unione. E la Glossa: Il pranzo è detto pronto, cioè è compiuto il mistero dell’incarnazione; e perché gli invitati venissero con maggior voglia, "uccise gli animali", lett. le vittime. Presso gli antichi erano chiamate vittime i sacrifici che si offrivano dopo la vittoria, o anche perché venivano portate all’altare avvinte, legate. Vittime furono gli apostoli e i loro seguaci, che consegnarono il loro corpo ai supplizi, proprio per invitare e chiamare i popoli alle nozze dell’incarnazione del Signore. Di essi infatti dice Mosè: "Chiameranno i popoli sul monte, e lì immoleranno le vittime di giustizia" ( Dt 33,19 ). Gli apostoli hanno chiamato i popoli al monte, vale a dire alla fede nell’incarnazione del Signore, e lì, cioè per diffondere la stessa fede, hanno immolato se stessi quali vittime di giustizia, vale a dire per rendere giusti gli ingiusti. "Il giusto – sta scritto – vive in virtù della fede" ( Gal 3,11 ). "I miei buoi sono stati uccisi", nelle nozze della giustificazione, cioè della penitenza. I buoi vengono uccisi quando i peccatori superbi si umiliano e si mortificano con la penitenza; e così non appartengono più a se stessi ma sono del Signore. Appartiene a se stesso colui che cerca i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo ( cf. Fil 2,21 ). Dice infatti Giovanni: "I suoi non l’hanno accolto" ( Gv 1,11 ). Quando tiene la testa eretta come il toro, e gli occhi torvi per l’ira, l’uomo appartiene a sé. Ma quando la testa viene immersa nel fango, quando cioè la superbia viene umiliata nella considerazione della propria bassezza e viene uccisa con la mortificazione e la penitenza, allora non appartiene più a se stesso ma a colui che lo ha comperato. In queste nozze la Sapienza prepara ( mesce ) il vino, quando reprime i piaceri della carne e del mondo con l’amarezza delle lacrime. Dice infatti Isaia: "È bevanda amara per chi la beve" ( Is 24,9 ). La bevanda del piacere mondano, quando viene mescolata con le lacrime della penitenza, diviene amara per coloro che la bevono, cioè per coloro che si pentono. "Gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto" nelle nozze della gloria celeste. Gli animali ingrassati sono detti in lat. altilia, da àlere, nutrire, e stanno ad indicare l’uomo perfetto, ricco di carità interiore, che tende alle cose superne con le ali della contemplazione. È detto che sono uccisi, perché con la morte del corpo hanno già raggiunto il riposo. In queste nozze "la Sapienza ha preparato la mensa". Infatti più sopra diceva: "Perché mangiate e beviate alla mia mensa". Nessuno, o pochi sono quelli che vanno al banchetto di queste tre nozze. Infatti detestano la povertà e l’umiltà dell’incarnazione del Signore, hanno terrore della dura penitenza, non desiderano il banchetto della mensa celeste, e aspirano invece ardentemente alle cose di questo mondo. E quindi il vangelo continua: "Ma costoro non se ne curarono e andarono chi alla propria campagna e chi ai propri affari" ( Mt 22,5 ). E la Glossa: Andare in campagna significa immergersi totalmente nelle occupazioni; andare ai propri affari vuol dire correre dietro ai guadagni terreni. Su questo argomento vedi il sermone della II domenica dopo Pentecoste, parte II, sul vangelo: "Un uomo fece una grande cena". "Altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero" ( Mt 22,6 ). Su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove sono ricordati i sette fratelli orribilmente trucidati da Antioco, insieme con la loro madre ( cf. 2 Mac 7,1-19 ), e dove si racconta che Eleazaro, "preferendo una morte gloriosa ad una vita ignominiosa, s’incamminò volontariamente al supplizio ( 2 Mac 6,19 ). 5. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Vigilate attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti ma da uomini saggi" ( Ef 5,15-16 ). Osserva che in questa prima parte dell’epistola ci sono tre versetti che si accordano con le tre suddette nozze, e cioè: "Vigilate diligentemente", "approfittate del tempo" e "non siate sconsiderati". Chi aspira alle nozze dell’incarnazione del Signore cammina con cautela, perché cammina nella luce, e chi cammina nella luce non inciampa. Dice infatti Isaia: "I popoli cammineranno alla tua luce, e i re nello splendore del tuo sorgere" ( Is 60,3). Coloro che partecipano alle nozze della Sapienza incarnata, non sono stolti, ma diventano veramente saggi; infatti la stessa Sapienza dice: "A me appartiene il consiglio e la giustizia, mia è la prudenza e mia è la fortezza" ( Pr 8,14 ). Sono queste le virtù che rendono l’uomo sapiente e saggio: il consiglio, per fuggire il mondo; la giustizia, per rendere a ciascuno il suo; la prudenza per guardarsi dai pericoli e la fortezza per mantenersi saldo nelle avversità. Va alle nozze della penitenza colui che rimedia al tempo male impiegato, "approfittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi" ( Ef 5,16 ). E Agostino commenta: A motivo della malvagità e della miseria dell’uomo i giorni sono detti cattivi. Guadagna chi perde, cioè chi ci rimette di suo, per essere libero di occuparsi di Dio, perché è come desse un soldo ( un nonnulla ) per il vino. Dice infatti il vangelo: "A chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello" ( Mt 5,40 ). Questo per aver il cuore tranquillo e per non sciupare il tempo. Parimenti, colui che brama le nozze della gloria celeste, non è stolto ma prudente. Prudente è come dire porro videns, che vede lontano. Infatti gusta e vede quanto è buono il Signore ( cf. Sal 34,9 ), e nella dolcezza di quella visione comprende quale sia la volontà di Dio. Ti preghiamo dunque, Signore Gesù Cristo, di farci giungere alle nozze della tua incarnazione con la fede e con l’umiltà; di farci celebrare le nozze della penitenza, in modo da essere degni di partecipare poi alle nozze della gloria celeste. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. II. Le tre tende 6. Il vangelo continua: "Il re, sentendo l’accaduto, si indignò e, inviati i suoi eserciti, sterminò quegli assassini e diede alle fiamme la loro città" ( Mt 22,7 ). All’inizio, quando faceva gli inviti e compiva opere di clemenza, agiva l’"uomo"; ora, nel momento del castigo, viene detto soltanto "re". Dice infatti il salmo: "Misericordia e verità precedono il tuo volto" ( Sal 89,15 ). Nella sua prima venuta fu misericordia, nella seconda sarà verità di giudizio. Perciò Cristo è chiamato anche ape, avendo il miele della misericordia e il pungiglione della giustizia ( Bernardo ). Dice di lui il profeta Malachia: "Egli sarà come il fuoco del fonditore e come l’erba dei lavandai" ( Ml 3,2 ). L’erba dei lavandai è il borit, la saponaria: con essa si fanno come dei pani, chiamati erbatici: coloro che candeggiano le vesti li seccano e poi li usano come sapone. Gesù Cristo, per quanto riguarda il tempo presente, è come l’erba del lavandaio, perché con la sua misericordia purifica l’anima dai peccati; ma nella vita futura sarà per i malvagi come il fuoco del fonditore, che divamperà vorticando nella fornace dell’inferno. Infatti il vangelo soggiunge: "Inviati i suoi eserciti", ecc. E la Glossa: Inviati gli eserciti, cioè gli angeli, per mezzo dei quali farà il giudizio, sterminerà peccatori e città, brucerà cioè nella geenna il corpo nella quale hanno abitato insieme con l’anima, e così coloro che hanno peccato con il corpo e con l’anima, nel corpo e nell’anima saranno puniti. "Disse quindi ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma gli invitati non ne erano degni" ( Mt 22,8 ). La grazia di Dio è sempre a disposizione: se ne rende indegno chi la rifiuta o chi, dopo averla ricevuta, non la conserva. Le nozze sono pronte, perché dunque non venite? Perché non entrate? Perché ve ne rendete indegni? Sentite che cosa minaccia il Signore per bocca del profeta Zaccaria: "Il Signore distruggerà tutte le genti che non saliranno a celebrare la festa delle tende ( lett. delle capanne )" ( Zc 14,18 ). Considera che tre sono le tende, che corrispondono alle tre specie di nozze. La prima è la tenda dell’incarnazione del Signore, della quale Isaia dice: "Una tenda fornirà l’ombra contro il calore del giorno, darà rifugio e riparo nel turbine e nella pioggia" ( Is 4,6 ). Il Figlio di Dio, quando ricevette dalla beata Vergine il corpo, nel quale, come in una tenda, fu ospite e pellegrino, fece per noi come un luogo ombreggiato contro l’ardore del giorno, cioè contro l’ardore della prosperità mondana. Dice infatti il salmo: "Ha protetto con l’ombra la mia testa nel giorno della battaglia" ( Sal 140,8 ), cioè al tempo della prosperità mondana, la quale assalta brutalmente i poveri di Cristo. Se uno è privo dell’ombra protettiva della povertà del Signore, il sole arde sul suo capo e va incontro alla morte. Si racconta nel libro di Giuditta che "il suo marito, Manasse, morì al tempo della mietitura dell’orzo. Si trovava nel campo a sorvegliare i legatori dei mannelli, quando il suo capo fu colpito da un’insolazione, e morì" ( Gdt 8,2-3 ). Troviamo un fatto simile anche nel quarto libro dei Re, dove si racconta che il ragazzo, figlio della Sunammita, "uscito per andare da suo padre, tra i mietitori, disse al padre: Sento male alla testa. E morì" ( 2 Re 4,18-19.20 ). Manasse s’interpreta "dimentico", smemorato, e raffigura il goloso e l’avaro che, dimentichi della povertà del Signore, mentre legano nel campo, vale a dire nell’abbondanza delle cose temporali, i mannelli delle ricchezze, sono colpiti alla testa, cioè nella mente, dall’ardore della prosperità mondana, e così vanno alla morte. La stessa cosa si deve intendere del ragazzo, che raffigura in questo caso il carnale e il lussurioso, dei quali dice Isaia: "Il fanciullo di cento anni morrà, e il peccatore di cento anni sarà maledetto" ( Is 65,20 ). E il Filosofo: È la malizia che non ti permette di essere vecchio. Anche l’umanità di Cristo è per noi sicurezza e protezione. Dice il salmo: "Il Signore è il mio aiuto, non ho timore; che cosa può farmi l’uomo?" ( Sal 118,6 ); e "Proteggimi all’ombra delle tue ali" ( Sal 17,8 ), "dal turbine" della suggestione diabolica, "e dalla pioggia" della concupiscenza carnale ( cf. Mt 7,25 ). La seconda è la tenda della penitenza. Si legge nel Cantico dei Cantici: "Bruna sono ma bella, come le tende di Kedar" ( Ct 1,4 ). Vedi su questo argomento il sermone della III domenica di Quaresima, quarta parte, sul vangelo: "Quando uno spirito immondo". La terza tenda è quella della gloria celeste. Dice infatti il salmo: "Quanto sono amabili le tue tende, Signore degli eserciti! ( Sal 84,2 ). Quindi, chi non salirà a celebrare la festa di queste tende, il Signore lo colpirà con la condanna dell’eterna morte. La festa della prima tenda si celebra nella fede e nell’umiltà; la festa della seconda tenda si celebra nella contrizione del cuore; la festa della terza tenda si celebra nella dolcezza della contemplazione. Le nozze dunque sono pronte, ma gli invitati non ne sono degni e perciò: Guai a coloro che se ne rendono indegni, preferendo le cose indegne, vili e passeggere, vale a dire il lerciume di questo mondo. "Andate", dunque, o predicatori, "alle uscite delle strade, e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze" ( Mt 22,9 ). E la Glossa: Le strade raffigurano le opere, le uscite delle strade la mancanza delle opere, perché di solito si convertono facilmente quelli che nelle attività terrene non hanno alcun successo. Su questo argomento vedi il sermone della II domenica dopo Pentecoste, parte terza, sul vangelo: "Un uomo fece una grande cena". "Usciti nelle strade, i servi radunarono quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala delle nozze si riempì di commensali" ( Mt 22,10 ). La Glossa: La chiesa, essendo posta tra il cielo e l’inferno, raduna indistintamente buoni e cattivi, cioè Pietro e Giuda, l’olio e la morchia – che è la feccia dell’olio, così chiamata da mergere, stare sul fondo –, il grano e la paglia, così chiamata da pala, perché viene buttata in aria con la pala per ripulire il frumento. La paglia, vale a dire i peccatori, vengono gettati in aria con la pala della suggestione diabolica. E contro questo ammonisce l’Ecclesiastico: "Non ti volgere ad ogni vento e non camminare su ogni strada" ( Sir 5,11 ): e intende la superbia, dalla quale partono tutte le vie del diavolo. E Giobbe infatti conferma: Il diavolo "guarda con disprezzo tutto ciò che è elevato: egli è il re di tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ). 7. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Non ubriacatevi di vino, nel quale c’è la lussuria" ( Ef 5,18 ). Vogliamo riflettere più a fondo questo versetto e dimostrare qual grande pericolo si nasconda nel vino. Si legge nella Genesi: "Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendone bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda" ( Gen 9,20-21 ). Ecco, alla lettera, quanta degradazione va unita all’eccessivo uso del vino. Senso morale. Noè è figura del prelato, il quale, per mezzo della predicazione coltiva la terra, vale a dire lo spirito dei sudditi; pianta una vigna quando edifica i sudditi con le sue opere buone e beve il vino quando si compiace in essi, secondo il detto dell’Apostolo: "Chi mai pianta una vigna senza gustarne il frutto?" ( 1 Cor 9,7 ). Ma talvolta si ubriaca, quando se ne fa un inutile vanto, oppure cade in peccato in altro modo. Purtroppo ne consegue una denudazione, cioè la divulgazione del peccato commesso di nascosto. E questa è l’evacuazione del ventre di Saul, di cui si parla nel primo libro dei Re, dove dice che Saul entrò in una caverna per un bisogno naturale ( cf. 1 Sam 24,4 ). Commenta Gregorio: Evacuare il ventre significa diffondere all’esterno l’insopportabile fetore della malizia concepita dentro nel cuore. Cam, cioè il suddito cattivo, divulga il peccato del prelato; invece Sem e Iafet, cioè i buoni sudditi, lo coprono con il mantello, volgendo altrove lo sguardo ( cf. Gen 9,22-23 ). E sempre Gregorio: Volgiamo altrove lo sguardo da qualcosa che disapproviamo. I figli di Noè portano una coperta con lo sguardo volto altrove perché, pur disapprovando l’accaduto, ma stimando il maestro, non vogliono vedere ciò che coprono. "Non ubriacatevi, dunque, di vino, nel quale c’è la lussuria". Dice Geremia: "Posi davanti ai figli della casa dei Recabiti delle coppe piene di vino e dei calici, e dissi loro: Bevete il vino. Essi risposero: Noi non beviamo vino. Nostro padre Ionadab, figlio di Recab, ci comandò: Non berrete vino, né voi, né i vostri figli, mai; non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne avrete alcuna, ma abiterete nelle tende per tutti i vostri giorni" ( Ger 35,5-7 ). E poco dopo: "Alla casa dei Recabiti disse Geremia: Questo dice il Signore degli eserciti, il Dio d’Israele: Poiché avete obbedito al comando di Ionadab, vostro padre, non verrà mai a mancare alla discendenza di Ionadab un uomo che stia sempre alla mia presenza" ( Ger 35,18.19 ). "Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c’è la lussuria". Chi si ubriaca di vino non è degno di partecipare al banchetto di nozze; merita invece, come quegli assassini, di essere bruciato lui, insieme con la sua città. E su questo abbiamo la concordanza nel primo libro dei Maccabei, dove si racconta che Tolomeo, figlio di Abobi, offrì a Simone un grande banchetto. "Quando Simone e i suoi figli furono ubriachi, Tolomeo e i suoi uomini si alzarono, impugnarono le armi, entrarono nella sala del banchetto e uccisero lui e i suoi due figli e alcuni suoi giovani. Commise così un’enorme perfidia contro Israele" ( 1 Mac 16,16-17 ). Ecco quanti mali sono causati dal vino: per mezzo di esso il diavolo uccide non solo i carnali, ma talvolta anche i penitenti, raffigurati in Simone e nei suoi figli, cioè le loro opere, e i giovani, vale a dire la loro purezza. "Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c’è la lussuria". Dice Osea: "La fornicazione, il vino e l’ubriachezza distruggono il senno" ( Os 4,11 ). Infatti sta scritto nella Genesi che Lot aveva due figlie. La maggiore disse alla più piccola: Vieni, ubriachiamo di vino nostro padre, corichiamoci con lui, così faremo suscitare una discendenza da nostro padre. Gli diedero quindi da bere vino e dormirono con lui ( cf. Gen 19,31-35 ). Ecco come il vino distrugge il senno! Senso morale. Lot è figura del giusto, le sue due figlie simboleggiano la perversa suggestione e il piacere disordinato, che talvolta sconvolgono l’animo del giusto, tanto ch’egli può in realtà essere chiamato Lot, cioè "che peggiora". E su questo abbiamo la concordanza in Isaia: "Dalla radice del serpe uscirà un basilisco, e la stirpe di questo ingoierà il volatile" ( Is 14,29 ). La radice del serpe è la sensualità nell’uomo, dalla quale esce il basilisco, cioè la suggestione, e la stirpe di questo, cioè il piacere carnale, ingoierà il volatile, vale a dire la ragione, che era in grado di volare in alto. "Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale è la lussuria". E in proposito, Salomone nei proverbi dice: "Per chi i guai? Per il padre di chi i guai? Per chi i litigi? Per chi i precipizi? Per chi le ferite senza motivo? Per chi gli occhi cerchiati e lividi? Non sono forse per quelli che si perdono dietro al vino e continuano a vuotare i calici? Non lasciarti incantare dal vino che rosseggia nel vetro scintillante: va giù deliziosamente, ma alla fine ti morderà come una serpe, e come un vipera ti inoculerà il veleno" ( Pr 23,29-31 ). E questo va applicato soprattutto alla lussuria. "Non ubriacatevi dunque di vino, nel quale c’è la lussuria". Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù Cristo, di preservare dalla rovina e dal fuoco della geenna noi e la nostra città, di aiutarci a salire alla festa delle tende, di liberarci dall’ubriachezza del vino e dalla sua lussuria, per essere fatti degni di bere e mangiare alla tua mensa nel regno dei cieli. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli. Amen. III. Le tre vesti nuziali 8. "Il re poi entrò per vedere i commensali e ne vide uno che non aveva la veste nuziale" ( Mt 22,11 ). Considera che come sono tre le specie di nozze, così sono tre anche le vesti nuziali, e cioè quella di lino, quella variopinta, e quella scarlatta. Per la prima specie di nozze è necessaria la veste di bisso, per la seconda quella variopinta e per la terza quella scarlatta. Perciò chi vuole partecipare alle nozze dell’incarnazione del Signore, deve essere rivestito della veste di lino, vale a dire del candore della castità. Infatti nell’Apocalisse sta scritto: "Sono giunte le nozze dell’Agnello. La sua sposa è pronta, l’hanno avvolta in una veste di candido lino splendente" ( Ap 19,7-8 ). L’agnello, agnus, ha questo nome perché agnoscit, riconosce la madre, più di tutti gli altri animali, e quindi è figura di Gesù Cristo il quale, mentre pendeva dalla croce, tra i molti giudei presenti riconobbe la Madre e al discepolo vergine affidò la sua Vergine Madre. Sono giunte dunque le nozze dell’Agnello, si è compiuta cioè l’incarnazione di Gesù Cristo, e quindi la sua sposa, cioè la santa chiesa, e ogni anima fedele, deve prepararsi con la fede e rivestirsi di lino, cioè di castità, splendente per quanto riguarda la coscienza, candido per quanto riguarda il corpo. Come può partecipare alle nozze del Figlio di Dio e della beata Vergine chi non è rivestito del lino della castità? Come può pretendere di entrare in chiesa, di unirsi alla comunità dei fedeli, di partecipare alla preparazione del corpo di Cristo, chi sa di essere privo del lino candido e splendente, cioè della castità dello spirito e del corpo? Il re gli dirà sarcasticamente: "Amico, come hai potuto entrare qui senza la veste nuziale?" ( Mt 22,12 ). Il Figlio della beata Vergine si compiace infinitamente del candore della castità. Di lui infatti la sposa del Cantico dei Cantici dice: "Il mio diletto è sceso nel suo giardino, all’aiuola delle erbe aromatiche, per pascersi nei giardini e cogliere i gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli si pasce tra i gigli" ( Ct 6,1-2 ). Il giardino del Diletto è l’anima del giusto; in essa vi sono due zone: l’aiuola delle erbe aromatiche, cioè l’umiltà, che è la madre di tutte le altre virtù, e quella dei gigli, cioè la duplice continenza; e quindi in questo giardino scende e si pasce il Diletto. Considera che ci sono anche quattro giardini: il giardino dei noci, quello dei pomi, quello delle viti e quello delle erbe aromatiche ( cf. Ct 6,1.10 ). Sette sono i doni dello Spirito Santo: lo spirito del timore, della scienza e della pietà, del consiglio e della fortezza, dell’intelletto e della sapienza ( cf. Is 11,2-3 ). L’anima del giusto, per opera dello spirito del timore diventa giardino dei noci, i cui frutti, le noci, possiedono tre caratteristiche: l’amarezza nel mallo, la durezza nel guscio e la gustosità nel gheriglio. Il giardino di noci raffigura la penitenza, che dà amarezza alla carne, la durezza della tribolazione nella rassegnazione della mente, e la soavità della letizia spirituale. Parimenti, per mezzo dello spirito della scienza e della pietà, l’anima diventa giardino di pomi, i cui frutti, le mele, hanno la dolcezza della misericordia; così pure, per mezzo dello spirito del consiglio e della fortezza diventa giardino delle vigne, avendo il calore della carità; e per mezzo dello spirito della sapienza e dell’intelletto diviene giardino di erbe aromatiche, che effondono profumo alle nostre porte ( cf. Ct 7,13 ). 9. Chi vuole entrare alle nozze della penitenza deve essere rivestito della tunica variopinta, avere cioè l’umiltà del cuore. Dice la Genesi: "Giacobbe amava il figlio Giuseppe più degli altri suoi figli, perché l’aveva avuto nella vecchiaia: e gli fece una veste variopinta" ( Gen 37,3 ). Giacobbe, cioè Dio Padre, amò Giuseppe, vale a dire il figlio suo Gesù Cristo, più di tutti gli altri figli adottivi, avendolo avuto dalla Vergine Maria "nella vecchiaia", quando cioè il mondo era nella decadenza della vecchiaia. E gli fece una tunica variopinta, lo rivestì cioè di umiltà. Infatti il Figlio stesso ha detto: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ). Troviamo, a questo proposito, un riferimento nel secondo libro dei Re, dove si legge: "Ci fu una terza battaglia contro i Filistei, a Gob, nella quale Adeodato, figlio di Salto di Betlemme, tessitore di stoffe variopinte, sconfisse Golia, il geteo" ( 2 Sam 21,19 ). Considera che tre sono le battaglie: quella del diavolo, quella del mondo e quella della carne. Questa è la battaglia di Gob, che s’interpreta "lago" e raffigura la carne, perché la nostra carne è lago di miseria e fango di fondale ( cf. Sal 40,3 ). In questo lago avviene la battaglia contro i filistei, cioè contro i cinque sensi del corpo i quali, ubriachi per aver bevuto ai beni terreni, sprofondano nei peccati. In questa battaglia e in questo lago, c’è il penitente, che è "Adeodato", cioè illuminato dalla grazia, "figlio di Salto", vale a dire della solitudine, della penitenza e dell’afflizione, tessitore di stoffe variopinte, vale a dire umile e mite, "di Betlemme", cioè contemplativo e ricolmo della dolcezza del pane celeste. Egli, così valoroso e così fornito di qualità, castigando se stesso, sconfisse Golia il geteo, vale a dire il diavolo. Dice infatti Isaia: "Il Signore degli eserciti alzerà il flagello contro di lui", contro Assur, cioè il diavolo, "come aveva fatto contro Madian sulla rupe dell’Oreb" ( Is 10,26 ). Si racconta nel libro dei Giudici che Gedeone distrusse l’accampamento di Madian con le fiaccole, con le trombe e spezzando le brocche di coccio ( cf. Gdc 7,19-21 ). Gedeone è figura del penitente che con la fiaccola della contrizione, con la tromba della confessione e con la rottura della brocca, cioè con la mortificazione della carne, sconfigge il diavolo, e questo sulla roccia dell’Oreb, che s’interpreta "siccità" o anche "corvo", cioè con il fermo e incrollabile proposito di vivere nella penitenza, la quale dissecca i flussi della lussuria, e induce al dolore e al disprezzo del mondo, simboleggiati nel corvo. Perciò chi vuole entrare alle nozze della penitenza deve indossare questa veste variopinta; se ne è privo, si sentirà dire: "Amico", – a motivo del dimesso abbigliamento esteriore, ma nemico perché nel cuore brami il lusso – "come hai potuto entrare qui", cioè nella religione, privo della veste nuziale" dell’umiltà? Che cosa c’è di più detestabile, di più abominevole a Dio e agli uomini della superbia in un religioso? Se perfino il cielo per nulla ha giovato agli angeli superbi, come potrà giovare il monastero a un religioso superbo? Perfino i secolari si umiliano e i peccatori si confessano! Invece il religioso si fa vanto delle penne della cicogna e dello sparviero ( cf. Gb 39,13 ), e monta in superbia. E quindi dice di lui il profeta Abdia: "L’orgoglio del tuo cuore ti ha esaltato" ( Abd 1,3 ). E su questo vedi il sermone della domenica di Sessagesima, sul vangelo: "Un seminatore uscì per seminare la sua semente". 10. Infine, chi vuole entrare alle nozze della gloria celeste, deve indossare la veste scarlatta, deve cioè avere l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo scarlatto e la porpora sono della stessa materia, ma il loro colore è molto diverso: la porpora, prodotta dal primo colore dei crostacei, è più scura; mentre lo scarlatto, prodotto dal secondo colore, è più rosso. Per questo il Signore ordinò a Mosè che il paramento sacerdotale e le cortine della tenda del convegno fossero di lino tinto due volte ( cf. Es capp. 26 e 28 ), in cui appunto è raffigurato l’amore di Dio e del prossimo. Anche Davide dice di questo scarlatto: "Figlie d’Israele, piangete su Saul, che vi vestiva di scarlatto e di delizie e che appendeva gioielli d’oro sulle vostre vesti" ( 2 Sam 1,24 ). O figlie d’Israele, cioè anime fedeli, piangete pure sulla morte di Saul, vale a dire di Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato re per liberare i figli d’Israele dalla mano dei Filistei, cioè dei demoni. Egli vi riveste con lo scarlatto del duplice amore e con le delizie di una pura coscienza, e per ornare la vostra vita vi offre i gioielli di tutte le altre virtù. Chi nell’ultimo giudizio sarà trovato senza questa veste, sentirà pronunciare dal Re la sentenza della sua eterna dannazione. È detto di questo Re: "Entrò il re", il quale venendo per giudicare illuminerà le coscienze di tutti, "per vedere", cioè per rendere manifesti i meriti di quelli che devono essere giudicati, e distinguere "i commensali", coloro cioè che sono tranquilli nella fede; "e vide un uomo", nel quale sono indicati tutti coloro che sono uniti tra loro nel male, "non vestito della veste nuziale", che aveva la fede ma non aveva le opere della carità, "e gli disse: Amico", a motivo della sua fede, "come hai potuto entrare qui senza veste nuziale? Quegli ammutolì", perché lì non c’è possibilità di negare o di scusarsi. "Allora il re disse ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre esteriori: là sarà pianto e stridore di denti" ( Mt 22,13 ). Di questo Re dice Geremia: "Nessuno è come te, Signore; tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle genti?" ( Ger 10,6-7 ). A questo Re si canta oggi nell’introito della messa: In tuo potere, Signore, sono tutte le cose ( cf. Est 13,9 ). Questo Re dei re e Signore dell’universo, dice ai suoi servi: "Legatelo mani e piedi". Vengono legati con la pena coloro che quaggiù non vollero essere "legati", cioè impediti dal fare il male; nell’aldilà le singole membra saranno punite con le pene corrispondenti ai vizi ai quali si sono abbandonate: "con quelle stesse cose con le quali uno pecca, con esse viene poi castigato" ( Sap 11,17 ). "Gettatelo nelle tenebre esteriori", dell’inferno, che sono fuori di noi, perché quaggiù le ebbe all’interno, nel cuore. E a questo proposito dice la Sapienza: "Nessun fuoco, per quanto intenso, riusciva a far loro luce, e neppure le luci splendenti degli astri riuscivano a rischiarare quell’orrenda notte oscura" ( Sap 17,5 ). Le tenebre sono chiamate così perché tenent umbras, mantengono le ombre. L’ombra simboleggia l’oblio della morte, ed è detta esteriore perché, quando ha accolto uno extra, cioè fuori della terra dei viventi, ve lo tiene per l’eternità. "Là sarà pianto" degli occhi che si sono posati sulle vanità, "e stridore di denti" che hanno goduto nella ingordigia e hanno divorato i beni dei poveri. Per questi due peccati ci saranno i due maggiori tormenti dell’inferno: il fuoco e il gelo. Dal fuoco procede il fumo che provoca il pianto; il gelo provoca lo stridore dei denti; dice Giobbe: Dalle acque gelide come neve passeranno bruscamente al massimo calore ( cf. Gb 24,19 ). Considera che, come in questo mondo i peccati più frequenti e numerosi sono la lussuria e l’avarizia, così nell’inferno i tormenti più grandi saranno il fuoco e il gelo. La lussuria è il fuoco; infatti Giobbe dice: "È un fuoco che divora fino alla distruzione e che consuma anche ogni germoglio" ( Gb 31,12 ) di virtù. Si legge nella Storia Naturale che la salamandra vive nel fuoco; così anche il lussuriosi vivono nella lussuria. Il fuoco della lussuria genera poi il fuoco della geenna. E l’avarizia è detta gelo perché irrigidisce le mani affinché non si stendano alla misericordia. Si legge ancora nella Storia Naturale che il passero soffre di malcaduco, ma che cade per terra non per causa di questa malattia; mangia invece un’erba chiamata giusquiamo ( fava di porco ), e quando la mangia, quest’erba emette dei vapori freddi che gli gelano il cervello, per cui il passero cade a terra. Il passero, così chiamato da parvitas, piccolezza, è figura dell’avaro che è piccolo e meschino perché non può stare senza il soldo, ed è più piccolo di tutte le ricchezze che possiede, in quanto non sono le ricchezze che servono a lui, ma è lui ad essere servo delle sue ricchezze. Il suo cervello, ossia la sua mente, viene come irrigidita dal gelo della cupidigia, e perciò cade nella terra dell’inferno, dove è pianto e stridore di denti. Il vangelo conclude: "Perché molti sono i chiamati" alle nozze per mezzo della fede, "ma pochi sono gli eletti" ( Mt 22,14 ), nel regno, con la carità. 11. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "Siate ricolmi di Spirito Santo, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore" ( Ef 5,18-19 ). Fa’ attenzione alle tre parole: salmi, inni e cantici, che si richiamano appunto alle tre suddette specie di nozze. Nelle nozze dell’incarnazione del Signore è necessario il salmo delle buone opere, per mettere in pratica ciò che credi ed essere così un buon salmista "con il salterio a dieci corde" ( Sal 33,2 ), che suona cioè il salterio al Signore con l’osservanza dei dieci comandamenti. Nelle nozze della penitenza è necessario l’inno della confessione e dell’umiltà, di cui è detto: " È inno di lode per tutti i suoi santi, per i figli d’Israele", cioè per i religiosi e per i penitenti, "popolo che è vicino a lui" ( Sal 148,14 ). Nelle nozze della gloria ci sarà il cantico di gioia. Mentre i malvagi piangeranno nell’inferno con stridore di denti, i santi canteranno in cielo il cantico dell’eterna gioia. Dice l’Apocalisse: "I servi di Dio cantavano il cantico di Mosè" ( Ap 14,3 ). Come Mosè, dopo aver fatto sprofondare nel Mar Rosso il faraone e gli egiziani, proruppe in un canto di esultanza, così i santi, dopo che i malvagi saranno stati sprofondati nell’inferno, leveranno in cielo un cantico di eterna esultanza. E su questo abbiamo la concordanza nel secondo libro dei Maccabei, dove si racconta che, massacrati i nemici e bruciate le loro città, "con canti e inni di riconoscenza benedicevano il Signore che aveva operato grandi cose in Israele e aveva concesso loro la vittoria" ( 2 Mac 10,38 ). Su dunque, fratelli carissimi, con la voce e con le lacrime preghiamo e supplichiamo il Signore Gesù Cristo perché, quando verrà per il giudizio non comandi che siamo gettati nelle tenebre esteriori insieme con l’uomo privo della veste nuziale, ma ci ammetta a cantare con i suoi santi il cantico dell’eterna esultanza nelle nozze della gloria celeste. Ce lo conceda egli stesso, che è degno di lode e di gloria per i secoli eterni. E ogni anima, sposa di Cristo, risponda: Amen. Alleluia. Prologo Innalziamo inni di ringraziamento e canti di lode alla divina Maestà, per essere giunti alla prima domenica del nono mese. Facciamo notare che dal primo di novembre al primo di dicembre si leggono nella chiesa i libri dei profeti Ezechiele e Daniele, e dei dodici profeti minori. Li divideremo in questo modo: La prima domenica esporremo Ezechiele, la seconda Daniele, la terza e la quarta i libri dei dodici profeti minori. In questo mese ci sono quattro domeniche, nelle quali vengono letti quattro vangeli: con le loro parti vedremo di concordare alcuni passi dei suddetti libri profetici. Domenica XXI dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica ventunesima dopo Pentecoste: "C’era un funzionario del re, che aveva un figlio ammalato"; vangelo che divideremo in due parti. – Anzitutto sermone sulla repressione dei desideri carnali e sulla confessione dei peccati, che viene paragonata al zaffiro a motivo delle sue quattro proprietà: "Sopra il firmamento … apparve qualcosa, come pietre di zaffiro". – Parte I: I nove ordini angelici e il loro simbolismo: "C’era un funzionario del re". – Sermone ai religiosi: "Vidi scendere un angelo". – Il triplice amore: "Il cherubino stese la mano". – I quattro abomini: il primo contro i prelati e i sacerdoti: "Figlio dell’uomo, alza i tuoi occhi". – Contro i prelati e i religiosi che danno ai parenti il patrimonio del Crocifisso: "Figlio dell’uomo, sfonda la parete". – Contro la prosperità del mondo: "Se ti volgerai". – Contro coloro che, a motivo delle cose temporali, si dimenticano del Signore: "Ed ecco sulla porta del tempio". – Sermone per la Natività del Signore: "Colui che stava alla porta, seduto sul trono, disse all’uomo vestito di lino". – Parte II: Sermone sulla fede e sulla contemplazione: "Questo era ciò che si vedeva in mezzo agli animali". – La discesa dell’umiltà: "Proprio mentre scendeva verso casa". – Sermone sull’obbedienza: "Di mezzo al fuoco si vedeva come una specie di elettro", e "Le penne argentate della colomba". – La vita dell’anima e il profumo dei frutti: solo di questo vivono certi popoli: "Gli annunciarono che il suo figlio era vivo". – La febbre della lussuria: "All’ora settima". Esordio - La repressione dei desideri carnali e la confessione dei peccati 1. In quel tempo: "C’era un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao" ( Gv 4,46 ). Leggiamo in Ezechiele: "Su nel firmamento, che era sopra le teste degli animali, apparve qualcosa come di pietre di zaffiro in forma di trono, e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze di uomo" ( Ez 1,26 ). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza quattro entità: primo, gli animali; secondo, il firmamento; terzo il trono di zaffiro, e quarto la figura con sembianze d’uomo. Gli animali simboleggiano i desideri carnali che, come animali bruti, imbrattano la terra della nostra mente, e quindi il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: "Sei stata gettata per terra con spregio della tua vita. Ti ho vista calpestata nel tuo sangue" ( Ez 16,5-6 ), cioè nell’immondezza dei desideri carnali. La testa degli animali raffigura l’inizio dei desideri della carne, di cui nella Genesi è detto: "Essa ti schiaccerà la testa" ( Gen 3,15 ). E questo avviene quando il firmamento incombe sulla testa degli animali. Il firmamento è la contrizione del cuore, infatti nella Genesi sta scritto: "Sia il firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque" ( Gen 1,6 ). La mente del penitente, contrito dei suoi peccati, ha le acque superiori, cioè il flusso della grazia, e le acque inferiori, cioè il flusso della concupiscenza, che devono stare sotto di lui, perché sempre tendono alla caduta. Oppure: le acque superiori raffigurano la ragione, che è la forza superiore dell’anima che richiama sempre l’uomo al bene; le acque inferiori lo chiamano invece alla sensualità. E un riferimento a questo l’abbiamo in Ezechiele: "Vidi una specie di elettro dai suoi fianchi in su, e dai suoi fianchi in giù una specie di fuoco" ( Ez 1,27 ). Dice la Glossa: Ciò che sta al di sopra dei fianchi, dove si trovano i sensi e la ragione, non ha bisogno di essere bruciato dal fuoco o dalle fiamme, ma ha bisogno di un metallo preziosissimo e purissimo; ciò che si trova al di sotto dei fianchi, dove agiscono l’accoppiamento e la procreazione, e dove ci sono gli stimoli ai vizi, ha bisogno delle fiamme purificatrici. Sulla testa degli animali ci sia dunque il firmamento, cioè la contrizione del cuore che schiacci all’inizio i desideri della carne, e allora sopra il firmamento ci sarà una specie di pietra di zaffiro, in forma di trono. Nel trono è designata la confessione dei peccati, e giustamente. Come infatti per sedersi nel trono si deve abbassarsi, così il penitente deve umiliarsi nella confessione, giudicando se stesso e condannandosi, e distruggendo così tutto il male commesso. È detto infatti nei Proverbi: "Il re che siede nel trono distrugge ogni male con il suo sguardo" ( Pr 20,8 ). E osserva che la confessione deve avere proprio l’aspetto della pietra di zaffiro, la quale è fornita di quattro proprietà: è del colore del cielo sereno, mostra in se stessa una stella, ferma il sangue, elimina il carbonchio o le pustole. Così la confessione dei peccati dev’essere simile al cielo per la speranza del perdono, e dire con il ladrone: "Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo regno" ( Lc 23,42 ). Deve anche mostrare in se stessa una stella. Stella viene da stare, e simboleggia il fermo proposito di non ricadere in peccato. Infatti, come le stelle sono immobili e, ferme nel cielo, girano in perpetuo movimento, così il penitente dev’essere fermo e costante nella penitenza, e ovunque vada e si muova, deve avere sempre il fermo proposito di non ricadere mai più nel peccato. Se la confessione non mostra questa stella, non si deve assolutamente imporgli la penitenza ( dargli l’assoluzione ). Il Signore infatti ha detto: Va’, e non voler più peccare" ( Gv 8,11 ). Non ha detto: "Non peccare!", ma "Non voler peccare". Parimenti deve fermare, coagulare il sangue. Sangue è quasi come dire soave, e sta ad indicare la compiacenza, e il piacere del peccato, che la confessione deve fermare perché non fluisca dal cuore e dai sensi del corpo. Se la confessione avrà queste tre requisiti, seguirà necessariamente anche il quarto, perché eliminerà il carbonchio, vale a dire la suggestione diabolica. E in questo trono di zaffiro si riposa il Dio e uomo, simile ad un elettro, cioè Gesù Cristo, che libererà da ogni infermità di peccato l’anima che si confessa, come liberò dalla malattia del corpo il figlio del funzionario regio, del quale appunto è detto nel vangelo di oggi: "C’era lì un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao". 2. Fa’ attenzione ai due fatti posti in evidenza in questo vangelo: la malattia del figlio del funzionario, e la fede di quest’ultimo. Il primo dove dice: "C’era lì un funzionario regio". Il secondo dove dice: "L’uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù". Nell’introito della messa si legge il salmo: "Se consideri le colpe, Signore" ( Sal 130,3 ). Si legge quindi la lettera del beato Paolo apostolo agli Efesini: "Attingete forza nel Signore"; la divideremo in due parti, considerandone la corrispondenza con le due suddette parti del vangelo. Prima parte: "Attingete forza nel Signore". Seconda parte: "State ben fermi, cinti i fianchi della verità". Osserva ancora che Giovanni, in questo vangelo, parla della malattia e della guarigione del figlio del funzionario regio, e l’Apostolo nella lettera parla della tentazione del diavolo che rende malata l’anima, e dell’armatura di Dio che resiste strenuamente contro il diavolo stesso. È per questo che la lettera viene letta insieme con questo vangelo. I. La malattia del figlio del funzionario reale 3. "C’era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafarnao". Vedremo che cosa significhino il funzionario, il suo figlio, la malattia di questo, e Cafarnao, trattandone singolarmente. Dal Re dei re di tutto il creato, il Signore Gesù Cristo, che comanda agli angeli in cielo e agli uomini in questo mondo, ogni fedele viene nominato "regio funzionario" ( in lat. règulus, piccolo re ), per il fatto che ha in se stesso una certa raffigurazione degli ordini celesti, e che consta anche lui dei quattro elementi fondamentali di cui consta ogni creatura. Gli ordini ( cori ) celesti sono nove, ma noi li ordineremo in tre gruppi di tre ordini ( cori ) ciascuno. Nel primo gruppo ci sono gli Angeli, gli Arcangeli e le Virtù. Negli Angeli è raffigurata l’osservanza dei precetti, negli Arcangeli l’attenzione ai consigli e la loro applicazione, nelle Virtù i prodigi della vita santa. Anche tu dunque fai parte del coro degli Angeli quando osservi i comandamenti del Signore. Dice il profeta Malachia: "Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza ( Ml 2,7 ). Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Quinquagesima, sul vangelo: "Un cieco sedeva lungo la via". Similmente fai parte del coro degli Arcangeli quando osservi non solo i comandamenti, ma ti sforzi di seguire anche i consigli di Gesù Cristo. Infatti Isaia ti suggerisce: "Proponiti un consiglio, raduna una consulta" ( Is 16,3 ). Infine entri a far parte del coro delle Virtù quando risplenderai dei prodigi di una vita santa. Dice il Signore: "Chi crede in me farà anche lui le opere che faccio io, e ne farà anche di più grandi" ( Gv 14,12 ). E la Glossa commenta: Ciò che il Signore opera in noi non senza il nostro concorso, è più grande di tutto ciò che egli opera senza di noi; così che quando un malvagio diventa giusto, quest’opera è più grande di tutto ciò che vi è in cielo e in terra e altrove, perché quelle cose passeranno, mentre quest’opera resterà, e in quelle c’è soltanto l’opera di Dio, mentre in questa c’è anche l’immagine di Dio. Anche se Dio ha creato gli angeli, la giustificazione dell’empio appare opera più grande che non creare dei giusti, poiché anche se in entrambe le opere c’è un’eguale potenza, nella giustificazione dell’empio c’è una più grande misericordia. 4. Nel secondo gruppo ci sono i Principati, le Potestà e le Dominazioni. Considera che ci sono in noi tre entità sulle quali dobbiamo dominare, se non proprio come re, almeno come funzionari del re, e cioè i pensieri, gli occhi e la lingua. I Principati soggiogano gli spiriti maligni, e noi dobbiamo tenere a freno i pensieri maligni, cioè male igniti, che bruciano malignamente. Dice Giovanni nell’Apocalisse: "Vidi un angelo scendere dal cielo, portando la chiave dell’abisso e una grande catena in mano: afferrò il dragone, il serpente antico – cioè il diavolo, satana – e lo incatenò per mille anni" ( Ap 20,1-2 ). Senso morale: L’angelo è figura del giusto, che scende dal cielo quando, pur nella condizione di vita in cui si trova in terra, si sforza di modellarla sulla purezza del cielo. Quaggiù ha la chiave e la catena. La chiave è il discernimento, con il quale il giusto chiude e apre l’abisso dei pensieri: chiude quando li raffrena, apre quando li sceglie. La catena nella sua mano raffigura la pratica della penitenza. Si dice "catena" da capiendo teneo, prendendo tengo, o anche perché dopo aver preso tiene con molti nodi. Quando la contrizione si accompagna alla confessione, la confessione si accompagna all’opera riparatoria di penitenza, e quando quest’ultima si accompagna all’amore del prossimo, si forma come una grande catena con la quale il giusto incatena il dragone, il serpente antico, cioè il diavolo, satana. Nel dragone è raffigurato lo spirito di superbia, nel serpente il pensiero avvelenato della lussuria, nel diavolo – nome che in ebraico significa "colui che precipita giù" – è raffigurata l’avarizia; in Satana – che vuol dire "avversario" – è indicato il male della discordia. Tutti questi malanni il giusto li lega con la catena per mille anni, quando soggioga il dragone della superbia con la contrizione del cuore, il serpente della lussuria con la confessione, il diavolo dell’avarizia con le opere di riparazione e con elargizione di elemosine, il satana della discordia con l’amore del prossimo. E tutto questo per mille anni, numero perfetto che sta ad indicare la perseveranza finale. Dobbiamo poi dominare gli occhi, che sono come ladri che rapiscono una fanciulla dalla terra d’Israele ( cf. 2 Re 5,2 ), cioè la purezza dalla mente del giusto, e dire insieme con Giobbe: "Ho fatto un patto con i miei occhi di non fissare neppure una vergine" ( Gb 31,1 ). E nella Genesi il Signore dice a Caino: "Se farai del bene, bene avrai; e se farai del male, sarà subito alla tua porta il peccato. Ma la concupiscenza è sotto di te e tu potrai dominarla" ( Gen 4,7 ). Il peccato alle porte è proprio la concupiscenza della carne negli occhi; e se su di essa esercitiamo il nostro dominio, l’appetito carnale sarà a noi sottomesso, perché sarà represso dal giogo della ragione. E infine la lingua che, come una prostituta, è "ciarliera ed errabonda, incapace di starsene tranquilla in casa, che ora è per la strada, ora per le piazze, e ad ogni angolo sta in agguato" ( Pr 7,10-12 ), dobbiamo saperla dominare perché, come dice Giacomo, non abbia a contaminare tutto il corpo e a incendiare il corso della vita e a dar fuoco a tutta la foresta ( cf. Gc 3,6.5 ). Se faremo parte di questi tre cori, cioè dei Principati, delle Potestà e delle Dominazioni, saremo anche noi dei veri piccoli re. 5. Nel terzo gruppo ci sono i Troni, i Cherubini e i Serafini. Siamo Troni quando ci umiliamo in noi stessi e ci giudichiamo. Dice il salmo: "Dio, da’ al Re il tuo giudizio" ( Sal 72,2 ). Al Re, cioè al giusto, Dio dà il suo giudizio perché egli stesso si giudichi, affinché Dio non trovi in lui qualcosa da condannare. "Se noi giudichiamo noi stessi – dice l’Apostolo –, non saremo giudicati" ( 1 Cor 11,31 ). O Dio, da’ a me il tuo giudizio, perché da tuo io lo faccia mio e, facendolo mio, possa sfuggire al tuo. "È terribile cadere nelle mani del Dio vivente" ( Eb 10,31 ). Cherubino s’interpreta "pienezza della scienza", che è la carità: e chi ha la carità è perfetto e sa come deve comportarsi. Perciò siamo Cherubini quando facciamo il bene, animati dalla carità. Sta scritto in Ezechiele: "Un Cherubino, uno dei quattro Cherubini, stese la mano per prendere il fuoco che era in mezzo ai Cherubini: lo prese e lo pose nel cavo delle mani di colui che era vestito di lino" ( Ez 10,7 ). Osserva che in questo passo per ben tre volte è scritto cherubini, perché la carità è triplice: la tua, quella di Dio e quella del prossimo. Tu dunque, che sei cherubino per quanto ti riguarda, stendi la mano delle opere sante di mezzo agli altri cherubini, cioè dalla carità di Dio, al fuoco della vita santa, che è tra i cherubini, cioè tra gli uomini santi e ripieni di carità, e da quel fuoco, vale a dire dall’esempio della loro vita santa, dàllo all’uomo rivestito di lino, cioè ad ogni cristiano, rivestito della fede nell’incarnazione del Signore. "Quanti siete stati battezzati in Cristo, dice l’Apostolo, vi siete rivestiti di Cristo" ( Gal 3,27 ). Se tu non sarai stato prima cherubino in te stesso, non potrai di mezzo ai cherubini stendere la tua mano al fuoco che è tra i cherubini; incomincia quindi dalla tua carità, e poi potrai esercitare la carità anche verso gli altri. Allo stesso modo, serafino s’interpreta "ardente". Siamo serafini quando, infiammati del fuoco della compunzione, ci profondiamo in lacrime per ottenere la sorgente delle acque inferiori e quella delle acque superiori ( cf. Gdc 1,14-15 ). "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra – dice il Signore –: e che altro voglio se non che divampi" ( Lc 12,49 ) e faccia liquefare il ghiaccio? Leggiamo infatti nel Cantico dei Cantici: "L’anima mia si è come liquefatta, quando il mio Diletto ha parlato" ( Ct 5,6 ). Chi dunque riproduce in se stesso, nel modo sopra illustrato, questi nove cori angelici, e sul loro modello dispone e organizza ordinatamente la vita del corpo, il quale consta dei quattro elementi fondamentali, a buon diritto può essere chiamato piccolo re, o funzionario del re, del quale appunto dice il vangelo: "C’era un funzionario del re". 6. "Egli aveva un figlio ammalato a Cafarnao". Il figlio del funzionario regio è figura dell’anima fedele a Gesù Cristo, la quale, mentre vive secondo il modello dei nove cori angelici, è salva; ma quando si ferma a Cafarnao si ammala a morte. Cafarnao s’interpreta "campo fertile" o anche "campagna della consolazione". In queste quattro parole: campo, fertile, campagna e consolazione sono indicati i quattro stati di vita dell’uomo, e cioè dei chierici, dei religiosi, dei poveri e dei ricchi. I chierici, nel campo della chiesa, si fanno grandi del patrimonio di Cristo. I religiosi, nella tranquillità e nell’ozio, come un grosso frutto, vengono guastati dal verme della concupiscenza I secolari poveri faticano come in una campagna, e si lamentano della loro povertà. I ricchi se la godono nei piaceri della ricchezza e quindi si dimenticano del Signore. Tutti costoro sono ammalati a Cafarnao. Questi quattro stati di vita concordano con i quattro abomini che il Signore mostrò a Ezechiele. Dice il Signore: "Figlio dell’uomo, alza i tuoi occhi. Ed alzai i miei occhi verso settentrione. Ed ecco a settentrione della porta dell’altare l’idolo della gelosia, proprio all’ingresso, per provocare la gelosia. E mi disse: Figlio dell’uomo, vedi che cosa fanno costoro? Vedi i grandi abomini che commette la casa di Israele, perché io mi allontani dal mio santuario?" ( Ez 8,5.3.6 ). Ecco la superbia dei chierici. Nell’idolo della gelosia consiste la superbia dei chierici, ed essa provoca la gelosia di Dio, cioè la sua ira e la sua vendetta. Dice infatti: "Mi resero geloso con ciò che non è Dio, e mi irritarono con i loro idoli vani" ( Dt 32,21 ). Un prelato della chiesa o un ministro dell’altare superbi, che cosa sono se non idoli di gelosia proprio all’ingresso della porta dell’altare? Ahimè, quali abomini essi compiono nella casa del Signore! Il Signore stesso, per bocca del profeta, dice di essi: "Violeranno il mio tesoro; vi entreranno i predatori e lo profaneranno" ( Ez 7,22 ). Emissarius viene chiamato il cavallo destinato all’accoppiamento con le cavalle. Predatori sono i chierici superbi e lussuriosi, che violano il tesoro del Signore, cioè il corpo di Gesù Cristo, calpestano tutto ciò che hanno in se stessi e profanano la santa chiesa. Perciò il Signore continua: "Me ne andrò lontano dal mio santuario". Narra infatti il primo libro dei Re che a causa dei peccati di Ofni e Finees, i quali "si univano alle le donne che prestavano servizio all’ingresso della tenda del convegno" ( 1 Sam 2,22 ), fu catturata l’arca del Signore degli eserciti, che siede sui Cherubini ( cf. 1 Sam 4,11 ). 7. Ed ecco il secondo abominio. "Se ti volti, vedrai abomini ancora peggiori. E mi disse: Figlio dell’uomo, sfonda la parete. Dopo sfondata la parete mi apparve una porta. Mi disse: Entra e osserva gli abomini malvagi che commettono costoro. Io entrai, e vidi ogni sorta di rettili e di animali immondi. E tutti gli idoli del popolo di Israele erano raffigurati tutt’intorno alle pareti. E settanta anziani della casa d’Israele, tra i quali Ieconia figlio di Safan, stavano in piedi davanti alle raffigurazioni. E ognuno aveva nelle mani un turibolo dal quale saliva una nuvola d’incenso profumato. E mi disse: Certo hai visto, figlio dell’uomo, quello che fanno gli anziani del popolo d’Israele nelle tenebre, ciascuno nella stanza segreta del proprio idolo; dicono infatti: Il Signore non ci vede, il Signore ha abbandonato la nostra terra" ( Ez 8, 6.8-12 ). Dalle parole: "Sfonda la parete" fino a "raffiguràti tutt’intorno alle pareti", vedi il sermone: "Prendi con te i profumi e la mirra", che è intitolato "All’inizio del digiuno" ( Mercoledì delle Ceneri ). "E settanta anziani della casa d’Israele". Così commenta Girolamo: Dobbiamo pregare perché gli anziani della casa d’Israle non facciano nelle tenebre il numero sette, che è un numero sacro, e, moltiplicandolo per sette diecine, persistano nei loro errori e adorino le rappresentazioni degli idoli, cioè dei loro vizi, e il fumo del sacrilegio continui a salire a Dio. I religiosi del nostro tempo sono chiamati "settanta uomini", in quanto per la perfezione del loro operare dovrebbero avere la settiforme grazia dello Spirito Santo. E invece, stolti, che fanno? Stanno in piedi davanti alle pitture, e tra loro c’è Ieconia il quale, come dice la Glossa interlineare, rinnegata la religione, adorava gli idoli nel tempio del Signore. Le pitture sulla parete raffigurano i sogni di superbia, di gola e di lussuria che vengono alla mente, oppure anche l’ipocrita simulazione religiosa, oppure, nel religioso, l’amore carnale dei parenti, e forse anche dei figli e delle figlie. E perciò nei rettili che gridano: "Guai, guai", sono raffigurati i figli e i nipoti; negli animali immondi è raffigurata la nefandezza della fornicazione; negli idoli dipinti i parenti e gli amici. Ecco quali pitture adorano alcuni religiosi del nostro tempo. E ciò che è peggio, c’è Ieconia, vale a dire l’abate o il priore, figlio di Safan, che significa "giudizio", cioè condanna di eterna morte, che se ne sta in mezzo a loro e adora le stesse pitture, egli che dovrebbe proibirlo. "E ognuno di essi aveva in mano un turibolo". Che cosa rappresenta il turibolo nelle mani, se non le sostanze del monastero, date a titolo di elemosina e di offerta, che sono affidate alla potestà del superiore? Ma questi gregari di Giuda, che come il traditore hanno le loro casse private, con il turibolo delle elemosine e l’incenso dei sacrifici offerti dai fedeli per i defunti, incensano le loro pitture, danno cioè ai loro parenti e ad altre persone i beni del monastero, che appartengono ai poveri. E non è necessario che su questo scendiamo a particolari. "Certamente" hai sentito "e hai visto, figlio dell’uomo, che cosa fanno nelle tenebre gli anziani", invecchiati nel male ( cf. Dn 13,52 ); e poi dicono: "Il Signore non ci vede"; ma sono loro ad essere nelle tenebre e a non vedere, e così pensano di non essere veduti. E ancora Girolamo commenta: "Se pensassimo che il Signore è sempre presente e che tutto vede e giudica, mai, o difficilmente, cadremmo in peccato". 8. Ed ecco il terzo abominio. "Il Signore mi disse: Se ti volti vedrai altri abomini. E mi condusse all’ingresso del portico della casa del Signore, che guarda a settentrione, e vidi donne sedute che piangevano Adònide. E mi disse: Certamente hai visto, figlio dell’uomo" ( Ez 8,13-15 ). Spiega Girolamo che gli Ebrei e i Siriaci chiamano Adonide con il nome di Tammuz, che significa "bellissimo". Con Tammuz, o Adonide, si intende la prosperità di questo mondo, che è alleata di Venere e della lussuria. Le donne che piangono raffigurano tutti coloro che piangono per aver perduto la ricchezza. Ahimè, quanti effeminati piangono oggi per aver perduto la ricchezza e per povertà non voluta, e molte volte perdono anche la fede! Ben a ragione sono detti villani, da villa, campagna, cioè servi della terra, e quindi schiavi del diavolo: essi non sono del nobile sangue di Gesù Cristo che comanda non solo di lasciare ciò che si ha, ma anche di rallegrarsi di ciò che si è perduto e della povertà. 9. E infine il quarto abominio. "Se ti volterai, vedrai abomini ancora peggiori di questi. Ed ecco all’ingresso del tempio circa venticinque uomini, con le spalle rivolte al tempio e la faccia ad oriente che, prostrati, adoravano il sole E mi disse: Certamente hai visto, figlio dell’uomo" ( Ez 8,15-17 ). Avere le spalle rivolte al tempio del Signore significa disprezzare il creatore, dimenticarsi della morte di Gesù Cristo, non curarsi della vita eterna. Avere la faccia ad oriente e adorare il sole, significa cercare la felicità nello splendore delle cariche, nella gloria, e pur di conseguirla, essere disposti anche ad adorare un uomo. E contro tutto questo abbiamo ciò che dice Mardocheo nel libro di Ester: "Signore, tu che tutto conosci, sai bene che non per orgoglio e per disprezzo ho fatto questo gesto, di non prostrarmi mai in adorazione davanti al superbissimo Aman. Io, per la salvezza di Israele, sarei pronto a baciare anche l’impronta dei suoi piedi. Ma l’ho fatto per il timore di tributare ad un uomo l’onore che è dovuto solo a Dio. Non adorerò mai nessuno, se non il mio Dio" ( Est 13,12-14 ). Certamente i ricchi di questo mondo, sventurati, non si comportano in questo modo. Ad essi dice il Signore: "Guai a voi, ricchi, che avete già la vostra consolazione" ( Lc 6,24 ). Tutti coloro che si rendono colpevoli dei suddetti abomini, contraggono anch’essi nell’anima la malattia del figlio del funzionario regio di Cafarnao: e si tratta di una malattia mortale. Il funzionario del re persista quindi nella sua preghiera, affinché il suo figlio venga liberato dalla malattia e guarito. E si degni di esaudirlo colui che è benedetto nei secoli. Amen. Ma proseguiamo. "Avendo sentito che Gesù dalla Giudea stava per venire nella Galilea, si recò da lui. E lo pregava di andare a casa sua e di guarirgli il figlio, che ormai stava per morire" ( Gv 4,47 ). Giudea significa "proclamazione", Galilea "ruota" o "volubilità". Gesù Cristo quindi passa dalla Giudea alla Galilea, quando dalla vita eterna, nella quale c’è la proclamazione della lode degli angeli, egli discende alla ruota della nostra volubilità, cioè sulla terra. 10. E su questo abbiamo una concordanza in Ezechiele, dove si racconta che colui che sedeva sul trono "disse all’uomo vestito di lino: Va’ fra le ruote che sono sotto i cherubini, riempi la tua mano dei carboni accesi che sono fra i cherubini e spargili sulla città" ( Ez 10,2 ). Nel lino è indicato il Corpo santissimo di Gesù Cristo, che lo indossò prendendolo dalla terra vergine, per coprire la nostra nudità. A lui il Padre disse: "Va’ fra le ruote". La ruota ritorna al punto dal quale è partita, e quindi sta ad indicare la natura umana alla quale fu detto: Sei terra e terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Il Figlio quindi entrò fra le ruote quando dalla Giudea scese in Galilea: assumendo la natura umana, è apparso sulla terra e ha vissuto fra gli uomini ( cf. Bar 3,38 ), divenendo simile a loro ( cf. Fil 2,7 ). È detto: "Le ruote che sono sotto i cherubini", perché è stato fatto di poco inferiore agli angeli ( cf. Sal 8,6 ); e così riempì la sua mano dei carboni accesi che sono tra i cherubini, cioè nei due Testamenti, e li sparse sulla città, vale a dire sulla santa chiesa. Oppure, sparge i carboni accesi sulla città quando infonde nell’anima i carboni del suo timore e del suo amore, che le fanno abbandonare il piacere del mondo e della carne, affinché essa, infiammata ed illuminata, guarisca dalla malattia. Quindi il funzionario regio, il quale sa che il figlio, cioè la sua anima, è ammalata a Cafarnao, deve recarsi da lui con la contrizione del cuore e pregarlo con la confessione della bocca, perché risani il suo figlio, del quale è detto: "Stava ormai per morire". E fa’ attenzione come dica giustamente: "stava per morire" ( lat. incipiebat mori, incominciava a morire ): infatti dall’appagamento della carne e dal godimento del mondo incomincia la morte dell’anima, e questa morte si compie nella dannazione della geenna, che durerà in eterno. "Gli disse Gesù: Se non vedete segni e prodigi, voi non credete" ( Gv 4,48 ). I prodigi sono così chiamati perché porro dicunt, parlano del poi, cioè predicono il futuro da lontano. In riferimento a questo, troviamo che il Signore dice a Ezechiele: "Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli di Israele, ti mando a un popolo di ribelli che si sono allontanati da me. Verso di te saranno increduli e distruttori, e ti troverai in mezzo agli scorpioni. Non vogliono ascoltare te, perché non vogliono ascoltare me" ( Ez 2,3.6; Ez 3,7 ). "Gli dice il funzionario regio: Vieni, prima che il mio figlio muoia" ( Gv 4,49 ). E la Glossa: Come se Cristo non potesse salvare senza essere presente. Perciò il Signore, per dimostrare che non è assente dal luogo al quale è invitato, lo guarisce con il solo comando. Disse quindi: "Va’, tuo figlio vive!" ( Gv 4,50 ). E in Ezechiele: Mentre ancora ti dibattevi nel tuo sangue, ti dissi: Vivi! ( cf. Ez 16,6 ). Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva ( cf. Ez 33,11 ). Voglio io forse la morte dell’empio, dice il Signore Dio, o non piuttosto che si converta e viva? Riflettendo e allontanandosi da tutte le colpe commesse, egli certo vivrà e non morirà ( cf. Ez 18,23.28 ). Per questo nell’introito della messa di oggi si canta: "Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono", Dio d’Israele ( Sal 130,3-4 ). 11. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Attingete forza nel Signore" per non venir meno nella malattia che proviene da Cafarnao, "e nel vigore della sua potenza" – di colui che disse: "Va’, tuo figlio vive" – "indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo" ( Ef 6,10-11 ). Considera che chi vuole essere soldato di Dio, indossare la sua armatura e resistere contro le insidie del diavolo, deve avere il cavallo della buona volontà, la sella dell’umiltà, le staffe della costanza, gli speroni del duplice timore, il morso della temperanza, lo scudo della fede, la corazza della giustizia, l’elmo della salvezza e la lancia della carità ( cf. Ef 6,15-17 ). Chi indosserà queste armi non sarà colpito dalla malattia di Cafarnao. E sono armi necessarie perché "la nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti" ( Ef 6,12 ); come a dire: combattiamo non soltanto contro i vizi della carne e del sangue, ma contro i demoni che comandano ad altri demoni, cioè contro coloro che hanno potere su quelli che si trovano nelle tenebre dei peccati, contro i mondani, contro coloro che portano alla rovina, contro queste forze tenebrose che inducono a compiere opere tenebrose, cioè gli abomini indicati dal profeta Ezechiele, contro gli spiriti maligni, alleati con gli spiriti delesti. E gli spiriti maligni combattono contro di noi non per una cosa di poco conto, ma per privarci dell’eredità celeste. Ti preghiamo quindi, Signore Gesù Cristo, di liberarci dalla malattia di Cafarnao e dai quattro suddetti abomini, in modo da poter resistere alle insidie del diavolo ed essere degni di vivere con te nella vita del cielo. Accordacelo tu, che vivi e regni nei secoli eterni. Amen. II. Fede del funzionario del re 12. "Quell’uomo credette alla parola di Gesù e si mise in cammino" ( Gv 4,50 ). Dice la Glossa: Il Signore, benché pregato, non andò dal figlio del funzionario regio, per non dare l’impressione di voler onorare la ricchezza. Invece promette di andare dal servo del centurione, perché non disprezza la realtà naturale dell’uomo. In colui nel quale ha distrutto la superbia, vizio che non dà importanza alla realtà naturale, ma solo a ciò che appare all’esterno, certamente non onora la ricchezza. Dice infatti per bocca di Ezechiele: "Il loro argento sarà gettato via e il loro oro si cambierà in immondizia. Il loro argento e il loro oro non potranno salvarli nel giorno dell’ira del Signore" ( Ez 7,19 ). Questo si può intendere anche in senso morale, perché l’argento dell’eloquenza e l’oro della sapienza non potranno certo salvare M. Tullio Cicerone e Aristotele nel giorno dell’ira del Signore, che così parla nel libro di Giobbe: "Non lo risparmierò, né avrò riguardo alla forza delle sue parole, fatte proprio per muovere a compassione" ( Gb 41,3 ). E osserva che il vangelo dice che prima "credette" e poi "si mise in cammino", perché prima viene la fede del cuore e poi il cammino delle opere. Infatti leggiamo in Ezechiele: "E in mezzo agli animali si poteva vedere uno splendore di fuoco, e uscire dal fuoco come delle folgori. E gli animali andavano e venivano a somiglianza di folgore lampeggiante" ( Ez 1,13-14 ). Nello splendore del fuoco è simboleggiata la fede che illumina. Infatti: "La tua fede ti ha salvato" ( Mc 10,52 ) vuol dire: ti ha illuminato. Che cosa vuoi che io ti faccia? Maestro: che io veda! ( cf. Mc 10,51 ). Da questo fuoco esce la folgore delle opere buone, e così gli animali, cioè i santi, si elevano alla contemplazione ma poi ritornano all’azione: non possono sostare a lungo in contemplazione se vogliono che anche altri portino frutto. "A somiglianza di folgore lampeggiante": per mezzo di essi che si innalzano alla contemplazione e poi persistono nelle buone opere, si diffonde sugli altri come una luce di cielo. Dice Gregorio: La carità si eleva a mirabili altezze, quando va a cercare pietosamente il prossimo di condizione più miserevole; e quando scende amorevolmente alle cose più umili, ritorna poi con maggior merito alle più sublimi. "Quell’uomo dunque credette e poi si mise in cammino". 13. "Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i servi a dirgli: Tuo figlio vive!" ( Gv 4,51 ). Fa’ attenzione ai tre momenti: mentre scendeva, gli vennero incontro i servi, tuo figlio vive. Se tu scendi ti vengono incontro i servi e ti viene annunciata la vita del figlio. È cosa buona dunque scendere. Scendere da dove, e verso dove? Dal monte alla valle, dalla superbia all’umiltà. Nella valle infatti il Signore apparve ad Abramo ( cf. Gen 18,1 ). "Le valli, dice il Signore, abbonderanno di frumento ( Sal 65,14 ). E Geremia: "Osserva le tue vie nella valle" ( Ger 2,23 ). E Isaia: "Ogni valle sarà colmata" ( cf. Is 40,4; Lc 3,5 ); e ancora Ezechiele: "Saranno come le colombe delle valli" ( Ez 7,16 ). Quindi, mentre sta discendendo, vengono incontro i servi. I servi sono i cinque sensi del corpo che devono servire alla ragione. Se discendi, i servi ti vengono incontro, cioè ti obbediscono. Infatti, se il cuore è umile, i sensi del corpo sono obbedienti. Dall’umiltà nasce l’obbedienza. Sempre Ezechiele: "E al suo centro, cioè in mezzo al fuoco, si scorgeva una figura come di elettro" ( Ez 1,4 ). Il fuoco è l’umiltà, perché come il fuoco abbassa le cose alte, riduce in cenere quelle dure, così l’umiltà abbassa i superbi e richiama ai cuori induriti la sentenza: "Sei cenere e in cenere ritornerai" ( cf. Gen 3,19 ). O umiltà, se hai potuto piegare il capo della divinità nel grembo della Vergine poverella, che cosa c’è di tanto alto che tu non possa abbassare? E da questo fuoco procede l’elettro dell’obbedienza. L’elettro – dice Gregorio – è composto di oro e di argento. E quando questi due metalli vengono fusi insieme, l’argento aumenta di lucentezza, mentre l’oro attenua il suo fulgore. L’argento risonante è la parola del prelato; l’oro è la coscienza pura del buon suddito: quando la parola del prelato giunge al suddito, essa aumenta il suo splendore a motivo dell’obbedienza del suddito, e questi, per così dire, si fa pallido, con la mortificazione della sua volontà. Dice il salmo: "Le penne della colomba sono color argento e le penne del suo dorso hanno i riflessi dell’oro" ( Sal 68,14 ). La colomba raffigura il buon suddito, le cui penne sono appunto le parole del prelato, che lo fanno come volare. Infatti alle parole del prelato il suddito, come una colomba, deve subito volare con il suo cuore e il suo corpo. E i prelati facciano attenzione, perché le loro parole devono essere splendenti dell’argento dell’umanità di Gesù Cristo, che fu unita con l’oro della divinità. Infatti nella figura dell’elettro è indicato Cristo, mediatore tra Dio e l’uomo. E mentre l’umanità crebbe nella gloria della maestà, la divinità attenuò agli occhi dell’uomo la potenza del suo fulgore. I prelati dunque inargèntino le loro parole con l’umiltà dell’umanità di Gesù Cristo, per comandare ai sudditi con bontà, con affabilità, con prudenza e misericordia, perché il Signore non è nel vento, non è nel terremoto, non è nel fuoco: il Signore si trova nel tenue mormorio di una leggera brezza ( cf. 1 Re 19,11-12 ). E così le penne del suo dorso, che raffigurano la volontà e i sentimenti del suddito, avranno il riflesso dell’oro, si manterranno cioè nella mortificazione e nella purezza. Sul dorso noi usiamo portare i pesi: anche il peso dell’obbedienza dobbiamo portarlo sul dorso della pazienza. "Sul mio dorso, dice il Profeta, hanno costruito i peccatori" ( Sal 129,3 ). Il prelato malvagio costruisce sul dorso, cioè sulla pazienza dell’umile suddito. Ma questa costruzione sarà la sua rovina, mentre costituirà la gloria del suddito. Diciamo dunque: "Mentre il regio funzionario scendeva, gli vennero incontro i servi". Quindi dall’umiltà del cuore proviene l’elettro, nel quale sono fusi insieme l’argento e l’oro. Nell’argento è simboleggiato il risuonare della confessione, nell’oro la purezza dei sensi del corpo. Ecco quanto grandi vantaggi provengono dall’abbassarsi nell’umiltà. 14. In quel momento gli viene annunciato che il figlio vive. "Gli annunziarono: Tuo figlio vive". Si dice vita da vigore, e vita vuol dire anche vim tenet, conserva la forza. La vita del corpo è l’anima, la vita dell’anima è Dio, il quale dà all’anima il vigore e la forza, il potere e il sapere, perché viva: e voglia il cielo che noi vi aggiungiamo il volere. Nella Storia Naturale del Solino si racconta che nelle regioni dell’India ci sono dei popoli che non hanno bisogno di cibo, ma vivono del solo profumo dei frutti selvatici, e quando vanno lontano portano con sé, come protezione, quei frutti per nutrirsi annusandoli; perché se per caso inalano un odore sgradevole o puzzolente, sono sicuri di morire. Il profumo dei frutti simboleggia la vita dell’anima. I frutti sono l’incarnazione e la passione di Gesù Cristo, di cui la Sposa del Cantico dei Cantici dice: "Ho serbato per te i frutti nuovi e quelli vecchi" ( Ct 7,13 ). I frutti nuovi sono la nascita dalla Vergine, la povertà del Figlio di Dio, l’invio della nuova stella, il compimento dei miracoli. I frutti vecchi sono stati gli sputi, gli schiaffi, il fiele e l’aceto, i chiodi e la lancia, che ci hanno spogliati dell’antica vecchiezza perché, come dice l’Apostolo, "il nostro uomo vecchio è stato crocifisso insieme con lui" ( Rm 6,6 ). Perciò chi vuole vivere, viva con il profumo di questi frutti e nell’esilio di questo pellegrinaggio terreno, per non venir meno per via, porti con sé questi frutti per nutrirsi odorandoli. Leggiamo nelle Lamentazioni: "Il respiro della nostra bocca, l’Unto del Signore, è stato preso nei nostri peccati; gli dicevamo: Alla tua ombra vivremo in mezzo alle genti" ( Lam 4,20 ). E il Profeta dice nel salmo: "Ho aperto la mia bocca e ho tratto il respiro" ( Sal 119,131 ). Il respiro è detto in lat. spiritus. Quando tu apri la bocca nella confessione, attiri a te lo spirito, il respiro, di Gesù Cristo, che è la vita dell’anima, per riceverne la grazia. Guardati dunque dall’attirare il disgustoso spirito del mondo, il puzzolente spirito di Cafarnao, perché saresti subito colpito non solo dalla malattia, ma anche dalla morte. Cafarnao s’interpreta "campo grasso". La grassezza di solito è fonte e madre della corruzione, la corruzione della puzza, e la puzza è segno di morte. Apri dunque la tua bocca a attira a te lo spirito di Gesù Cristo, che fu preso, legato e crocifisso per i nostri peccati. Sotto l’ombra del suo albero, cioè della croce, – della quale è detto nel Cantico dei Cantici: "Sotto la pianta di melo ti ho svegliata" ( Ct 8,5 ), e "Mi sedetti all’ombra di colui che era il mio desiderio" ( Ct 2,3 ) – devi trovare sosta dall’ardore dei vizi, evitando, al riparo di quell’albero, il sole ardente della prosperità mondana. E così in mezzo alle genti, vale a dire in mezzo alle tentazioni della carne e del diavolo, vivrai sostentato dal profumo della sua incarnazione e della sua passione. 15. "Domandò loro a che ora avesse incominciato a star meglio. Gli dissero: Ieri, all’ora settima la febbre lo ha lasciato" ( Gv 4,52 ). E la Glossa spiega: Con questa domanda non diffida della misericordia del Signore: desidera invece che la potenza divina venga conosciuta da più gente possibile attraverso la testimonianza dei servi. Quelli rispondono: "All’ora settima", raffigurando così il Santo Spirito settiforme, nel quale è posta ogni salvezza. La febbre è così chiamata da fervor, calore, ed è figura della lussuria della carne, il cui calore agita il cuore e corrompe la carne. Infatti si legge nel libro di Giuditta, che quando essa entrò alla presenza di Oloferne, "egli fu conquistato al primo sguardo: il suo cuore era in tumulto e si sentì infiammare da una grande passione verso di lei" ( Gdt 10,17; Gdt 12,16 ). Dapprima viene sedotto attraverso gli occhi. Per questo il Profeta pregava: "Distogli i miei occhi dalle cose vane" ( Sal 119,37 ). E nel Cantico dei Cantici: "Distogli i tuoi occhi, perché essi mi hanno fatto perdere il senno" ( Ct 6,4 ). E nella Genesi è scritto: "La sua padrona gettò gli occhi su Giuseppe" ( Gen 39,7 ). Gli occhi sono le prime frecce della lussuria. Poi il cuore si turba e così si accende la febbre della lussuria. Ma per non morire con il consenso della mente o passando all’azione, il cuore viene illuminato "all’ora settima", vale a dire con la settiforme grazia dello Spirito Santo. E allora deve credere "lui e tutta la sua famiglia" ( Gv 4,53 ), cioè con il corpo e con l’anima, che Gesù Cristo è figlio di Dio, e che si è degnato di liberare l’anima da così perniciosa febbre, e il corpo da così miserabile contaminazione della lussuria. 16. È su questo che la seconda parte del vangelo concorda con la seconda parte dell’epistola: "Siate dunque ben fermi, cinti i lombi ( i fianchi ) con la verità" ( Ef 6,14). I lombi prendono il nome da libidine. La libidine è chiamata così perché libet, piace, dà piacere. Ecco la febbre maledetta che regna nei lombi e fa dire all’Apostolo: "Siate dunque ben fermi, cinti i lombi ( i fianchi ) con la verità, e rivestiti della corazza della giustizia" ( Ef 6,14 ). Date a ciascuno ciò che gli spetta di diritto, per essere protetti dalla giustizia come da una corazza, in modo che non ci sia alcuna apertura al nemico. "E avendo ai piedi, come calzatura, lo zelo per propagare il vangelo della pace" ( Ef 6,15 ), affinché colui che predica non tocchi la terra, cioè non vada in giro a predicare per amore delle cose terrene. "Tenete sempre in mano lo scudo della fede" ( Ef 6,16 ): infatti la fede è lo scudo, sotto il quale viene protetta con sicurezza la giustizia; "con questo scudo potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno" ( Ef 6,16 ), cioè tutti gli assalti del diavolo, il quale tende a trascinare di vizio in vizio, come il fuoco che si propaga. "Prendete anche l’elmo della salvezza" ( Ef 6,17 ): l’elmo raffigura la salvezza eterna, il cui pensiero protegge la mente perché non si scoraggi; "e la spada dello Spirito", che ci viene data cioè dallo Spirito Santo per colpire il nemico; "spada che è la parola di Dio" ( Ef 6,17 ), vale a dire il suo vangelo. Chi si eserciterà e starà pronto con queste sei armi, come per sei ore, sarà liberato dalla febbre della lussuria dalla settiforme grazia, come a dire nella settima ora. Su dunque, fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di farci scendere dal monte della superbia, di spegnere in noi la febbre della lussuria, affinché con i fianchi succinti ritorniamo alla salute e siamo resi capaci di giungere alla vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli eterni. E ogni anima, liberata dalla febbre, canti: Amen. Alleluia. Domenica XXII dopo Pentecoste Temi del sermone – Vangelo della domenica ventiduesima dopo Pentecoste: "Il regno dei cieli è simile a un re, che volle fare i conti con i suoi servi"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sul penitente, o sul religioso in genere; sulla contrizione e sulla confessione: "Per comando del re". – Parte I: Sermone sul giorno del giudizio: "Io guardavo finché furono collocati i troni". – Sermone allegorico e morale sulla statua di Nabucodonosor: "Tu, o re! …" – Contro i prelati della chiesa: "La statua". – Sull’umiltà del penitente e la misura della riparazione: "Il servo, prostrandosi a terra". – Parte II: Sermone sull’ultimo giudizio: "Fu mandato il dito di quella mano". – Sermone sulla fornace di Babilonia e il suo simbolismo. – Sermone sulla natura dei quattro esseri che vivono soltanto dei quattro elementi fondamentali: "Dio mi è testimone". – Sermone ai religiosi, o ai penitenti, sul pianto di penitenza: "Io, Daniele, piangevo". – Sermone sull’umiltà: "Sotto i piedi del Signore", e "Sul capo dei cherubini"; e anche sulle unghie degli uccelli. – Parte III: Sulla questione se i peccati rimessi riviviscano, o no: "Allora il padrone chiamò quel servo". Esordio - Il penitente o il religioso in genere: la contrizione e la confessione 1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi" ( Mt 18,23 ). Si narra nel libro di Daniele che "per ordine del re, Daniele fu vestito di porpora, gli fu messa una collana d’oro al collo e fu pubblicamente proclamato ch’egli aveva il terzo grado di potestà nel suo regno" ( Dn 5,29 ). Vediamo che cosa significhino Daniele, la porpora, la collana d’oro e il terzo grado nel regno. Daniele s’interpreta "causa di Dio", o "giudizio di Dio". Considera che la causa è una forza, una spinta interiore dell’animo ad agire. É chiamata causa, da casus, accaduto, avvenimento, dal quale viene. Intentare una causa è la materia di un processo, che quando viene promosso è causa, quando viene trattato è giudizio, quando si conclude è giustizia. Si dice causa anche da caos, che fu all’inizio di tutte le cose. Ciò che da origine a qualche cosa è causa. Daniele è figura del penitente, il quale per timore e amore di Dio fa di se stesso causa, giudizio e giustizia. Questo raffigura le tre cose su indicate: la porpora, la collana d’oro e il terzo grado nel regno. Fa causa a se stesso con la contrizione, la quale è origine di ogni cosa giusta ed è un impulso dell’animo a fare il bene; fa il giudizio nella confessione, nella quale mette in discussione se stesso e si esamina; fa la giustizia nella riparazione, nella quale dà a ciascuno il suo: a Dio la preghiera, a se stesso il digiuno, al prossimo l’elemosina. In questo infatti consiste la soddisfazione, o riparazione. Quindi, il Re dei re, Gesù Cristo comanda che Daniele venga vestito di porpora. La porpora, che è color sangue, sta a indicare la contrizione del cuore, dalla quale proviene il sangue delle lacrime. Si legge infatti nel quarto libro dei Re che "allo spuntar del giorno, quando il sole splendeva sulle acque, i Moabiti videro da lontano le acque rosse come sangue ed esclamarono: Questo è sangue di spada!" ( 2 Re 3,22-23 ). Alla lettera s’intende così: Quando i Moabiti videro di lontano le acque del torrente attraversate dai raggi del sole, pensarono che fossero rosse di sangue e dissero: I nemici si sono uccisi a vicenda ( cf. 2 Re 3,23 ). Senso morale. Quando nella mente nasce il sole della grazia, allora le acque rosse della lacrime, come sangue, vengono per la via di Edom, spuntano cioè negli occhi del penitente. E realmente queste acque sono sangue di spada. Perché quando il cuore del peccatore viene ferito dalla spada della contrizione, sparge lacrime di sangue. A ragione quindi è detto che, "per comando del re, Daniele fu vestito di porpora". "E gli fu posta al collo una collana d’oro". La collana è composta di vari cerchi d’oro che dal collo scendono sul petto. La collana d’oro al collo raffigura il cerchio della sincera confessione nella bocca del peccatore, di cui il Signore dice: "Ti ho posto una collana attorno al collo" ( Ez 16,11 ). E a ragione la confessione viene chiamata collana, o anche cerchio d’oro. La Sapienza "arriva da una estremità all’altra con forza" ( Sap 8,1 ), e il peccatore, riandando nel cerchio della confessione dal primo fino all’ultimo peccato, deve includere tutto come girando all’intorno, come faceva il profeta quando diceva: "Andai all’intorno e immolai nella sua tenda", cioè nella santa chiesa, "il sacrificio di voce" ( di lode ) ( Sal 27,6 ), cioè della confessione. E di questo cerchio il Signore dice al diavolo: "Metterò un cerchio alle tue narici e ti farò tornare per la strada per cui sei venuto" ( Is 37,29 ). Ricordati che in tre modi si commette il peccato mortale, che è la via per la quale il diavolo entra nell’anima, e cioè: a causa della suggestione diabolica, del piacere della carne, e del consenso della mente. Nei primi due casi si tratta di peccato veniale, nel terzo il peccato è mortale. Quando il peccatore si pente del consenso della mente nella confessione, con la quale respinge la suggestione del diavolo, si castiga con le opere riparatorie per il piacere della carne, allora il Signore mette un cerchio alle narici del diavolo, cioè alla sua astuzia e alla sua malizia e lo fa ritornare per la via per la quale è venuto. Infatti ogni cosa si cura con il suo contrario. "E fu proclamato ch’egli aveva il terzo grado di potestà nel suo regno". Il Regno di Cristo è la vita del giusto. "Il mio Regno non è di questo mondo" ( Gv 18,36 ). La vita del giusto consiste nelle tre pratiche suddette. Ed è terzo nel Regno di Cristo colui che guida la sua vita con la riparazione della penitenza. In questo è raffigurata la terza piaga d'Egitto, nella quale fallirono i maghi del faraone ( cf. Es 8,18-19 ), cioè i saggi di questo mondo, i quali non vogliono riparare ai loro peccati. Invece il vero penitente, per essere degno di partecipare al Regno dei cieli, fa di tutto per essere terzo nel Regno di quel re del quale il vangelo di oggi dice: "Il Regno dei cieli è simile ad un Re". 2. Fa’ attenzione ai tre fatti posti in evidenza in questo vangelo, e cioè: il condono del debito da parte del re; l’ingratitudine del servo iniquo; la sua incarcerazione o tortura. Il primo: "Il Regno dei cieli è simile". Il Secondo: "Appena uscito, quel servo trovò". Il terzo: "Allora il padrone lo fece richiamare". Nell’introito della messa di oggi si canta: "Io ho pensieri di pace, dice il Signore" ( Ger 29,11 ). Si legge quindi la lettera del beato Paolo apostolo ai Filippesi: "Sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera" ( Fil 1,6 ): la divideremo in tre parti, riscontrandone la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: "Sono persuaso". Seconda parte: "Dio mi è testimone". Terza parte: "Perciò prego". E osserva che nel vangelo di oggi Matteo tratta del servo malvagio che non volle aver pietà del suo compagno; al contrario, l’Apostolo ama profondamente tutti dell’amore di Cristo, e raccomanda che anche in essi abbondi l’amore. Ecco perché questa epistola viene letta insieme con questo vangelo. I. Il re condona il debito al servo 3. "Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi". Questo uomo-re è figura di Gesù Cristo, che è uomo nella sua umanità e re nella sua divinità; è uomo nella natività, re nella passione, nella quale ebbe le insegne regali che spettano al re, e cioè la corona, la porpora e lo scettro. Ebbe la corona di spine, il manto scarlatto e in mano, quale scettro, una canna: e quindi, "piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano dicendo: Ave, re dei Giudei!" ( Mt 27,29 ). Abbiamo su questo una concordanza in Daniele: "Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire sulle nubi del cielo", che raffigurano i predicatori, "uno simile a un figlio d’uomo, che giunse fino all’antico di giorni" ( Dn 7,13 ), al vegliardo. Infatti "Dal più alto dei cieli è la sua venuta" ( Sal 19,7 ), cioè la venuta di colui che è in tutto uguale al Padre e che volle fare i conti con i suoi servi. Fa i conti quando giudica i meriti di ciascuno in questo mondo, e li giudicherà poi molto più severamente in quello futuro. E anche su questo abbiamo una concordanza in Daniele, dove dice: "Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati i troni e l’antico di giorni si assise. La sua veste era candida come la neve, e i capelli del suo capo erano come lana monda; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scorreva rapido davanti al suo volto: mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti" ( Dn 7,9-10 ). La Glossa spiega: Gli angeli e tutti gli eletti accompagneranno il Signore nel giudizio, e saranno i troni di Dio perché in essi egli sarà assiso. Infatti dice Matteo: "Quando il Figlio dell’uomo verrà in tutta la sua maestà e tutti gli angeli saranno con lui" ( Mt 25,31 ), perché sono essi i testimoni di tutte le azioni degli uomini, i quali hanno operato il bene o il male sotto la loro vigilanza. "E l’antico di giorni – cioè il Padre – si assise". Anche se, come precisa la Glossa, appare nel giudizio la persona del Figlio, non mancheranno il Padre e lo Spirito Santo. Il Padre è da se stesso, il Figlio dal Padre, e tutto ciò che il Figlio ha, viene attribuito a colui dal quale è. Oppure è detto antico, cioè giudice vero e severo. Antico è come dire ante quam, prima che. Cristo infatti nel vangelo di Giovanni dice: "Prima che Abramo fosse, io sono" ( Gv 8,58 ). È detto dunque di Dio che è "assiso" e "antico di giorni" perché sia palese la sua natura di giudice eterno; e viene descritto come "vecchio", affinché sia comprovata la ponderatezza della sua sentenza. "La sua veste era candida come la neve". Il Salvatore trasfigurato sul monte e splendente della gloria della maestà divina, appare avvolto in vesti candide. Anche nel giudizio la sua veste sarà candida: e questo sta ad indicare che il giudizio sarà limpido e giusto, e nel giudicare non ci sarà parzialità per nessuno. In verità – dice Pietro – mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persone ( cf. At 10,34 ). Fa’ attenzione che dice: "Candida come la neve". La neve deve il suo nome alla nube, dalla quale viene. Dice Ambrogio che di solito le acque gelide si solidificano in una nube con il soffio di venti glaciali, e attraverso l’aria cade la neve. La neve è candida e fredda. Nel giudizio ci sarà il candore nei riguardi dei beati, e il rigore, il freddo, nei riguardi dei dannati. Il candore sarà nelle parole: "Venite, benedetti!"; il rigore nelle altre: "Andate, maledetti!" ( Mt 25,34; Mt 25,41 ). "E i capelli del suo capo erano come lana monda". Vedi su questo argomento la prima parte del sermone della domenica II dopo Pasqua, sul vangelo "Io sono il buon pastore". "Il suo trono era come vampe di fuoco". Il trono di Dio, spiega qui Origène, sono i monaci, gli eremiti e gli altri che, vivendo riuniti in un unico posto, si applicano al servizio di Dio senza andare girovagando: nei loro cuori tranquilli risiede Dio. Giustamente sono detti "vampe di fuoco" perché sono infiammati di amore di Dio e del prossimo e del desiderio della patria celeste. È detta fiamma specialmente quella della fornace, perché viene ravvivata dal soffio dei mantici. La fornace di fuoco è il cuore del giusto, dal quale, con il soffio dei mantici, cioè della contrizione e della confessione, viene accesa la fiamma della duplice carità. Dice infatti il salmo: "Che fai degli spiriti i tuoi angeli, e delle fiamme di fuoco i tuoi ministri" ( Sal 104,4 ). Gli angeli, i messaggeri, e cioè i giusti, sono spiriti, perché non hanno gusto alcuno delle cose terrene e carnali; sono vampe di fuoco in quanto amano Dio e il prossimo. "Le sue ruote sono come fuoco ardente". Nelle ruote è simboleggiata la rapidità del giudizio, del quale il Signore, per bocca del profeta Malachia, dice: "Io mi accosterò a voi per il giudizio e sarò un testimone pronto contro i maldicenti, gli adulteri e gli spergiuri, contro coloro che frodano la mercede agli operai, contro gli oppressori delle vedove, degli orfani e contro chi fa torto al forestiero: costoro non mi temono, dice il Signore degli eserciti" ( Ml 3,5 ). "Un fiume di fuoco scorreva rapido", cioè correva impetuoso, "davanti al suo volto". Nel fiume è indicata l’eternità delle pene, nel fuoco la severità del giudizio, e nella rapidità l’immediata caduta dei peccatori nella geenna. "Mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano". Dice il salmo: "I carri di Dio sono migliaia di migliaia" ( Sal 68,18 ). Due sono i compiti degli angeli. Dice Gregorio: Una cosa è assistere, e un’altra è servire. Assistono coloro che non vanno a portare i messaggi agli uomini; servono invece coloro che vanno ad adempiere il loro ufficio di messaggeri: tuttavia neppure questi interrompono la loro contemplazione di Dio. E poiché sono più numerosi coloro che servono che non quelli che hanno il compito specifico di assistere, il numero di quelli che assistono è pressoché definito, mentre il numero di coloro che servono è lasciato indefinito. "La corte sedette", cioè il corpo dei giudici si schierò, "e furono aperti i libri", cioè le coscienze e le opere dei singoli vengono mostrate a tutti in ogni loro parte, sia buona che cattiva. Il libro buono è quello dei viventi; il libro cattivo è quello che sta in mano all’accusatore, che è il nemico e il vendicatore, del quale nell’Apocalisse è scritto: "Questi è l’accusatore dei nostri fratelli" ( Ap 12,10 ). E ancora: "Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere" ( Ap 20,12 ). Giustamente quindi è detto: "Il Regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi". 4. "Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti" ( Mt 18,24 ). Nel numero dieci è indicato il decàlogo, nel mille la perfezione del vangelo. Ogni uomo è debitore a Gesù Cristo di diecimila talenti, cioè dell’osservanza del decàlogo e del vangelo. Dice Salomone: "Temi Dio e osserva i suoi comandamenti" ( Qo 12,13 ). I comandamenti si chiamano in lat. mandata, come a dire manu data, dati cioè con la mano. I comandamenti del decalogo furono scritti dal dito di Dio ( cf. Dt 9,10 ), e i comandamenti del vangelo furono dati agli apostoli dalla mano di Gesù Cristo. Merita dunque di essere osservato ciò che è dato dalla mano di Dio, e per la cui osservanza ogni uomo è stato creato. 5. "Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone comandò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e si saldasse così il debito" ( Mt 18,25 ). Vediamo quale sia il significato della moglie e dei figli, che raffigurano le opere dell’uomo. La moglie del peccatore è figura della cupidigia di questo mondo. Questa è la statua di Nabucodonosor, della quale è detto in Daniele: Tu stavi guardando, o re, ed ecco una grande statua il cui capo era di oro purissimo, il petto e le braccia di argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro, e i piedi in parte di ferro e in parte di argilla ( cf. Dn 2,31-33 ). Vediamo quale sia il significato, prima allegorico e poi morale, dell’oro, dell’argento, del bronzo, del ferro e dell’argilla. Senso allegorico. Questa statua è figura della santa chiesa, che negli apostoli ebbe il capo d’oro. È detto infatti nel Cantico dei Cantici: "Il suo capo è di oro purissimo" ( Ct 5,11 ). Le braccia e il petto, in cui risiede la forza più grande, la chiesa li ebbe d’argento al tempo dei martiri, i quali affrontarono eroicamente tutte le battaglie. Infatti lo sposo stesso dice alla chiesa: "Faremo per te delle murènole d’oro, intarsiato, niellato di argento" ( Ct 1,10). Le murènole sono delle collane intrecciate con sottili listelle d’oro e d’argento. Le murènole della chiesa furono l’umiltà e la povertà, che la chiesa ebbe al tempo degli apostoli; e al tempo dei martiri, perché fossero ancora più belle, furono solcate da striature di sangue, come d’argento, vale a dire rese vermiglie. L’argento unito all’oro, cioè il sangue dei martiri, nel quale hanno rese splendenti le loro stole, unito all’umiltà e alla povertà degli apostoli, presenta agli occhi della nostra mente uno spettacolo di meravigliosa bellezza. Similmente, la chiesa ebbe il bronzo e il ferro nei confessori della fede, che con il suono della loro predicazione sconfissero la malvagità degli eretici. Dice Mosè nel Deuteronomio: "Ferro e bronzo sono i calzari di Aser" ( Dt 33,25 ). Aser s’interpreta "beato", e raffigura il coro beato dei confessori della fede i quali, calzati con il bronzo della predicazione e il ferro di una costanza incrollabile, calpestarono serpenti e scorpioni, vale a dire gli eretici e gli scismatici. Dice infatti il Signore per bocca di Geremia: "Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, come una colonna di ferro e un muro di bronzo, contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi prìncipi, i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per liberarti" ( Ger 1,18-19 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: la città, la colonna, il muro. Nella città fortificata è indicata l’unità, che veramente difende e difendendo custodisce; nella colonna di ferro è indicata la carità fraterna che sostiene; nel muro di bronzo è indicata l’indomita pazienza e la costanza nella predicazione. E poiché i santi confessori Girolamo, Agostino e Ilario, e gli altri dottori della chiesa ebbero queste qualità, furono in grado di sconfiggere i costruttori di falsità. Parimenti, la chiesa di Cristo, poverella, sconvolta dalla tempesta, tra il fecciume del mondo, ha per così dire nei piedi il ferro e il fango, sia nei chierici che nei laici. Nel ferro è simboleggiata l’avarizia, nel fango la lussuria. Ecco quali membra si trovano nel corpo di Cristo, che è la chiesa: gli avari e i lussuriosi, i quali non sono certo la chiesa di Cristo, bensì la sinagoga di satana. 6. Senso morale. All’inizio del mondo ci furono due città: la chiesa e Babilonia. Questa statua è figura del mondo, della città di Babilonia, della sinagoga di satana; giustamente è chiamata statua, in quanto ne è la raffigurazione. Ha bocca ma non parla, perché nella bocca ha il ranuncolo ( tumore ) dell’avarizia; ha gli occhi ma non vede, perché l’ha accecata lo sterco della lussuria; ha gli orecchi ma non sente perché, come il serpente, tiene un orecchio appoggiato alla terra e chiude l’altro con la coda, per non sentire la voce dell’incantatore ( cf. Sal 58,6-7 ). "Il suo capo era d’oro puro", ecc. L’oro è figura della sapienza del mondo, l’argento della sua eloquenza, e il bronzo, essendo molto sonoro, è figura della vanagloria; il ferro ne indica l’ostinazione e il fango l’amore alla cose temporali. Questa statua l’ha ridotta in pezzi un piccolo sasso, cioè Gesù Cristo, che – come dice Daniele – "si è staccato dal monte", è nato cioè dalla beata Vergine, "non per mano d’uomo", cioè senza concorso di uomo, "e colpì la statua ai piedi e glieli frantumò. Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro; e tutto divenne come la pula che il vento spazzò via, e non ne restò traccia alcuna" ( Dn 2,34-35 ). Così Cristo nel suo primo avvento colpì la statua del mondo, che non fu distrutta totalmente, ma lo sarà nel giorno del giudizio. Dice infatti l’Apocalisse: È caduta, è caduta Babilonia, la prostituta che ha ubriacato il mondo con il vino della sua fornicazione ( cf. Ap 14,8 ). 7. Altra spiegazione. Questa statua è figura del prelato della chiesa, eminente e onorato nelle cose del mondo. Questa è la statua di Baal, nome che s’interpreta "superiore" o "divoratore". Ecco l’idolo eretto nella casa del Signore, che tutto divora. Si legge infatti in Daniele che "presso i Babilonesi era venerato un idolo di nome Bel, al quale offrivano ogni giorno dodici àrtabe, misura corrispondente ad un sacco, "di fior di farina, quaranta pecore e sei anfore di vino" ( Dn 14,2 ). Ecco quante cose divora colui che sarà a sua volta divorato dal diavolo. "Anche il re venerava quell’idolo e ogni giorno andava ad adorarlo; invece Daniele adorava il Signore, suo Dio" ( Dn 14,3 ). Vediamo che tutto questo si avvera ogni giorno nella chiesa di Cristo. Il prelato dovrebbe almeno comportarsi come Pietro, di cui si racconta negli Atti degli Apostoli che quando Cornelio si gettò ai suoi piedi per adorarlo, Pietro lo rialzò dicendo: Àlzati, anch’io sono un uomo, come te ( cf. At 10,25-26 ). E il re disse a Daniele: "Perché non adori Bel? Daniele rispose: Io non adoro idoli fatti dalla mano di uomo, ma soltanto il Dio vivo, il quale ha fatto il cielo e la terra e che è Signore di ogni essere vivente. Il re gli disse: Non ti sembra che anche Bel sia un dio vivo? Non vedi quante cose mangia e beve ogni giorno?" ( Dn 14,3-5 ). Ahimè, quanto mangia! E i poveri gridano alla porta con il ventre vuoto e nudo. Perché mangia molto, per questo è vivo. "E Daniele, ridendo, disse: Non t’ingannare, o re! Quell’idolo di dentro è fango", cioè goloso e lussurioso, "e di fuori è bronzo", cioè superbo e avaro, "e non mangia mai" ( Dn 14,6 ) il cibo che non perisce, quello che dura per la vita eterna ( cf. Gv 6,27 ). Il capo di quest’idolo, o di questa statua, è d’oro; nell’oro è indicata la insipida sapienza della carne, che è stoltezza agli occhi di Dio ( cf. 1 Cor 3,19 ); nell’argento è raffigurata l’eloquenza, che è come la rana dell’Egitto. Di queste due cose il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: "Hai preso i vasi ornamentali fatti con il mio oro e con il mio argento, che io ti avevo dato, e ne hai costruito figure umane e con esse hai fornicato" ( Ez 16,17 ). Con l’oro della sapienza e con l’argento dell’eloquenza, che il Signore elargisce al prelato della chiesa perché siano i suoi vasi ornamentali, con i quali raccogliere la grazia dello Spirito Santo e offrirla agli altri, lo sventurato si fabbrica degli idoli quando distrugge la grazia dell’intelligenza e dell’eloquenza con una vita viziosa; pratica con quei doni la fornicazione, quando per mezzo di essi cerca la vanagloria nel postribolo del mondo. Similmente nel bronzo sono indicate le ricchezze, perché sono molto risonanti. "Hanno chiamato con i propri nomi le loro terre" ( Sal 49,12 ). Dice Ezechiele: "Il tuo nome si è divulgato tra le genti" ( Ez 16,14 ), e non tra gli angeli. Non il nome del ricco vestito di porpora, ma quello del mendìco e piagato Lazzaro è scritto nel vangelo ( cf. Lc 16,20 ). Nel ferro è raffigurato il potere, con il quale [ l’indegno prelato ] distrugge il povero. Ma tu, Signore, "hai spezzato i denti ai peccatori" ( Sal 3,8 ); e "il Signore spezzerà i denti dei leoni" ( Sal 58,7 ). Questa è la belva di cui Daniele dice che era "spaventosa, terribile e d’una forza eccezionale: aveva grandi denti di ferro, divorava e stritolava, e ciò che rimaneva lo calpestava sotto i piedi" ( Dn 7,7 ). Parimenti nel fango ( creta ) è indicata la nostra carne miseranda la quale, al giungere del sasso, cioè all’arrivo dell’ineluttabile morte, sarà colpita e distrutta. E allora l’oro della sapienza, l’argento dell’eloquenza, il bronzo delle ricchezze, il ferro del potere saranno frantumati, ridotti a nulla e dispersi dal vento, perché la carne andrà ai vermi, le ricchezze ai parenti, l’anima sarà consegnata al diavolo, e così di essi non resterà traccia alcuna. Giustamente quindi è detto nel vangelo: "Il padrone comandò che fosse venduto lui, la moglie e i figli" perché, come commenta la Glossa, a causa della concupiscenza del mondo e della carne, e per le opere cattive, che sono state per lui come moglie e figli, dovrà subire le pene eterne. Si degni di liberarcene colui che è benedetto nei secoli. Amen. 8. "Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Signore, abbi pazienza con me, e ti restituirò tutto" ( Mt 18,26 ). Ecco che cosa deve fare il peccatore finché è in vita, per non essere condotto, dopo la morte fisica, al supplizio della morte eterna con moglie e figli. Fa’ attenzione a questi tre atti: si gettò a terra, supplicava, e restituirò tutto, nei quali sono raffigurate la contrizione, la confessione e la riparazione, per mezzo delle quali tutti i peccati vengono rimessi. Il latino ha il verbo procidere, come porro cadere, cadere in avanti. Cade in avanti colui che è veramente contrito, distrutto dal dolore, colui che si considera terra. Infatti "al tuo cospetto cadranno tutti coloro che scendono nella terra" ( Sal 22,30 ). Dice "al tuo cospetto", non al cospetto della statua di Nabucodonosor, della quale è detto in Daniele: Tutti i popoli caddero a terra per adorare la statua d’oro, che Nabucodonosor aveva fatto innalzare nella piana di Dura ( cf. Dn 3,7.1 ), nome che s’interpreta "bellezza" e anche "linguaggio". La statua d’oro è la gloria fallace di questo mondo, che viene innalzata dal diavolo sulla bellezza esteriore e sul linguaggio delle false promesse. Mostra la bellezza della gloria, la promette, e così tutte le genti, decadendo dalla vera gloria, adorano quella transitoria, e in essa adorano il diavolo. Dice infatti il diavolo: "Ti darò tutto questo se tu, gettandoti a terra, mi adorerai" ( Mt 4,9 ). Chi dunque vuole ottenere il perdono, non si getti a terra davanti alla statua, ma davanti a Gesù; si prostri insieme con il servo, del quale è detto: "Gettatosi a terra quel servo … lo supplicava". Supplicare significa domandare qualcosa con umiltà e sottomissione. La confessione dev’essere umile e devota: umile, cioè humi acclinis, chinata verso terra, nel disprezzo e nell’accusa di se stesso; devota nella pronta volontà della riparazione; e allora potrà dire: "Abbi pazienza con me". Dice l’Apostolo: "Osi tu disprezzare la ricchezza della sua bontà, della sua pazienza e della sua tolleranza? Non sai che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?" ( Rm 2,4 ). Chi disprezza queste ricchezze sarà sempre povero e miserabile. "E ti restituirò tutto". Restituisce tutto colui che ripara a tutto il male commesso, in modo che la pena sia proporzionata alla colpa. "Fate frutti degni di penitenza" ( Lc 3,8 ). E nel libro di Giosuè è detto che la regione toccata in sorte alla tribù di Giuda passava per Sina ( deserto del Zin, cf. Gs 15,1.3 ), nome che significa "misura". Misura è tutto ciò che si determina in peso, in capacità, in durata e col cuore. La vera riparazione deve avere queste quattro qualità: il peso della sofferenza, la capacità dell’amore, con il quale abbraccia in sé tutti, la durata della perseveranza finale e l’umiltà nel cuore. Dove si trovano riunite tutte queste disposizioni, c’è subito pronta la misericordia. Infatti il vangelo continua: "Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito" ( Mt 18,27 ). Considera che la misericordia del Signore compie tre azioni: purifica l’anima dai vizi, l’arricchisce di copiosi carismi, la ricolma delle delizie dei celesti gaudi. La prima azione riempie il cuore col dolore della contrizione, la seconda lo intenerisce di amore, la terza lo inonda di rugiada celeste con la speranza dei beni eterni. E questo viene reso evidente dall’interpretazione della parola misericordia. Misericordia significa "donare un cuore misero" ( lat. miserum cor dans ), e questo concorda con la prima azione della misericordia del Signore; significa anche "mettere da parte la severità del cuore" ( lat. mittens seorsum rigorem cordis ) e questo concorda con la seconda; significa ancora "la grande dolcezza che inonda il cuore" ( lat. mira suavitas corda rigans ), e questo si riferisce alla terza. Il padrone dunque, ripieno di questa triplice misericordia verso quel servo, gli condonò tutto il debito. Con questo passo del vangelo concorda quindi in modo meraviglioso l’introito della messa di oggi, in cui il Signore misericordioso dice: "Io coltivo pensieri di pace e non di sventura", e nel vangelo: "Impietositosi il padrone di quel servo"; "mi invocherete", e nel vangelo: "gettatosi a terra lo implorava"; "e io vi esaudirò", e nel vangelo: "lo lasciò andare"; "vi farò ritornare dalla vostra prigionia" ( cf. Ger 29,11.12.14 ), e nel vangelo: "gli condonò tutto il debito". 9. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Sono persuaso nel Signore Gesù, che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona", cioè di prostrarvi nella contrizione, di supplicare nella confessione e di restituire tutto con la riparazione, "la porterà anche a compimento fino al giorno di Cristo Gesù", cioè sino alla fine della vita, quando Dio si farà vedere. "È giusto infatti che io abbia questi sentimenti", che io cioè voglia questo "per tutti voi" ( Fil 1,6-7 ), che io supplico di fare ciò. Fate in modo che la mia fiducia non sia vana. E ne espone i motivi: "perché io vi porto nel cuore", e non solo sulle labbra; desidero "che siate tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene", partecipando alle mie sofferenze, "sia nella difesa" contro chi ci avversa, "sia nel consolidamento" dei deboli nella dottrina del vangelo, affinché anche in futuro "siate miei compagni e compartecipi dell’eterna felicità". E affinché siamo fatti degni di giungere a questa felicità, ti supplichiamo, Signore Gesù Cristo, tu che sei la pietra angolare ( cf. Ef 2,20 ), di frantumare la statua della nostra concupiscenza e di condonarci il debito della nostra cattiveria. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli eterni. Amen. II. Ingratitudine del servo malvagio 10. "Appena uscito, quel servo incontrò un altro servo come lui che gli doveva cento denari: afferratolo, lo strangolava dicendo: Restituiscimi ciò che mi devi!" ( Mt 18,28 ). Quel servo malvagio, dimèntico della misericordia divina che gli aveva appena condonato il debito, non volle usare misericordia verso quel suo compagno. E invece aveva il dovere di aver misericordia verso il suo compagno, dopo che il padrone aveva avuto misericordia di lui. Quanto è grande la differenza tra i diecimila talenti e i cento denari, altrettanto grande, e anche molto di più, è la differenza tra il peccato con il quale noi offendiamo Dio e il peccato con il quale il prossimo offende noi. Se dunque Dio, Padrone di tutto il creato, ti condona un debito così grande, perché tu non condoni al prossimo un debito tanto piccolo? Chi si dimentica della misericordia usata verso di sé, non sente più misericordia per nessuno. L’uscita del servo simboleggia appunto la sua colpevole dimenticanza. Leggiamo nella Genesi: "Caino disse ad Abele, suo fratello: Andiamo fuori. Quando furono nella campagna, Caino si avventò contro suo fratello Abele e lo uccise" ( Gen 4,8 ). Questo è appunto ciò che dice il vangelo: "Afferratolo, lo soffocava". Caino s’interpreta "acquisto" Eva disse: "Ho acquistato un uomo dal Signore" ( Gen 4,1 ). Caino è figura dell’avaro il quale, quando esce dal cospetto della misericordia divina, afferra e soffoca Abele, che s’interpreta "dolore", e raffigura il povero, che patisce nel dolore della povertà. Senso morale. Caino uccide Abele, cioè il possesso delle ricchezze uccide il pianto della penitenza; e al possesso, che nasce per primo come Caino, segue il pianto della morte eterna. Infatti Daniele disse al re Baltassar: Non hai umiliato il tuo cuore, ma sei insorto contro il Signore del cielo e non hai dato gloria a Dio, che tiene nella sua mano il tuo respiro e tutte le tue vie. Da lui allora sono state mandate le dita di quella mano che ha scritto ciò che tu vedi inciso sulla parete: Mene "ha contato", Tekel "ha pesato", Peres "ha diviso" ( cf. Dn 5,22-28 ). Nel giudizio ci saranno questi tre momenti: l’interrogatorio dei peccatori, l’accusa per tutto il bene non fatto, l’esecuzione della sentenza. E allora il regno di Babilonia sarà diviso: la sinagoga dei peccatori verrà separata dal regno dei giusti, e sarà consegnata ai Medi e ai Persiani, vale a dire ai demoni, i quali strangoleranno colui che stava strangolando gli altri. "Afferratolo, lo soffocava", dice il vangelo. Il verbo soffoco è formato da sub e fauce, cioè sotto e gola. Le fauci si chiamano così perché fundunt voces, attraverso di esse cioè emettiamo la voce. Chi stringe le fauci, la gola, cerca di togliere la voce e la vita. La vita del povero è la poca sostanza di cui vive, come l’anima vive del sangue ( cf. Dt 12,23 ). Se tu al povero sottrai la sua piccola sostanza, gli cavi il sangue, gli stringi la gola: ma poi sarai tu stesso strangolato dal diavolo. 11. "E quel suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti restituirò tutto. Ma egli non volle ascoltarlo: andò e lo fece gettare in carcere, finché avesse rifuso il debito" ( Mt 18,29-30 ). O servo malvagio! Proprio con le stesse parole hai supplicato il padrone, ed egli ti ha condonato il debito; e tu, supplicato dal tuo compagno per la stessa cosa, non hai voluto condonarglielo e lo hai fatto gettare in carcere! Ma credimi, verrà il giorno in cui si avvereranno le parole di Salomone: Chi chiude i suoi orecchi al grido del povero, quando sarà lui a gridare non sarà ascoltato ( cf. Pr 21,13 ). Il carcere è questo mondo, vera fornace di Babilonia. Infatti abbiamo la concordanza in Daniele, dove si racconta che i servi di Nabucodonosor "non cessavano di aumentare il fuoco della fornace con bitume, stoppa, pece e sarmenti" ( Dn 3,46 ). Il bitume è detto in lat. naphta ( si pronuncia nafta ), e alcuni dicono che questa naphta è fatta di ossi di olive e morchia dell’olio. La stoppa si chiama così perché serve a stoppare ( calafatare ) le fessure delle navi. La pece è detta in lat. pix, da pino, dal quale si ricava. I sarmenti, detti in lat. malleoli, sono i tralci delle viti, i maglioli. Nella nafta è raffigurata l’avarizia, che è priva dell’olio della misericordia, e in essa c’è soltanto la morchia del denaro. Spremi l’olio dalle olive, e resta la morchia; togli l’olio della misericordia al denaro: esso solo resterà, fuoco di eterna morte. Nella stoppa è raffigurata la vanagloria, che ben presto brucia e scompare. Nella pece, che manda un denso fumo, è raffigurata la lussuria che infetta l’anima e fa perdere il buon nome. Nei sarmenti, nei tralci, è raffigurata la superbia: i superbi infatti sono tagliati dalla vera vite che è Gesù Cristo. Con questi quattro combustibili si alimenta il fuoco della fornace di Babilonia e brucia anche tutto questo mondo; e in questa fornace ci sono i tre fanciulli Sadrach, Mesach e Abdènego. Ma l’angelo del Signore allontana da loro la fiamma del fuoco e rende fresco l’interno della fornace, come se vi spirasse un brezza rugiadosa; e così il fuoco non li tocca per nulla ( cf. Dn 3,49-50 ). Questi tre fanciulli raffigurano quelle tre virtù che hanno il potere di far uscire illesi dalla fornace del mondo coloro che ne sono dotati. In Sadrach, il cui nome s’interpreta "mio decoro" è raffigurata la castità. Si legge nel Cantico dei Cantici: Tu sei bella e leggiadra, per la castità interiore ed esteriore, o figlia di Gerusalemme! ( cf. Ct 6,3 ). E nella Genesi: "Figlio crescente, Giuseppe, e bello di aspetto" ( Gen 49,22 ). E ancora: "Rebecca fanciulla molto avvenente, vergine bellissima" ( Gen 24,16 ). E anche Rachele era "bella di volto e avvenente di aspetto" ( Gen 29,17 ). Mesach, il cui nome s’interpreta "sorriso", raffigura la pazienza, che sa sorridere anche nelle tribolazioni. Abdènego, il cui nome significa "servo silenzioso", raffigura l’obbedienza, che si sottomette di buon animo e non fa parola alcuna di ciò che sarebbe la sua volontà. Coloro che sono forniti di queste tre virtù vengono liberati dal fuoco della fornace, vale a dire dall’incendio dei vizi, per opera dell’angelo della Provvidenza e per mezzo della brezza rugiadosa, cioè per opera della grazia dello Spirito Santo. "Gli altri servi, visto quello che accadeva, furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto" ( Mt 18,31 ). Gli altri servi, come spiega la Glossa interlineare, raffigurano i predicatori del vangelo, o anche gli angeli, che riferiscono a Dio le opere degli uomini. Infatti l’angelo disse a Daniele: "Fin dal primo giorno in cui ti sei sforzato di intendere, umiliandoti davanti a Dio, le tue parole sono state ascoltate e io sono venuto per le tue parole" ( Dn 10,12 ). E la Glossa commenta: Da quando hai incominciato a implorare la misericordia di Dio con le lacrime, con il digiuno e le preghiere, io ho colto l’occasione di presentarmi al cospetto di Dio per intercedere per te. 12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "Dio mi è testimone, in qual modo io desideri tutti voi nelle viscere di Gesù Cristo" ( Fil 1,8 ), vale a dire "nel profondo amore di Cristo", perché siate da lui amati, o perché anche voi amiate Dio e il prossimo con lo stesso amore con cui vi ama Cristo, che ha dato la sua vita per voi. Certamente non desiderava questo il servo malvagio, che voleva strangolare il suo compagno. È detto testimone colui che osserva ciò che è stabilito. Ottimo testimone il beato Paolo che osservava in se stesso e negli altri il comando di Gesù Cristo. Le viscere sono le parti interne del corpo che stanno attorno al cuore, e il loro nome suona come "vivide", perché in esse è contenuta la vita e l’anima. Le viscere di Gesù Cristo sono l’amore con il quale ci ha amati, e del quale l’anima nostra vive. Ovunque è morte: solo nelle viscere di Cristo è la vita. Dice la Storia Naturale che esistono soltanto quattro esseri che vivono unicamente dei quattro elementi della natura. L’alice, un pesciolino, che vive solo di acqua; il camaleonte, che vive solo di aria; la salamandra, che vive solo di fuoco, e la talpa, che vive solo di terra. Del camaleonte dice Solino che non prende cibo e non si nutre di liquidi, e di null’altro vive che aspirando aria. È un quadrupede, dal movimento lento e pesante come quello delle testuggini, dal corpo rozzo, di colore vario che può cambiare in un istante, in modo da prendere il colore delle cose sulle quali si trova. Ci sono solo due colori che non è in grado di prendere: il rosso e il bianco; gli altri colori li assume tutti con facilità. D’inverno se ne sta rintanato, mentre esce all’aperto d’estate. Da chiunque venga ucciso, dopo ucciso uccide il suo uccisore. Infatti se un volatile mangia anche un minimo pezzo del suo corpo, subito muore. Ma se se ne ciba il corvo, o altri uccelli della stessa specie, che hanno il nome dal suono che emettono, la natura li aiuta a trovare un rimedio, una medicina. Infatti quando incominciano a sentirsi male, mangiano foglie di alloro e così guariscono. La salamandra è così chiamata perché è in grado di resistere al fuoco. Se si arrampica su di un albero ne intossica tutti i frutti, e non soltanto non si brucia in un incendio, ma lo spegne. È chiamata anche lucertola, in lat. stellio, e di essa Salomone dice: "Si prende con le mani e abita nei palazzi dei re" ( Pr 30,28 ). Il nome stellio le viene dal suo colore: ha infatti il corpo coperto come di punti lucenti a forma di stelle. Parimenti la talpa è così chiamata perché è condannata a perpetua cecità: infatti è senza occhi e passa la vita a perforare la terra. Dato che abbiamo stabilito di trattare della carità, che è la vita dell’anima, se nella natura di questi quattro esseri riusciamo a trovare qualcosa di utile ad incrementare la pratica di questa virtù, vogliamo esporlo a questo punto. Per il momento non vogliamo quindi parlare del loro veleno e della loro astuzia. Considera che la carità consiste soprattutto in quattro atti: nella compunzione del cuore, nella contemplazione della gloria, nell’amore verso il prossimo e nella continua considerazione della propria bassezza. Nell’alice, minuscolo pesciolino, è raffigurato l’umile penitente che vive solo dell’acqua delle lacrime. Infatti dice con il Profeta: "Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio e irroro di lacrime il mio letto" ( Sal 6,7 ): inondo di lacrime la mia coscienza per ogni singolo mio peccato, che ha il potere di condurmi alla notte eterna, e irroro di lacrime il mio corpo, prostrato dalla penitenza, affinché germogli l’erba verdeggiante capace di produrre il seme e la pianta fruttifera che faccia frutto secondo la sua specie ( cf. Gen 1,12 ). Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Settuagesima: "In principio Dio creò il cielo e la terra". 13. E poiché l’umile penitente vive solo dell’acqua delle lacrime, abbiamo una chiara concordanza in Daniele, dove dice: "Io, Daniele, continuai a piangere per tre settimane, non mangiai pane raffinato, e vino e carne non entrarono nella mia bocca, e neppure mi unsi di unguento finché non furono compiute le tre settimane" ( Dn 10,2-3 ). Osserva che il grande pianto produce tre effetti: annebbia gli occhi, turba la testa, e fa impallidire il volto. E così anche l’occhio del vero penitente, che prima era solito saccheggiare la sua anima, si annebbia perché non possa più vedere una donna per desiderarla ( cf. Mt 5,28 ), e si chiude perché la morte non entri da quella finestra ( cf. Ger 9,21 ). La sua testa, cioè la sua mente, si turba a motivo dei peccati commessi; infatti, insieme con il figlio della Sunnamita, dice: "Mi duole la testa, mi duole la testa!" ( 2 Re 4,19 ). Questa ripetizione sta ad indicare la violenza del dolore. Il suo volto si fa pallido a motivo della mortificazione del corpo; infatti "vennero meno la mia carne e il mio cuore" ( Sal 73,26 ), si mitigò cioè l’impudenza della carne e la superbia del mio cuore. Queste sono le tre settimane durante le quali il penitente piange. Oppure anche: piange per tre settimane perché in tre modi ha offeso la santa Trinità: con il cuore, con la bocca e con le opere. "Non mangiai pane raffinato". Commenta la Glossa: Si astenne da cibi raffinati, come dobbiamo fare anche noi, e molto di più, nel tempo del digiuno. Infatti coloro che si cibano di cose illecite, devono poi astenersi anche da quelle lecite. Oppure, il pane raffinato simboleggia anche il lusso secolaresco, che oggi è desiderato da molti, e del quale Salomone dice: "Gradito è all’uomo il pane della menzogna", cioè del lusso del mondo, che finge di essere qualcosa, mentre è niente; "ma poi la sua bocca sarà piena di sassi" ( Pr 20,17 ), sarà cioè colpito con il castigo eterno. E anche Giobbe dice: "Il suo pane gli si guasterà nelle viscere, si cambierà in fiele di vipera" ( Gb 20,14 ). Il penitente non mangia di questo pane, anzi dice nel salmo: "Mi nutrivo di cenere come di pane" ( Sal 102,10 ). E la Glossa commenta: Mi nutrivo di cenere, cioè dei rimasugli dei peccati, come di pane: facendo penitenza consumavo anche i peccati più leggeri, i veniali, perché anche quelli devono essere distrutti con la penitenza. "E alla mia bevanda", cioè alla felicità temporale, "io mescolo il pianto" ( Sal 102,10 ). Infatti aggiunge: "Carne e vino", in cui è indicata la concupiscenza della carne e la gloria del mondo, "non entrarono nella mia bocca". La carne è detta in lat. caro, perché cara, amata; e il vino ha il nome che richiama la vena, perché bevuto riempie subito di sangue le vene. "E non mi unsi di unguento"; e qui abbiamo la concordanza nel libro del profeta Amos, dove dice: Guai a voi "che mangiate l’agnello del gregge e i vitelli scelti da tutto l’armento … bevendo vino in larghe coppe e ungendovi con gli unguenti più raffinati" ( Am 6,4.6 ). Il penitente invece pratica tutte le mortificazioni suddette finché sono complete le tre settimane, cioè finché ha riparato a tutti i peccati e ha ricevuto il perdono dalla santa Trinità. 14. Il camaleonte è figura del contemplativo, che vive solo di aria, vale a dire della dolcezza della contemplazione. Dice infatti con l’Apostolo: "La nostra patria è nei cieli" ( Fil 3,20 ). E in Giobbe leggiamo: "La mia anima ha scelto la sospensione" ( Gb 7,15 ). La sospensione simboleggia l’elevazione dello sguardo interiore al Signore. Il giusto si solleva dalla terra con la fune dell’amore divino e resta come sospeso in aria per la dolcezza della contemplazione, ed allora si trasforma, per così dire, tutto in aria, come non avesse più il corpo, non fosse più oppresso dalla carnalità. È detto infatti di Giovanni Battista che era "voce di uno che grida nel deserto" ( Mt 3,3; Gv 1,23 ). La voce è aria, e Giovanni era aria e non carne, perché non aveva più il gusto delle cose terrene ma solo di quelle celesti. È detto nell’Esodo che sotto i piedi del Signore c’era come un lavoro di pietra di zaffiro ( cf. Es 24,10 ). Sotto i piedi di Cristo, cioè sotto la sua umanità, sono poste, come sgabello, le menti dei giusti. Infatti sta scritto che Maria [ di Magdala ] sedeva ai piedi del Signore ( cf. Lc 10,39 ). E ancora: Le donne "si avvicinarono e gli cinsero i piedi" ( Mt 28,9 ). E nel Deuteronomio: "Coloro che si avvicinano ai suoi piedi, riceveranno il suo insegnamento" ( Dt 33,3 ). Lo zaffiro è color del cielo. La mente dei giusti, sottomessa all’umanità di Gesù Cristo con la fede e con l’umiltà, è come un prezioso lavoro di pietra di zaffiro. Fa’ attenzione a queste tre cose: lavoro, pietra, e zaffiro. Lavoro, cioè la fatica della penitenza; di essa dice Salomone: "Sistema il tuo lavoro all’esterno e lavora con cura il tuo campo", cioè la tua anima: "poi costruirai la tua casa" ( Pr 24,27 ), cioè la tua coscienza. Di pietra, per la costanza della mente; dice Zaccaria: In un’unica pietra ci sono sette occhi ( cf. Zc 3,9 ), vale a dire: nell’uomo perseverante ci sono i sette doni della grazia. Di zaffiro, per la dolcezza della contemplazione. Leggiamo in Ezechiele che "sopra il capo dei cherubini c’era come una pietra di zaffiro" ( Ez 10,1 ). "Sopra il capo dei cherubini", cioè nella mente dei giusti, che sono ricolmi di quella scienza che sola sa insegnare e sola rende saggi. Osserva qui che quegli esseri, che Ezechiele aveva chiamato all’inizio "quattro animali", qui li chiama cherubini: quindi chiama quegli animali con il nome degli angeli, perché erano alati. C’è da notare che di quegli esseri non è scritto che avessero estremità o becchi di uccello, ma solo le ali. Infatti neppure i giusti hanno degli uccelli gli artigli ricurvi della rapina e della violenza, e neppure il becco per dilaniare o calunniare i fratelli, ma solo le ali della divina contemplazione; e per richiamarsi a questo, la natura ha dato all’uomo le unghie diritte e non ricurve. 15. Si legge nella Storia Naturale che gli uccelli dotati di artigli adunchi, quando vedono che i loro piccoli sono in grado di volare, li spingono e li gettano fuori dal nido; e quando i piccoli sono cresciuti non si curano più di loro. Così si comportano anche certi avari, spietati, i quali, se vedono dei poveri e degli ammalati che migliorano un po’, e, quel che è peggio, anche quando sono ancora ammalati, li cacciano dalla propria casa. Invece sul capo dei Cherubini c’è la pietra di zaffiro, perché la mente dei giusti è nobilitata e illuminata dalla felicità della contemplazione. La salamandra è figura dell’uomo caritatevole, che vive solo del fuoco della carità. Leggiamo nell’Ecclesiastico: "Sorse Elia simile al fuoco, e la sua parola bruciava come fiaccola" ( Sir 48,1 ), perché l’opera e la parola del giusto ardono di carità. Giustamente quindi è chiamato anche stellio, perché è come risplendente di stelle, cioè dello splendore delle opere buone. Di lui dice Salomone che si "adopera con le sue mani", cioè con le sue opere, per quanto riguarda il prossimo, "e dimora nei palazzi dei re", cioè nella contemplazione, per ciò che riguarda Dio. Analogamente, la talpa è figura dell’uomo disprezzato e abbandonato, che vive soltanto di terra, perché si riconosce terra e peccatore, e mai dimentica quella maledizione: Sei terra e terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Egli, nella cecità di questo esilio, si accontenta solo della terra, perché non mangia la carne degli altri, cioè non giudica gli altri peccatori e non li condanna, ma nell’amarezza della sua anima considera solo i suoi peccati, desiderando che tutti siano nelle viscere di Gesù Cristo ( cf. Fil 1,8 ). Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Gesù Cristo che ci riunisca nelle viscere del suo amore, ci faccia vivere dell’acqua della compunzione, dell’aria della contemplazione, del fuoco della carità e della terra dell’umiltà, in modo da essere degni di giungere fino a lui che è la vita. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. III. Incarcerazione del servo malvagio. una questione: "i peccati perdonati reviviscono?". 16. "Allora il padrone fece chiamare quel servo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il debito" ( Mt 18,32-34 ). Da questo brano del santo vangelo si deduce chiaramente che i peccati rimessi riviviscono. Voglio quindi riportare qui tutto ciò che ho trovato nelle Sentenze su questo argomento. Si domanda se i peccati rimessi ( già perdonati ) riviviscano. La soluzione di questo problema è oscura e ambigua, perché mentre alcuni affermano, altri negano che i peccati una volta rimessi possano rivivere per essere nuovamente colpiti dal castigo. Quelli che sostengono la reviviscenza dei peccati rimessi, si fondano sulle seguenti affermazioni: Ambrogio. Perdonatevi a vicenda se uno ha peccato contro un altro, altrimenti il Signore fa rivivere i peccati rimessi. Infatti se viene disprezzato in questo precetto ( del perdono ), senza dubbio egli considererà nulla la penitenza per la quale ha concesso la sua misericordia, come si legge nel vangelo del servo malvagio, che è stato sorpreso mentre infieriva contro il suo compagno ( cf. Mt 18,34-35 ). Rabano. Dio consegnò il servo malvagio agli aguzzini finché avesse restituito tutto il debito, perché all’uomo non vengono imputati per il castigo solo i peccati commessi dopo il battesimo, ma anche il peccato originale che nel battesimo gli era già stato rimesso. Gregorio. Da quanto è detto nel vangelo, consta che se non perdoniamo di cuore ciò che è stato commesso contro di noi, ci verrà di nuovo chiesto conto anche di ciò che, con gioia, pensavamo ci fosse stato rimesso con la penitenza. Agostino. Dio dice: Perdona, e ti sarà perdonato ( cf. Lc 6,37 ). Ma io ho perdonato prima. Tu perdona almeno dopo, perché se non perdonerai ti richiamerò e ti domanderò di nuovo conto di ciò che ti avevo perdonato. E ancora: Colui che, dimentico della bontà divina, vuole vendicarsi delle ingiurie, non solo non meriterà il perdono per i peccati futuri, ma gli sarà chiesto di nuovo conto anche dei peccati passati, che credeva gli fossero già stati perdonati. Beda. "Ritornerò nella casa dalla quale sono uscito" ( Mt 12,44 ). Si deve aver timore di ciò che dice questo versetto e tenerne conto, perché non accada che la colpa che in noi credevano estinta, non ci ricada addosso di nuovo per la nostra indolenza. E ancora: Chiunque, dopo il battesimo, viene vinto di nuovo dalla malvagità dell’eresia o dalla concupiscenza mondana, questi peccati lo precipiteranno di nuovo nel profondo di tutti i vizi. E ancora Agostino. Che i peccati rimessi riviviscano, là dove non c’è la carità fraterna, lo insegna chiaramente il Signore nel vangelo del servo malvagio, al quale il padrone richiese la restituzione del debito già condonato, perché lui non aveva voluto condonare il debito al suo compagno. Sono queste le affermazioni di coloro che sostengono che i peccati rimessi reviviscono, se vengono commessi di nuovo. Ad essi si obietta: Non sembra giusto che uno venga punito di nuovo per il peccato di cui ha fatto penitenza e che gli è stato perdonato. Se viene punito perché ha peccato e non si è emendato, evidentemente questo è giusto. Se invece gli viene chiesto conto di ciò che gli è stato condonato, questa o è un’ingiustizia, oppure è una giustizia misteriosa. Si ha infatti l’impressione che anche Dio giudichi e condanni due volte per lo stesso peccato, e che il castigo sia inflitto due volte, ciò che la sacra Scrittura nega ( cf. Na 1,9). Ma a questo si può rispondere che non c’è un doppio castigo e che Dio non giudica due volte lo stesso peccato: ciò avverrebbe se dopo un’adeguata riparazione e una giusta pena, Dio lo punisse di nuovo; ma chi non è stato perseverante non ha riparato né adeguatamente né giustamente. Deve infatti ricordarsi continuamente del peccato commesso, non per ricadervi ma per guardarsene; non deve dimenticare tutti i doni di Dio, che sono tanti quanti sono i peccati perdonati ( cf. Sal 103,2 ). Doveva sempre pensare che tanti erano i doni di Dio quanti erano i suoi peccati, e per quei doni rendere grazie senza fine. Ma siccome è stato ingrato, ed è ritornato al vomito come il cane ( cf. 2 Pt 2,22 ), ha distrutto tutto il bene fatto in precedenza, ha richiamato in vita il peccato rimesso, e così Dio, che gli aveva perdonato il peccato quando si era umiliato, ora glielo imputa di nuovo, vedendolo superbo ed ingrato. Ma poiché sembra irragionevole che i peccati rimessi vengano imputati di nuovo, alcuni sono del parere che nessuno venga punito di nuovo da Dio per i peccati una volta perdonati. E allora si dice che i peccati rimessi reviviscono e vengono imputati, perché a causa dell’ingratitudine il peccatore viene ritenuto colpevole come lo era in antecedenza. E si dice che viene chiesto conto di ciò che era già stato rimesso, perché il peccatore è stato ingrato del perdono ricevuto, e così ridiventa reo come lo era prima. Ci sono dottori favorevoli sia all’una che all’altra posizione; e perciò io, senza pronunciarmi né per l’una né per l’altra, lascio il giudizio all’intelligente lettore, aggiungendo che per me sarà cosa sicura e vicina alla salvezza "il mangiare le briciole che cadono sotto la mensa dei padroni" ( cf. Mt 15,27 ). 17. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell’epistola: "E perciò prego che la vostra carità abbondi sempre di più in ogni conoscenza e in ogni genere di discernimento" ( Fil 1,9 ). La carità deve abbondare, cioè crescere nella conoscenza, affinché l’uomo riesca a giudicare e a distinguere non solo il male dal bene, ma anche tra il bene e il meglio. E quindi aggiunge: "Perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere sinceri", cioè senza doppiezza per quanto riguarda voi, "senza ostilità" nei riguardi degli altri, "per il giorno di Cristo" ( Fil 1,10 ), cioè fino al giorno della morte o del giudizio finale. Tutte queste cose il servo malvagio non le praticò, perché non fu sincero nei riguardi di Dio che gli aveva condonato il debito, né evitò l’ostilità verso il compagno, che anzi tentò di strangolare e fece gettare in carcere. Perciò nel giorno di Cristo egli stesso sarà consegnato ai carnefici, cioè ai demoni, e così sarà proprio strangolato. "Ricolmi dei frutti di giustizia", cioè delle opere che sono frutto della giustizia, "ottenuti per mezzo di Gesù Cristo", non con le vostre forze, "a gloria e lode di Dio": entrerete così nella gloria eterna per lodare eternamente Dio; o anche: voi stessi sarete la gloria e la lode di Dio, affinché anche per merito vostro si possa dire: "Dio è mirabile nei suoi santi" ( Sal 68,36 ), cioè nei suoi santi opera meraviglie, ossia conferisce loro il potere di operarle. Fratelli carissimi, imploriamo e supplichiamo il Signore che ci perdoni i peccati passati, ci conceda la grazia di non ricadervi e di perdonare di cuore al prossimo, per essere fatti degni di giungere alla sua gloria, nella quale egli è degno di lode e glorioso per i secoli eterni. Amen. Alleluia. Domenica XXIII dopo Pentecoste Temi del  sermone – Vangelo della ventitreesima domenica dopo Pentecoste: "Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio"; si divide in due parti. – Anzitutto sermone sul predicatore o sul prelato della chiesa, sulle ricchezze dei peccatori e le tre circostanze in cui si suonava la tromba: "Nella tua gola ci sia una tromba". – Sermone ai penitenti o ai religiosi sul modo di fare penitenza e ricuperare ciò che si è perduto: "Non temete, o animali della regione". – Parte I: Sermone contro i prelati della chiesa: "Allora i farisei, ritiratisi". – Contro la loro avarizia e lussuria: "Guai a voi, figli ribelli". – Contro i potenti del mondo: "Allora il Signore fece crescere dell’edera". – Il dio ventre: "Siate miei imitatori". – Parte II: Sermone contro gli ipocriti e sulla conoscenza di Dio che tutto scruta: "Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose …". – La triplice immagine di Dio: "Mostratemi la moneta del tributo". – Sermone sulla purezza dell’anima: "Vidi quindi un candelabro". Le sette lucerne e i sette beccucci che raffigurano le sette beatitudini e le sette parole pronunciate dal Signore sulla croce: "Le sue sette lucerne". Contro quelli che odiano i loro fratelli: "Per tre misfatti di Edom". – Contro gli avari: "Alza i tuoi occhi e guarda". – La protezione di Dio: "Il Signore è buono e sostiene". – La triplice giustizia: "Coloro che hanno fame e sete della giustizia". – La misericordia e le tre proprietà dell’aceto: "Chi è misericordioso". – La speranza e il timore: "Due olive su di esso". – La conversione del peccatore: "Toglietegli quelle vesti immonde". Esordio - Il predicatore e le tre circostanze nelle quali si suonava la tromba 1. In quel tempo: "I farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi" ( Mt 22,15 ). Dice Osea: "Nella tua gola ci sia una tromba, come aquila sopra la casa del Signore, perché hanno trasgredito la mia alleanza e hanno rigettato la mia legge" ( Os 8,1 ). Vedremo il significato di queste quattro cose: la gola, la tromba, l’aquila e la casa. Considera che la tromba, come è scritto nel libro dei Numeri, si suonava per radunare il popolo in tre circostanze: per la guerra, per un solenne banchetto e per le grandi feste ( cf. Nm 10,9-10 ). La tromba è figura della predicazione. Dice il profeta Amos: Se risuona la tromba nella città, chi non si spaventerà? ( cf. Am 3,6 ). È segno di grande pervicacia, quando il popolo sente la tromba della predicazione che minaccia la morte eterna, e non si spaventa. Fanno come la vipera sorda: tengono un orecchio pressato contro le cose terrene, e si turano l’altro con la coda della concupiscenza carnale, per non sentire la voce della tromba del mirabile incantatore ( cf. Sal 58,56 ). Parlando di costoro, il profeta Michea dice ai predicatori: "Non andata a fare i vostri annunci a Get; non implorate con le lacrime; cospargetevi di polvere nella casa della polvere" ( Mic 1,10 ). Get s’interpreta "torchio", ed è figura dei superbi e degli avari di questo mondo, i quali come torchi schiacciano e spogliano i poveri e gli indigenti. Ad essi, sempre il profeta Michea dice: "Siete voi che strappate loro di dosso la pelle con violenza e la carne dalle loro ossa. Essi si mangiano la carne del mio popolo, gli scorticano la pelle e ne spezzano le ossa" ( Mic 3,2-3 ). A costoro non dobbiamo né dare annunzi con la tromba della predicazione, ne rivolgere suppliche con lacrime: infatti né la tromba è in grado di spezzare la durezza del loro cuore, né le lacrime di spegnere il fuoco della loro avarizia. E ancora lo stesso profeta: "Nella casa dell’empio c’è ancora il fuoco: i tesori accumulati con l’ingiustizia e con la misura falsa, ripiena d’ira. Potrò io giustificare le false bilance o il sacchetto dei pesi falsi?" ( Mic 6,10-11 ). Certamente no! E in questo è denunciato l’imbroglio dell’avaro che compera con una misura e vende usandone un’altra. "Nella casa della polvere", cioè del penitente povero e contrito di cuore, che si riconosce polvere; "cospargetevi di polvere", o predicatori, cioè date anche voi l’esempio della vostra umiltà perché, come dice il Signore, "i poveri vengono evangelizzati" ( Mt 11,5 ), non i ricchi, gli umili, non i superbi. Una superficie rigonfia fa scorrere via ciò che vi si versa: la superbia rifiuta insegnamenti e consigli. La tromba dunque è figura della predicazione che chiama alla guerra contro i vizi. Dice in proposito il profeta Gioele: "Io, il Signore, ho parlato. Proclamate questo tra le genti: chiamate alla guerra santa, incitate i prodi, accorrano tutti i guerrieri. Con i vostri aratri costruite delle spade, e delle lance con le vostre falci. Anche chi è debole dica: io sono un prode guerriero!" ( Gl 3,8-10 ). Quando il Signore, con l’ispirazione interiore, parla nei predicatori, allora essi proclamano tra le genti, cioè a quelli che vivono da pagani: Chiamate alla guerra santa, ecc. Va alla guerra santa colui che dapprima si libera dai vizi e poi si impegna in battaglia "contro le potenze del male, a favore di quelle del cielo" ( Ef 6,12 ). Infatti chi si dissocia da una parte, si associa all’altra. Incita i prodi colui che ha il fermo proposito di non ricadere. Accorrono i guerrieri quando i cinque sensi del corpo, che prima erano come femmine che rendevano effeminata l’anima, accorrono adesso come valorosi guerrieri dai costumi casti e castigati, essi che prima erano soliti tuffarsi nella profondità dei vizi. Trasformano gli aratri in spade e le falci in lance coloro che trasformano la loro lingua calunniatrice, che come aratro era solita solcare la vita degli altri, nella spada della confessione e dell’accusa di sé, e le falci delle preoccupazioni terrene e dell’amor proprio nelle lance della carità; e così chi era debole ed effeminato può dire: Anch’io sono valoroso, sono capace di andare all’attacco e di impegnarmi in battaglia nel giorno del Signore. 2. La tromba della predicazione convoca anche al banchetto della penitenza, di cui il Signore, per bocca di Gioele, dice: "Non temete, o animali della regione, perché i pascoli del deserto hanno germogliato, perché gli alberi producono frutti, la vite e il fico danno il loro vigore. Esultate e rallegratevi nel Signore vostro Dio, figli di Sion, perché vi ha dato il maestro della giustizia, e vi manderà la pioggia del mattino e quella della sera come in passato. Le vostre aie si riempiranno di frumento, traboccheranno di vino e di olio i vostri torchi; e vi risarcirò degli anni resi sterili dalle locuste, dai bruchi, dalla ruggine e dalle rughe ( Gl 2,22-25 ). Gli animali della regione sono i peccatori convertiti, i quali dalla lontana regione della dissomiglianza [ dove hanno perduto la somiglianza con Dio ], si sono rivolti alla misericordia di Dio Padre, e di essi dice il salmo: "I tuoi animali abiteranno in essa" ( Sal 68,11 ), cioè nella santa chiesa, che è invece la regione della somiglianza [ con Dio ]. A costoro, perché non si disperino per la gravità dei loro peccati, è detto: "Non temete, perché i pascoli del deserto hanno germogliato". Deserto vuol dire abbandonato, disertato, perché in esso non si semina, ed è figura della penitenza che oggi viene praticata solo da qualche raro e coraggioso abitante. Quindi i pascoli del deserto sono gli uomini di penitenza, che germogliano nella contrizione. Infatti come il germe segna l’inizio del fiore, così essi ricominciano sempre e si rinnovano di giorno in giorno. Non temete, dunque, animali del deserto, perché anche voi diverrete rigogliosi come quei pascoli. "L’albero ha dato suo frutto, il fico e la vite hanno prodotto il loro vigore". Fa’ attenzione a queste tre piante: l’albero, il fico e la vite. Nell’uomo ci sono tre organi, dai quali proviene tutto ciò che si compie nel suo interno e all’esterno: il cuore, la lingua e la mano. Il cuore del penitente è come l’albero che produce il frutto della contrizione, del quale Isaia dice: "Questo è tutto il frutto, perché venga rimosso il suo peccato" ( Is 27,9 ). La contrizione è chiamata "tutto il frutto", perché rimuove ogni peccato, purché però ci sia anche il fermo proposito di confessarsi. Infatti Isaia subito soggiunge: "Quando ridurrà tutte le pietre dell’altare come le pietre che si polverizzano per la cenere [ per la calce ] e non ci saranno più boschetti sacri né templi profani" ( Is 27,9 ). Altare è come dire alta ara, e l’ara deve il suo nome al fatto che sopra vi si brucia ( lat. areo ) la vittima. L’altare raffigura la superbia, la lussuria e l’avarizia, vizi che cercano quelle altezze terrene nelle quali brucia l’anima sventurata. Questo è l’altare di Baal, nome che significa "superiore" e "divoratore", e che bene si accorda con l’etimologia di altare. Quindi le pietre dell’altare sono i peccati di superbia, di lussuria e di avarizia, che il penitente deve deporre dinanzi al sacerdote, come pietre ridotte in cenere, in modo cioè da confessare tutto distintamente e dettagliatamente, sia il peccato che le sue circostanze; e così non ci saranno più boschetti sacri, cioè cattive immaginazioni, né templi profani, cioè compiacenze peccaminose. Ecco dunque che l’albero ha dato il suo frutto. "Il fico e la vite hanno prodotto il loro vigore". Il fico, così chiamato da fecondità, è figura della lingua che è feconda di parole. Attorno a questo fico dobbiamo mettere del letame ( cf. Lc 13,8 ), cioè la confessione dei peccati, perché sia in grado di produrre il suo vigore, appunto la confessione. La vite è figura della mano che allarga le dita come dei tralci. Le dita, in lat. digiti, sono chiamate così perché sono dieci, o anche perché sono opportunamente ( decenter ) riunite insieme. Il penitente stenda dunque la mano dell’azione ai precetti del decàlogo, che sono ben legati tra loro. Infatti nella prima tavola stavano scritti i precetti riguardanti l’amore verso Dio; nella seconda quelli riguardanti l’amore verso il prossimo. E quando sono tutti uniti nell’osservanza, si vede che concordano e si completano tra loro. Perciò o penitenti, voi che siete i figli di Sion, cioè della chiesa, esultate nel vostro cuore e rallegratevi con le opere nel Signore vostro Dio e non in altre cose, perché egli vi ha dato un maestro di giustizia, cioè lo Spirito della grazia, che vi insegna a fare giustizia di voi stessi, e fa scendere su di voi la pioggia al mattino e alla sera. E qui la Glossa commenta: La pioggia del mattino è la fede, quella della sera è il compimento delle opere. Oppure: la pioggia del mattino è la conoscenza di Dio, che viene data dopo la fede; la pioggia della sera è la pienezza della sua conoscenza. "E le aie si riempiranno di frumento". Per aie si intendono le menti, dove avviene la separazione della paglia, cioè dei vizi, e così abbonda il frumento delle opere buone, e per la "spremitura" che devono subire, abbondano dell’olio della misericordia e del vino della consolazione. "E vi risarcirò degli anni resi sterili dalle locuste, dai bruchi, dalla ruggine e dalle rughe". La locusta deve il suo nome al fatto di avere le zampe lunghe come un’asta ( lat. locusta, longa asta ). Il bruco è così chiamato perché è quasi tutto bocca. La ruggine è una malattia che distrugge le messi. La ruga, così chiamata da rosicchiare, è il verme che rosicchia le foglie, e se cammina sulla pelle provoca prurito. Nella locusta è simboleggiata la superbia, nel bruco la gola, nella ruggine l’ira e l’invidia e nella ruga la lussuria. Sono questi quattro vizi che divorano le nostre opere buone. Ma quando noi torniamo alla penitenza, il Signore ci restituisce gli anni perduti, vale a dire l’abbondanza delle opere buone, perché le opere che erano state fatte nella carità ( in stato di grazia ) e poi distrutte dal successivo peccato, reviviscono con la confessione e con la penitenza, al cui banchetto la tromba ci chiama. 3. Parimenti la tromba chiama alla festa della gloria. Dice infatti il profeta Naum: "Ecco sopra i monti i piedi di un messaggero, di un araldo di pace. Celebra le tue feste, Giuda, e sciogli al Signore i tuoi voti, perché Belial non continuerà più ad attraversare le tue terre: è distrutto completamente" ( Na 1,15 ). Colui che annuncia la festa della gloria celeste, annunzia la vera pace; e chi la predica, lo fa non nella valle dei piaceri terreni nella quale vanno ad accumularsi le sozzerie, ma sopra i monti di una vita perfetta, perché lì si posarono i piedi del Signore. "Celebra, Giuda, le tue feste". Giuda s’interpreta "che confessa", ed è figura del penitente che, celebrato quaggiù il banchetto della penitenza, passa a celebrare la festa della gloria celeste, nella quale scioglie nella sicurezza i suoi voti al Signore, cantando con gli angeli, senza più temere che Belial, cioè gli stimoli della carne o la tentazione del demonio ( cf. 2 Cor 12,7 ) lo tormentino ulteriormente, perché ormai i nemici sono totalmente distrutti. Dice infatti Gioele: "Gerusalemme sarà sacra, e gli estranei non passeranno più per essa" ( Gl 3,17 ). E la Glossa: Dopo il giorno del giudizio Gerusalemme, formata dagli angeli e dagli uomini, sarà senza alcuna contaminazione, che prima aveva contratto a motivo della mescolanza con i cattivi. E l’estraneo, cioè il diavolo, oppure qualche pensiero malvagio, non troverà più la via per insinuarsi nei giusti, che saranno avvolti nella pace di Dio. Diciamo dunque: "Nella tua gola ci sia una tromba". O predicatore, la tromba della predicazione sia nella tua gola, cioè nella tua mente e non solo nella tua bocca, perché tu possa essere come l’aquila sopra la casa del Signore, cioè sopra la santa chiesa o sopra l’anima fedele. E sull’argomento dell’aquila vedi il sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, parte I, sul vangelo "Gesù stava andando verso Gerusalemme". "Perché hanno violato la mia alleanza e hanno trasgredito la mia legge". Per questo il predicatore deve avere la tromba nella gola e salire come un’aquila sopra la casa del Signore: perché i peccatori hanno violato il patto che avevano concluso con il Signore nel battesimo, e hanno trasgredito i comandamenti della legge e della grazia, divenendo così peggiori dei farisei che hanno violato solo il precetto della legge, nella quale è detto: Non tenterai il Signore, Dio tuo ( cf. Dt 6,16 ); e l’hanno violato quando, radunatisi in consiglio, hanno progettato di tendere un tranello al Signore della legge, come è detto appunto nel vangelo di oggi: "I farisei, ritiratisi, tennero consiglio per cogliere in fallo Gesù". 4. Fa’ attenzione, che in questo vangelo sono evidenziate due cose: l’insidiosa malizia dei farisei e la sapienza di Gesù Cristo. La prima quando dice: "I farisei, ritiratisi". La seconda: "Gesù, conoscendo la loro malizia". In questa domenica e nella prossima si leggono dei brani presi dai dodici profeti minori, e nell’introito della messa di oggi si canta: "Applaudite, popoli tutti" ( Sal 47,2 ). Si legge quindi la lettera del beato Paolo apostolo ai Filippesi: "Siate miei imitatori" ( Fil 3,17 ), che divideremo in due parti, constatandone la concordanza con le due suddette parti del vangelo. Prima parte: "Siate miei imitatori"; seconda parte: "La nostra patria è nel cielo". Questa epistola si legge insieme con questo vangelo perché nel vangelo Matteo parla dei farisei e degli erodiani, – nome quest’ultimo, che s’interpreta "gloria della pelle" –, nonché della moneta contrassegnata dall’effigie di Cesare, e l’Apostolo nella sua lettera parla dei nemici della croce di Cristo, la cui gloria sarà la loro rovina, e del nostro corpo che sarà glorificato nella luce del sommo Re. I. La subdola malizia dei farisei 5. "I farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di cogliere in fallo Gesù nelle sue parole". Farisei s’interpreta "separati", e sono figura dei prelati della chiesa, superbi e carnali, dei quali Osea dice: "È separato il loro convito, si sono dati alla più sfrenata fornicazione" ( Os 4,18 ). Il convito dei santi consiste nel piangere non solo i propri peccati ma anche quelli degli altri, aspirare alle cose eterne e gustare la dolcezza del gaudio interiore. Da questo convito dei santi è separato il convito dei farisei, i quali si sono dati alla fornicazione. Infatti di essi il Signore, sempre per bocca di Osea, dice: "Nella casa di Israele ho visto una cosa orribile: lì si è prostituito Efraim e si è contaminato Israele. Ma anche tu, Giuda, preparati alla mietitura, quando ricondurrò dalla prigionia il mio popolo" ( Os 6,10-11 ). Nella casa d’Israele, cioè nella chiesa, ho visto una cosa orribile, cioè le fornicazioni di Efraim – nome che s’interpreta "fruttificazione" – cioè dei religiosi, che dovrebbero fruttificare, e invece a causa dell’avarizia e di altri vizi cadono nell’idolatria. E Israele, cioè il prelato, si è contaminato appunto di vizi. Continua Osea: "Ho ripudiato il tuo vitello, Samaria; si è acceso il mio sdegno contro di loro, fino a quando non si potranno purificare. Anche quel vitello fu opera di Israele" ( Os 8,5-6 ). Samaria è figura della chiesa, e il suo vitello, cioè il prelato, sensuale e sfrontato, che avanza pettoruto e a testa alta, è stato ripudiato dal Signore. Di lui dice ancora Osea: "Come giovenca invereconda ha deviato Israele" ( Os 4,16 ). E perciò, come dice Geremia: "Giovenca snella e graziosa è l’Egitto: ma un tafano", cioè il pungolo dell’avarizia e della lussuria, "le verrà da settentrione" ( Ger 46,20 ), cioè dal diavolo. Perciò contro questi prelati divampa non solo lo sdegno del Signore, ma anche la sua collera. Fino a quando aspetterà a correggersi il popolo dalla sua sfrontatezza, dalla sua lussuria e simili? Come dicesse: Il popolo non è capace di correggersi da tutti questi vizi "perché anch’esso viene da Israele", vede cioè questi vizi nei suoi prelati. Israele dunque è contaminato. Ma anche tu, o Giuda, cioè semplice popolo dei laici, sebbene i religiosi e i prelati siano viziosi, preparati alla mietitura, cioè mettiti a compiere opere buone, non guardare ad essi: perché io cambierò la loro schiavitù, cioè la loro ostinazione nel peccato, come il torrente sotto il soffio del libeccio, vale a dire con la grazia dello Spirito Santo. E di questi farisei dice ancora Osea: "Il loro cuore è diviso ( falso ), e presto andranno in rovina; Dio stesso frantumerà i loro idoli e distruggerà i loro altari" ( Os 10,2 ). Chi ha il cuore diviso ( falso ) si avvia alla distruzione. Si legge infatti nel terzo libro dei Re che Geroboamo, nome che s’interpreta "divisione", fu colpito e andò in rovina lui e tutta la sua casa, fino all’ultimo maschio ( cf. 1 Re 14,10 ). Lo stesso Signore onnipotente frantumerà gli idoli dei farisei, cioè l’ipocrisia e la presunzione, e distruggerà gli altari, cioè il lusso e le ricchezze e la sfrontatezza della carne: tutti vizi sui quali offrono sacrifici al diavolo. È proprio di questi che il vangelo dice: "I farisei, ritiratisi". Dove si ritirano? La moglie adultera dice: "Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana e il mio lino, il mio olio e le mie bevande" ( Os 2,5 ). La moglie adultera è figura dell’anima adultera spiritualmente, che segue i suoi amanti quando obbedisce ai sensi del corpo. Nel pane sono indicati i piaceri e la prosperità terrena. Dice Giobbe: "Ripugnante gli diventa il pane in quella sua vita" ( Gb 33,20 ). Nell’acqua è simboleggiata la lussuria; e sempre Giobbe dice: "Dorme sotto dense fronde, nel folto dei canneti e in luoghi paludosi" ( Gb 40,16 ). Nella lana è raffigurata la purezza esteriore, e nel Levitico è detto che il biancore della pelle è segno di lebbra ( cf. Lv 13,3 ). Nel lino è indicata l’abilità di imbrogliare, della quale dice Isaia: "Saranno confusi i lavoratori del lino; coloro che cardano e tessono stoffe sottili" ( Is 19,9 ); infatti si chiama lino ( linum ) perché è leggero ( lenis ) e soffice. E nell’olio è raffigurata l’adulazione, per cui è detto: "L’olio del peccatore non ungerà il mio capo" ( Sal 141,5 ), cioè la mia mente; come dire: il mio capo non si gonfi di falsa adulazione. Ecco dove si sono ritirati i farisei. 6. Ritiratisi, dunque, "i farisei tennero consiglio". Dice Isaia: "Guai a voi, figli ribelli – oracolo del Signore –, che tenete consiglio, ma non siete guidati da me, e ordite una tela, ma non per mia ispirazione, per aggiungere peccato a peccato. Siete partiti per scendere in Egitto senza consultarmi, sperando l’aiuto dalla potenza del faraone e cercando riparo all’ombra dell’Egitto. La potenza del faraone sarà la vostra vergogna, e il riparo all’ombra dell’Egitto la vostra ignominia" ( Is 30,1-3 ). I figli ribelli sono coloro dei quali parla Osea: "Efraim si è dato alla fornicazione", questi sono i laici; "Israele si è contaminato", questi sono i religiosi; "non si danno pensiero di ritornare al loro Dio, perché lo spirito di fornicazione è in mezzo a loro e non riconoscono più il Signore" ( Os 5,3-4 ). "Tenete consiglio, ma non siete guidati da me". E sempre il Signore, per bocca di Osea: "Essi hanno regnato, ma non guidati da me; divennero prìncipi, ma io non li conosco" ( Os 8,4 ). "Ordite una tela". Osea: "Il vitello di Samaria sarà come una tela di ragno: e poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta" ( Os 8,6-7 ). Come la tela di ragno viene strappata e dispersa dal vento, così il vitello, cioè la sfrontatezza dei chierici, sarà ridotta al nulla. Come il vento produce il turbine sollevando la polvere, così l’amore delle cose di questo mondo, che è come il vento, produce e porta al turbine dell’eterna dannazione. "Ma non per mia ispirazione". Dice Isaia: "Essi lo provocarono all’ira e contristarono il suo Santo Spirito: egli perciò divenne loro nemico" ( Is 63,10 ). E Michea: "Si è forse ridotto lo Spirito del Signore, o sono questi i suoi pensieri? Non sono forse benefiche le mie parole con colui che cammina con rettitudine? Ma al contrario, il mio popolo è insorto come un nemico" ( Mic 2,7-8 ). Lo Spirito del Signore "si riduce" quando il peccatore viene privato della grazia; invece con i penitenti è largo, quando in essi appunto la grazia viene infusa. "Per aggiungere peccato a peccato". Dice ancora Osea: "Non c’è verità, non c’è misericordia, non c’è conoscenza del Signore sulla terra. La bestemmia, la menzogna, l’omicidio, il furto e l’adulterio l’hanno inondata e si versa sangue su sangue" ( Os 4,1-2 ). Aggiungono peccato a peccato, peccati nuovi ai peccati antichi. Come gli argini trattengono il fiume perché non inondi, così il timore di Dio e il riguardo del mondo sono come due argini che dovrebbero frenare l’inondazione dei peccati. Ma questo nei chierici non si è avverato per nulla, perché davanti ai loro occhi non c’è timor di Dio ( cf. Sal 36,2 ), e sono divenuti sfrontati come una prostituta: non sono più capaci di vergogna ( cf. Ger 3,3 ). "Siete partiti per scendere in Egitto", cioè per praticare l’avarizia del mondo, della quale dice Amos: "Colpisci il cardine e siano scossi gli architravi: perché tutti sono dominati dall’avarizia" ( Am 9,1 ). Nel cardine, sul quale gira la porta, è simboleggiato il potere delle chiavi, che i prelati hanno, perché possono escludere o ammettere alla chiesa. Negli architravi è indicata la sublimità della dignità sacerdotale, che purtroppo viene distrutta dal fuoco della cupidigia e della superbia. "E non mi avete consultato". Sempre Amos: "Il Signore Dio non dice una parola senza aver prima rivelato il suo consiglio ai suoi servi, i profeti" ( Am 3,7 ). "Avete sperato l’aiuto dalla potenza del faraone", cioè dai sensi del corpo. Al contrario, leggiamo in Geremia: "Non si vanti il sapiente della sua sapienza, né il forte della sua fortezza, né il ricco delle sue ricchezze. Colui che vuole gloriarsi si vanti di questo: di aver senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra. Di queste cose mi compiaccio, dice il Signore" ( Ger 9,23-24 ). "E avete cercato riparo all’ombra dell’Egitto", cioè del potere terreno, che è appunto come ombra che passa. 7. E su tutto questo abbiamo la concordanza nel profeta Giona, dove si racconta che "il Signore fece crescere l’edera", o un pianta di zucca. Nel testo ebraico c’è il termine cicion, che sta per zucca, che fa presto a crescere e presto a seccarsi. "Questa pianta crebbe velocemente al di sopra di Giona per fare ombra alla sua testa e proteggerlo: infatti stava poco bene. Giona provò grande gioia per quella pianta. Ma il giorno dopo, allo spuntar del sole, il Signore mandò un verme a rodere quella pianta, che si seccò. E quando il sole fu alto, Dio fece soffiare un vento afoso dall’oriente. Il sole colpì la testa di Giona che si sentì bruciare, tanto che invocò la morte" ( Gn 4,6-8 ). In quella pianta di zucca è simboleggiata la dignità mondana, il cui frutto, finché è nel suo rigoglio, è commestibile, ma poi è come un legno secco. Così è per il peccato: dapprima procura il piacere, ma quando il piacere è svanito, resta la colpa e la macchia nell’anima, e se non si ricorre subito al pentimento si rischia la morte eterna. Ma allo spuntar del sole, cioè al giungere della grazia, questa pianta si secca, perché quando il dente del verme della coscienza morde e rode, tutta la gloria del mondo viene abbattuta, si vede cioè che non vale più niente. E questo "il giorno dopo", cioè dopo quel giorno di cui parla Giobbe: "Maledetto il giorno in cui sono nato" ( Gb 3,3 ). E allora il sole, cioè l’amore di Dio, colpisce sulla testa, cioè nella mente, non solo illuminando ma anche ferendo, per indurre al pentimento; e così invoca la morte della sua animalità ( sensualità ). Su questo argomento puoi vedere anche il sermone della domenica di Settuagesima, II parte, sul vangelo: "In principio Dio creò il cielo e la terra". "La potenza del faraone sarà la vostra vergogna, e il riparo all’ombra dell’Egitto la vostra ignominia". E anche Osea: "Efraim ha visto la sua debolezza, e Giuda la sua incapacità. Ed Efraim ricorse ad Assur e Giuda chiamò un re in sua difesa; ma essi non potranno salvarvi né liberarvi dai vostri mali" ( Os 5,13 ). E ciò che dice anche Isaia: "Vano e inutile sarà l’intervento dell’Egitto" ( Is 30,7 ). Non certo Assur, vale a dire il diavolo, né l’Egitto, cioè il mondo, possono eliminare la fragilità o la debolezza nell’uomo. E quindi Giobbe: "Gli occhi dei malvagi languiranno e ogni scampo per essi è precluso" ( Gb 11,20 ). Non case e campagne, non un mucchio di denaro o di oro, scacciò la febbre dal corpo malato del padrone ( Orazio ). 8. "Per cogliere in fallo Gesù nelle parole". Così oggi i farisei tentano di cogliere in fallo Gesù che predica al popolo. Fanno infatti come fece Amasia, del quale è detto nel libro del profeta Amos: "Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire al re d’Israele Geroboamo: Amos congiura contro di te in mezzo al popolo d’Israele; la gente non potrà sopportare tutte le sue parole poiché egli dice: Geroboamo morirà di spada e Israele sarà portato in esilio lontano dalla sua terra. Allora Amasia rispose ad Amos: Vattene, o veggente, fuggi nella terra di Giuda e mangia lì il tuo pane e lì potrai profetare" ( Am 7,1-12 ). I farisei del nostro tempo dicono la stessa cosa ai predicatori, quando essi li riprendono per la loro malizia, e per di più fanno pervenire al superiore delle lagnanze contro di essi. Chi ascolta, intenda, e chi vuol capire capisca. "Gli mandarono i propri discepoli, con gli erodiani" ( Mt 22,16 ), cioè i soldati di Erode, che in quel momento si trovava a Gerusalemme. C’era una specie di ribellione in mezzo al popolo, come dice la Glossa, perché alcuni sostenevano che era un dovere pagare i tributi per la sicurezza e la tranquillità, in quanto i Romani combattevano per tutti. I farisei invece erano contrari e sostenevano che il popolo di Dio non era tenuto a pagarli, in quanto già pagavano le decime, ecc., mentre pagando il tributo avrebbero riconosciuto di essere sottoposti a leggi umane. Opportunamente si fa notare che i discepoli dei farisei si uniscono agli erodiani, perché i discepoli della separazione ( farisei ), quando si allontanano dalla vera gloria, si uniscono alla gloria vana e transitoria. E su questo abbiamo la concordanza in Osea: "Efraim se ne volò via come un uccello; la loro gloria è scomparsa dai parti, dalle gravidanze e dai concepimenti" ( Os 9,11 ). Oggi ci sono molti che, fino a quando sono implumi, finché cioè sono poveri e ignorati, se ne stanno quieti nel nido dell’umiltà, ma appena hanno messo penne e ali, vale a dire hanno accumulato ricchezze e potere, se ne volano in alto e diventano superbi; la loro gloria sta nelle loro ali, mentre invece dovrebbero pensare a quanto grande è stata la loro miseria nel concepimento, nell’allevamento e nell’educazione. Sempre Osea: "Il vento lo porterà legato alle sue ali" ( Os 4,19 ). Le ali sono l’intelletto e il sentimento: l’intelletto vola nel campo della verità, e il sentimento ( le inclinazioni ) in quello del discernimento del bene, ma entrambi vengono impediti dal vento della vanagloria. "Maestro, sappiamo che sei veritiero" ( Mt 22,16 ). Maestro, in lat. magister, è come dire "maggiore del luogo", perché sterròs in greco significa luogo, posto. Lo chiamano maestro perché, sentendosi lodato, apra loro schiettamente il segreto del suo cuore e voglia ritenerli come discepoli. "Sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità" ( Mt 22,16 ). Dice il salmo: "Guidami nella tua verità e istruiscimi" ( Sal 25,5 ): guidami a fuggire gli errori, affinché io viva nella rettitudine e nella pietà, come la verità esige, e insegnami la verità stessa. "E non hai soggezione di nessuno" ( Mt 22,16 ): lo provocano a dire che teme più Dio che Cesare e che non si è obbligati a pagare il tributo, per farlo apparire come l’istigatore della ribellione. "Tu non guardi in faccia alle persone" ( Mt 22,16 ). E Abacuc: "I tuoi occhi sono innocenti e non vedi il male e non puoi guardare l’iniquità" ( Ab 1,13 ). Si dice persona, perché è unica in se stessa ( lat. persona, per se una ). "Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?" ( Mt 22,17 ). Risponderemo a questa domanda nei punti seguenti. 9. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell’epistola: "Fratelli, siate miei imitatori". Anche se non mi avete presente, imitatemi e fate come me. "Osservate", cioè guardate con molta attenzione, "quelli che si comportano secondo il modello che avete in noi" ( Fil 3,17 ), cioè l’esempio della nostra vita, di cui Pietro dice: "Facendovi modelli del gregge" ( 1 Pt 5,3 ). Felice quel prelato che con la forma ( l’esempio ) della sua vita è in grado di riformare i deformati, cioè di riportare sulla retta via chi ha deviato. "Molti infatti" – i farisei – si comportano da nemici della croce di Cristo. E della loro rovina spirituale l’Apostolo piangeva. "La loro fine sarà la perdizione", alla fine cioè ci sarà la pena eterna; "perché il loro dio è il ventre" ( Fil 3,18-19 ). La sacra Scrittura parla spesso per immagini, per metafore, affinché ciò che non si può vedere in una cosa, si possa scoprire in un’altra simile. Il ventre viene paragonato a un dio quando dice: "Il loro dio è il ventre e la loro gloria è una vergogna", cioè si gloriano di ciò di cui dovrebbero invece vergognarsi. Agli dèi si suole edificare dei templi, erigere degli altari, consacrare dei ministri per il loro culto, immolare animali, bruciare incensi. Il tempio del dioventre è la cucina, l’altare la mensa, i ministri i cuochi, i sacrifici le carni rosolate, il fumo dell’incenso l’odore dei condimenti. Questi templi però non vengono costruiti in Gerusalemme, bensì in Babilonia, perché coloro che hanno come dio il ventre, vedranno la loro gloria mutarsi in eterna confusione. Quello stesso dio infatti, il principe dei cuochi, ha distrutto le mura di Gerusalemme, ha portato i vasi del Signore nella casa del re di Babilonia, dei vasi del tempio ha fatto i vasi del palazzo [ reale ], anzi, a dire il vero, dei vasi della mensa divina ha fatto i vasi da cucina. Dice l’Apostolo: "Santo è il tempio di Dio, che siete voi" ( 1 Cor 3,17 ). In questo tempio i vasi sono i cuori, che diventano vasi del tempio del Signore quando, ripieni di virtù, sono graditi alla volontà divina; diventano invece vasi del palazzo [ reale ], quando vogliono piacere a qualche umana autorità; e diventano vasi da cucina quando ciò che prima serviva alla sobrietà, serve poi alla gola. Dice Geremia: "Coloro che banchettavano con lo zafferano, ora brancicano lo sterco" ( Lam 4,5 ). Lo zafferano, in lat. crocus, cresce in oriente e dà ai cibi colore e sapore. Quindi si nutrono con lo zafferano coloro che all’inizio della loro conversione si sostengono interiormente con il sapore delle virtù, e prendono all’esterno il colore del buon esempio. Ma questi che prima si nutrono con lo zafferano, quando, dopo le opere di mortificazione e di pietà, si lasciano vincere dal richiamo del ventre, giungono fino a brancicare lo sterco; e talvolta succede che quelli che prima della conversione vivevano sobriamente a casa loro, dopo, nel monastero, diventano ingordi. Il dioventre viene soddisfatto con le vittime di varie portate, tende l’orecchio ai rumori, è solleticato dalle varie specie di sapori, si commuove alle chiacchiere e non alle preghiere, è gratificato dall’ozio, e si abbandona alle delizie della sonnolenza. E questo dioventre ha, purtroppo, monaci, canonici e conversi che lo servono devotamente, e sono quelli che nella chiesa di Dio vivono beatamente nell’ozio, che non si danno alla preghiera segreta, ma sono curiosi di ascoltare gli stravaganti racconti degli oziosi, nei quali non si sentono i singhiozzi e i sospiri di una mente pentita, ma le risate, le sghignazzate e i rutti di un ventre rimpinzato. Sono questi che si ritirano e tengono consiglio: ma in quel consiglio non entra il mio cuore ( cf. Gen 49,6 ). Scongiuriamo perciò, fratelli carissimi, il Signore Gesù Cristo di separarci dalla separazione dei farisei, di confermarci nell’insegnamento della sua verità, di tenerci lontani dal vizio della gola, in modo da essere degni di giungere al banchetto della vita eterna. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. II. La sapienza di Gesù Cristo 10. "Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: Ipocriti, perché mi tentate?" ( Mt 22,18 ). Conosce la loro malizia colui che conosce tutte le cose, al quale nulla è nascosto e nulla può sfuggire. Dice il profeta Amos: "Anche se scendessero fino all’inferno, di là li strapperebbe la mia mano; e se salissero fino al cielo, di là li tirerei giù; e anche se si nascondessero in vetta al Carmelo, io che scruto i cuori li troverò. E anche se volessero nascondersi ai miei occhi nel profondo del mare, là comanderò al serpente di morderli" ( Am 9,2-3 ). Perché dunque mi tentate, ipocriti? Perché avete una cosa nel cuore e un’altra nella bocca? "Tutti gli ipocriti sono malvagi, e tutte le bocche proferiscono menzogne" ( Is 9,17 ). "Disse loro: Mostratemi la moneta del tributo" ( Mt 22,19 ), vale a dire la moneta con la quale pagate il tributo, che aveva impressa l’effigie di Cesare. "Ed essi gli presentarono un denaro", che valeva dieci soldi. "Gesù domandò loro: Di chi è questa effigie e l’iscrizione?". Gli risposero: Di Cesare" ( Mt 22,20-21 ). Fa’ attenzione a queste tre cose: il denaro, l’effigie e l’iscrizione. Come nel denaro è impressa l’effigie del re, così nell’anima nostra è impressa l’immagine della Trinità. Dice il salmo: "È impressa su di noi, Signore, la luce del tuo volto" ( Sal 4,7 ). E la Glossa commenta: O Signore, la luce del tuo volto, cioè la luce della grazia, con la quale viene reintegrata in noi la tua immagine, per la quale noi siamo simili a te, è impressa in noi, cioè è impressa nella ragione che è la potenza superiore dell’anima: è per essa che noi siamo simili a Dio; è in essa che è impressa quella luce, come un sigillo sulla cera. Per volto di Dio s’intende la nostra ragione, perché come attraverso il volto uno viene riconosciuto, così per mezzo dello specchio della ragione si conosce Dio. Però questa ragione è stata deformata dal peccato dell’uomo, e quindi l’uomo ha perduto la somiglianza con Dio: ma poi con la grazia portata da Cristo la somiglianza è stata ripristinata. Infatti l’Apostolo dice: "Rinnovatevi nello spirito nella vostra mente" ( Ef 4,23 ). Questa grazia per la cui opera viene rinnovata l’immagine che era stata creata, qui è chiamata luce. Considera che l’immagine è triplice: l’immagine della creazione, nella quale l’uomo è stato creato, cioè la ragione; l’immagine della ricreazione ( nuova creazione ), con la quale viene ricostituita l’immagine creata, cioè la grazia di Dio che viene infusa nella mente da rinnovare; l’immagine della somiglianza, per la quale l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di tutta la Trinità: per la memoria è simile al Padre, per l’intelligenza al Figlio, per l’amore allo Spirito Santo. Dice infatti Agostino: "Che io ti ricordi, che io ti comprenda, che io ti ami". L’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio: immagine per la conoscenza della verità, somiglianza per l’amore alla virtù. Quindi la luce del tuo volto è la grazia della giustificazione, di cui viene insignita l’immagine creata. Questa luce è tutto e il vero bene dell’uomo, con il quale viene come contrassegnato, come il denaro lo è con l’effigie del re. E quindi il Signore, in questo vangelo, conclude: "Date a Cesare quello che è di Cesare, e date a Dio quello che è di Dio" ( Mt 22,21 ). Come dicesse: Come date a Cesare la sua effigie, così date a Dio l’anima, illuminata e segnata con la luce del suo volto. 11. Su tutto questo abbiamo la concordanza nel profeta Zaccaria: "Guardavo, ed ecco un candelabro tutto d’oro; sulla sua sommità c’era una lampada con sette lucerne e sette beccucci per le lucerne. E presso il candelabro due ulivi, uno a destra e uno a sinistra della lampada" ( Zc 4,2-3 ). Vedremo quale sia il significato morale di questi cinque oggetti: del candelabro, della lampada, delle lucerne, dei beccucci e dei due ulivi. Il candelabro e il denaro, la lampada e l’immagine hanno lo steso significato. Il candelabro raffigura l’anima, che è detta tutta d’oro perché è fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Dice infatti l’Ecclesiastico: "Dio formò l’uomo dalla terra, e lo fece a sua immagine" ( Sir 17,1 ), affinché così sia in grado di vivere, di sentire, e abbia la memoria, l’intelletto e la volontà. Per questo gli ha detto: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore", ecc., vale a dire con l’intelletto, con la volontà e la memoria. Come il Figlio è dal Padre, e da entrambi è lo Spirito Santo, così dall’intelletto è la volontà, e da entrambi la memoria: e senza queste tre facoltà l’anima non può essere completa, perfetta; e per quanto riguarda l’eterna felicità, uno solo di questi doni, senza gli altri, non è sufficiente. E come Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo non sono tre dèi ma sono un solo Dio in tre Persone, così anche l’anima intelletto, l’anima volontà e l’anima memoria non sono tre anime ma un’anima sola, che ha tre potenze, nelle quali presenta in modo meraviglioso l’immagine di Dio. E con queste tre facoltà, in quanto sono le facoltà superiori, ci è comandato di amare il Creatore, affinché ciò che si comprende e si ama, sia anche sempre nella memoria. E per Dio non basta l’intelletto, se all’amore verso di lui non partecipa anche la volontà; e neppure l’intelletto e la volontà sono sufficienti, se non vi si aggiunge la memoria, per mezzo della quale Dio è sempre presente in chi lo intende e lo ama. E poiché non c’è istante nel quale l’uomo non fruisca o non abbia bisogno della bontà di Dio, così Dio dev’essere sempre presente nella sua memoria. Inoltre, l’uomo è fatto a somiglianza di Dio perché, come Dio è amore, è buono, giusto, benigno, misericordioso, così l’uomo deve avere anche lui l’amore, essere buono, giusto, benigno, misericordioso, ecc. "Vidi – dunque – un candelabro tutto d’oro, e sulla sua sommità una lampada". La lampada raffigura l’infusione della grazia, con la quale l’anima viene illuminata. Del giusto, illuminato da questa lampada, Giobbe dice: "Viene derisa la semplicità del giusto. È una lampada disprezzata nella considerazione dei ricchi, ma preparata per il tempo stabilito" ( Gb 12,4-5 ). Commenta Gregorio: La semplicità del giusto è chiamata lampada, e disprezzata: lampada, perché fa luce interiormente nella coscienza; disprezzata, perché nella considerazione dei carnali è stimata senza alcun valore, e dai saccenti è ritenuta stoltezza. Ritengono come morti coloro che non intendono vivere secondo la carne, come loro. E il tempo stabilito per la lampada disprezzata è il giorno stabilito da Dio per l’ultimo giudizio: allora sarà manifesto di quanta gloria rifulgeranno tutti i giusti, che ora sono così disprezzati. 12. E su di esso sette lucerne e sette beccucci", per mezzo dei quali si alimentano di olio le lucerne. Considera che le sette lucerne raffigurano le sette beatitudini, e i sette beccucci raffigurano le sette parole pronunciate da Cristo sulla croce: ne vedremo la reciproca corrispondenza. Beati i poveri nello spirito perché di essi è il regno dei cieli ( Mt 5,3 ). - Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno ( Lc 23,34 ). Beati i miti perché possederanno la terra ( Mt 5,4 ). - In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso ( Lc 23,43 ). Beati quelli che piangono perché saranno consolati ( Mt 5,5 ). - Donna, ecco il tuo figlio. Quindi disse al discepolo: Ecco tua madre ( Gv 19,26-27  ). Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati ( Mt 5,6 ). - Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ( Mt 27,46 ). Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia ( Mt 5,7 ). - Ho sete! ( Gv 19,28 ). Beati i puri di cuore perché vedranno Dio ( Mt 5,8 ). - Tutto è compiuto ( Gv 19,30 ). Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio ( Mt 5,9 ). - Padre, nelle tue mani affido il mio spirito ( Lc 23,46 ). Chi è ricco della povertà di spirito può realmente pregare per i suoi persecutori e dire con Gesù Cristo: "Padre, perdona loro". Chi è umile di spirito perdona a chi gli fa del male e prega per loro. L’opposto fa invece Edom, il peccatore superbo, del quale per bocca di Amos il Signore dice: "Per tre misfatti di Edom, e per quattro, non lo richiamerò più a me: perché ha inseguito con la spada il suo fratello, perché gli ha negato misericordia, perché ha covato il rancore contro di lui e perché ha conservato l’odio sino alla fine. Appiccherò il fuoco a Teman e divorerà il palazzi di Bozra" ( Am 1,11-12 ). Il primo peccato consiste nel pensare il male, il secondo nel consentire, il terzo nel portarlo ad esecuzione e il quarto nel non pentirsene. Chi, dopo aver commesso i primi tre peccati, si pente, il Signore lo richiama dinanzi al suo volto misericordioso; se invece non si pente, il Signore distoglie da lui il suo sguardo di misericordia. Edom, come dice qui la Glossa, è lo stesso che dire Esaù e Seir: sono i tre nomi della stessa persona Esaù perseguitò Giacobbe, lo spaventò e lo costrinse a fuggire in Mesopotamia e non ebbe nei suoi riguardi la minima pietà. E l’odio che era stato nel padre lo conservarono gli Idumei, nati da lui, contro i figli di Giacobbe, tanto che non permisero loro di passare per le proprie terre quando uscirono dall’Egitto per ritornare nella Terra Promessa: in questo violarono la legge della pietà, perché ignorarono che essi erano fratelli. Fanno tutto questo coloro che odiano i propri fratelli, che non sono poveri nello spirito; perciò il Signore farà scendere il fuoco della Geenna su Teman, che significa "austro", meridione, cioè su coloro che nel tempo della prosperità mondana vivono da dissoluti; "quel fuoco divorerà i palazzi di Bozra", che vuol dire "fortificata", cioè divorerà quelli che si difendono con ogni sorta di scuse, per restare nei loro peccati. Senso morale. Edom s’interpreta "sanguinario" e raffigura la nostra carne che gode del sangue della gola e della lussuria; essa perseguita, con la spada della concupiscenza, il suo fratello Giacobbe, cioè il nostro spirito, e vuole così violare la misericordia, che per comando di Dio gli è dovuta. Perciò Giacobbe, il nostro spirito, rivolge la sua supplica al Signore dicendo: "Scampami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho grande paura di lui; fa’ che egli non arrivi e colpisca madre e bambini" ( Gen 32,11 ). Lo spirito ha paura della carne e prega di essere salvato dalla mano, dalla protervia della sua concupiscenza, la quale, se riesce a strappare il consenso, colpisce la madre insieme con i figli, cioè la ragione con tutti i suoi sentimenti, o anche l’anima stessa con tutte le sue opere buone. 13. Chi è mite, chi non scaglia offese né si offende se le riceve, chi non scandalizza e non resta scandalizzato, sarà degno di sentire, insieme con il buon ladrone, che anzi fu confessore: "Oggi sarai con me nel paradiso", che è appunto la terra dei viventi, che i miti possederanno. Questa terra non la potranno possedere gli avari i quali, come bestie feroci, si logorano la mente nell’accumulare, e scandalizzano gli altri con le loro rapine. Perciò non sentiranno mai il tenue spirare di una brezza leggera: "Oggi sarai con me nel paradiso", ma dovranno ascoltare il tuono della divina condanna: "Andate, maledetti, al fuoco eterno!" ( Mt 25,41 ). Ecco che cosa sta scritto di costoro nel libro di Zaccaria. "L’angelo mi disse: Alza i tuoi occhi e osserva ciò che sta per apparire. E io: Che cosa è quella? Rispose: Quella che appare è un’anfora. Poi soggiunse: L’anfora raffigura ciò che essi vedono in tutta la terra. Fu quindi portato un talento [ un grande peso ] di piombo; ed ecco che dentro all’anfora vi era una donna. E l’angelo disse: Questa è l’empietà. Quindi la ricacciò nell’anfora e pose sulla bocca dell’anfora la massa di piombo. Io alzai i miei occhi e osservai: ed ecco che arrivarono due donne, e il vento agitava le loro ali, poiché avevano ali come quelle del nibbio, e sollevarono l’anfora tra la terra e il cielo. E io domandai all’angelo che parlava con me: Dove portano l’anfora? Mi rispose: Nella terra di Sennaar, per costruirle una casa" ( Zc 5,5-11 ). L’anfora raffigura l’avarizia, la cui bocca non si chiude, ma resta sempre aperta nella brama delle cose temporali. E questo è ciò che si vede su tutta la terra, perché tutti sanno e tutti conoscono l’avarizia, e l’hanno sotto gli occhi. Socia dell’avarizia è la massa di piombo, ossia la dannazione eterna, che è come una grossa palla in bocca che non si può né inghiottire né rigettare. Le due donne sono la rapina e il furto. La rapina riguarda le persone altolocate, il furto quelle più modeste. È detto che hanno ali di nibbio, che è un uccello rapace. Il nibbio è chiamato in lat. milvus, come dire mollis avis, cioè uccello soffice, morbido: questo per il suo volo e anche per la sua forza limitata; però è un uccello voracissimo che attacca gli uccelli domestici, e perciò raffigura i predatori altolocati. Quest’anfora viene sollevata tra cielo e terra, perché l’avaro si sceglie il posto non nel cielo con gli angeli, né in terra con gli uomini, ma nell’aria ( impiccato ) con Giuda, il traditore, e con i demoni ( le potenze dell’aria ). E le due donne non lasciano andare l’avaro finché non l’avranno portato nella terra di Sennaar, cioè nel luogo del fetore, vale a dire nell’inferno. Sennaar infatti s’interpreta "fetore". 14. Chi piange per i propri peccati o per quelli del prossimo, o per la miseria di questo esilio terreno, o per il ritardo di giungere al Regno dei cieli, viene consolato dal Signore, il quale consolò la Madre sua, che piangeva per la sua passione, dicendole: "Donna, ecco il tuo figlio!". E il profeta Naum dice in proposito: "Buono è il Signore: egli consola nel giorno della tribolazione e non dimentica coloro che confidano in lui" ( Na 1,7 ). E il profeta Zaccaria: "Io sarò per lui come un muro di fuoco all’intorno, e sarò una gloria in mezzo ad esso" ( Zc 2,5 ). Si legge nel libro dell’Esodo: "La rugiada si posò tutt’intorno all’accampamento" ( Es 16,13 ). Cristo in difesa dei suoi è come un muro di fuoco che distrugge i nemici, e in mezzo a loro un trionfo che li rincuora. 15. Chi ha fame e sete di giustizia dà a ciascuno il suo, cioè a Dio e al prossimo l’amore, e a se stesso la penitenza per i peccati commessi. Questa triplice giustizia è indicata da quelle tre parole: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Due volte chiama "Dio", proprio per ricordare il duplice precetto della carità; e "mi hai abbandonato" per ricordare la pena corporale. E la Glossa commenta: "Perché mi hai abbandonato?", cioè: Perché mi hai esposto a sì grande sofferenza?, dice il Figlio al Padre. E di queste tre parole dice Abacuc: "Il giusto vive per la sua fede" ( Gal 3,11; cf. Ab 2,4 ). È detto giusto perché rispetta i diritti. "Giusto", si riferisce a se stesso, "per la fede" si riferisce a Dio, "vive" si riferisce al prossimo. Chi è giusto osserva i diritti verso di sé giudicandosi e condannandosi, vive per la fede in Dio, nell’amore del prossimo. "Chi invece non ama – dice Giovanni – rimane nella morte" ( 1 Gv 3,14 ). 16. Chi è misericordioso verso gli altri, Dio è misericordioso vero di lui. I Giudei, senza misericordia, non fecero questo: essi a Cristo appeso in croce, arso dalla sete, non offrirono un bicchiere di acqua fresca, ma aceto mescolato a fiele; e Cristo, assaggiatolo, non volle bere ( cf. Mt 27,34 ), perché assaporò sì l’amarezza, cioè la pena delle nostre colpe, ma non volle assimilare a sé i nostri peccati. La stessa cosa fanno oggi con Cristo i falsi cristiani, peggio ancora dei Giudei; e quindi nel tempo della tribolazione non troveranno misericordia. Tieni presente che nell’aceto si devono considerare tre momenti: dapprima è vino non ancora maturo; poi diventa vino perfetto, e infine guastandosi diventa aceto. La stessa cosa avviene nel falso cristiano: prima del battesimo è uva selvatica e aspra, perché è ancora infedele; tutti – dice l’Apostolo – nasciamo figli dell’ira ( cf. Ef 2,3 ). Ricevuto il battesimo diventa come un vino profumato, e questo per opera della fede; ma poi si è trasformato in aceto per causa del peccato mortale. Si dice aceto in quanto è acuto, pungente, o anche annacquato. Infatti il vino mescolato con l’acqua prende presto il gusto di aceto, e si dice "acido", come a dire aquidus, acquoso. Quando un fedele cristiano si mescola all’acqua del piacere carnale, subito si trasforma nell’aceto del peccato mortale, che per quanto sta in lui offre a Cristo, non dico appeso alla croce, ma che già regna nel cielo. Ecco dunque che Cristo si lamenta dolorosamente con le parole di Isaia: "Aspettai che la mia vigna producesse uva, ma essa fece uve selvatiche" ( Is 5,4 ). E per chiarire il suo pensiero, sempre Isaia aggiunge: "Aspettavo che operasse la giustizia, ed essa operò l’iniquità; aspettavo rettitudine ed ecco grida di oppressi" ( Is 5,7 ). L’uva selvatica è chiamata in lat. labrusca ( it. lambrusca, abròstine ), perché sporge sulle labbra, sui margini delle strade. Le opere del peccatore, cioè l’iniquità, l’avarizia, la lussuria, sono come uve selvatiche che pendono lungo la strada e che vengono strappate e portate via dai passanti. Dice Ezechiele: "Ad ogni crocicchio di strada hai innalzato il segnale della tua prostituzione, hai deturpato la tua bellezza e ti sei offerta ad ogni viandante" ( Ez 16,25 ). 17. Chi vuole conservare la purezza del cuore, per poter vedere Dio, è necessario che ponga fine ad ogni peccato, per dire con Gesù: "Tutto è compiuto", tutto è finito. Ma le malvagità degli Amorrei non sono ancora finite e perciò, come dice Isaia, sarà il Signore, Dio degli eserciti, che abbrevierà e decreterà la fine delle malvagità su tutta la terra" ( Is 10,23 ). Ed Ezechiele: "Questo dice il Signore Dio: La fine viene, viene la fine sulle quattro parti della terra. Adesso è la fine per te, scaglio contro di te la mia ira e ti giudicherò per le tue opere" ( Ez 7,2-3 ). 18. Chi ha la pace del cuore merita veramente di essere chiamato figlio di Dio Padre, al quale, insieme con il suo Unigenito, dice nell’ora della sua morte: Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!, perché dalla pace del cuore passa alla pace dell’eternità. Il Padre stesso, per bocca di Isaia, promette: "Nella gioia uscirete" dal corpo, "e nella pace sarete condotti; monti e colli", cioè grandi e piccoli; e le potenze angeliche "vi canteranno inni di lode; e anche tutti gli alberi della regione", vale a dire tutte le anime dei santi, che già fruiscono della felicità del cielo, "vi applaudiranno", esultando per il vostro arrivo ( Is 55,12 ). Queste sono le sette lucerne e i sette beccucci, con i quali s’illumina il candelabro, e il denaro ( la moneta ), cioè l’anima, viene contrassegnata con l’effigie del Re. 19. "E vicino al candelabro due ulivi, uno a destra della lampada e l’altro alla sua sinistra". La lampada raffigura l’illuminazione della grazia. I due ulivi sono la speranza e il timore, che custodiscono la grazia che è stata infusa; la speranza del perdono è alla destra, il timore del castigo alla sinistra. Dice Michea in proposito: "Ti indicherò, o uomo, che cosa sia bene e che cosa il Signore richieda da te: praticare la giustizia", dalla quale viene il timore, "amare la misericordia", cioè le opere di misericordia, dalle quali nasce la speranza, "e camminare umilmente con il tuo Dio" ( Mic 6,8 ). E la Glossa: In tutto questo non cercare altra ricompensa se non di piacere a Dio e con lui camminare, come Enoc, e allora anche tu, come Enoc, sarai da lui trasportato via ( cf. Eb 11,5 ). Dove ci sono timore e speranza, lì c’è un vita impegnata in Dio. E considera ancora che l’olio galleggia su tutti i liquidi, e per questo simboleggia la speranza, che ha per oggetto le cose eterne, le quali sono al di sopra di ogni bene transitorio. Infatti si chiama speranza, in lat. spes, perché è il piede, in lat. pes, per camminare verso il Signore. Speranza è attesa dei beni futuri, ed essa esprime il sentimento dell’umiltà e un’attenta dedizione di sudditanza. L’olio inoltre condisce i cibi, e anche noi dobbiamo condire con il timore di Dio tutto ciò che facciamo. Dice il salmo: "Servite il Signore nel timore" ( Sal 2,11 ), e chi è in piedi stia attento a non cadere ( cf. 1 Cor 10,12 ). Affinché la sudditanza non sembri servile, aggiunge: "ed esultate". Ma perché questa esultanza non sconfini nella temerarietà, aggiunge ancora: "con tremore" ( Sal 2,11 ). Ecco che adesso è chiaro per tutti che cosa significhino e come concordino il denaro contrassegnato dall’effigie e il candelabro illuminato con la lampada. Diciamo dunque anche noi: "Di chi è questa effigie e l’iscrizione?". L’iscrizione sulla moneta è il nome di Cristo, che per il cristiano è al di sopra di ogni altro nome ( cf. Fil 2,9 ). Infatti noi prendiamo il nome da Cristo e da nessun altro. Cristo stesso dice nel salmo: "Nel tuo libro tutti saranno scritti; giorni si formeranno e nessuno in essi" ( Sal 139,16 ). Spiega la Glossa: "O Padre, nel tuo libro", cioè in me che sono il libro della vita, "saranno scritti tutti" i miei fedeli, saranno cioè formati e chiamati per nome. "I giorni", cioè i più grandi, come gli apostoli – dei quali è detto: "Il giorno al giorno affida la parola" ( Sal 19,3 ) – saranno formati" in me, da cui prendono la perfezione della grazia, "e nessuno" dei miei sarà formato "in essi" [ negli apostoli ], perché i cristiani non possono dire di essere di Pietro, o di Paolo, ma solo di Cristo ( cf. 1 Cor 1,12 ), dal quale prendono il nome di cristiani. 20. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell’epistola: "La nostra patria è nel cielo" ( Fil 3,20 ). Affinché la nostra patria sia nel cielo, dobbiamo pregare il Signore che faccia con noi, ciò che egli ha fatto con Giosuè, figlio di Josedech, come si legge in Zaccaria: "Toglietegli quelle vesti immonde. Poi disse a Giosuè: Ecco, io ti ho tolto di dosso l’iniquità e ti ho fatto indossare le vesti di ricambio. E continuò: Mettetegli sul capo un diadema mondo. E gli misero sul capo un diadema mondo e lo rivestirono di vesti candide" ( Zc 3,4-5 ). Le vesti immonde raffigurano la vita mondana, che insudicia l’anima e la coscienza. Dice l’Apocalisse: "L’impuro continui ad essere impuro" ( Ap 22,11 ). E Geremia: "Nei suoi piedi c’è la sporcizia" ( Lam 1,9 ), cioè la vita disordinata dura fino alla fine della vita. E Gioele: "I giumenti marciscono nel loro sterco" ( Gl 1,17 ). "Ecco, io ti ho tolto la tua iniquità". Queste sono le vesti immonde. Prima il Signore toglie di dosso il sudiciume del precedente genere di vita e poi fa indossare le vesti di ricambio, cioè le virtù, i costumi onesti, nei quali appunto consiste la forma di vita che porta al cielo. "Mettetegli sul capo un diadema mondo". Il diadema è la mitria, che ha due corni, nei quali è simboleggiata la conoscenza dei due Testamenti o anche la pratica dei due comandamenti della carità. Quindi la mitria sul capo raffigura la scienza e la doppia carità nella mente. Le vesti candide sono le opere di purezza nella carne. Dice infatti il Signore nell’Apocalisse: "Cammineranno con me avvolti in candide vesti, perché ne sono degni ( Ap 3,4 ), in quanto la loro patria è il cielo. "Di lassù aspettiamo come salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, che trasfigurerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso" ( Fil 3,20-21 ). Ecco in che modo la moneta sarà contrassegnata con l’effigie del nostro Re. Chi vive nel mondo, ma non secondo la vita del mondo, ma secondo quella del cielo, può attendere con sicurezza il Salvatore. E il profeta Amos, per contrasto, dice: "Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Quel giorno sarà tenebre e non luce" ( Am 5,18 ), cioè tribolazione e non prosperità. In quel giorno vedranno che le loro opere, che adesso sembrano loro luminose, sono invece tenebrose. Molti superbi, come commenta la Glossa, per sembrare giusti, dicono di aspettare anche loro il giorno del giudizio, o il giorno della morte, per incominciare ad essere con Cristo. Ma a costoro il profeta rivolge le sue minacce, perché nessuno è senza peccato, e proprio per il fatto di non temere per se stessi, sono degni dell’eterno supplizio. Aspettano dunque il Signore Gesù con sicurezza e tranquillità, solo coloro che conducono quaggiù una vita degna del cielo. 21. Ecco perché la santa chiesa, nell’introito della messa di oggi, invita a innalzare il canto di lode a Gesù Cristo, dicendo: "Applaudite, popoli tutti, acclamate a Dio con voci di esultanza" ( Sal 47,2 ). O genti tutte, convertite alla fede e alla penitenza, che conducete una vita degna del cielo, rallegratevi nell’operare il bene! Come dicesse: Siano concordi le mani e la lingua; le mani operino la fede e la lingua la professi. Si legge nel Levitico che alla tortora offerta in sacrificio il capo doveva essere ripiegato verso le ali ( cf. Lv 5,8 ), e questo simboleggia appunto la coerenza tra parole e opere. E qual è il motivo per il quale si deve applaudire e giubilare? Questo: il Signore trasformerà il nostro corpo misero e vile, perché diventi come la moneta con sopra impressa l’effigie del re, rendendolo cioè conforme al suo corpo di gloria, perché saremo simili a lui ( cf. 1 Gv 3,2 ), e lo vedremo faccia a faccia ( cf. 1 Cor 13,12 ), così come egli è, e il suo glorioso splendore si rispecchierà nel nostro volto. Su dunque, carissimi fratelli, supplichiamo e imploriamo il nostro Salvatore, il Signore Gesù Cristo, perché voglia trasformare e illuminare il denaro e il candelabro, cioè la nostra anima, con la sua effigie e con la sua luce, affinché, trasformati nell’anima e nel corpo, meritiamo di essere resi conformi alla sua luce nella gloria della risurrezione Si degni di concederci tutto questo colui che è Dio benedetto, glorioso ed eccelso nei secoli eterni. E ogni anima, contrassegnata della sua effigie, canti: Amen. Alleluia! Domenica XXIV dopo Pentecoste Temi del sermone - Vangelo della domenica ventiquattresima dopo Pentecoste: "Mentre Gesù parlava alle turbe"; si divide in due parti. - Anzitutto sermone sulla creazione degli angeli e delle anime, sulla predicazione e sulla fede: "Prepàrati all'incontro con Dio". - Sermone sul giorno della Pentecoste: "Quando sentirai il rumore di chi sale". - Parte I: Sermone sulle quattro lucerne e il loro significato: "Perlustrerò Gerusalemme con lucerne". - La custodia del cuore: "Starò di guardia". - Sermone ai penitenti sulla confessione: "Alzai i miei occhi e guardai: ed ecco un uomo". - I quattro corni di cui parla Zaccaria e il loro significato: "Alzai i miei occhi e vidi quattro corni" - Sermone ai claustrali: "Ecco, io l'allatterò". - Parte II: Sermone contro i carnali, dediti al sestetto di vizi: "Seguirò i miei amanti". - Contro coloro che, nella malattia, si fidano ciecamente dei medici e confidano nelle ricchezze: "Asa si ammalò". - Sermone sulla passione di Cristo: "Toccò il lembo della sua veste". Esordio - Creazione degli angeli e delle anime; la predicazione e la fede 1. "In quel tempo: Mentre Gesù parlava alle turbe, gli si avvicinò uno dei capi che gli si prostrò dinanzi e gli disse: Signore, mia figlia è morta proprio ora" ( Mt 9,18 ). Dice il profeta Amos: "Prepàrati all'incontro con il tuo Dio, o Israele. Ecco colui che forma i monti e crea il vento, e annunzia all'uomo la sua parola, che produce la nebbia del mattino e cammina sulle alture della terra: Signore, Dio degli eserciti è il suo nome" ( Am 4,12-13 ). Fa' attenzione a queste cinque cose: i monti, il vento, la parola, la nebbia e le alture della terra. Senso allegorico. "O Israele", cioè o anima fedele che per mezzo della fede vedi Dio, "prepàrati all'incontro con il tuo Dio", perché è vicino il suo avvento, che si celebrerà nella prossima domenica Forse domanderai: Questi chi è? "È colui che forma i monti", cioè gli spiriti angelici, che per la sublimità della loro gloria vengono detti monti. Infatti si legge nel Cantico dei Cantici: "Eccolo che viene, saltando per i monti e balzando per le colline" ( Ct 2,8 ). Il Figlio di Dio, venendo con l'incarnazione, valicò i cori degli angeli, tanto maggiori che minori, e preparò il suo messaggero. "Colui che crea il vento", cioè le anime, delle quali dice il salmo: "Volò sulle ali dei venti" ( Sal 18,11 ), perché l'incomprensibilità di Gesù Cristo, come spiega qui la Glossa, supera tutte le potenze ( capacità ) delle anime, con le quali però le anime si innalzano, come con delle ali, al di sopra dei terreni timori nelle aure della libertà. Anche Giobbe dice: "Egli diede al vento il peso" ( Gb 28,25 ); Dio diede alle anime il peso del corpo perché non si perdessero con la superbia, come fece il diavolo. "E annunzia all'uomo la sua parola". Creare vuol dire fare qualcosa dal nulla. Dio crea le anime dal nulla perché, come dice Agostino, "infondendo crea e creando infonde". Infatti nel salmo è detto: "Colui che plasmò ad uno ad uno i loro cuori" ( Sal 33,15 ), cioè, spiega la Glossa, creò le anime ad una ad una, cioè ognuna per se stessa dal nulla, e non da Adamo come sostengono alcuni, credendo che l'anima provenga da un'altra anima. Colui dunque che creò le anime, egli stesso annunzia ad esse la sua parola, di cui l'anima vive, e di cui dice il salmo: "La tua parola è fortemente infiammata" ( Sal 119,140 ). E la Glossa: Brucia la parola di Dio per purificare la coscienza del peccatore, per purificare i cuori come la fornace purifica l'oro, infiamma di amore di Dio e illumina coloro che l'ascoltano. "Che fa le nebbie del mattino e cammina sulle alture della terra". Dice la Glossa: La nebbia è una specie di spessore dell'aria, e simboleggia lo spessore della fede, che viene concepita al mattino cioè al momento del battesimo Le alture della terra sono le virtù o anche i santi, posti alla sommità delle virtù. Dio però supera le virtù di tutti e cammina nei cuori dei suoi. 2. Su tutto questo abbiamo una concordanza nel secondo libro dei Re, dove il Signore dice a Davide: "Quando sentirai il suono [ dei passi ] di chi cammina sulla cima dei peri, ( la cima coperta di piante di pero ), lànciati subito all'attacco perché allora il Signore uscirà davanti a te per sconfiggere l'esercito dei Filistei" ( 2 Sam 5,24 ). Il nome del pero, in lat. pyrus, viene dal greco pyr, che significa fuoco. Il frutto di quest'albero sembra avere la forma del fuoco, perché parte da una base larga e poi verso l'alto va assottigliandosi come il fuoco. I frutti del pero sono perciò figura dei santi, ardenti del fuoco della carità, le cui opere partono dall'ampiezza della carità per finire poi nel restringimento dell'umiltà Ad essi infatti il Signore dice: "Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili" ( Lc 17,10 ). La cima dove si trovano questi peri raffigura l'elevatezza della vita: infatti cima, in lat. cacumen, suona come capitis acumen, cioè acutezza del capo. Il suono ( dei passi ) raffigura l'infusione della grazia di Gesù Cristo, che cammina nella vita perfetta dei santi.  Quando questo suono viene sentito dal giusto, i filistei, cioè i moti della carne o dello spirito maligno, vengono sconfitti. Chi dunque è riuscito a fare tutte le cose suddette, ha potuto certamente liberare la donna dall'emorragia e risuscitare la figlia dell'archisinagogo. E quindi leggiamo nel vangelo di oggi: "Mentre Gesù parlava alle turbe ", ecc. 3. In questo vangelo sono posti in evidenza due miracoli: la guarigione della donna dall'emorragia, e la risurrezione della figlia dell'archisinagogo. Il primo dove dice: "Ecco che una donna". Il secondo: "Arrivato Gesù nella casa dell'archisinagogo". Oggi la messa non ha l'introito proprio. Si legge un brano della lettera del beato Paolo apostolo ai Colossesi: "Non cessiamo di pregare per voi" ( Col 1,9 ), che divideremo in due parti e di cui vedremo la concordanza con le due parti del vangelo. Prima parte: "Non cessiamo di pregare per voi". Seconda parte: "Ringraziando con gioia il Padre". Nel vangelo di oggi Matteo parla della guarigione della donna che soffriva di emorragia e della risurrezione della fanciulla. Paolo nella sua lettera prega affinché abbiamo una piena conoscenza della volontà di Dio, la quale ferma il flusso del sangue, cioè del piacere carnale, e dice che siamo stati strappati dal potere delle tenebre, come la fanciulla è stata strappata dalle tenebre della morte. Ecco perché questa epistola viene letta insieme con questo vangelo. I. Risurrezione della figlia dell'archisinagogo 4. "Mentre Gesù parlava alle turbe" ( Mt 9,18 ). Considera che la morte della fanciulla e il flusso del sangue sono figura del peccato mortale, che si fa con il consenso della mente e con l'esecuzione dell'opera cattiva. Trattiamo prima della morte della fanciulla. "Giunse uno dei capi che gli si prostrò davanti e gli disse: Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà" ( Mt 9,18 ). Marco e Luca dicono che l'archisinagogo si chiamava Giairo ( cf. Mc 5,22; Lc 8,41 ). Giairo s'interpreta "illuminato" o "illuminante", ed è figura del cristiano, che dev'essere illuminato e illuminare a sua volta con quelle lampade di cui parla Sofonia: "In quel tempo perlustrerò Gerusalemme con lampade e farò giustizia degli uomini immersi nelle loro immondezze" ( Sof 1,12 ). Considera che le lampade sono quattro. La prima è quella della parola di Dio: "La tua parola è lampada ai miei piedi e luce sui miei sentieri" ( Sal 119,105 ). E fa' attenzione che dice prima "piedi" e poi "sentieri", perché quando ascoltiamo la parola di Dio, prima veniamo illuminati nel cuore, per poter poi camminare sul retto sentiero. La seconda lampada è quella delle buone opere: "Siano i vostri fianchi cinti e le lampade accese nelle vostre mani ( Lc 12,35 ). Teniamo in mano le lampade accese quando mostriamo al prossimo le opere buone. La terza lampada è quella della retta intenzione, che illumina tutte le opere buone; di essa parla Matteo: "La lampada del tuo corpo" , cioè delle tue opere, "è il tuo occhio", cioè la tua intenzione. "Se il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà luminoso" ( Mt 6,22 ). La quarta è quella dell'umanità di Cristo, della quale parla Luca: "Quale donna se ha dieci dramme e ne perde una" ( Lc 15,8 ), ecc. Su questo vedi il sermone della III domenica dopo Pentecoste, III parte, dove è spiegato questo stesso vangelo. Dice dunque il Signore: Nel momento del giudizio "perlustrerò Gerusalemme", esaminerò cioè ogni cristiano, "con lampade": guarderò se ha emendato la sua vita secondo la parola ascoltata nella predicazione; se ha mostrato agli altri le luce delle opere buone; se ha agito con retta intenzione e se ha conformato la sua vita all'esempio di povertà e di umiltà di Cristo. E allora il Signore "farà giustizia degli uomini" che confidano nelle proprie forze, "immersi nelle loro immondezze", cioè ostinati nel loro peccato. Questo Giairo è chiamato capo della sinagoga, perché ogni cristiano dev'essere capo, cioè deve comandare al suo corpo, che è come una sinagoga. "Un mucchio di stoppa è la sinagoga dei peccatori e la loro fine è una fiammata di fuoco" ( Sir 21,10 ). I cinque sensi del corpo sono come un mucchio di stoppa, perché con facilità si infiammano al fuoco della concupiscenza, e quindi Giairo deve dominarli, per poter dire con il profeta Abacuc: "Starò di guardia, con piede fermo sulla fortezza: starò attento per sentire che cosa mi si dirà, e come dovrò rispondere a chi mi redarguisce" ( Ab 2,1 ). Sta in guardia colui che custodisce il suo cuore con ogni diligenza; e ferma il piede sulla fortezza colui che reprime i sentimenti della carne con il fermo proposito di perseverare sino alla fine; e così starà attento per sentire che cosa gli sarà detto e che cosa potrà rispondere a chi lo redarguisce. È appunto ciò che dice Giobbe: "Esporrò davanti a lui la mia causa e riempirò la mia bocca di recriminazioni ( lamenti ), saprò così le parole con cui mi risponde e comprenderò quello che mi dice" ( Gb 23,4-5 ). E Gregorio commenta così: Esporre davanti a Dio la propria causa significa aprire, nel segreto della mente, gli occhi della nostra attenzione e scrutare per mezzo della fede per poter comprendere il suo interrogatorio. Riempie la sua bocca di recriminazioni, o lamenti, perché mentre ascolta attentamente la discussione del giudice contro di sé, punisce se stesso imponendosi una dura penitenza. "Saprò così le sue parole": quando perseguitiamo le nostre colpe castigandole, troviamo subito che cosa possa dire di esse il giudice giusto nella sua disamina; invece non lo sa colui che trascura i suoi mali. Se il capo della sinagoga agirà in questo modo, potrà con la fede accostarsi a Gesù e adorarlo con devozione, dicendo: "Signore, la mia figlia è morta proprio adesso". La figlia dell'archisinagogo morta in casa è figura dell'anima del cristiano, morta nella casa della coscienza, a motivo del consenso dato al peccato. Dice infatti Amos: "La vergine d'Israele è stata gettata per terra, e non c'è chi sia in grado di farla rialzare" ( Am 5,2 ). Ricorda che c'è un duplice stato: quello della giustizia e quello della giustificazione; quello della giustizia, quando l'uomo, dopo che gli è stata infusa la grazia, non commette più alcun peccato mortale; quello della giustificazione, quando dopo essere caduto, si rialza. È vero che l'uomo dopo la caduta, anche se si rialza, non ha più la stessa gloria, cioè lo stesso stato di gloria, perché è impossibile che non abbia perduto lo stato precedente; tuttavia può conseguire anche una gloria maggiore se avrà una maggiore carità. La "vergine d'Israele" è figura dell'anima: è vergine per la fede, Israele per la speranza; e viene gettata per terra quando acconsente alla concupiscenza della sua misera carne "Ma vieni, imponi la mano su di lei, ed essa vivrà". O buon Gesù, dov'è la tua mano, là è la nostra vita! "La mano del Signore era con me e mi fortificava" ( Ez 3,14 ), dice Ezechiele. Fa' attenzione alle tre parole: vieni, imponi la mano, e vivrà. O Signore Gesù, "vieni" e sovvieni, infondendo la grazia, affinché la figlia, cioè l'anima mia, sia contrita; "imponi la mano", affinché si confessi: "Il Signore stese la sua mano e toccò la mia bocca" ( Ger 1,9 ), affinché confessasse il peccato; "e così vivrà", della vita della grazia al presente, e della vita della gloria in futuro. 5. E su questo abbiamo la concordanza nel profeta Zaccaria, dove dice: "Alzai i miei occhi, ed ecco, vidi un uomo che aveva in mano una fune per misurare. Gli domandai: Dove vai? Rispose: Vado a misurare Gerusalemme per vedere qual è la sua lunghezza e quale la sua larghezza" ( Zc 2,1-2 ). Vediamo il significato di queste sei cose: l'uomo, la sua mano, la fune, Gerusalemme, la sua lunghezza e la sua larghezza. L'uomo è Cristo, di cui dice Zaccaria: "Ecco un uomo il cui nome è Oriente" ( Zc 6,12 ). Il suo nome è Gesù Cristo, cui corrisponde "uomo Oriente", Gesù Salvatore. Ecco l'uomo, in lat. vir, che con la sua potenza, in lat. virtus, ha salvato il suo popolo. Cristo viene da crisma. Ecco l'Oriente che ha illuminato tutti quelli che si trovavano nelle tenebre ( cf. Lc 1,79 ). La mano di quest'uomo è la sua misericordia, della quale è detto: "Lo scongiuravano che gli imponesse la mano" ( Mc 7,32 ). Su questo vedi anche il sermone della XII domenica dopo Pentecoste sul vangelo "Gesù, uscito dal territorio di Tiro, attraversò Sidone". La fune per misurare raffigura la confessione dei peccati. Dice infatti Salomone: "Una fune a tre capi non si rompe tanto facilmente" ( Qo 4,12 ). Osserva che nella confessione il peccatore deve compiere tre atti: pentirsi dei peccati commessi, avere un fermo proposito di non ricadervi, obbedire a tutto ciò che gli comanda il suo confessore. Se la nostra barca viene legata al legno della croce del Signore con questa fune, non potrà mai venir strappata. Questa fune sta nelle mani di Cristo, che dà la grazia della confessione a chi vuole, secondo la scelta della sua misericordia. Con questa corda egli misura Gerusalemme, cioè l'anima del penitente, per vedere, e per far vedere anche a lui, qual è la lunghezza, cioè la durata della perseveranza, e quale la larghezza, cioè l'ampiezza della duplice carità. Chi commette il peccato mortale offende Dio, danneggia se stesso e scandalizza il prossimo; quando però si pente e si confessa, con il proposito di perseverare sino alla fine, allora si riconcilia con Dio, risana se stesso ed edifica il prossimo. Questa è la lunghezza e la larghezza di Gerusalemme, che viene misurata con la fune della confessione, affinché la pena sia proporzionata alla colpa, e come ha posto le sue membra a servizio dell'iniquità, così ora le ponga a servizio della giustizia per la santificazione ( cf. Rm 6,19 ). Vieni dunque, o UomoOriente, e con la fune che hai nelle mani misura Gerusalemme. Vieni, Signore Gesù, e imponi la tua mano sopra l'anima, ed essa vivrà della vita della grazia al presente, e della vita della gloria in futuro. 6. "Gesù, alzatosi, lo seguì insieme con i suoi discepoli. ( Mt 9,19 ) O ineffabile misericordia! O meravigliosa umiltà! Il Re degli angeli che segue l'archisinagogo! Tu segui Giairo. E chi segue te, o Figlio di Dio? "Se ne sono andati dietro ai loro piaceri e alla depravazione del loro cuore malvagio" - dice Geremia -, e invece di rivolgermi il volto mi hanno voltato le spalle" ( Ger 7,24 ). E Zaccaria: "Mi hanno voltato le spalle, si sono turati gli orecchi per non sentire, hanno indurito il loro cuore come il diamante per non udire la legge" ( Zc 7,11-12 ). "Gesù, arrivato alla casa di quel capo, veduti i flautisti e la turba in agitazione, disse: Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Quelli si misero a deriderlo" (Mt 9,23-24 ). Vediamo il significato morale dei flautisti e della turba agitata. I flautisti raffigurano i sensi del corpo, che cantano un inno funebre con quei quattro corni, dei quali parla il profeta Zaccaria: "Alzai i miei occhi, ed ecco, vidi quattro corni. E all'angelo che parlava con me domandai: Che cosa sono questi? Rispose: Questi sono i corni che hanno disperso Giuda, Israele e Gerusalemme" ( Zc 1,18-19 ). Questi quattro corni raffigurano quattro vizi: la superbia o la lussuria negli occhi, il prurito di ascoltare negli orecchi, la calunnia o l'adulazione nella lingua, e la rapina o l'usura nelle mani. Sono questi quattro vizi che hanno disperso al vento della vanità del mondo Giuda, cioè i laici, e Israele, cioè i chierici, e Gerusalemme, cioè i religiosi. Con questi corni i sensi del corpo cantano il canto funebre, cioè l'allegria del mondo, per la morte dell'anima nostra. Dice Giobbe: "Cantano al suono di timpani e cetre, si divertono al suono degli strumenti. Passano nei godimenti tutti i loro giorni, ma poi in un momento sprofondano nell'inferno" ( Gb 21,12-13 ). Il timpano è formato da una pelle tesa su un bacino, su un cerchio di legno. Quando il superbo corruga le sopracciglia - di cui è detto: "C'è gente dagli occhi alteri e dalle ciglia altezzose ( Pr 30,13 ) -, oppure i lussuriosi allungano gli occhi alla bellezza delle donne - di cui è detto: "Non desiderare in cuor tuo la bellezza della donna per non essere adescato dai suoi sguardi" ( Pr 6,25 ) -, allora percuotono il timpano. La lingua adulatrice o calunniatrice è paragonata alla cetra: quando ne pizzichi le corde, essa manda il suono della calunnia o dell'adulazione. Quelli che hanno gli orecchi bramosi e indiscreti, si deliziano al suono degli strumenti, cioè al suono della lode a loro rivolta. Guai a noi meschini, che ci deliziamo al suono dei nostri strumenti: al loro suono l'occhio si fa ridente, il volto si illumina, l'orecchio si delizia, la lingua tripudia e il cuore esulta. "Si divertono, dunque, al suono degli strumenti". Magari la nostra cetra mandasse lamenti - dice Giobbe -, e il nostro strumento mandasse voci di pianto ( cf. Gb 30,31 ). I depredatori e gli usurai "passano i loro giorni nei godimenti" con i beni rubati ai poveri. Ecco in che modo i maledetti flautisti suonano l'inno funebre. Ma credano a me, che ad un certo punto ( un istante ), che li pungerà fino a dentro il fegato e i polmoni, sprofonderanno nell'inferno, dove si canta il lamento funebre, cioè il pianto degli occhi e lo stridore dei denti. Similmente, la turba in agitazione raffigura il turbamento e il disordine dei cattivi pensieri Quando i flautisti suonano all'esterno il loro inno funebre, i pensieri disordinati sconvolgono la mente all'interno Dice infatti la sposa nel Cantico dei Cantici: "La mia anima mi ha sconvolto a causa delle quadrighe di Aminadab" ( Ct 6,11 ). Aminadab si interpreta "spontaneo" o "elegante", e simboleggia il nostro corpo che si sente spinto spontaneamente alle cose temporali, tra le quali vuole vivere sempre nell'eleganza e nelle delicatezze E le quadrighe di Aminadab sono i sensi del corpo: mentre essi corrono all'intorno tra lo sterco e il fango delle cose temporali, l'anima, cioè l'animalità, la sensualità, sconvolge la ragione con il turbamento e il disordine dei cattivi pensieri e desideri. 7. Ritorniamo al nostro argomento. Continua il vangelo: "Arrivato Gesù nella casa del capo della sinagoga". Il capo raffigura l'uomo che deve dominare se stesso; la sua casa è la sua coscienza, in cui il Signore entra quando infonde la sua grazia perché riconosca le sue colpe e riconoscendole ne arrossisca. "Vedendo i flautisti e la turba, disse: Ritiratevi!". Quando Gesù Cristo visita la coscienza dell'uomo con la sua grazia, comanda al piacere dei sensi e al tumulto dei pensieri di ritirarsi. Egli comanda ai venti, cioè alla vanità dei sensi, e al mare, cioè al fluttuare dei pensieri e dei desideri, ed essi gli obbediscono ( cf. Lc 8,25 ). "Andatevene, dunque, la fanciulla non è morta, ma dorme". Infatti per Gesù era come se dormisse, perché per lui era così facile richiamarla dalla morte, come se la svegliasse dal sonno. Considera che la morte dell'anima è duplice: la morte del peccato e la morte dell'inferno. La morte del peccato può essere detta "sonno", in quanto il peccatore in questa vita può risorgere dal peccato con la stessa facilità con cui uno si sveglia dal sonno. Dice infatti l'Apostolo: "Svégliati, tu che dormi, dèstati dai morti, e Cristo ti illuminerà" ( Ef 5,14 ): svégliati per mezzo della contrizione, tu che dormi nel peccato; esci, per mezzo della confessione, dai morti, cioè dalle opere di morte, e Cristo ti illuminerà. Osserva ancora che Cristo ha detto: fanciulla, e non vecchia. Infatti l'anima non ancora schiava di una cattiva abitudine presa da lungo tempo, ma ancora fanciulla e di recente caduta in peccato, è solo assopita, e può quindi con facilità risorgere alla vita della grazia. È morta infatti ed è stata risuscitata nella sua casa: non era ancora stata portata fuori della porta e sepolta; l'anima che è morta nella casa della coscienza e non ancora portata alla porta dell'opera cattiva, o alla sepoltura della cattiva abitudine, può con facilità ritornare in vita. "Quelli si misero a deriderlo". Quando la grazia di Gesù Cristo ispira all'anima di pentirsi e di rialzarsi dal peccato, i flautisti, vale a dire il piacere esteriore dei sensi, e la turba in agitazione, cioè il tumulto interiore dei pensieri e dei desideri, la deridono. Ma dice Giobbe: Lo struzzo "si fa beffe del cavallo e del suo cavaliere" ( Gb 39,18 ). Nello struzzo è raffigurato il tirannico piacere della carne, che si fa beffe del cavallo, cioè dello spirito, e del suo cavaliere, vale a dire della grazia, che vuole guidare lo spirito sulla via della vita per conquistare il premio della gloria celeste. E lo deride adducendogli come scusa la fragilità della natura, il rigore dell'astinenza, la durezza della penitenza, e dimostrandogli che gli è impossibile perseverare in tutto questo. "Dopo che la turba fu cacciata via, entrò, le prese la mano e disse: Fanciulla, àlzati! E la fanciulla si alzò" ( Mt 9,25; Lc 8,54 ). Fa' attenzione all'ordine delle parole. "Dopo che la turba fu cacciata via, entrò". Concorda con questo ciò che il Signore dice per bocca di Osea: "Arco, spada e guerra eliminerò dalla terra, e li farò riposare tranquilli" ( Os 2,18 ). Nell'arco è indicata la subdola suggestione del diavolo, nella spada i convulsi pensieri del cuore, nella guerra il miserabile piacere dei sensi. Il Signore elimina dalla terra tutti questi mali quando caccia dalla casa della coscienza la turba agitata, e cacciatala via entra, ed entrando rimette tutto in pace. E questo vuol dire appunto "li farò riposare tranquilli". "Prese la sua mano". Prende la mano con la mano quando con la sua misericordia dà il volere, il conoscere e il potere. E concordano con questo le parole di Zaccaria: "Le mani di Zorobabele hanno fondato questa casa, e le sue mani la porteranno a compimento ( Zc 4,9 ). Zorobabel s'interpreta "questo maestro di Babilonia": Zo questo, Ro maestro, Babel Babilonia. Ed è figura di Gesù Cristo che è venuto a rinnovare il mondo e a risuscitare la fanciulla. Il Figlio dell'uomo è venuto a salvare ciò che era perduto ( cf. Lc 19,10 ). La mano della sua misericordia fonda il tempio quando dà il conoscere e il volere; lo porta a compimento quando dà il potere, la capacità di fare. "E disse: Fanciulla, àlzati! E la fanciulla si alzò" ( Lc 8,54-55 ). E su questo abbiamo la concordanza nel libro del profeta Michea, dove l'anima, già risuscitata per opera della grazia, respinge gli attacchi della carne dicendo: "Non gioire, mia nemica, perché sono caduta; mi rialzerò, e se sarò nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce" ( Mi 7,8 ). 8. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: "Non cessiamo di pregare per voi e chiedere che siate pieni della conoscenza della sua volontà" ( Col 1,9 ). A questa preghiera e a questa supplica il Signore risponde misericordiosamente per bocca di Osea: "Ecco, io la nutrirò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" ( Os 2,14 ). La chiesa, o l'anima fedele, per la quale l'Apostolo prega e supplica, il Signore la nutre con la grazia perché cresca a salvezza; la porta quindi nel deserto, cioè alla rinuncia delle cose temporali e alla quiete dello spirito, e lì parla al suo cuore affinché abbia la piena conoscenza della sua volontà. E fa' attenzione che l'Apostolo dice "pieni". Quando un vaso è pieno, tutto ciò che vi si versa in più va perduto. Chi è pieno delle cose temporali, non può venir riempito della conoscenza della volontà di Dio. Chi ne vuole essere pieno, è necessario che venga prima condotto nel deserto, e là potrà sentire il soffio di una brezza leggera che parla al suo cuore, così sarà riempito della conoscenza della divina volontà. Dice infatti il vangelo di oggi che il Signore prima mandò via la turba agitata, e dopo, nel silenzio, parlò al cuore della fanciulla: "Fanciulla, io ti dico: Álzati!" ( Mc 5,41 ). La bocca del Signore è nell'orecchio del cuore, nel silenzio di chi è tranquillo: a lui rivela il segreto della sua volontà. Sia tranquillo il tuo cuore, e sarà riempito della conoscenza della volontà divina. Su chi volgerò lo sguardo, se non sull'umile, su chi è in pace ed è povero nello spirito? ( cf. Is 66,2 ). "Ha guardato all'umiltà della sua ancella" ( Lc 1,48 ), che era nel silenzio della mente e del corpo. Dice Girolamo: "Per me la città è un carcere, il deserto un paradiso", nel quale il Signore parla al cuore. Fratelli carissimi, insieme con Giairo, capo della sinagoga, supplichiamo umilmente il Signore di venire nella nostra casa, di cacciarne via la turba in agitazione e di risuscitare la nostra figlia ( l'anima ). Si degni di accordarcelo lui, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La guarigione della donna dall'emorragia 9. "Ed ecco una donna che soffriva di emorragia da dodici anni", ecc. ( Mt 9,20 ). Vediamo che cosa significhino la donna, l'emorragia e il lembo della veste. La donna, in lat. mulier da mollities, mollezza, effeminatezza, è figura dell'anima peccatrice, che per bocca del profeta Osea dice: "Seguirò i miei amanti che mi danno il mio pane, la mia acqua, la mia lana, il mio lino, il mio olio e le mie bevande" ( Os 2,5 ). L'effeminato cerca l'effeminatezza. Vedremo che cosa significhino queste sette cose: gli amanti, il pane, l'acqua, la lana, il lino, l'olio e le bevande. Nel pane è raffigurato lo sfarzo della gloria temporale, nell'acqua la gola e la lussuria, nella lana la subdola ipocrisia, nel lino l'amore al denaro, nell'olio il luccichio della adulazione, nelle bevande la brama delle cariche. Gli amanti dell'anima peccatrice sono i demoni, o gli affetti carnali, che essa segue quando vi acconsente, e vi acconsente perché le danno tutte queste cose: il pane, l'acqua, l'olio, ecc. Del pane della gloria temporale parla Salomone: "Gradito è all'uomo il pane della menzogna", cioè dello sfarzo del secolo, che finge di essere qualcosa, mentre non è nulla, "ma poi la sua bocca sarà piena di sassi" ( Pr 20,17 ), cioè dell'eterno castigo. Dell'acqua della gola e della lussuria il profeta Naum dice: "Le sue acque sono come le pozzanghere" ( Na 2,8 ). Parla di Ninive, nome che significa "splendida" ed è figura della carne dell'uomo le cui acque, cioè la gola e la lussuria, sono come le pozzanghere che d'estate si prosciugano. Così quando arriverà la fiamma della morte, la gola e la lussuria della carne saranno del tutto disseccate. Della lana dell'ipocrisia troviamo nel vangelo: "Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore" ( Mt 7,15 ). Vedi su questo argomento il sermone della domenica VIII dopo Pentecoste, che commenta il medesimo vangelo. Del lino dell'avarizia si parla nell'Esodo, quando narra che la grandine colpì e distrusse il lino ( cf. Es 9,31 ). La grandine della divina condanna: "Andate, maledetti, al fuoco eterno" ( Mt 25,41 ), colpirà e distruggerà il lino dell'avarizia e dell'usura. Dell'olio dell'adulazione leggiamo nel salmo: "L'olio del peccatore non profumerà il mio capo" ( Sal 141,5 ). Delle bevande delle cariche e delle dignità si parla nell'Apocalisse quando dice che la donna assisa sopra la bestia scarlatta teneva in mano una coppa d'oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione ( cf. Ap 17,3-4 ). Questa donna è figura della vanità del mondo, che è assisa sopra la bestia scarlatta, cioè il diavolo. Essa tiene in mano una coppa d'oro, cioè il bagliore del potere transitorio, pieno di abomini. La coscienza e le opere di coloro che sono abbagliati da questo splendore, testimoniano a noi e a loro stessi quali nefandezze e quale turpe prostituzione vi sia in ciò. Chi beve a quella coppa avrà sete di nuovo e si sentirà bruciare, e voglia il cielo che non debba bruciare in eterno insieme con il ricco epulone, che era avvolto nella porpora. Ahimè, ahimè, vedo che quasi tutti corrono con la bocca aperta e con la gola riarsa a bere alla coppa d'oro della prostituta. Dice Geremia: "Agile corridore che divora la strada. ònagro abituato al deserto, nel calore del suo estro aspira l'aria della sua brama" ( Ger 2,23-24 ). E come il vento, anche se aspirato a bocca aperta, non spegne la sete, anzi l'aumenta, così la vanità del potere e delle dignità uccide talvolta proprio con la sete colui che ne beve. Chi è affetto da questi sei vizi è come la donna che soffre di emorragia. Evidentemente l'emorragia simboleggia l'immondezza del peccato. Dice Osea: "Sangue segue sangue" ( Os 4,2 ), vale a dire: all'immondezza della mente segue l'immondezza del corpo. La loro lussuria, dice Ezechiele, è paragonabile alla furiosa libidine del cavallo ( cf. Ez 23,20 ). "Soffriva di emorragia da dodici anni". Il numero dieci si riferisce ai dieci comandamenti dell'Antico Testamento, il numero due ai due precetti della carità del Nuovo. Quindi soffre di emorragia per dodici anni chi si macchia trasgredendo apertamente e per cattiveria i precetti dell'Antico e del Nuovo Testamento. Dice Osea: "Hanno fornicato senza mai smettere: hanno abbandonato il Signore senza osservare" ( Os 4,10 ) i precetti dei due Testamenti. Luca dice anche che quella donna "aveva speso tutte le sue sostanze con i medici, e che nessuno era riuscito a guarirla" ( Lc 8,43 ), "anzi - aggiunge Marco - era molto peggiorata" ( Mc 5,26 ). I medici raffigurano gli affetti carnali, dei quali il salmo dice: "Compi forse prodigi per i morti. O potranno i medici risuscitarli perché ti cantino lodi?" ( Sal 88,11 ). Gli affetti carnali non possono far risorgere l'anima dal peccato; al contrario la uccidono quando è risuscitata e la seppelliscono nell'inferno. Quanti indolenti ed effeminati consumano ogni loro sostanza con questi medici, sia dell'anima che del corpo, ma non hanno potuto essere guariti dalla malattia dell'anima, anzi sono peggiorati. 10. Leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni che "Asa si era ammalato e soffriva di un fortissimo dolore ai piedi. Neppure nella malattia egli si rivolse al Signore, ma si affidò piuttosto alla perizia dei medici. Egli si addormentò con i suoi padri e morì" ( 2 Par 16,12-13 ). Asa s'interpreta "che si esalta", ed è figura del ricco di questo mondo che si esalta per le sue ricchezze e va in cerca di cose più grandi di lui ( cf. Sal 131,1 ). Egli soffre di un fortissimo dolore ai piedi. L'anima ha due piedi sui quali si sostiene, che sono la speranza e il timore: il ricco è privo della forza di questi due piedi perché egli ripone ogni sua speranza nelle cose transitorie che ha paura di perdere, e così si affida all'arte medica, cioè alla sua attività, al suo scaltro sapere e al godimento degli affetti carnali, piuttosto che al Signore. Perciò si addormenta nel peccato e muore nell'inferno. Non si deve quindi confidare nei medici, ma nel lembo della sua veste, come dice il vangelo: "Gli si accostò alle spalle e toccò il lembo della sua veste" ( Mt 9,20 ). La veste di Cristo è la stessa sua carne, di cui Isaia dice: "Perché è rossa la tua veste, e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel torchio? Nel torchio ho pigiato da solo" ( Is 63,2-3 ). Un pensiero analogo lo troviamo anche in Zaccaria: "Giosuè era rivestito di vesti immonde" ( Zc 3,3 ). Gesù Cristo sopportò da solo il torchio, cioè il peso della croce, sulla quale la sua veste ( il suo corpo ) fu arrossata dal suo sangue. E il lembo di questa veste è la sua stessa passione, che libera l'anima dall'emorragia Contro i pericoli della carne e i moti della libidine ha una grandissima efficacia il ricordo della passione. E benché questo unguento salutare scenda dal capo alla barba, tuttavia è dal lembo della sua veste, cioè dall'ultima parte della sua vita che la sua pienezza si sparge su tutta la terra. Di questo lembo della veste parla anche Zaccaria: "Uomini di ogni lingua afferreranno il lembo della veste di un giudeo e gli diranno: Veniamo con voi, perché abbiamo compreso che Dio è con voi" ( Zc 8,23 ). La stessa cosa diceva anche quella donna dentro di sé: "Solo che io possa toccare il lembo della sua veste, sarò guarita" ( Mt 9,21 ). Il lembo della veste di Cristo, cioè la sua passione, attira a Cristo stesso molti di più che tutto il resto della sua vita. Infatti ha detto egli stesso: "Quando sarò elevato da terra, io attirerò tutti a me" ( Gv 12,32 ). O anima, se vuoi essere guarita dalla tua emorragia, tocca con la fede, afferra con le opere il lembo della passione. Dice l'Apostolo: "Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze"   (Gal 5,24 ). Se avrai toccato e afferrato in questo modo, sarai degna di sentirti dire: "Confida, figlia, la tua fede ti ha guarita" ( Mt 9,22 ). Fa' attenzione che questa parola fede è composta da due parole: faccio e dico ( in lat. fides, facio et dic o) Se io faccio quello che dico, e afferro ciò che tocco, allora è vera fede, e questa fede mi salva. 11. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell'epistola: "Ringraziando con gioia il Padre che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce" ( Col 1,12 ). O Padre, quanto devono ringraziarti la figlia del capo della sinagoga risuscitata da morte e la donna guarita dalla sua emorragia; e quanto devono ringraziarti tutti coloro che sono raffigurati in queste due donne: tu li hai fatti degni di partecipare alla vita eterna, che è la sorte dei santi. "Il Signore è mia parte di eredità" ( Sal 16,5 ). "E in questa tua luce, noi vedremo la luce" ( Sal 36,10 ). "È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel Regno del suo Figlio diletto" ( Col 1,13 ). Ecco la risurrezione della figlia dell'archisinagogo, cioè dell'anima, che il Signore con la mano della sua misericordia strappa dal potere delle tenebre, dove giaceva cieca, e la trasferisce dalla regione della dissomiglianza nel regno del suo amore, che abbiamo conquistato per mezzo della passione del Figlio. E conclude: "In lui abbiamo la redenzione e, per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati" ( Col 1,14 ). Ecco la guarigione della donna dalla sua emorragia, toccando il lembo della veste. Infatti il sangue della passione di Cristo ferma il sangue della nostra malizia. Su dunque, fratelli carissimi, preghiamo devotamente il Signore Gesù Cristo perché con il lembo della sua passione fermi il nostro sangue, cioè l'inclinazione alla lussuria, per essere capaci di ringraziarlo adeguatamente ed essere fatti degni di regnare nella sua luce insieme con i suoi santi. Ce lo conceda egli stesso che è mirabile nei suoi prodigi, ed è Dio benedetto nei secoli eterni. E ogni anima risuscitata e guarita risponda: Amen. Alleluia! Prologo Tributiamo l'omaggio della lode e inni di grazie al Dio Uno e Trino, perché con il suo aiuto, nell'esposizione dei vangeli domenicali siamo giunti alla prima domenica dell'Avvento del Signore. Ricordiamo che durante tutto l'Avvento la chiesa ci fa leggere il libro del profeta Isaia: vogliamo, per quanto il Signore ce lo concederà, trovare la concordanza delle varie citazioni di questo profeta con i brani dei vangeli e delle epistole dello stesso Avvento. Domenica I di Avvento Temi del sermone - Vangelo della prima domenica di Avvento: "Ci saranno segni nel sole e nella luna"; lo divideremo in quattro parti. - Anzitutto, sermone ai penitenti o ai religiosi: "In quel giorno, il germoglio del Signore". - La confessione: "La gloria del Libano"; oppure: "In quel giorno il Signore raderà il capo". - Parte I: Annunciazione e natività del Signore: "Vidi il Signore", e "Il vasaio seduto al suo lavoro". - Passione del Signore e le sue cinque piaghe: "Ci saranno cinque città". - Parte II: Sermone ai penitenti o ai religiosi: "Mosè, preso il sangue". - Sermone ai claustrali: "Verrà a te la gloria del Libano", e "Nell'anno in cui morì il re Ozia". - Sermone contro gli oratori e i sapienti di questo mondo: "In quel giorno l'uomo getterà via gli idoli"; la talpa e il pipistrello. - Sermone ai penitenti: "Álzati, àlzati". - Parte III: Sermone sul momento della morte o sulla sepoltura del defunto: "Guarderà in alto". - Sermone contro i lussuriosi e i golosi: "Vi vergognerete dei giardini che avete scelto". - Parte IV: Sermone sul giorno del giudizio e sulla dannazione dei peccatori: "Andrà in pezzi la terra", e "Urlate, perché è vicino il giorno del Signore", e "Il Signore avanza come un prode", e "La spada del Signore è coperta di sangue". Esordio - Sermone ai penitenti o ai religiosi, e sulla confessione 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle" ( Lc 21,25 ). Dice Isaia: "In quel giorno il germoglio del Signore crescerà in magnificenza e gloria e il frutto della terra sarà sublime" ( Is 4,2 ). Questa espressione sarà applicata dapprima in senso allegorico al Verbo incarnato; e quindi in senso morale al peccatore convertito. Senso allegorico. "In quel tempo", cioè nel momento della grazia, quando a coloro che erano immersi nelle tenebre ( cf. Mt 4,15 ) rifulse "lo splendore della luce eterna" ( Sap 7,6 ), ci sarà - dice Isaia con profetica sicurezza - il germoglio del Signore, cioè il Figlio del Padre, che la beata Maria, albero della vita, produsse come un germoglio nella sua nascita. Infatti Isaia implora: "Fate scendere dall'alto la vostra rugiada, o cieli". La Glossa aggiunge: Venga Gabriele, ci mandi con il suo annuncio la rugiada; "e le nubi piovano il Giusto", e cioè i profeti, irrigando i nostri cuori di benefica pioggia, annuncino la nascita di Cristo. "Si apra la terra", Maria cioè creda all'annuncio dell'angelo, e così "faccia germogliare il Salvatore" ( Is 45,8 ). Egli crebbe "in magnificenza" con la predicazione e compiendo i miracoli, e "in gloria" nella sua risurrezione; egli è "il frutto della terra", cioè della beata Vergine, e fu "sublime" nella sua ascensione al cielo. Della magnificenza dei miracoli parla Isaia: "Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come cervo e la lingua dei muti parlerà" ( Is 35,4-6 ). E della gloria della risurrezione, accennando agli apostoli, dice ancora: "Essi vedranno la gloria del Signore e lo splendore del nostro Dio" ( Is 35,2 ). E Giovanni: "Abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre" ( Gv 1,14 ). E della sublimità dell'Ascensione, il Padre, con le parole di Isaia, dice: "Ecco, il mio Servo avrà successo; sarà innalzato ed esaltato, sarà veramente sublime" ( Is 52,13 ). Il Figlio è detto "servo del Padre", poiché fu a lui obbediente fino alla morte. 2. Senso morale. "In quel giorno", ecc. Il giorno è il sole che splende sulla terra. Quando il sole della grazia illumina la terra, cioè la mente del peccatore, questa produce da sé il germoglio del Signore, nel quale è simboleggiata la contrizione. Infatti Isaia dice: "Discendono dal cielo la pioggia e la neve, impregnano e inebriano la terra e la fanno germogliare, ed essa produce la semente per il seminatore e il pane da mangiare" ( Is 55,10 ). Nella pioggia e nella neve è raffigurata la grazia dello Spirito Santo. Sul significato della neve, vedi il sermone della II domenica di Quaresima, parte II, "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni", ecc. La grazia, a guisa di pioggia e di neve che scendono dal cielo, cioè dalla misericordia divina, scende e inebria la terra, vale a dire il peccatore dèdito alle cose terrene, affinché ne diventi insensibile, si penta fino alle lacrime e metta a nudo il segreto del suo peccato. L'ebbrezza produce appunto questi tre effetti: rende insensibile, provoca le lacrime, e fa scoprire i segreti. "La impregna" dello spirito di povertà, del quale, sempre Isaia dice: "Sia infuso in noi uno spirito dall'alto ( Is 32,15 ), affinché non si accenda in essa [ la terra, la mente del peccatore ] la sete della cupidigia ( cf. Gb 18,9 ). "La faccia germogliare" in modo meraviglioso, il che avviene quando il peccatore si pente in modo assoluto di tutti i peccati commessi e di tutte le omissioni; allora "produce la semente" delle opere buone "per il seminatore", cioè per il penitente che semina nelle lacrime, e "il pane da mangiare", perché raccoglie nella gioia ( cf. Sal 126,5 ). Ecco dunque che "in quel giorno il germoglio del Signore crescerà in magnificenza". "E in gloria". Dal germoglio della contrizione scaturisce la gloria della confessione, della quale Isaia dice all'anima penitente: "Le è stata data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron" ( Is 35,2 ). Libano s'interpreta "candidezza", Carmelo "circoncisione" e Saron "canto di tristezza" La confessione ha appunto questi tre effetti: rende candida l'anima, elimina le cose superflue, si lamenta e canta mestamente: "L'anima mia è triste fino alla morte" ( Mt 26,38 ). "La donna infatti quando partorisce è nella tristezza" ( Gv 16,21 ). Sulla purificazione dell'anima dai peccati, dice Isaia: "Il Signore laverà le brutture delle figlie di Sion, e il sangue dall'interno di Gerusalemme con lo spirito del giudizio e lo spirito del fuoco" ( Is 4,4 ). Nelle brutture è indicata l'impurità; infatti dice Geremia: "Le sue brutture sono nei suoi piedi" ( Lam 1,9 ), cioè negli affetti; nel sangue è indicata la lussuria della carne. Il Signore lava tali sozzure dalle figlie di Sion, cioè dalle anime di Sion, le anime che appartengono alla chiesa, "con lo spirito del giudizio", che è la confessione, nella quale il penitente giudica e condanna se stesso; "e con lo spirito del fuoco", che è la contrizione, nella quale l'anima, come infiammata, si scioglie in lacrime di compunzione. Sulle cose superflue che devono essere eliminate con la confessione, Isaia dice: "In quel giorno il Signore, con un rasoio affilato, o preso a prestito, raderà il capo e il pelo dei piedi ( delle gambe ) e tutta la barba, a quelli che sono al di là del fiume" ( Is 7,20 ). Il rasoio, detto in lat. novacula, come facesse nuovo l'uomo, raffigura la confessione, la quale rende veramente nuovo lo spirito dell'uomo. Dice Geremia: "Dissodate il terreno incolto e non seminate tra le spine" ( Ger 4,3 ), perché quando saranno nate non soffochino ( cf. Lc 8,7 ) la parola della confessione. Questo rasoio è detto "affilato", o "preso a prestito": affilato, perché taglia il peccato e le sue circostanze; preso a prestito, perché il peccatore, nell'opera della sua salvezza, deve come noleggiarlo con una certa somma, che è la devozione e l'umiltà. Con questo rasoio il Signore "rade il capo", ecc., "a coloro che sono "al di là del fiume", che hanno attraversato il fiume, che hanno cioè ricevuto il battesimo. Nel capo e nei piedi sono indicati l'inizio e la fine della vita, nella barba l'intrepidezza nel fare il bene. Con la lama tagliente di una vera confessione il Signore recide nel penitente i vizi, raffigurati nei peli, dall'inizio della sua conversione fino alla conclusione della sua vita. Rade anche tutta la barba, perché non confidi in alcuna delle opere buone che ha fatto, come se le avesse fatte lui. Dobbiamo infatti confidare solo in colui che ha fatto noi, e non in quello che noi abbiamo fatto. Colui che ha fatto noi è tutto il Bene, il sommo Bene; invece il bene che abbiamo fatto noi è come il panno di una donna immonda ( cf. Is 64,6 ). Tu stesso quindi devi capire in quale bene si deve confidare. Unicamente nel Signore, nel buon Gesù, al quale il profeta dice: "Buono sei tu, o Signore" ( Sal 119,68 ). Parimenti, del canto di tristezza dice Isaia: "Salirà piangendo per l'erta di Luith, e per la strada di Coronaim alzeranno grida di pentimento" ( Is 15,5 ). Vedi su questo argomento il sermone della domenica X dopo Pentecoste, parte III. "E il frutto della terra sarà sublime". Il frutto della terra è la soddisfazione, cioè l'opera penitenziale. Dice Isaia: "E tutto il frutto è questo: che sia tolto il suo peccato" ( Is 27,9 ). Il frutto della penitenza è sublime quando il penitente è umile, e si umilia di fronte al vero sole, umile e sublime, cioè a Cristo che si degnò di velare lo splendore della sua luce con il cilicio della nostra condizione mortale. Per questo il brano evangelico di oggi dice: "Ci saranno segni nel sole", ecc. 3. Considera che quattro sono gli "avventi" ( venute ) del Signore. Il primo avvento fu nella carne, e di esso è detto: "Ecco, verrà il grande Profeta: egli rinnoverà Gerusalemme" ( Liturgia della I Domenica di Avvento, 5a antifona delle Lodi ). Il secondo avvento si compie nella mente; è detto infatti: "Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" ( Gv 14,23 ). Il terzo avvento si verificherà nel momento della morte; è detto: "Beato quel servo che il Signore, al suo ritorno, troverà al lavoro" ( Lc 12,43 ). Il quarto avvento si compirà nella gloria; leggiamo nell'Apocalisse: "Ecco, verrà sulle nubi, e ogni occhio lo vedrà" ( Ap 1,7 ). Questi quattro avventi sono indicati nelle prime quattro parole di questo santo vangelo: le considereremo ognuna singolarmente. Nell'introito della messa di oggi si canta: "A te, Signore, innalzo la mia anima" ( Sal 25,1 ), e si legge il brano della lettera del beato Paolo ai Romani: "Sapete che è ormai ora di svegliarci dal sonno" ( Rm 13,11 ). Confronteremo questo brano della lettera ai Romani con il primo avvento, e anche con il secondo, quello che avviene nella mente. Invece l'introito della messa lo confronteremo con il terzo e il quarto avvento.ù Consideriamo anzitutto il primo avvento. I. Il primo avvento di Cristo nella carne 4. "Ci saranno segni nel sole e nella luna". Il sole, così chiamato perché risplende solitario ( lat. sol, solus ), è Gesù Cristo che, solo, abita una luce inaccessibile ( cf. 1 Tm 6,16 ), e lo splendore di tutti i santi quasi scompare, paragonato al suo splendore, cioè alla sua santità. Dice infatti Isaia: "Siamo divenuti tutti come cosa impura", cioè come lebbrosi, "e tutte le nostre opere di giustizia sono come panno di donna mestruata" ( Is 64,6 ). Questo "sole", come è detto nell'Apocalisse, "divenne nero come un sacco fatto di crine" [ detto anche cilicio ] ( Ap 6,12 ). Infatti Cristo, con il sacco della nostra umanità coprì la luce della sua divinità: "Ho indossato come vestito un sacco fatto di crine" ( Sal 69,12 ). Ma quale rapporto ci può essere, o Figlio di Dio, fra te e il cilicio? Di tale veste deve coprirsi non Dio ma il reo, non il Creatore ma, ben a ragione, il peccatore; è la veste del peccatore e non di colui che rimette i peccati. Quale rapporto dunque fra te e il cilicio? Un profondo rapporto, e assolutamente necessario all'uomo peccatore, perché mi sono pentito di aver fatto l'uomo ( cf. Gen 6,7 ), vale a dire: un grande dispiacere soffro a riguardo dell'uomo. Dice infatti Isaia: "Mi hai fatto una grande offesa con i tuoi peccati, mi hai stancato con le tue iniquità", e ancora: "Sono stanco di sopportarli" ( Is 43,24; Is 1,14 ). Ecco dunque che "il sole è divenuto nero come un sacco fatto di crine" ( cilicio ). Infatti sotto il cilicio della carne nascose se stesso, "fulgore della luce eterna" ( Sap 7,26 ). Di lui dice Isaia: Principio della vita "sei tu, o Dio, e fuori di te non c'è Dio. Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d'Israele, Salvatore!" ( Is 45,14-15 ). E ancora: "Il suo volto è come nascosto" ( Is 53,3 ). Giustamente dice "nascosto"; l'amo della divinità venne nascosto nell'esca dell'umanità per uccidere, come dice sempre Isaia, il cetaceo, il mostro che vive nel mare ( cf. Is 27,1 ), cioè il diavolo che è in questo mondo malsano e amaro. Dice Giobbe: "Catturerà Beemoth ( il mostro marino ) per gli occhi, quasi con un amo" ( Gb 40,19 ). L'umile cattura il superbo; il nostro "Bambino", avvolto in fasce, cattura l'antico serpente. E Isaia: "Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide, il bambino metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi ( Is 11,8 ). Il nostro "Bambino", avvolto in fasce, adagiato nella mangiatoia ( cf. Lc 2,7.12 ), con la mano della sua potenza strappò l'aspide e il serpente dal foro e dalla caverna, cioè il diavolo dalla coscienza dei peccatori. Ecco dunque che "il sole è divenuto nero come il sacco fatto di crine". O Primo! O Ultimo! O Eccelso! O Umile e disprezzato! "E noi l'abbiamo considerato come un lebbroso, castigato da Dio e umiliato" ( Is 53,4 ). 5. Sull'umiliazione di Cristo, concordano ancora le parole di Isaia: "Io vidi il Signore seduto su un trono eccelso ed elevato" ( Is 6,1 ). Vediamo il significato di queste parole: seduto, trono, eccelso, ed elevato. "Il Signore seduto" raffigura l'umile abbassamento della sua divinità nella nostra umanità. Leggiamo nell'Ecclesiastico: "Il vasaio, seduto al suo lavoro, gira con i piedi la ruota, ed è sempre attento alla sua opera" ( Sir 38,32 ). Il vasaio è il Figlio di Dio, del quale il salmo dice: "Ha plasmato ad uno ad uno i loro cuori" ( Sal 33,15 ). Egli "è seduto al suo lavoro", cioè si è umiliato nella carne per la nostra salvezza. Sempre Isaia: [ Verrà il Signore ] "per compiere l'opera sua: opera non rispondente alla sua natura, opera per lui assai inconsueta" ( Is 28,21 ). San Gregorio commenta così queste parole misteriose: "Verrà nel mondo per compiere la sua opera: per redimere il genere umano. Ma è un'opera non rispondente alla sua natura: non conviene certo alla sua divinità essere coperto di sputi, essere flagellato e appeso ad una croce". Egli, con i piedi della sua umanità, fa girare verso la vita la ruota della nostra natura, che prima girava verso la morte; affinché, a colui al quale dapprima era stato detto: Sei terra e alla terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ), si possa ora dire: "Sarai beato e godrai di ogni bene" ( Sal 128,2 ). E con quanto amore egli si sia impegnato per compiere la sua opera durante trentatré anni, lo testimoniano con molta evidenza i vangeli. E il salmo dice: "Io correvo assetato" ( Sal 62,5 ). Correva con tanta brama alla croce, come il vasaio alla fornace, per realizzare e completare la sua opera, che neppure si fermò a rispondere a Pilato, proprio per non ritardare l'opera della nostra salvezza. 6. "Su di un trono". Il trono, detto in lat. solium, quasi come solidum, è l'umanità di Cristo che, fondata sulle sette colonne ( cf. Pr 9,1 ), fu in tutti i sensi solida e stabile. Dice Isaia: "In quel giorno sette donne afferreranno un unico uomo e gli diranno: Mangeremo il nostro pane, ci copriremo con le nostre vesti; lascia solo che siamo chiamate con il tuo nome: tòglici la nostra vergogna" ( Is 4,1 ). Le sette donne simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo, che sono detti donne, in quanto nessuno può essere generato a Dio se non per opera dello Spirito. L'uomo è Cristo - unico, cioè il solo senza peccato -, che i sette doni afferreranno, per tenerlo saldamente e non perderlo. Tutti gli uomini passano, fino a Cristo, ma i "sette doni" non afferrano nessuno di essi. Non c'è infatti uomo senza peccato: in tutti lo Spirito ha una ospitalità di tribolazione, e non una dimora di riposo. Lo Spirito fu nei profeti e in altri giusti: ma poiché erano uomini, e quindi peccatori, fu in essi, ma in essi non si fermò. Perciò soltanto di Cristo è detto in Giovanni: "Colui sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito Santo, egli è colui che battezza" ( Gv 1,33 ). "Afferreranno un unico uomo e diranno: "Mangeremo il nostro pane", ecc. Commenta la Glossa: Chi ha pane e vesti non ha bisogno di altro. "Mangeremo il nostro pane e indosseremo le nostre vesti", vuol dire: Con lo Spirito Santo, insieme con il Padre e il Figlio, possedere tutto e non avere più bisogno di nulla. "Soltanto, fa' che siamo chiamati con il tuo nome", e questo significa: Da te siano chiamati cristiani, coloro che bramano fruire della nostra dimora. "Tòglici la nostra vergogna", perché, scacciati ( i doni ) dal cuore degli uomini per il fetore dei vizi, non siamo più costretti a cambiare così spesso dimora. 7. L'umanità di Cristo, dunque, sulla quale siede - cioè si umiliò - come su di un trono la divinità, fu eccelsa ed elevata. Fu eccelsa per la sua ineguagliabile santità di vita. Dice Giovanni: "Colui che viene dall'alto è al di sopra tutti" ( Gv 3,31 ) per la sublimità della vita. E anche Isaia: "Mangerà burro e miele, finché non imparerà a rifiutare il male e a scegliere il bene" ( Is 7,15 ). Osserva che dal latte di pecora si ricavano due alimenti: il burro e il formaggio. Il burro è dolce e grasso, il formaggio è arido e asciutto. La pecora fu Adamo la cui natura, prima del peccato, fu come il burro per l'innocenza e la purezza; dopo il peccato fu come il formaggio, arrido e secco. Perciò: "Sia maledetta la terra", cioè la tua carne, "nel tuo lavoro. Ti produrrà solo triboli e spine" ( Gen 3,17-18 ). Quando dunque venne l'Emanuele, colui che la Vergine concepì e partorì, egli non mangiò formaggio ma burro, perché non assunse carne corrotta o soggetta al vizio, ma assunse carne purissima dalla carne della purissima Vergine Mangiò anche miele, che viene dall'alto, nel quale è raffigurata l'assoluta perfezione della sua vita. Parimenti l'umanità di Cristo fu elevata, vale a dire innalzata sul patibolo della croce. Infatti dice Giovanni: "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" ( Gv 12,32 ) con l'uncino della croce, nella quale il nostro "sole" fu coperto con il cilicio e marcato con cinque "segni". Per questo è detto: "Ci saranno dei segni nel sole". 8. I "segni nel sole" furono le cinque piaghe nel corpo di Cristo. Esse sono "le cinque città in terra d'Egitto, che parlano la lingua di Canaan, la prima delle quali si chiamerà Città del Sole" ( Is 19,18 ). Egitto s'interpreta "mestizia" o "tenebre". La terra d'Egitto raffigura la carne di Cristo, che fu nella mestizia; infatti nella lettera agli Ebrei è detto: "Offrendo con lacrime e forti grida" ( Eb 5,7 ); e fu nelle tenebre: "Mi ha relegato nelle tenebre, come i morti da gran tempo" ( Sal 143,3 ). In questa terra ci furono cinque città, cioè cinque piaghe, che sono le cittàrifugio, nelle quali chiunque si rifugia sarà liberato dalla morte. Fuggi dunque, rifugiati nelle città fortificate, perché chi sarà trovato fuori di esse sarà ucciso. È detto infatti nella Genesi che ogni essere che si troverà fuori dell'arca, sarà distrutto dalle acque del diluvio ( cf. Gen 7,21-23 ). Solo nell'arca infatti c'è la vita. Fuggi ad essa come fece Ruth, alla quale Booz disse: "Pieno salario riceverai dal Signore, Dio d'Israele, al quale sei venuta e sotto le cui ali ti sei rifugiata" ( Rt 2,12 ). Cristo con le braccia aperte sulla croce, quasi come due ali, accoglie coloro che a lui accorrono, e nel rifugio delle sue piaghe li nasconde dalla minaccia dei demoni. "Che parlano la lingua di Canaan", nome che s'interpreta "cambiata". Infatti le piaghe di Gesù Cristo, come con un totale cambiamento di linguaggio, parlano di noi al Padre non per ottenere vendetta, ma per impetrare misericordia. Dice l'Apostolo agli Ebrei: "Vi siete accostati al Mediatore della Nuova Alleanza, Gesù, e al sangue dell'aspersione, dalla voce più eloquente di quella del sangue di Abele" ( Eb 12,22.24 ): il sangue di Abele gridava vendetta, il sangue di Cristo grida misericordia. Dice ancora Bernardo: O uomo, hai un accesso sicuro a Dio, perché davanti al Figlio trovi la Madre, e davanti al Padre trovi il Figlio. La Madre mostra al Figlio il petto e le mammelle, il Figlio mostra al Padre il costato e le piaghe. Non potrà quindi esservi rifiuto, dove sono riuniti tanti segni di amore. "La prima sarà chiamata città del sole". La piaga del costato è la città del sole. Con l'apertura del costato del Signore venne aperta la porta del paradiso, dalla quale rifulse a noi lo splendore della luce eterna. Si legge nella Storia Naturale che il sangue estratto dal fianco della colomba elimina le macchie dagli occhi; così il sangue estratto dal costato di Cristo con la lancia del soldato, illuminò gli occhi del cieco nato, cioè del genere umano. 9. Con questo primo avvento del Signore, concorda la prima parte dell'epistola di oggi: "È ormai tempo che noi ci destiamo dal sonno" ( Rm 13,11 ). Come nell'ultimo avvento "suonerà la tromba e i morti risorgeranno" ( 1 Cor 15,52 ), così in questo primo avvento suona la tromba della predicazione: "È ormai tempo", ecc. Questo tempo è l'anno della benignità ( cf. Sal 65,12 ), "la pienezza dei tempi, in cui Dio mandò il Figlio suo, nato da donna, nato sotto la legge" ( Gal 4,4 ). Svegliamoci dunque dal sonno, cioè dall'amore delle cose temporali, delle quali Isaia dice: "Vedono cose vane, dormono e amano i sogni" ( Is 56,10 ), cioè le cose temporali che chiudono gli occhi del cuore alla contemplazione delle cose eterne. Le vane immaginazioni sulle cose di questo mondo, che illudono i dormienti nelle prime ore del giorno, vengano fugate dal sorgere del sole. Il sacco fatto di crine, il cilicio, il misero pannicello nel quale Gesù fu avvolto, l'umile luogo del presepio nel quale fu adagiato, ci invitano a svegliarci dal sonno e a scacciare le vane fantasie. "È veramente tempo di svegliarsi dal sonno". Ma guai a noi che neppure in quest'unica ora possiamo vegliare con il Signore, perché non lo vogliamo. Il Signore ha vegliato, poiché dice Geremia: "Vedo una verga vigilante" ( Ger 1,11 ). Gesù Cristo fu la verga, flessibile per la sua obbedienza e umiltà, sottile per la povertà: egli vegliò con queste virtù, ma noi non vogliamo vegliare con lui. Gli uomini, schiavi delle ricchezze dormirono il loro sonno ( cf. Sal 76,6 ); invece le ricchezze [ vere ] degli uomini, cioè l'umiltà e la povertà dei giusti, vegliano con il Signore e quindi possono dire in tutta sincerità: "Adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti" ( Rm 13,11 ). E questo è ciò che dice anche Salomone: "La via dei giusti è simile alla luce che incomincia a risplendere, e cresce fino a pieno giorno" ( Pr 4,18 ). "Luce che risplende", cioè "quando diventammo credenti"; "fino a giorno pieno", cioè "la nostra salvezza è più vicina". La luce splendente si ebbe nell'incarnazione del Verbo, dalla quale scaturì la fede; il giorno pieno si verificò nella passione, con la quale fu più vicina la salvezza. "Che cosa ci sarebbe servito l'essere nati, se non fossimo stati redenti?" ( dal canto Exultet del sabato santo ). Fratelli carissimi, supplichiamo dunque Gesù Cristo che nel primo avvento si coprì per noi di cilicio, e che si contrassegnò con i segni della passione per intercedere per noi, affinché ci svegli dal sonno, ci faccia vegliare con lui, in modo da poter meritare nel suo ultimo avvento l'eredità dell'eterna salvezza. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. II. Il secondo avvento di Cristo nella mente 10. "Ci saranno segni nella luna". I segni nella luna sono quelli descritti da Giovanni nell'Apocalisse: "La luna diventò tutta simile al sangue" ( Ap 6,12 ), e da Gioele: "La luna si cambierà in sangue" ( Gl 2,31 ). Dio creò due grandi luci, la maggiore e la minore ( cf. Gen 1,16 ); vale a dire, creò due creature ragionevoli. La luce maggiore è lo spirito angelico, la luce minore è l'anima umana. Per questo si dice luna, come a dire "una tra le luci". Infatti l'anima umana fu creata per essere una di quegli spiriti celesti, in grado di comprendere le cose del cielo; perché lodasse il creatore e fosse felice insieme con i figli di Dio ( cf. Gb 38,7 ). Ma per la troppa vicinanza alla terra contrasse la negrezza e perdette la sua luminosità: e quindi, se vuole ricuperarla, è necessario che prima diventi tutta sangue. Il sangue simboleggia la contrizione del cuore. L'Apostolo nella lettera agli Ebrei dice: "Mosè, preso il sangue  (dei vitelli e dei capr i) con acqua, lana scarlatta e issopo, ne asperse il libro stesso e tutto il popolo, dicendo: Questo è il sangue dell'alleanza che Dio ha stabilito per noi. Alla stessa maniera asperse con il sangue anche la tenda e tutti i vasi adibiti al culto. ( Secondo la Legge infatti ), tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non c'è perdono" ( Eb 9,19-22 ). Ecco dunque in che modo la luna è diventata tutta come sangue. Vedremo ora quale significato morale abbiano Mosè, il sangue, l'acqua, la lana scarlatta e l'issopo, il libro e il popolo, la tenda e i vasi. Quando Gesù Cristo, misericordioso e benigno, entra nella mente del peccatore, allora "Mosè prende il sangue", ecc. Mosè è lo stesso peccatore già convertito; liberato dalle acque dell'Egitto, egli deve accogliere in sé queste quattro entità: il sangue della dolorosa contrizione, l'acqua della lacrimosa confessione, la lana dell'innocenza, scarlatta per la correzione fraterna, e l'issopo della vera umiltà. Con queste cose deve aspergere il libro, cioè il segreto del suo cuore, e tutto il popolo dei suoi pensieri, e la tenda, cioè il suo corpo, e tutti i suoi vasi, vale a dire i cinque sensi. Nel sangue della contrizione tutte le cose vengono purificate, tutto viene perdonato, purché ci sia il proposito di confessarsi. Infatti senza il sangue della contrizione non c'è remissione di peccato. 11. "Ci saranno segni nella luna". Per mezzo dei segni esteriori del penitente si conoscono i segni interiori della contrizione. Quando risplenderà nel corpo la castità, l'umiltà nell'agire, l'astinenza nel mangiare, la modestia nel vestire: questi saranno gli indizi della santificazione interiore. E in merito a queste quattro pratiche, Dio, per bocca di Isaia, promette all'anima penitente: "Verrà a te la gloria del Libano: l'abete, il bosso e il pino insieme, per ornare il luogo della tua santificazione" ( Is 60,13 ). La gloria del Libano è la castità del corpo, della quale l'anima si gloria: "Come un cedro mi innalzai sul Libano" ( Sir 24,17 ): Libano s'interpreta appunto "bianchezza". Il cedro, con il suo profumo, scaccia i serpenti. Nel Libano dunque, cioè nel corpo che pratica la castità, l'anima viene innalzata come un cedro, perché con il profumo della sua condotta santa mette in fuga i serpenti della suggestione diabolica e della concupiscenza carnale. Di queste cose dice ancora Isaia: "Su tutta la gloria, la protezione" ( Is 4,5 ). Dove c'è la gloria della castità, lì c'è la protezione della divina misericordia, che custodisce tutte le opere buone. Parimenti, l'abete, detto in lat. abies, perché svetta più in alto ( lat. abeo ) di tutte le altre piante, raffigura l'umiltà, che è la più sublime di tutte le virtù. Infatti, in merito a questa virtù, concordano le parole di Isaia: "Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore che sedeva sopra un trono eccelso ed elevato; e la casa era piena della sua maestà, e le cose che erano sotto di lui riempivano il tempio" ( Is 6,1 ). Il re Ozia, superbo e lebbroso, raffigura il vizio della superbia: se nell'uomo questo vizio muore, il Signore siede in lui come su di un trono. L'anima del giusto è sede della sapienza. Infatti nell'anima, sublimata dall'umiltà, sollevata dalle cose terrene alla contemplazione celeste, riposa il Signore, e allora la casa dei cinque sensi è piena della sua maestà. Tutte le membra sono nello stato di quiete, quando il Signore riposa nella mente. Dice infatti il Signore per bocca di Isaia: "Il mio popolo", quando io dimorerò in lui, "si troverà in una pace meravigliosa" per l'onestà della vita, "e nelle tende della confidenza" per la sicurezza della coscienza, "nella quiete e nella ricchezza" ( Is 32,18 ), cioè con la ricchezza della buona fama. E infatti continua: "E le cose che erano sotto di lui riempivano il tempio". Quando il Signore dimora nella nostra mente, tutto ciò che facciamo sotto il suo sguardo, essendo fatte nell'umiltà, riempiono il tempio, cioè danno buon esempio ed edificano il prossimo. Ancora: il bosso, pianta di colore pallido, simboleggia l'astinenza dal cibo e dalla bevanda. Dice Isaia: "Il Signore ti darà pane duro e poca acqua" ( Is 30,20 ), e di nuovo: "Gli asinelli che lavorano la terra", cioè i penitenti che castigano il loro corpo, mangeranno una mistura di orzo e paglia" ( Is 30,24 ), nella quale è raffigurata la frugalità dei cibi. E infine il pino, dal quale si ricava la pece ( resina ), raffigura la mediocrità, la povertà delle vesti: ventre digiuno e abito dimesso implorano Dio con grande sentimento. Dobbiamo espiare con la scarsezza del cibo e la modestia delle vesti l'eccesso dei passati piaceri e dello sfarzo, affinché, come dice Isaia, "invece del profumo ci sia sentore di povertà, invece della cintura una corda, invece dei riccioli la calvizie, invece della fascia pettorale il cilicio" ( Is 3,24 ). Queste quattro cose ornano il luogo della santificazione del Signore, cioè l'anima del penitente nella quale dimora il Signore. Infatti egli dice: "Verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" ( Gv 14,23 ). 12. Con questo secondo avvento concorda la seconda parte dell'epistola: "La notte è avanzata, il giorno è vicino" ( Rm 13,12 ). Questo è ciò che dice Isaia: "L'antico errore è scomparso: conserverai la pace; la pace, perché in te abbiamo sperato", o Signore ( Is 26,3 ). La notte e l'errore simboleggiano la cecità del peccato; il giorno e la pace l'illuminazione della grazia. La ripetizione della parola pace, sta ad indicare la quiete interiore e quella esteriore, di cui l'uomo gode quando il Signore siede sopra un trono eccelso ed elevato. "Gettiamo via, perciò, le opere delle tenebre" ( Rm 13,12 ). Anche Isaia dice: "In quel giorno l'uomo getterà via i suoi idoli di argento e le sue statue d'oro, che raffiguravano talpe e pipistrelli, che si era fabbricato per adorarli" ( Is 2,20 ). Nell'argento è indicata l'eloquenza, nell'oro la sapienza; nelle talpe l'avarizia e nei pipistrelli la vanagloria. La talpa, essendo priva di occhi, scava la terra; il pipistrello poi non vede di giorno perché è senza il liquido cristallino, e ha poi le ali allacciate con i piedi. L'uomo carnale, che conosce e sa solo di terra, con l'argento dell'eloquenza e l'oro della sapienza si fabbrica degli idoli, vale a dire le talpe dell'avarizia e i pipistrelli della vanagloria, che sono le opere delle tenebre Infatti l'avarizia, che è priva della luce della povertà, scava la terra e ama le cose terrene. La vanagloria, mentre piace al "giorno umano", non vede il "giorno divino"; infatti le sue ali, cioè le opere con quali avrebbe potuto volare al cielo, sono allacciate ai piedi, cioè agli affetti carnali; infatti brama essere veduta e lodata dagli uomini. Ahimè, quanti predicatori e prelati del nostro tempo, con l'eloquenza e la sapienza che Dio ha loro elargito, si fabbricano degli idoli, e li adorano. Cercano infatti di arricchirsi, di essere onorati, di essere chiamati rabbi, maestro, e di essere salutati nelle piazze ( cf. Mt 23,7 ). Ma in quel giorno, cioè nell'illuminazione della grazia, della quale è detto appunto "il giorno è vicino", l'uomo getta via le talpe e i pipistrelli che non vedono la luce, e che raffigurano le opere delle tenebre. Allora si adempirà ciò che segue: "Indossiamo le armi della luce" ( Rm 13,12 ). 13. Dice in proposito Isaia: "Àlzati, àlzati, rivèstiti della tua fortezza, o Sion. Indossa le vesti della tua gloria, Gerusalemme, città del Santo" ( Is 52,1 ). Sion e Gerusalemme sono simbolo dell'anima che, quando pecca, si rende schiava del diavolo, mentre quando fa penitenza si libera e si eleva in alto. Álzati dunque con la contrizione, àlzati con la confessione, rivèstiti della fortezza della perseveranza finale, indossa le vesti della tua gloria, cioè della duplice carità, e così sarai la città dello Spirito Santo. "Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno" ( Rm 13,13 ). Sempre Isaia: "Si vedrà in te la gloria del Signore, i popoli cammineranno alla tua luce e i re allo splendore del tuo sorgere" ( Is 60,1.2-3 ). I popoli sono i sensi del corpo; i re gli affetti della mente. Quelli cammineranno nella luce di un onesto comportamento e questi nello splendore della purezza, quando l'anima dell'uomo sarà illuminata della gloria di Dio. "Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze" ( Rm 13,13 ). Sempre Isaia: "Si sono riempiti di vino e ubriacati; nella loro ubriachezza sono usciti di strada e non hanno riconosciuto il veggente", cioè Dio che tutto vede; "non hanno conosciuto la giustizia. Tutte le mense sono piene di vomito e di sudiciume e non c'è più un posto pulito" ( Is 28,7-8 ). "Non fra impurità e licenziosità" ( Rm 13,13 ). E Isaia: "Sarà come la tana dei draghi e il pascolo degli struzzi" ( Is 34,13 ), ecc. Vedi anche il sermone della domenica I di Quaresima, parte II, "Gesù fu condotto nel deserto". "Non in contese e gelosie" ( Rm 13,13 ). Isaia: "Ciascuno divorerà la carne del suo braccio" ( Is 9,20 ), infierirà cioè contro il suo prossimo, con contese e invidie. "Manasse contenderà contro Efraim ed Efraim contro Manasse": vale a dire, i laici contenderanno contro i chierici e i chierici contro i laici; "tutti e due insieme combatteranno contro Giuda" ( Is 9,20 ), cioè contro i religiosi. "Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo" ( Rm 13,14 ). Ed Isaia: "Mi rivestì delle vesti della salvezza", cioè delle virtù, "e mi avvolse nel manto della giustizia" ( Is 61,10 ), cioè di Gesù Cristo. "Quanti infatti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" ( Gal 3,27 ). Fratelli carissimi, imploriamolo devotamente che cambi la luna, che tramuti cioè tutta l'anima nostra nel sangue della contrizione, con la quale, gettando via le opere delle tenebre, meritiamo di camminare in pieno giorno e di rivestirci di lui, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. Il terzo avvento di Cristo nell'ora della morte 14. "Ci saranno segni nelle stelle". Anche i segni delle stelle sono quelli di cui parla Giovanni nell'Apocalisse: "Le stelle del cielo caddero sopra la terra, come quando un fico, investito da un grande vento, lascia cadere i fichi immaturi" ( Ap 6,13 ). Dell'uomo che soffre nel travaglio dell'agonia, dice il profeta: "Guarderà in alto e rivolgerà lo sguardo sulla terra: ed ecco sofferenza e tenebre; sfinimento, angustia e caligine lo tormenteranno: e non potrà liberarsi dalle sue angustie" ( Is 8,21-22 ). Nel momento della morte c'è la sofferenza della malattia, l'oscurità negli occhi perché, come dicono, in quel momento sono privi della luce; c'è lo sfinimento di tutte le membra, l'angustia della morte e la caligine che tormenta, cioè la paura della geenna, ossia la presenza del diavolo che tenta in ogni modo di impadronirsi dell'anima che sta per uscire dal corpo. Ahimè! Il misero essere umano sia che guardi in alto, sia che rivolga lo sguardo a terra, non potrà più liberarsi dal suo tormento, se non ritornando alla terra e in essa trasformandosi. Dice Isaia: "È caduta, è caduta Babilonia", cioè la carne dell'uomo, "e tutte le statue dei suoi dèi", cioè i piaceri dei sensi, "sono a terra in frantumi" ( Is 21,9 ), perché sei terra e alla terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Questo è dunque il significato della frase: "le stelle", cioè gli uomini viventi, "caddero dal cielo", dal firmamento, vale a dire dal loro stato, nel quale credevano molto sicuri e di vivere molto a lungo, caddero sulla terra, dalla quale sono stati creati. "Come il fico, investito da un grande vento", ecc. Il fico è la natura umana la quale, quando è investita dal grande vento della morte, lascia cadere i fichi immaturi, perde cioè i sensi e le membra, e così si riduce all'impotenza. Questi sono i segni nelle stelle. Beato sarà perciò quel servo che il Signore, quando viene e bussa alla porta, troverà sveglio ( cf. Lc 12,36-37 ). 15. Beato colui che nell'ora della sua morte potrà cantare ciò che si canta nell'introito della messa di oggi: "A te, Signore, ho innalzato l'anima mia" ( Sal 25,1 ). E questo concorda con ciò che dice Isaia: "Àlzati, àlzati, lèvati su, Gerusalemme!" ( Is 51,17 ). O anima, àlzati dalle lusinghe della tua carne, àlzati dalla concupiscenza del mondo, sollèvati alle gioie eterne. Nel momento della morte sarà tranquillo e sereno colui che in questo modo avrà innalzato a Dio la sua anima. "Dio mio, in te confido" ( Sal 25,2 ). Ed Isaia: "In quel giorno il resto d'Israele non si appoggerà più su chi li ha percossi", cioè sugli Assiri, vale a dire sul diavolo; "ma si appoggerà sul Signore, sul Santo d'Israele" ( Is 10,20 ). "In te confido", non nella carne, non nel mondo. E di questa fiducia dice Isaia: "Ecco, tu confidi nell'Egitto, in questo sostegno di canna spezzata, che punge e trafigge la mano di chi vi si appoggia" ( Is 36,6 ). L'abbondanza del mondo e la salute del corpo sono quasi una canna che ha le sue radici nel fango, bella di fuori ma vuota all'interno. Questa canna, quando l'uomo si appoggia su di essa, si spezza al momento della morte, e quando è spezzata ferisce l'anima, la quale così ferita cade nella geenna "Non sarò confuso" ( Sal 25,2 ). È vero, è vero, colui che in vita confida nel Signore, nell'ora della morte non sarà confuso, ma esultando potrà dire con Isaia: "Io gioisco pienamente nel Signore, e la mia anima esulta nel mio Dio" ( Is 61,10 ). Mentre lo stesso Isaia, minaccia così coloro che confidano nel mondo: "Vi vergognerete dei giardini che vi siete scelti, poiché sarete come le querce dalle foglie avvizzite, e come un giardino senza acqua, e la vostra forza sarà come il fuoco di stoppie, e le vostre opere come una scintilla, ed entrambe saranno bruciate e non ci sarà chi spenga il fuoco" ( Is 1,29-31 ). Alla fine della loro vita i carnali si vergogneranno "dei giardini" della gola e della lussuria, che si erano scelti durante la vita. Saranno nudi e aridi "come la quercia dalle foglie avvizzite", simbolo delle loro ricchezze e piaceri; saranno come "un giardino senz'acqua", perché ogni piacere cesserà Per i canali dei sensi infatti non scorreranno più le acque dei piaceri mondani, per inebriare la concupiscenza della carne. E allora "la loro fortezza", cioè la loro superbia nella quale confidavano, "sarà come il fuoco delle stoppie", le quali ben presto si consumano, "e le loro opere come una scintilla", cioè di nessun valore; "ed entrambe", cioè la fortezza della superbia e le opere dell'avarizia, "saranno bruciate" dai demoni, "e non ci sarà chi spenga il fuoco". Conclude infatti Isaia: "Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spegnerà" ( Is 66,24 ). "Non mi deridano i miei nemici" ( Sal 25,3 ). Di questa irrisione, dice Geremia nelle Lamentazioni: "Contro di te applaudirono con le mani quanti passavano per la via; fischiarono e scossero il capo sulla figlia di Gerusalemme: È questa la città che dicevano bellezza perfetta e gioia di tutta la terra? Spalancarono contro di te la bocca tutti i tuoi nemici; fischiarono e digrignarono i denti e dissero: L'abbiamo divorata Questo è il giorno che aspettavamo: siamo arrivati a vederlo!" ( Lam 2,15-16 ). Alla fine della vita, saranno sicuri da questa irrisione coloro che hanno posto la loro fiducia nel Signore; ad essi il Signore ha promesso: "Voi partirete con gioia", dal vostro corpo, "e sarete condotti nella pace", alla patria celeste. "I monti", vale a dire gli angeli, "e i colli", cioè gli apostoli, "canteranno la lode davanti a voi, e tutti gli alberi della regione", cioè le anime dei santi, "batteranno le mani" ( Is 55,12 ) per la gioia della vostra presenza, esultando e lodando con voi il Figlio di Dio. Fratelli carissimi, chiediamogli umilmente che quando arriverà il nostro ultimo giorno e la fine della nostra vita, ci liberi dalla irrisione dei demoni e ci faccia partire nella gioia e condurre alla pace per mano degli angeli. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Il quarto avvento di Cristo nella maestà 16. "E vi sarà sulla terra costernazione di popoli" ( Lc 21,25 ). Di questa costernazione dice Isaia: "Sarà stritolata la terra, sarà frantumata la terra, crollando crollerà la terra, barcollerà la terra come un ubriaco" ( Is 24,19-20 ). Come l'ubriaco non sa quello che fa, così tutti quelli che sono sulla terra saranno come ubriachi per l'enormità dei mali e saranno come istupiditi di fronte agli eventi. Il fatto che la terra sia qui nominata quattro volte, indica quattro specie di peccatori: i superbi, i lussuriosi, gli avari e gli iracondi. I superbi saranno stritolati: "Dio stritolerà i denti dei leoni" ( Sal 58,7 ). I lussuriosi saranno frantumati: "Il Signore li schiaccerà con duplice stritolamento" ( Ger 17,18 ); perché coloro che hanno peccato con l'anima e con il corpo, nell'anima e nel corpo siano puniti. Gli avari crolleranno: "Saranno come paglia di fronte al vento, e come favilla che il turbine disperde" ( Gb 21,18 ). Gli iracondi barcolleranno: "Vidi che coloro che fanno opere inique e seminano affanni e li raccolgono, al soffio di Dio periscono e sono annientati dallo sfogo della sua ira" ( Gb 4,8-9 ). "Saranno angosciati per il fragore del mare e dei flutti" ( Lc 21,25 ). E Isaia: "All'improvviso, subito, dal Signore degli eserciti sarai visitata con tuoni, terremoti e grande frastuono di uragano e tempesta e fuoco divoratore" ( Is 29,6 ). Gli elementi della natura faranno vendetta in nome del loro autore. La rovina dei dannati avverrà all'improvviso "Il giorno del Signore verrà di notte come il ladro. E quando diranno: pace e sicurezza, allora all'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta; e nessuno scamperà" ( 1 Ts 5,2-3 ). Dice ancora l'Apocalisse: "Ecco, io vengo subito, Amen. Vieni, Signore Gesù" ( Ap 22,20 ). Allora il peccatore sarà sorpreso dal tuono del cielo e dal terremoto sulla terra. La terra, oppressa dal peso eccessivo dei suoi peccati, si scrollerà di dosso il peccatore. Nell'aria ci sarà il frastuono dell'uragano e nel mare il fragore della tempesta. Dove fuggirà lo sventurato? Dove si nasconderà? Se vorrà salire al cielo, sarà sbattuto via dal tuono; se vorrà salvarsi nell'aria, sarà travolto dall'uragano; se vorrà restare sulla terra, non sarà in grado di resistere al suo scuotimento perché, come dice Giobbe, "la terra si rivolterà contro di lui" ( Gb 20,27 ); se si rivolgerà al mare, sarà respinto dai suoi flutti. Che cosa resta al misero, al quale non è rimasto un posto in tutto il mondo, se non cadere nell'abisso di fiamma del fuoco divoratore? Dice infatti Giobbe: "Lo divorerà il fuoco non acceso da uomo" ( Gb 20,26 ). 17. "Gli uomini resteranno come inariditi e rinsecchiti per il terrore e per l'attesa di ciò che dovrà accadere in tutta la terra" ( Lc 21,26 ). Ed è ciò che dice anche Isaia: "Urlate, perché è vicino il giorno del Signore; esso viene come una devastazione da parte dell'Onnipotente. Perciò tutte le mani si sfibreranno e il cuore di ogni uomo verrà meno e si spezzerà. Spasimi e dolori li assaliranno; si contorceranno come una partoriente; ognuno osserverà sgomento il suo vicino; i loro volti saranno come bruciati da una fiamma. Ecco, viene il giorno del Signore: giorno implacabile, pieno di indignazione, d'ira e di furore, per fare della terra un deserto e per sterminare i peccatori che sono su di essa. Le stelle del cielo e il loro splendore non daranno più luce alcuna; il sole sarà oscurato fin dal suo levare e neppure la luna spanderà più la sua luce. Io punirò tutti i mali del mondo e gli empi per la loro iniquità. Farò cessare la superbia degli infedeli e umilierò l'arroganza dei prepotenti" ( Is 13,6-11 ). "Le potenze dei cieli saranno sconvolte" ( Lc 21,26 ), per lo stupore. Isaia: "Tutta la milizia celeste si dissolverà e i cieli si chiuderanno in se stessi come un libro ( Is 34,4 ). Commenta la Glossa: Quest'aria sarà avvolta nel fuoco e sembrerà chiudersi come un libro. Infatti dopo che tutti i peccati saranno letti e svelati, verranno chiusi i libri che erano stati aperti; perché in essi mai più vengano registrati i delitti. Dice infatti Daniele: "Incominciò il giudizio e furono aperti i libri" ( Dn 7,10 ). "E allora vedranno il Figlio dell'uomo venire nelle nubi con grande potenza e maestà" ( Lc 21,27 ). Fa' attenzione alle due parole: potenza e maestà La potenza riguarderà coloro che saranno condannati, la maestà coloro che saranno salvati. Consideriamo i due eventi. 18. Riguardo alla potenza, concordano le parole del profeta Isaia: "Il Signore avanzerà come un prode, come un guerriero ecciterà il suo ardore", per i giusti castighi; "griderà e lancerà urla di guerra e sarà forte contro i suoi nemici. Ho sempre taciuto, ho fatto silenzio, sono stato paziente; ora griderò come una partoriente: distruggerò e divorerò insieme. Ridurrò a deserto i monti e i colli, e farò inaridire ogni loro germoglio" ( Is 42,13-15 ). Il Signore tacque come un agnello quando fu condotto alla passione; e anche ora sta in silenzio, perché non interviene con i castighi; infatti dice Giobbe: La verga di Dio non si abbatte su di loro ( cf. Gb 21,9 ). È paziente e aspetta che ognuno faccia penitenza: " Tu fingi di non vedere i peccati degli uomini, nell'attesa che facciano penitenza" ( Sap 11,24 ). Ma nel giorno del giudizio griderà come una partoriente, lasciando libero corso al rammarico sì a lungo represso. Allora disperderà tutte le ricchezze accumulate e distruggerà il loro potere; renderà deserti i monti e i colli, abbatterà cioè la superbia sia dei prelati che dei sottoposti, e farà inaridire ogni germe di gola e di lussuria Di questa potenza dice ancora Isaia: "La spada del Signore è piena di sangue, imbrattata di grasso, del sangue di agnelli e di capri, delle viscere grasse dei montoni: ci sarà la vittima del Signore in Bozra, una grande strage nel paese di Edom. Cadranno i loro unicorni e i tori con i potenti; la loro terra si ubriacherà di sangue e i loro campi del grasso dei corpi, perché è il giorno della vendetta del Signore, è l'anno della giusta retribuzione di Sion. I suoi torrenti saranno cambiati in pece, la sua polvere in zolfo, e la sua terra diventerà come pece ardente. Non si spegnerà mai più, né di giorno né di notte, e s'innalzerà il suo fumo di generazione in generazione" ( Is 34,6-10 ). Nel giorno del giudizio "la spada", cioè la potenza "del Signore" che farà vendetta dei suoi nemici, sarà "piena di sangue e imbrattata di grasso: punirà cioè i peccati e la tracotanza dei carnali; [ sarà piena ] "del sangue degli agnelli", cioè degli ipocriti che si fingono agnelli mentre sono lupi rapaci; "e dei capri", cioè dei libidinosi; "e delle viscere grasse dei montoni", cioè dei corpulenti abati e priori, che sono alla guida del gregge. "La vittima del Signore", cioè la sua vendetta "sarà in Bozra", che s'interpreta "fortificata", e raffigura la comunità dissoluta e in discordia che vive nel chiostro; è difesa dalle mura all'esterno, ma è esposta all'interno a tutti i vizi che vi entrano. Dice Isaia: "Hai fatto il tuo corpo come terra e come strada per tutti quelli che passavano" ( Is 51,23 ). "E una grande strage nel paese di Edom". Edom s'interpreta "di sangue" o "terreno", e simboleggia quei chierici che sono contaminati dal sangue della lussuria e dal fango del denaro. "E i suoi unicorni", cioè gli imperatori e i re di questo mondo, "e i tori", cioè i vescovi mitrati, che hanno sulla testa due corna ( la mitria ) come i tori; tutti costoro, che non avranno fatto una vera penitenza dei loro peccati, "cadranno giù insieme con i potenti", cioè con i prìncipi e le autorità; cadranno nell'inferno, che è la terra dei morenti, la quale "sarà come ubriacata dal loro sangue e dal loro grasso", cioè dalla loro malizia e superbia. L'ultima parte della citazione di Isaia [ i suoi torrenti, ecc. ] non ha certo bisogno di spiegazioni. 19. Sulla maestà del Signore concorda sempre ciò che dice Isaia: "Il Signore sarà per te luce sempiterna e saranno finiti i giorni del tuo lutto" ( Is 60,20 ), perché le sofferenze di prima sono dimenticate e sono ormai nascoste allo sguardo di coloro che in questa vita hanno aspettato nella santità e nella giustizia il Signore, che sarebbe venuto per il giudizio. Di questi si dice nell'introito della messa: "Tutti coloro che ti aspettano non saranno delusi" ( Sal 25,3 ). È vero, è vero, Signore, non saranno delusi: anzi esulteranno per l'eternità. Della gloria dei buoni e del castigo dei cattivi, tu prometti con le parole di Isaia: "Ecco che i miei servi mangeranno, e voi patirete la fame; ecco che i miei servi berranno, e voi patirete la sete; ecco che i miei servi saranno nella gioia e voi nella delusione; ecco che i miei servi, nella felicità del loro cuore, canteranno lodi, e invece voi griderete per il dolore del cuore e urlerete per la tortura dello spirito" ( Is 65,13-14 ). Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo perché, quando verrà nel giorno dell'ultimo giudizio per rendere a ciascuno secondo le sue opere, quando verrà con grande potenza e maestà, non voglia esercitare la sua potenza verso di noi, mettendoci con coloro che saranno dannati, ma ci renda beati, di fronte alla sua maestà, insieme con coloro che saranno salvati: possiamo anche noi con loro mangiare e bere, esultare ed essere felici nel regno dei cieli. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima beata dica: Amen. Alleluia. Domenica II di Avvento Temi del Sermone - Vangelo della seconda domenica di Avvento: "Giovanni, avendo udito dal carcere le opere di Cristo"; si divide in tre parti. - Anzitutto sermone per l'inizio del digiuno: "Scuotiti la polvere". - Parte I: Le quattro specie di peccatori: "Guai alla gente peccatrice!" - Parte II: Sermone contro i superbi: "Chi è cieco se non colui che è stato venduto?" - Contro l'ipocrita: "Gli zoppi camminano". - Contro i lussuriosi: "Naaman era un uomo potente". - Contro gli avari: "I sordi odono". - Contro i golosi: "I morti risorgono". - Ai poveri nello spirito, ai religiosi o ai claustrali: "Il Signore consolerà Sion". - Parte III: Sermone morale destinato in modo particolare ai claustrali e ai religiosi: "Che cosa siete andati a vedere?", con ciò che segue. Esordio - Sermone per l'inizio del digiuno 1. In quel tempo "Giovanni, avendo sentito in carcere le opere di Cristo", ecc. ( Mt 11,2 ). Dice Isaia: "Scuotiti la polvere, àlzati e siediti, Gerusalemme! Sciogliti i legami dal collo, schiava figlia di Sion!" ( Is 52,2 ). Fa' attenzione a queste quattro parole: scuotiti, àlzati, siediti, sciogliti. La polvere, così chiamata perché spinta dalla forza dal vento ( lat. pulvis, da pulso, spingere ), simboleggia la concupiscenza della carne la quale, sotto lo stimolo dell'istigazione diabolica, è trascinata a diversi peccati Dice Giobbe: "Lo rapirà un vento infuocato" ( Gb 27,21 ). Di questa polvere dice Isaia: "Pane del serpente" cioè del diavolo, "sarà la polvere" ( Is 65,25 ). "O Gerusalemme, scuotiti dalla polvere", vale a dire: O anima, scuotiti dai piaceri della tua carne, affinché il diavolo non ti divori insieme con essi. "Scuotete la polvere dai vostri piedi" ( Mt 10,14 ), dice anche il Signore. "Ti potrà forse lodare la polvere?" ( Sal 30,10 ). Àlzati, dunque. Àlzati con l'anima e con il corpo, per compiere le opere di penitenza. È ciò che dice Salomone: "Togli la ruggine dall'argento e ne risulterà un vaso splendente" ( Pr 25,4 ), come a dire: Scuotiti dalla polvere, àlzati e siediti, cioè lìberati dal tumulto delle cose del mondo Dice Geremia: "Se ne starà seduto da solo e in silenzio" ( Lam 3,28 ); e Isaia: "Se ritornerete e starete in pace, sarete salvi" ( Is 30,15 ). "Sciogliti i legami dal collo!" Queste ultime parole sono in armonia con le prime: vengono inculcate le medesime cose affinché si imprimano più profondamente nella memoria. Il piacere della carne e la vanità del mondo sono i legami con i quali l'anima è tenuta schiava, legata per il collo, per impedirle di giungere alla libertà della confessione. "Sciogli, dunque, i legami dal tuo collo". A questi legami accenna il brano evangelico di oggi dove dice: "Giovanni, avendo udito, mentre era in catene ( in vinculis ), le opere di Cristo…", ecc. 2. In questo vangelo si devono notare tre fatti. Primo, la carcerazione di Giovanni: "Avendo udito in carcere". Secondo, Cristo che compie i miracoli: "Andate e riferite a Giovanni". Terzo, l'elogio di Giovanni fatto da Cristo: "Chi siete andati a vedere?" Nella messa si canta l'introito: "Popolo di Sion, ecco il tuo Signore". Si legge un brano della lettera ai Romani del beato Paolo: "Tutto ciò che fu scritto in passato" ( Rm 15,4 ). Divideremo questo brano in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. La prima parte: "Tutto ciò che fu scritto in passato". La seconda: "Accoglietevi gli uni gli altri". La terza: "Il Dio della speranza". I. La carcerazione di Giovanni 3. "Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere di Cristo, mandò due dei suoi discepoli a dirgli: Sei tu colui che deve venire, oppure dobbiamo attenderne un altro? " ( Mt 11,2-3 ). Altrove Matteo scrive che "Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in carcere per causa di Erodiade, moglie di suo fratello. Giovanni gli diceva: Non ti è lecito tenerla" ( Mt 14,3-4 ). Vediamo quale significato morale abbiano Erode e Erodiade, Giovanni e le sue catene, e i due discepoli. Erode è il mondo, Erodiade la carne, Giovanni lo spirito dell'uomo, le catene sono la vanità e il piacere, i due discepoli sono la speranza e il timore. Erode e Erodiade s'interpretano "gloria della pelle". Il mondo e la carne menano vanto della bellezza esteriore. Dice in proposito Isaia: "Che cosa farete nel giorno del rendiconto e quando da lontano vi arriverà la rovina? A chi ricorrerete per avere aiuto? E dove lascerete la vostra gloria?" ( Is 10,3 ). E ancora: "In basso", cioè nell'inferno, "la sua gloria", cioè la gloria del mondo e della carne, "brucerà e avvamperà come la fiamma di un rogo" ( Is 10,16 ). "Ti lancerà come un palla in una terra larga e spaziosa" ( Is 22,18 ), vale a dire nell'"inferno, il quale ha aumentato la sua capacità ( animam suam ) e ha spalancato la sua bocca in modo smisurato" ( Is 5,14 ): "là tu morirai, là finirà il carro della tua gloria" ( Is 22,18 ). Giovanni s'interpreta "grazia del Signore", e raffigura lo spirito dell'uomo che nel battesimo ha ricevuto la grazia del Signore. Concordano con questo le parole di Isaia: "Verserò acqua sull'assetato, farò scorrere torrenti sul terreno arido. Spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza e la mia benedizione sulla tua stirpe. E cresceranno tra le erbe come i salici lungo acque correnti. Questi dirà: Io sono del Signore; e quegli chiamerà nel nome di Giacobbe. Questi scriverà con la sua mano: Al Signore, e sarà designato con il nome di Israele" ( Is 44,3-5 ). Assetata e arida è l'anima prima del Battesimo. "Per natura", dice l'Apostolo, "eravamo figli dell'ira" ( Ef 2,3 ). Ma il Signore, con l'acqua battesimale ha effuso il suo Spirito e la sua benedizione per fare dei figli dell'ira figli della grazia, e siano così discendenza e stirpe, cioè figli, della santa chiesa, e crescano tra le erbe, cioè tra i santi, come i salici, cioè rigogliosi di fede e di virtù, lungo le acque correnti, cioè tra i carismi e le grazie. "Questi dirà: Io sono del Signore": ecco Giovanni, ecco la grazia del Signore. "E quegli", cioè un altro fedele, "chiamerà" alla penitenza, come fece Giovanni, "nel nome di Giacobbe", vale a dire per soppiantare ( vincere ) i vizi. "E questi" - sempre Giovanni - "scriverà con la sua mano", cioè con le sue opere: "Al Signore", vale a dire: a onore del Signore! "E sarà designato con il nome di Israele", cioè con il significato di quel nome: uomo che vede Dio; adesso nella fede e nella speranza, e alla fine nella realtà. 4. È questo il Giovanni, così illuminato dalla grazia del Signore, che Erode ed Erodiade, cioè il mondo e la carne, legano con le loro catene: il mondo con la vanità, la carne con il piacere. La vanità del mondo consiste nella superbia e nell'avarizia; il piacere della carne nella gola e nella lussuria. Di questi quattro vizi Isaia dice: "Guai alla gente peccatrice", del peccato di superbia, "al popolo carico di iniquità", di avarizia; "alla stirpe malvagia" della gola, " e ai figli scellerati" ( Is 1,4 ) della lussuria. Ecco con quali catene il nostro spirito viene tenuto schiavo. Ma che cosa deve fare mentre si trova legato con queste catene? Appunto quello che sta scritto nel brano evangelico di oggi: "Giovanni, in catene, avendo sentito parlare delle opere di Cristo", ecc. Le opere di Cristo sono la creazione e la nuova creazione ( la redenzione ). E in ciò concordano le parole di Isaia: "Cetra e lira e timpano e flauto e vino sono nei vostri banchetti" - in tutto questo sono simboleggiati i piaceri dei sensi, dei quali si è parlato a lungo nel sermone della I domenica dopo Pentecoste -; "ma voi non guardate l'opera del Signore e non considerate le opere delle sue mani" ( Is 5,12 ). L'"opera del Signore" è la creazione la quale, ben considerata, porta colui che considera all'ammirazione del suo Creatore. Se c'è tanta bellezza nella creatura, quanta ce ne sarà nel creatore? La sapienza dell'artefice risplende nella materia Ma coloro che sono schiavi dei sensi non vedono questo, e neppure considerano "le opere delle sue mani", che sulla croce furono forate dai chiodi. Con le mani inchiodate sulla croce Cristo sconfisse il diavolo e strappò dalle sue mani il genere umano. Quando sente parlare di queste opere di Cristo, il nostro spirito, posto in catene, deve subito mandare due discepoli. Dico che sente parlare di queste opere interiormente, con l'orecchio del cuore, dall'ispirazione dello Spirito; oppure esternamente, con l'orecchio del corpo, dalla voce del predicatore Quando incomincia a sentire così, deve mandare da Gesù la speranza e il timore, e dirgli: "Sei tu che" mi hai creato e ricreato, che mi hai fatto e mi hai redento?" - e da ciò nasce in me la speranza nella tua misericordia. "Sei tu colui che verrà" a giudicarmi secondo le mie opere?" - e da ciò nasce in me il timore della tua giustizia -. "Oppure dobbiamo attendere un altro", che giudichi la terra con giustizia? No, di certo! Colui che ha creato e redento, è lo stesso che giudicherà. "Il Padre ha rimesso ogni giudizio al Figlio" ( Gv 5,22 ). 5. Con questa prima parte del vangelo, concorda la prima parte dell'epistola: "Tutto ciò che è stato scritto in passato" ( Rm 15,4 ), ecc. Dice il Signore a Isaia: "Su, esci e scrivi loro su una tavoletta di bosso e registrarlo con esattezza in un libro e sarà in perpetuo una testimonianza per l'ultimo giorno" ( Is 30,8 ). "Su una tavoletta di bosso", dice, perché resti in perpetuo. La sintesi di tutte le cose che sono state scritte per nostro insegnamento consiste soprattutto in tre eventi: nella creazione, nella redenzione e nel giudizio dell'ultimo giorno. La creazione e la redenzione ci insegnano ad amare Dio, l'ultimo giudizio a temerlo, "affinché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture, teniamo viva la nostra speranza" ( Rm 15,4 ). Senti in che modo la sacra Scrittura consola chi è tribolato. Dice il Signore per bocca di Isaia: "Se attraverserai l'acqua io sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno. Se passerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà. Perché io sono il Signore, Dio tuo" ( Is 43,2-3 ). E di nuovo: "Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, e neppure voi, o morti di Israele. Io sono stato il tuo aiuto, dice il Signore: il tuo redentore è il Santo d'Israele" ( Is 41,14 ). E ancora: "Io stesso vi consolerò. Chi sei tu, per aver paura di un uomo mortale e di un figlio dell'uomo, che si seccherà come il fieno?" ( Is 51,12 ). "Il Dio della perseveranza" che dice per bocca di Isaia: "Ho taciuto, sono stato in silenzio, ho avuto pazienza" ( Is 42,14 ); "il Dio della consolazione", che dice ancora: "Io vi consolerò e in Gerusalemme sarete consolati. Vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa cresceranno come erba fresca" ( Is 66,13-14 ), cioè i vostri corpi rivivranno nell'immortalità; " egli vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una sola voce rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo" ( Rm 15,5-6 ). E questo è ciò che dice Isaia: Due serafini "proclamavano uno all'altro e cantavano: Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria" ( Is 6,3 ). Serafino s'interpreta "ardente". Serafini sono coloro che ardono di reciproca carità, che hanno gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù. Quando dunque dice: "Dio vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti", ecc., afferma appunto: "Due serafini proclamavano uno all'altro"; e quando aggiunge: "perché con un solo animo e una sola voce rendiate gloria, ecc., dice: "e cantavano: Santo, santo, santo", ecc. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo che ci liberi dalle catene del mondo e della carne, in modo che diventiamo capaci di onorare e glorificare con un solo spirito e una sola voce colui della cui gloria è piena tutta la terra. A lui onore e gloria per i secoli eterni. Amen. II. Cristo compie i miracoli 6. "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete" ( Mt 11,4 ). Con queste parole viene distrutto l'errore degli eretici, i quali affermano che Giovanni è dannato, perché dubitò di Cristo quando disse: "Sei tu colui che ha da venire?", e che, persistendo in quel dubbio, morì in carcere prima del ritorno dei discepoli che aveva mandato da Gesù. Diventi muta quella lingua maledetta! Mai Giovanni dubitò di Cristo, al quale rese testimonianza: "Ecco l'agnello di Dio!" ( Gv 1,36 ). Invece per confermare nella fede a Cristo i suoi discepoli, li mandò ad interrogarlo affinché, vedendo i suoi miracoli, neppure loro avessero più alcun dubbio. Infatti il Signore non rispose direttamente all'interrogazione di Giovanni, ma per rassicurare il cuore dei suoi discepoli disse: "I ciechi vedono, gli zoppi camminano" ( Mt 11,5 ), ecc. Dice Gregorio: "Giovanni non dubita che Cristo sia il redentore del mondo, ma domanda di sapere se colui che di persona era venuto nel mondo, sarebbe anche disceso di persona agli inferi". E anche l'affermazione che fanno, che Giovanni sia morto prima del ritorno dei discepoli, risulta assolutamente falsa proprio dalle parole del santo Vangelo. O il Signore comandò ai discepoli una cosa impossibile, o gliene comandò una possibile, quando disse: "Andate e riferite …". Mai il Signore comanda l'impossibile. Se Giovanni fosse morto in carcere prima che i discepoli ritornassero da lui, il Signore avrebbe comandato loro una cosa impossibile, quando disse: "Andate e riferite". A chi avrebbero dovuto riferire? A un morto? No, di certo! È chiaro quindi che i discepoli trovarono Giovanni vivo e gli riferirono ciò che avevano udito e visto. Il Signore infatti comanda soltanto cose possibili. "I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri vengono evanzelizzati" ( Mt 11,5 ). Vedremo quale sia il significato morale di questi sei miracoli. I ciechi sono i superbi; gli zoppi sono gli ipocriti; i lebbrosi sono i lussuriosi; i sordi sono gli avari, i morti sono i golosi, e i poveri sono gli umili. 7. "I ciechi vedono". Questo è ciò che dice Isaia: "Liberati dalle tenebre e dall'oscurità, gli occhi dei ciechi vedranno" ( Is 29,18 ); e "Chi è cieco se non il mio schiavo, se non il servo del Signore? Tu che vedi molte cose, forse che poi le osservi?" ( Is 42,19-20 ). Chi sono oggi i ciechi, cioè i superbi, se non coloro che si chiamano servi del Signore, ma che hanno solo l'apparenza di esserlo, cioè i religiosi e i chierici? Chi sono i superbi se non coloro che vedono tante cose nelle sacre Scritture, che predicano e insegnano tante cose, ma poi essi non le osservano? Vedono molte cose per gli altri, ma nulla per se stessi. Della superbia di tutti costoro Isaia, sotto l'immagine della "valle della visione" ( Is 22,1 ), dice: "Che hai tu dunque che sei salita tutta quanta sulle terrazze, città rumorosa e tumultuante, città gaudente?" ( Is 22,1-2 ). Come dicesse: Si può ancora capire che i secolari bramino le grandezze terrene! Ma voi religiosi, gente istruita, che sapete tante cose, come avete potuto anche voi dare la caccia alle grandezze della terra, mettervi a salire sulle terrazze della superbia, piene di rumore? La superbia infatti è rumorosa, come dice Isaia: "Guai al rumore di popoli immensi, rumore come il mugghio dei mari" ( Is 17,12 ). Invece, di Cristo umile dice sempre Isaia: "Non griderà, non si sentirà nelle piazze la sua voce" ( Is 42,2 ). "Città tumultuante", cioè molto popolata, "città gaudente" Di essa dice Isaia: "Sulla terra del mio popolo", cioè nella mente degli umili, "cresceranno spine e pruni", cioè trafitture e sofferenze; "ma molto di più in tutte le case in allegria di una città gaudente" ( Is 32,13 ), che si gloria nella sua superbia, che acceca gli occhi della mente per non vedere la città dell'eterno gaudio. Sempre Isaia: "Guarda Sion, la città delle nostre feste: i tuoi occhi vedranno Gerusalemme; dimora opulenta" ( Is 33,20 ). Per vederla, bagna i tuoi occhi con il collirio dell'umiltà, e così sarai degno di sentire: Védici! La tua umiltà ti ha illuminato. "I ciechi dunque vedono". 8. "Gli zoppi camminano". Zoppo si dice in lat. claudus, che suona quasi come clausus, chiuso, impedito nel camminare. L'ipocrita nella sua vita e nella sua condotta procede chiuso. Chi agisce disonestamente odia la luce, perché non tollera che le sue opere siano esposte e giudicate alla luce del sole ( cf. Gv 3,20 ). Dice infatti Isaia: "Guai a quanti si rintanano nel profondo del cuore", che dissimulano cioè la loro iniquità; "per nascondere al Signore i loro disegni; costoro operano nelle tenebre e dicono: Chi ci vede? Chi ci conosce?" ( Is 29,15 ). L'ipocrita zoppica da un piede: tiene un piede alzato, e l'altro lo appoggia in terra. Mentre mostra la miseria nelle vesti, l'umiltà nella voce e il pallore in volto, tiene il piede alzato; ma quando per queste cose brama la lode e cerca di sembrare santo, allora non c'è dubbio che mette l'altro piede in terra. In altro senso. Si legge nel secondo libro dei Re che Mifìboset era zoppo ( storpio ) da tutti e due i piedi ( cf. 2 Sam 4,4 ). Mifìboset s'interpreta "uomo della confusione", e simboleggia coloro che sono zoppi da tutti e due i piedi, nelle intenzioni e nelle opere. E coloro che zoppicano in questo modo sono degni dell'eterna confusione. Dice in proposito Isaia: "Il re degli Assiri condurrà i prigionieri dell'Egitto e i deportati dell'Etiopia, giovani e vecchi, nudi e scalzi, con le natiche scoperte, a vergogna dell'Egitto" ( Is 20,4 ). "Il re degli Assiri", cioè il diavolo, "condurrà" all'inferno "i prigionieri dell'Egitto", cioè coloro che aveva tenuti schiavi con il peccato, "e i deportati dell'Etiopia", cioè quelli che passano dalle virtù ai vizi; "i giovani", gli ostinati nella loro malizia; "i vecchi", gli invecchiati nel male; "i nudi", senza la veste nuziale ( cf. Mt 22,11 ); "gli scalzi", coloro che sono senza il "giacinto" del desiderio delle cose celesti, per quanto riguarda le intenzioni, come dice Ezechiele: "Io ti diedi calzari color giacinto" ( Ez 16,10 ); e coloro che sono privi dei calzari della mortificazione, per quanto riguarda le opere, come si legge nel libro di Rut: "Tògliti il calzare. E subito se lo tolse dal piede" ( Rt 4,8 ). E la casa di costui - come è scritto nel libro del Deuteronomio - sarà chiamata in Israele casa dello scalzo ( cf. Dt 25,10 ). "Con le natiche scoperte" perché a tutti sia manifesta la sua infamia, "li condurrà, ripeto, a vergogna dell'Egitto", cioè degli innamorati di questo mondo. Coloro che vogliono evitare questa vergogna facciano con i loro piedi passi onesti, coltivino cioè con la buona volontà il desiderio di fare il bene e con l'umiltà realizzino questo desiderio nelle opere buone. Meriteranno così di sentirsi dire: "Gli zoppi camminano". 9. "I lebbrosi sono mondati". Si legge nel quarto libro dei Re che Naaman era uomo potente e ricco, ma lebbroso ( cf. 2 Re 5,1 ), perché dove c'è abbondanza di ricchezze e di piaceri c'è anche la lebbra della lussuria. Infatti Isaia, dopo aver premesso: "La terra è piena di argento e d'oro, e senza fine sono i suoi tesori", subito soggiunge: "E la loro terra è piena di cavalli" ( Is 2,7-8 ), cioè di lussuriosi. Si legge nell'Esodo che con l'oro fu fabbricato un vitello ( cf. Es 32,4 ), perché con l'oro dell'abbondanza si fabbrica il vitello della lussuria più sfrontata. Dice Isaia: "Lì pascerà il vitello e lì si sdraierà: e distruggerà ogni arbusto" ( Is 27,10 ). È la stessa cosa che dice Giobbe della lussuria: "È un fuoco che tutto divora fino alla distruzione, e che sradica tutti i germogli" ( Gb 31,12 ). "Lavatevi", o lebbrosi, "e purificatevi; togliete dalla vista del Signore il male" della lussuria "dei vostri pensieri: cessate di agire viziosamente" ( Is 1,16 ) con il vostro corpo, affinché anche a voi venga detto: "I lebbrosi sono mondati". 10. "I sordi odono". E ciò che dice anche Isaia: "In quel giorno i sordi udranno le parole del libro" ( Is 29,18 ). Sordo suona quasi come sordido: infatti negli orecchi ha il sudiciume ( lat. sorde ), dal quale vengono ostruite le vie dell'udito. I sordi sono gli avari e gli usurai, i cui orecchi sono otturati dal sudiciume del denaro. Dice il salmo: "Il loro furore è come quello del serpente, simile a quello della vipera sorda, che si tura le orecchie" ( Sal 58,5 ). Si dice che il serpente, per non sentire la voce dell'incantatore, appoggia un'orecchio alla terra e si tura l'altro con la coda. L'orecchio è così chiamato ( auris ) perché prende avidamente, o anche perché raccoglie ( lat. haurit ) il suono. L'infelice avaro, o l'usuraio, si priva di sì grande dono di natura e di grazia; egli per non prendere con avidità la parola della vita, o per non raccogliere il suono, la voce del predicatore, si tura gli orecchi del cuore: e fa ciò con la terra, cioè con l'amore del denaro già accumulato, e con la coda, vale a dire con la turpe bramosia di accumularne ancora. Questi sventurati, se vogliono sentire la parole del libro, cioè del vangelo nel quale è detto "beati i poveri" ( Mt 5,3 ), devono prima asportare dagli orecchi del cuore la terra del denaro disonestamente accumulato, ed estirpare totalmente la coda, cioè la brama di accumularne ancora. Solo allora si potrà dire di loro: "I sordi odono". 11. "I morti risorgono". Isaia dice: "I tuoi morti vivranno, i miei uccisi risorgeranno" ( Is 26,19 ). I morti sono i golosi. "La loro gola è un sepolcro aperto" ( Sal 5,11 ), nel quale giacciono sepolti come i morti. Dice ancora Isaia: "Anche costoro sono divenuti insensibili per il troppo vino e vanno barcollando per l'ubriachezza; il sacerdote e il profeta affogano nel vino e hanno perduto il senno per l'ubriachezza," ( Is 28,7 ). Come il boccone di pane mentre assorbe il vino, viene dal vino assorbito e va in fondo al bicchiere, così costoro, mentre assorbono vengono assorbiti, e poi sepolti nell'inferno del loro ventre. Il ricco che banchettava ogni giorno sontuosamente, durante la sua vita era in qualche modo sepolto nell'inferno. Invece Lazzaro, il mendìco, giaceva fuori alla porta, e non dentro ( cf. Lc 16,19-20 ); giaceva pieno di fame fuori della porta, cioè privo dei piaceri dei cinque sensi. E anche il Signore, come dice l'Apostolo, patì fuori della porta ( cf. Eb 13,12 ). Il ricco invece ogni giorno seppelliva se stesso entro la porta, nell'inferno. E nell'inferno del ventre, o Signore, chi canta le tue lodi? ( cf. Sal 6,6 ). E neppure i morti, o Signore, ti loderanno ( cf. Sal 114,17 ). Coloro che vogliono cantare le lodi del Signore, escano dal sepolcro della gola, e dalle tenebre e dal caos dell'inferno entrino nella luce dell'astinenza dalle bevande e dai cibi. Dice Isaia in proposito: "Svegliatevi e cantate inni di lode, voi che abitate nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce" ( Is 26,19 ). Come la rugiada tempera il calore del sole e la luce fuga le tenebre, così l'astinenza mitiga la bramosia della gola e dei vizi e fuga le tenebre della mente. E in questo modo "i morti risorgono". 12. "I poveri vengono evangelizzati". Dei poveri dice Isaia: "I primogeniti dei poveri saranno saziati e i miseri riposeranno con fiducia" ( Is 14,30 ); e ancora: "I miti si rallegreranno nel Signore ogni giorno di più, e i poveri esulteranno nel Santo d'Israele" ( Is 29,19 ). Soltanto i poveri, cioè gli umili, vengono evangelizzati, perché solo la concavità è in grado di ricevere ciò che vi si versa, mentre il rigonfiamento, la convessità, lo respinge. Chi ha sete, venga a me e beva ( cf. Gv 7,37 ), dice il Signore; perché, come egli dice ancora per bocca di Isaia: "Farò scorrere l'acqua su colui che ha sete e torrenti sul terreno arido" ( Is 44,3 ). Oggi sono i poveri, i semplici, gli indotti, i rozzi e le vecchierelle che hanno sete della parola della vita, dell'acqua della sapienza salvatrice. Invece i cittadini di Babilonia, che si ubriacano al calice d'oro della grande meretrice, i sapienti consiglieri del faraone, i quali, come è detto in Giobbe, sono pieni di parole e sono spinti dalla loro morbosa sensualità, e il loro ventre è pieno di mosto che non trova sfogo, che squarcia gli otri nuovi ( cf. Gb 32,18-19 ), - credete a me - non costoro, ma solo "i poveri saranno evangelizzati". 13. "E beato colui che non si scadalizza di me" ( Mt 11,6 ). Cristo è la verità. In Cristo ci fu la povertà, l'umiltà e l'obbedienza. Chi si scandalizza di queste cose, si scandalizza di Cristo. I veri poveri non si scandalizzano, perché solo essi vengono evangelizzati, vengono cioè nutriti con la parola del vangelo, perché essi sono il popolo del Signore e le pecore del suo pascolo ( cf. Sal 95,7 ). Di questo popolo, nell'introito della messa di oggi si canta: "Popolo di Sion, ecco che il Signore viene a salvare le nazioni". È la stessa cosa che dice Isaia: "Per primo dirà a Sion: èccomi! E a Gerusalemme, cioè alla chiesa, darò un evangelista, un messaggero di liete notizie" ( Is 41,27 ), affinché i poveri siano evangelizzati e le nazioni siano salvate mediante il vangelo; e il Signore farà sentire la gloria della sua lode per la gioia del vostro cuore ( cf. Is 30,30 ). 14. Dice ancora Isaia: "Il Signore consolerà Sion e consolerà tutte le sue rovine; del suo deserto farà un luogo di delizie, della sua steppa quasi un giardino del Signore. Giubilo e gioia saranno in essa, azioni di grazie e inni di lode" ( Is 51,3 ). Sion s'interpreta "specola", punto di osservazione. Il popolo di Sion sono i poveri nello spirito i quali, sollevati dalle cose terrene e posti sul più alto punto di osservazione della povertà, contemplano il Figlio di Dio, pellegrino qui in terra, ma glorioso nella patria celeste. Questa è la Sion che il Signore consola. Il Signore consola con i beni suoi coloro che sono privi dei beni temporali; infatti dice: "E consolerà tutte le sue rovine". Quando crolla l'edificio della consolazione umana, subito il Signore innalza la casa della consolazione interiore. "E farà del suo deserto un luogo di delizie". Infatti il deserto della povertà esteriore crea le delizie della soavità interiore. Il Signore definisce spine le ricchezze di questo mondo ( cf. Mt 13,22 ). Isaia chiama delizie il deserto della povertà. O spine del mondo! O delizie del deserto! Quanto è lontana la verità dalla menzogna, la luce dalle tenebre e la gloria dalla pena, altrettanta è tra voi la differenza. Le prime deliziano, le seconde feriscono. In quelle c'è la quiete e il riposo, in queste "la vanità e l'afflizione di spirito" ( Qo 1,14 ). Delle delizie il Signore dice: "Le mie delizie consistono nello stare con i figli degli uomini" ( Pr 8,31 ), che la natura ha generato poveri - "Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò" ( Gb 1,21 ) -, ma che la malizia ha fatto ricchi, perché "coloro che vogliono diventare ricchi, cadono nel laccio del diavolo" ( 1 Tm 6,9 ). Le mie delizie dunque consistono nello stare con i figli degli uomini, non con i figli dei demoni. O povertà, bene ripugnante per i figli dei demoni, le tue delizie offrono a coloro che ti amano il diletto dell'eterna dolcezza! "Farò della sua steppa quasi un giardino del Signore". La povertà ama la solitudine perché, come dice Isaia: "Nella solitudine dimora il giudizio" ( il diritto ) ( Is 32,16 ). E Geremia: Spinto dalla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi riempito di amarezza ( cf. Ger 15,17 ). Chi vuole istituire un giudizio su di sé, deve stare per lo meno nella solitudine della mente, della quale dice l'Ecclesiastico: Scrivi la sapienza nel tempo della quiete ( lett. "La sapienza dello scriba è dovuta al suo tempo di quiete ) ( Sir 38,25 ). Dove c'è il giudizio, lì c'è la sapienza; dove c'è la sapienza, lì c'è il giardino del Signore, cioè il paradiso. E poiché la vera povertà è sempre lieta, aggiunge: "Giubilo e gioia saranno in essa". E commenta la Glossa: In Sion, che è paragonata al paradiso, ci devono essere soltanto gaudio e letizia, riconoscenza e canto di lode, affinché ci applichiamo già qui in terra alle occupazioni che avremo in cielo, insieme con gli angeli. 15. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte del brano dell'epistola: "Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio" ( Rm 15,7 ). Come Cristo ha accolto il ciechi per illuminarli, gli zoppi per farli camminare, i lebbrosi per mondarli, i sordi per restituire loro l'udito, i morti per risuscitarli e i poveri per evangelizzarli, così noi dobbiamo accoglierci vicendevolmente. Se il tuo prossimo è cieco per la superbia, per quanto sta in te procura di illuminare i suoi occhi con l'esempio della tua umiltà; se è zoppo per l'ipocrisia, raddrizzalo con l'opera della verità; se è lebbroso per la lussuria, purificalo con la parola e l'esempio della castità; se è sordo per l'avarizia, proponigli l'esempio della povertà del Signore; se è morto per la golosità e per l'ubriachezza, risuscitalo con l'esempio e con la virtù dell'astinenza; ed evangelizza i poveri, esortandoli a imitare la vita di Cristo. Fratelli carissimi, imploriamo Cristo perché si degni di curarci dalle infermità spirituali sulle quali abbiamo meditato e voglia accoglierci presso di sé: lui che è benedetto nei secoli. Amen. III. L'elogio del beato Giovanni 16. "Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Chi siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re" ( Mt 11,7-8 ). Vedremo quale significato morale abbiano il deserto, la canna e l'uomo avvolto in morbide vesti. Il deserto simboleggia la religione, l'ordine religioso. E su questo concordano le parole di Isaia: "Si rallegrerà il deserto e la terra inaccessibile, esulterà la solitudine e fiorirà come giglio. Germoglierà e crescerà, esulterà di gioia e proromperà in canti di lode" ( Is 35,1-2 ). In ogni ordine religioso si devono osservare in modo assoluto tre virtù: la povertà, la castità e l'obbedienza; tre virtù che sono richiamate nella citazione di Isaia. La povertà quando dice: "Si rallegrerà il deserto"; la castità quando aggiunge: "Fiorirà come giglio"; l'obbedienza quando conclude: "Germoglierà e crescerà". La povertà: "Si rallegrerà il deserto". Il religioso che vuole osservare veramente la povertà, deve fare tre atti: primo, rinunciare ad ogni bene terreno; secondo, non avere alcuna volontà di possederne in futuro; terzo, sopportare con pazienza le privazioni inerenti alla stessa povertà. Questi tre atti sono indicati nelle parole: deserto, terra inaccessibile, e solitudine. La vita del religioso dev'essere deserta, nella rinuncia ad ogni bene terreno; inaccessibile ( lat. invia, senza via ), che cioè nella sua volontà non resti neanche l'ombra del desiderio di possedere qualcosa. Dice in proposito Isaia: "Il deserto diventerà un Carmelo e il Carmelo sarà considerato una valle" ( Is 32,15 ). Carmelo s'interpreta "conoscenza della circoncisione". Quindi il deserto, cioè l'ordine religioso, diventerà un Carmelo, cioè una circoncisione per quanto riguarda la rinuncia ai beni terreni; e la rinuncia ai beni sarà una valle, per ciò che riguarda la volontà di non possedere. Chi è sciolto da questi due legami, a buon diritto può rallegrarsi e cantare: L'anima mia è sciolta dal laccio dei cacciatori ( cf. Sal 124,7 ). Si rallegrerà dunque il deserto e la terra inaccessibile. A queste due qualità si deve aggiungere la terza: il religioso sappia patire la fame e la sete e sopportare le privazioni ( cf. Fil 4,12 ). E così ci sarà la "solitudine che esulterà" quando sopporterà con pazienza questi disagi e altri simili. 17. La castità: "Fiorirà come giglio". Il giglio ( in lat. lilium, che suona quasi come lacteum, latteo ) simboleggia il candore della castità. Dice Geremia: "I suoi nazirei erano più candidi della neve e più bianchi del latte" ( Lam 4,7 ). Ad essi il Signore promette per bocca di Isaia: Non dica l'eunuco, cioè colui che si è reso tale per il regno dei cieli, che ha promesso la continenza: Ecco io sono come albero secco, perché questo dice il Signore: Agli eunuchi che osservano i miei sabati, cioè la purezza del cuore che è il sabbato dello spirito, e hanno scelto ciò che io voglio, cioè la castità del corpo, della quale dice l'Apostolo: Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, affinché ognuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto ( 1 Ts 4,3-4 ), e hanno osservato il mio patto, il patto concluso con me nel battesimo, darò nella mia casa, nella quale ci sono molti posti, e dentro le mie mura, di cui è detto nell'Apocalisse che sono costruite con diaspro ( Ap 21,18 ), pietra preziosa di color verde che raffigura l'esultanza dell'eterna viridità ( giovinezza ); a costoro darò un posto del quale dice Giovanni: Vado a prepararvi un posto ( Gv 14,2 ), e un nome più bello, cioè più eccellente, che avrà più valore che aver generato figli e figlie, un nome eterno, del quale dice l'Apocalisse: Scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme, e il mio nome nuovo ( Ap 3,12 ). Avrà il nome di Dio perché sarà simile a Dio e lo vedrà come egli è ( cf. 1 Gv 3,2 ): Io dissi: Siete Dei ( Sal 82,6 ); avrà il nome di Gerusalemme perché sarà nella pace; avrà il nome di Gesù perché è stato salvato. Avrà un nome eterno che mai sarà cancellato ( Is 56,3-5 ), che mai cadrà in dimenticanza. 18. Obbedienza: "Germoglierà e crescerà, ed esulterà di gioia e proromperà in canti di lode". Osserva che la vera obbedienza ha in se stessa cinque qualità, indicate proprio nelle cinque parole suddette. La vera obbedienza è umile, ossequiente, pronta, gioconda e perseverante. Umile nel cuore: questo indica la parola "germoglierà". Il germoglio è come l'inizio del fiore, e l'umiltà è l'inizio di ogni opera buona. Ossequiente nella voce, indicato dalla parola "crescerà". Dall'umiltà del cuore procede il rispetto, anche nel tono della voce. Pronta al comando, e a questo si riferisce la parola "esulterà". Dice il salmo: "Esulterà come un prode che percorre la via" ( Sal 19,6 ). Gioconda nella sofferenza, e questo è indicato dalla parola "con gioia". Perseverante nell'esecuzione degli ordini, e allora sarà anche "piena di lode", perché ogni lode si canta alla fine. O religiosi, così dev'essere il deserto del nostro ordine, nel quale siete venuti ad abitare uscendo dalla vanità del mondo. Perciò a voi ha detto il Signore: "Che cosa siete andati a vedere nel deserto?". 19. "Una canna sbattuta dal vento?". La canna è detta in lat. arundo, che suona quasi come arida, o anche come aura ducta, spinta dall'aria. Osserva che la canna ha le radici nel fango, simbolo della gola e della lussuria; è bella fuori ma vuota dentro, e in ciò sono indicate l'ipocrisia e la vanagloria; è agitata qua e là dal vento, e questo raffigura l'incostanza della volontà. Sventurato quel chiostro, maledetto il deserto di quell'ordine religioso nel quale viene posta a dimora e cresce tale pianta: "la scure sarà posta alla sua radice, per essere tagliata e gettata nel fuoco" ( cf. Mt 3,10; Lc 3,9 ). Dice il Signore per bocca di Isaia: "Metterò nel deserto l'abete insieme con l'olmo e il bosso" ( Is 41,19 ), ma non la canna agitata dal vento. Nell'abete è raffigurata la familiarità con le cose celesti; nell'olmo, che sostiene la vite, la partecipazione alle sofferenze del prossimo; nel bosso, che è di colore smorto, la mortificazione del corpo. Con queste piante dev'essere coltivato e ornato il deserto benedetto, il paradiso ( il giardino ) dell'ordine religioso, e non con la canna agitata dal vento, destinata ad essere bruciata nel fuoco. "Ma che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?". Lo stesso evangelista Matteo ci racconta che "Giovanni portava una veste di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; suo cibo erano le locuste e il miele selvatico" ( Mt 3,4 ). Guardate un po', vi prego, se i religiosi del nostro tempo indossano queste vesti e se si nutrono con questi cibi. "Ecco, quelli che indossano morbide vesti stanno nelle case dei re". Non dico religio, ma legio dæmonum ( non religione, ma legione di demoni ) è quella che ha fatto del deserto un palazzo, del chiostro un castello, della solitudine una corte reale. Tanto il religioso che l'uomo d'armi si fanno il vestito della stessa stoffa. Invece l'amante del deserto, il più grande dei profeti, ebbe la sua veste di peli di cammello. Se il beato Giovanni, preannunciato dall'angelo, santificato nel seno materno, encomiato dal Signore - "Tra i nati di donna, non è sorto uno più grande di Giovanni" ( Lc 7,28 ) -, visse in tanta austerità, che cosa non dobbiamo fare noi, concepiti nel peccato, carichi di peccati, degni di essere rigettati dal Signore, se non interviene la sua misericordia: con quante castighi, con quanta severità dobbiamo punirci! Quindi nel deserto della penitenza ci sia la povertà del vestito, l'austerità del vitto, per poter essere chiamati con verità religiosi, "relegati", cioè lontani da ogni piacere della carne. 20. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola: "Il Dio della speranza" ( Rm 15,13 ). Dice Isaia: " Quelli che sperano nel Signore riacquisteranno forza, metteranno ali come aquile, correranno e non si stancheranno, cammineranno e non verranno meno" ( Is 40,31 ). Quelli che sperano non in sé ma nel Signore, che è il Dio della speranza, riacquisteranno forza, per essere forti in lui, e deboli in questo mondo: "Questo è il cambiamento prodotto dalla destra dell'Altissimo" ( Sal 77,11 ). Metteranno le ali della duplice carità, con le quali volare in cielo come aquile. L'aquila, a quanto dicono i naturalisti, sfregando contro una pietra il becco, smussato per l'eccessiva vecchiaia, ringiovanisce. Così quelli che eliminano l'invecchiamento del peccato per mezzo della pietra che è Cristo ( cf. 1 Cor 10,4 ), morendo al mondo si rinnovano in Dio. Si rinnoverà come aquila la tua giovinezza ( cf. Sal 103,5 ). "Correranno" per conquistare il premio dell'eterna felicità, "e non si stancheranno" perché per colui che ama nulla è difficile; "cammineranno" di virtù in virtù e "non verranno mai meno" perché vivranno in eterno. "Vi riempia di ogni gioia …". Dice Isaia: "Godete con lei", cioè con Gerusalemme, "voi tutti che piangevate su di essa; così succhierete e vi sazierete all'abbondanza della sua consolazione" ( Is 66,10-11 ); "… e di pace"; della quale dice Isaia: "Costituirò tuo sovrano la pace" ( Is 60,17 ); "nella fede": "Se non crederete, non avrete stabilità" ( Is 7,9 ); "perché abbondiate nella speranza e la nella virtù dello Spirito Santo" ( Rm 15,13 ); ed Isaia: "Sei stato sostegno al povero, sostegno al bisognoso nella sua sofferenza, riparo dalla tempesta", cioè dalla suggestione diabolica, "ombra contro l'ardore del sole" ( Is 25,4 ), cioè contro la tentazione della carne. Ogni religioso sia ricolmo di questi tre doni, cioè della speranza, della gioia e della pace: della speranza per quanto riguarda la povertà, la quale spera solo in Dio; della gioia per ciò che concerne la castità, senza la quale non c'è gioia della coscienza; della pace, nei riguardi dell'obbedienza, fuori della quale non c'è pace per nessuno: "Non c'è pace per gli empi, dice il Signore" ( Is 57,21 ); se il religioso sarà ricolmo di questi doni, sia certo che abbonderà anche nella speranza e nella grazia dello Spirito Santo, per vivere fiducioso nel deserto dell'ordine religioso. Fratelli carissimi, imploriamo il Signore nostro Gesù Cristo che ci preservi dall'essere canna sbattuta dal vento o uomini avvolti in morbide vesti; ci faccia invece abitare nel deserto della penitenza, poveri, casti e obbedienti. Ce lo conceda colui che è degno di lode, soave e amabile, Dio benedetto e beato nei secoli eterni. E ogni religione, pura e senza macchia, dica: Amen. Alleluia! Domenica III di Avvento Temi del sermone - Sermone della terza domenica di Avvento sull'epistola del beato Paolo: "Godete sempre nel Signore". - Anzitutto sermone ai penitenti: "In quel giorno verrà cantato questo cantico". - Sermone contro i prelati della chiesa e contro lo sciagurato ternario di peccatori: "La testa è tutta malata". - Sermone sull'incarnazione del Verbo: "Àlzati, àlzati!" - Sermone presso il corpo di un defunto: "Ecco, con la mia minaccia", e "Si lamenteranno i pescatori". Esordio - Sermone ai penitenti 1. "Godete sempre nel Signore" ( Fil 4,4 ). Dice Isaia: "In quel giorno verrà cantato questo cantico nella terra di Giuda: Città della nostra fortezza è Sion; a nostra salvezza sarà eretto un muro e un contrafforte. Aprite le porte ed entri un popolo giusto che custodisce la verità" ( Is 26,1-2 ). Il giorno è figura dell'illuminazione della grazia, dalla quale siamo resi splendenti, e splendendo cantiamo il cantico di cui parla Isaia: "Voi innalzerete il vostro canto come la voce della santa solennità; avrete la gioia nel cuore come chi parte al suono del flauto per recarsi al monte del Signore, alla roccia d'Israele" ( Is 30,29 ). Il canto della confessione è la voce della santa solennità, perché santifica il peccatore, per la cui conversione gli angeli fanno grande festa: C'è grande gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ( cf. Lc 15,10 ). E da questa festa è prodotta la letizia nel cuore del peccatore, del quale dice Isaia: "Corresti incontro a chi si rallegrava e praticava la giustizia" ( Is 64,5 ), come colui che parte al suono del flauto. Il flauto simboleggia la melodia della propria accusa, e chiunque la canterà in modo perfetto salirà al monte del Signore, cioè alla celeste Gerusalemme, a contemplare la Roccia d'Israele, cioè Cristo Gesù. E dove viene cantato questo cantico? "Nella terra di Giuda", cioè dei penitenti; e dice in proposito Isaia: "La terra di Giuda sarà il terrore dell'Egitto" ( Is 19,17 ), cioè del mondo. I mondani infatti hanno paura quando vedono i giusti crocifissi sulla croce della penitenza. Dice infatti Luca della passione del Salvatore: "La gente, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava percuotendosi il petto" ( Lc 23,48 ). Sentiamo che cosa cantino i penitenti, nella letizia del loro cuore: "Sion, città della nostra fortezza!" Sion s'interpreta "specola" o "vedetta", e indica la penitenza, della quale dice Geremia: "Fatti una vedetta, datti in preda all'amarezza" ( Ger 31,21 ); e il penitente per bocca di Isaia dice: "Io sto alla vedetta, da parte del Signore, vi sto per tutto il giorno; e sto vigilando su me stesso, in piedi tutte le notti" ( Is 21,8 ). È proprio perché la prosperità esalta e l'avversità deprime, che il penitente dice: "Sulla specola" della penitenza, illuminato dalla grazia del Signore, "sto fermo e attento" nel giorno della prosperità, per non venir meno al mio proposito, "e sto vigilando su me stesso tutte le notti" dell'avversità, per guardarmi da ogni peccato. Giustamente quindi i penitenti dicono: "Sion", cioè la penitenza, "è la città" che ci fortifica e ci difende nel giorno della prosperità, perché non ci esaltiamo; è la città "della nostra fortezza" che ci custodisce nella notte dell'avversità, perché non veniamo sommersi. "A sua salvezza sarà eretto in essa un muro e un contrafforte". Il muro è così chiamato perché munit, difende. Nel muro è raffigurata la divinità, nel contrafforte l'umanità. Sarà dunque eretto in essa un muro per la sua salvezza; come dicesse: la fede nel Verbo incarnato è la protezione e la difesa dei penitenti. Dice Isaia: "Come gli uccelli che volano" sopra il nido dove sono i loro piccoli, "così il Signore degli eserciti [ volerà ] sopra Gerusalemme, la proteggerà e la libererà, e passando la salverà" ( Is 31,5 ). "Come l'aquila che addestra al volo i suoi piccoli volando attorno ad essi" ( Dt 32,11), e " come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali" ( Mt 23,37 ), così Gesù, Signore degli eserciti, cioè degli angeli, protegge Gerusalemme, vale a dire la comunità dei penitenti; la protegge, ripeto, con l'ombra della sua umanità, la libera con la potenza della sua divinità; passa quando le fa attraversare il Mare Rosso, cioè l'amarezza della penitenza, arrossata dal sangue della sua passione; la salva quando la introduce nella terra promessa, dove scorrono latte e miele. Perciò dice agli angeli: "Aprite le porte", del paradiso, "ed entri il popolo retto" dei penitenti, "che ha custodito la verità" del vangelo. E a questo popolo che, accompagnato dal suono del flauto, canta l'inno della santa solennità, l'Apostolo, nell'epistola di oggi dice: "Godete sempre nel Signore". Sermone sull'epistola della messa 2. "Godete sempre nel Signore" ( Fil 4,4 ). Non possono fare ciò coloro dei quali parla Isaia: "La testa è tutta malata e tutto il cuore langue; dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo non c'è in lui parte sana, ma ferite e lividi, e piaghe aperte che non sono state né fasciate, né medicate, né curate con l'olio" ( Is 1,5-6 ). Nella testa sono indicati i prelati, nel cuore i veri religiosi, e nella pianta dei piedi i laici. Ahimè, tutta la testa è malata! Geremia: "Dai profeti di Gerusalemme è uscita la corruzione su tutta la terra" ( Ger 23,15 ), e anche Daniele: "L'iniquità è uscita da Babilonia per opera degli anziani e dei giudici, che solo in apparenza sono guide del popolo" ( Dn 13,5 ). E del male di questi capi, dice ancora Isaia: "Tutte le teste", cioè i prelati, "di essa", della chiesa, "saranno calve, e tutte le barbe saranno rasate" ( Is 15,2 ). Dopo una lunga malattia, o per la vecchiaia, di solito cadono i capelli e nella testa subentra la calvizie. Ahimè, le nostre teste, cioè i nostri prelati, con la lunga malattia dei loro vizi e il loro invecchiamento nel male hanno perduto la chioma, cioè la grazia dello Spirito Santo; e ogni barba, cioè ogni vigore e forza nel compiere le opere buone, è stata in essi rasata. E così sono diventati deboli ed effeminati. Infatti il Signore, per bocca di Isaia, dice di essi: "Darò loro come capi dei ragazzi, e uomini effeminati li domineranno" ( Is 3,4 ). In verità, dunque, la testa è tutta malata! "E tutto il cuore langue". Osserva che il cuore ha tre funzioni: è la sede della sapienza; in esso fu scritta la legge naturale, che dice: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te; è l'organo dal quale provengono lo sdegno, il ribrezzo e l'avversione. Così nei veri religiosi c'è la sapienza della contemplazione, c'è la legge dell'amore, e c'è il ribrezzo e l'avversione per il peccato. Questo cuore, posto al centro tra la testa e i piedi, cioè tra i chierici e i laici, soffre e piange per le "infermità" di entrambi. "Dalla pianta dei piedi fino alla sommità del capo", cioè dai più umili fino ai più elevati, dai laici fino ai chierici, da quelli che fanno vita attiva fino a quelli dediti alla vita contemplativa, non c'è in tutto il corpo alcuna parte sana. Come possono dunque godere nel Signore? "Ferite e lividi, e piaghe aperte". Nella ferita è indicata la lussuria; nei lividi l'avarizia, dalla quale proviene anche l'invidia; e nelle piaghe aperte la superbia. Dei primi due vizi si parla nella Genesi, dove Lamech si rivolge alle sue mogli e dice loro: "Io ho ucciso un uomo per una mia ferita, e un ragazzo per un mio livido" ( Gen 4,23 ). Lamech, che per primo introdusse sulla terra la sozzura della bigamia, raffigura il lussurioso e l'avaro; egli uccise un uomo, cioè la ragione, per la ferita della lussuria, e un ragazzo, cioè l'inizio della buona volontà, nel rancore dell'avarizia. Non è solo per l'avarizia e la brama del denaro, ma anche per la voglia di emergere in questo mondo, che nascono rancori, discordie e calunnie. Il prestigio di una dignità passeggera è come un osso gettato tra i cani, i quali si avventano su di esso con rabbia e furore, mordendosi tra loro. La stessa cosa fanno coloro di cui parla Isaia: "Cani avidissimi che non sanno mai saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere" ( Is 56,11 ). Della gonfiezza della superbia dice Giobbe: "Perché mai il tuo cuore ti solleva in alto e i tuoi occhi sono come allucinati, accarezzando grandi progetti? Perché il tuo spirito si erge orgoglioso contro Dio, sì da far uscire dalla tua bocca tali discorsi?" ( Gb 15,12-13 ). Anche il Signore, per bocca di Isaia, dice la stessa cosa a Sennacherib: "Conosco la tua abitazione, so quando entri e quando esci; conosco la furia che hai contro di me. Poiché ti sei infuriato contro di me, la tua superbia è giunta ai miei orecchi" ( Is 37,28-29 ). Ecco dunque: la ferita della lussuria non è avvolta nelle fasce della continenza; il livore dell'avarizia non è curato con la medicina dell'elemosina; la piaga aperta della superbia non è medicata con l'olio dell'umiltà interiore, dalla quale procede la luce della coscienza, che produce il gaudio nello Spirito Santo: e chi è privo di questa luce non è in grado di godere nel Signore. Sono invece in grado di godere nel Signore coloro che si ritraggono dall'iniquità e ritorneranno con Giacobbe, dei quali Isaia dice: Ritorneranno e verranno a Sion cantando inni di lode; una felicità perenne splenderà sul loro capo, gaudio e letizia li accompagneranno e fuggiranno sofferenze e gemiti ( cf. Is 35,10 ). "Godete, dunque, sempre nel Signore". 3. "Ve lo ripeto: godete!" ( Fil 4,4 ). Osserva che dice due volte "godete", e questo a motivo del duplice beneficio del primo e del secondo avvento. Dobbiamo godere perché nel primo avvento ci ha portato le ricchezze e la gloria. E di nuovo dobbiamo godere perché nel secondo avvento ci darà "lunghi giorni". Leggiamo nei Proverbi: "Lunghi giorni sono nella sua destra, e nella sua sinistra ricchezze e gloria" ( Pr 3,16 ). Nella sinistra è indicato il primo avvento, nel quale ci portò gloriose ricchezze, cioè l'umiltà, la povertà, la pazienza e l'obbedienza; nella destra il secondo avvento, nel quale ci porterà la vita eterna. Dei doni del primo avvento ci parla anche Isaia: "Àlzati, àlzati, rivèstiti di forza, o braccio del Signore. Àlzati come nei giorni antichi, al tempo delle generazioni passate. Non hai tu forse percosso il superbo, non hai ferito tu il dragone? Non hai prosciugato tu il mare, l'acqua dell'abisso spaventoso? Non hai posto tu una via nel profondo del mare perché vi passassero coloro che avevi liberato?" ( Is 51,9-10 ). Il braccio del Signore è Gesù Cristo, il Figlio di Dio, nel quale e per mezzo del quale Dio ha creato tutte le cose. Questo braccio di Dio Padre fu spezzato in due parti per noi, quando nella passione la sua anima, separata dal corpo, discese a liberare quelli che erano negli inferi, mentre il corpo riposava nel sepolcro. Ma nel giorno della risurrezione il Padre ricompose il suo braccio e guarì la lividura e la ferita ( cf. Is 30,26 ). Dice dunque: "O braccio del Signore", o Figlio mio, "àlzati" dal trono della gloria del Padre, "àlzati" e prendi un corpo, "rivèstiti della fortezza" della divinità contro il principe del mondo, per scacciare il forte ( cf. Lc 11,22 ), tu che sei infinitamente più forte. "Àlzati" per redimere il genere umano, "come nei giorni antichi" hai liberato il popolo d'Israele dalla schiavitù dell'Egitto. O Figlio, "tu hai percosso il superbo", cioè il diavolo, precipitandolo dal cielo; "hai ferito il dragone" nella tua passione, strappandogli ogni potere; "tu hai prosciugato il mare" Rosso. Il Padre parla al Figlio così, quasi per dirgli: Tu che hai fatto queste cose, ne farai anche altre. Il Signore prosciugò il mare e le acque del vorticoso abisso quando distrusse il potere del diavolo, simboleggiato nel mare, e la sua perfidia, simboleggiata nell'abisso: e così "nella profondità del mare", cioè negli inferi, "pose una via, per la quale passassero quelli che hai liberato", i redenti". Riguardo ai doni del secondo avvento, il Signore dice: "Ecco, io "con angeli e uomini "faccio della Gerusalemme" celeste "una gioia, e del suo popolo un gaudio. Io esulterò di Gerusalemme e godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa voci di pianto né grida di angoscia" ( Is 65,18-19 ); "perché il Signore Dio asciugherà le lacrime da ogni volto" ( Is 25,8 ). 4. "La vostra modestia sia nota a tutti gli uomini" ( Fil 4,5 ). La modestia si chiama così perché in tutte le circonstanze mantiene il giusto atteggiamento. Osserva che la modestia consiste soprattutto in due cose: nella pace della mente e nel decoro del corpo. Dice Isaia: "Opera della giustizia sarà la pace, frutto della giustizia la quiete e una sicurezza perenne" ( Is 32,17 ). Opera della giustizia, cioè di coloro che sono già giustificati per mezzo della grazia, è la pace: mettono infatti nella pace della mente il fondamento di ogni opera buona. E così il frutto, cioè gli atti e il comportamento esterno, sono la quiete e la tranquillità. Quando l'uomo interiore riposa nella casa della pace, l'uomo esteriore è sempre in un atteggiamento di onestà e di sicurezza. E coloro che si comportano con questa serenità, si sentiranno sempre tranquilli e sicuri. "Il Signore è vicino" ( Fil 4,5 ). Questo dice il Padre: "Faccio avvicinare la mia giustizia", cioè il mio Figlio; "non è lontana e la mia salvezza non tarderà. In Sion darò la salvezza e in Gerusalemme la mia gloria" ( Is 46,13 ). E questo è ciò che leggiamo oggi nel brano del vangelo: "In mezzo a voi sta uno …" ( Gv 1,26 ): "il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù" ( 1 Tm 2,5 ) "stette" nel campo del mondo combattendo contro il diavolo e, dopo averlo sconfitto, strappò dalla sua mano l'uomo e lo riconciliò con Dio Padre, "che voi non conoscete" ( Gv 1,26 ). Ed è ciò che dice Isaia: "Ho nutrito ed esaltato dei figli, ma essi mi hanno disprezzato. Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone: Israele invece non mi ha conosciuto e il mio popolo non ha compreso" ( Is 1,2-3 ). Ecco quanto vicino è il Signore, e noi lo ignoriamo. "Ho nutrito dei figli", come una madre, con il mio sangue come latte; "e ho esaltato" al di sopra dei cori degli angeli la natura umana, che ho assunta da essi e ho unita a me. Non avrebbe potuto conferirci un privilegio e un onore più grande. Ed "essi mi disprezzarono". "Considerate e vedete se c'è un dolore simile al mio dolore" ( Lam 1,12 ). "Guai a te, che disprezzi! Non sarai forse anche tu disprezzato?" ( Is 33,1 ). Leggiamo infatti nel libro dei Proverbi: "L'occhio che guarda con scherno il padre, e che disprezza le sofferenze che la madre ha avuto nel partorirlo, sia strappato dai corvi dei torrenti e sia divorato dagli aquilotti" ( Pr 30,17 ). Il senso letterale di questa espressione mostra chiaramente quale sia il castigo riservato a chi disprezza il padre o la madre. "Il bue", cioè il ladrone ( buono ) sulla croce, "conosce il suo proprietario", dicendo: "Ricòrdati di me quando sarai nel tuo regno" ( Lc 23,42 ); "e l'asino", cioè il centurione, "conosce la greppia del suo padrone", dicendo: "Veramente costui era il Figlio di Dio" ( Mt 27,54 ). "Invece Israele", cioè i chierici, "non mi hanno conosciuto, e il mio popolo", cioè i laici, "non hanno compreso". 5. "Non preoccupatevi di nulla" ( Fil 4,6 ). Le preoccupazioni per le cose temporali fanno dimenticare Dio. Dice infatti Isaia: "Con le tue mani hai trovato da vivere e perciò non mi hai pregato. Non ti sei ricordata di me perché ti preoccupavi di quelle cose per causa delle quali sei divenuta infedele" ( Is 57,10-11 ), cioè hai badato solo a custodire le ricchezze. E ancora: "Hai detto: Per sempre sarò signora e padrona. Non ti sei preoccupata di ciò che avveniva e non hai mai pensato a quale sarebbe stata la fine. Ed ora ascolta questo, o voluttuosa, che te ne stai sicura e dici in cuor tuo: Io, e nessuno fuori di me! Non resterò vedova e non conoscerò sterilità. Ma ti accadranno queste due cose, all'improvviso, in un sol giorno: sterilità e vedovanza" ( Is 47,7-9 ). In un sol giorno, cioè nel giorno della morte, "alla figlia dei Caldei" ( Is 47,1 ), colei cui Dio minaccia queste punizioni, cioè all'anima sventurata, schiava dei vizi e della concupiscenza, accadranno queste due cose: la sterilità, cioè la privazione dei beni temporali, e la vedovanza, cioè la privazione dei piaceri della carne. Minaccia il Signore con le parole di Isaia: "Ecco, con un rimprovero farò del mare un deserto, prosciugherò i fiumi: i pesci senza l'acqua moriranno di sete e marciranno" ( Is 50,2 ). La separazione dell'anima dal corpo è come un minaccia di Dio; di essa dice la Genesi: "Con il sudore della tua fronte ti ciberai di pane, finché ritornerai alla terra dalla quale sei stato tratto" ( Gen 3,19 ). Quindi nel minacciare la morte, il Signore rende un deserto il mare, cioè l'amarezza e la profondità delle ricchezze di questo mondo. E ancora Isaia: "La figlia di Sion sarà abbandonata come un pergolato che fa ombra nella vigna e come un capanno in un campo di cocomeri, come una città espugnata" ( Is 1,8 ). Come una vigna che dopo la vendemmia fa solo ombra, e il capanno dopo raccolti i frutti, e come la città dalla quale vengono deportati gli abitanti, come tutte queste cose vengono abbandonate e devastate, così anche la figlia di Sion, cioè l'anima abbandonata da Dio, consegnata al diavolo, sarà spogliata di tutte le ricchezze e di tutti i piaceri. E quindi: "Prosciugherò i fiumi", cioè il piacere dei cinque sensi; e allora "i pesci che percorrono i sentieri del mare" ( Sal 8,9 ), cioè gli ingordi e avidi delle cose di questo mondo, "marciranno" nel loro sterco, "senza l'acqua" della ricchezza e della concupiscenza nella quale erano abituati a sguazzare, "e moriranno di sete", quella sete che tormentava nell'inferno il ricco epulone, il quale in vita era vestito di porpora e bisso ( cf. Lc 16,24 ). Perciò "non preoccupatevi di nulla", perché di coloro che sono avidi e si preoccupano dice Isaia: "Si lamenteranno i pescatori e piangeranno tutti coloro che gettano l'amo nel fiume … e lanciano la rete sulla superficie delle acque. Saranno delusi ed esasperati quelli che lavorano il lino, i cardatori e i tessitori di fino" ( Is 19,8-9 ). I pescatori sono gli amanti di questo mondo, avidi e bramosi di ricchezze e di piaceri. Quelli che gettano l'amo nel fiume sono i commercianti imbroglioni, che con l'esca della falsa bellezza coprono l'amo del loro imbroglio per accalappiare colui che vuol comprare. Quelli che lanciano la rete sulla superficie delle acque sono i maledetti usurai, che nella rete dell'usura catturano grandi e piccoli, ricchi e poveri. Quelli che lavorano il lino, lo cardano e tessono di fino, sono i legulei, i decretisti, i canonisti e i falsi avvocati, con i loro sofismi. Tutti costoro, tanto gli uni che gli altri, al termine della loro vita, quando non potranno più "amministrare" ( cf. Lc 16,2 ), piangeranno perché saranno miseramente spogliati di quelle ricchezze che avevano accumulato con tanta solerzia e amato con tanto ardore; saranno esasperati, perché la loro anima, uscita dal corpo, sarà consegnata ai demoni per l'eterno castigo; saranno confusi nel giorno del giudizio, davanti a Dio e ai suoi angeli. "Perciò, non preoccupatevi di nulla". 6. "Ma con preghiere, suppliche e ringraziamenti, siano manifeste a Dio le vostre richieste" ( Fil 4,6 ). Così erano manifeste le suppliche del re Ezechia, come racconta il profeta Isaia: "Ezechia voltò la faccia verso la parete" - del tempio, perché al tempio non poteva recarsi, essendo gravemente ammalato -, "pregò il Signore e disse: Signore, ti scongiuro! Ricordati come io ho camminato dinanzi a te nella verità e con cuore perfetto e ho fatto quello che era giusto agli occhi tuoi. E proruppe in un grande pianto" ( Is 38,2-3 ). E la Glossa commenta: Pianse perché moriva senza figli e temeva che la promessa fatta ai suoi padri non si avverasse per colpa dei suoi peccati. "Allora la parola del Signore fu rivolta ad Isaia: Va' e riferisci a Ezechia: Dice il Signore, Dio di Davide, tuo padre: Ho ascoltato la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco, io aggiungerò alla tua vita quindici anni; libererò dalle mani degli Assiri te e questa città e la proteggerò" ( Is 38,4-6 ). La parete, così chiamata da parità, uguaglianza, raffigura l'umanità di Gesù Cristo, nella cui vita mai vi fu incoerenza o contraddizione. Di questa parete dice la sposa del Cantico dei Cantici: "Ecco, egli sta dietro la nostra parete" ( Ct 2,9 ); ed Isaia: "L'impeto dei potenti", dei giudei, "è come il turbine che imperversa contro una parete" ( Is 25,4 ): imperversa, si accanisce ma non la abbatte, come avvenne con Gesù, che restò incrollabile nella sua passione. O peccatore, prigioniero della malattia della tua anima, volgiti a questa parete con la contrizione del cuore e con una sincera confessione, che devi fare con grande pianto e con il proposito di perseverare sino alla fine. E così, facendo penitenza, le tue suppliche siano manifeste a Dio. Egli, ai giorni della tua penitenza, aggiungerà anni di gloria, e ti strapperà dalla mano del re degli Assiri, cioè del diavolo e dei suoi ministri; e proteggerà e difenderà la città, vale a dire la tua anima e il tuo corpo. "E la pace di Dio …" Dice Isaia: "Venga la pace, riposi nel suo letto colui che ha camminato nella rettitudine" ( Is 57,2 ). E la Glossa: Il profeta prega che venga Cristo e, risorgendo dai morti, riposi nel suo letto, vale a dire nella gloria della maestà del Padre, o nella chiesa, nella quale ha camminato nella rettitudine, egli che non ha commesso peccato e nella cui bocca non si è trovato inganno ( cf. Is 53,9 ). "… che supera ogni intendimento …" sia di uomini che di angeli. "Chi mai infatti - dice l'Apostolo - ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?" ( Is 40,13; Rm 11,34 ). "… custodisca i vostri cuori", affinché opera della giustizia sia la pace, "e la vostra mente", affinché frutto della giustizia sia la tranquillità, "in Cristo Gesù" ( Fil 4,7 ), Signore nostro. Fratelli carissimi, preghiamo umilmente il Signore nostro Gesù Cristo, perché ci conceda di cantare il cantico della sacra solennità; ci conceda di godere unicamente in lui, di vivere nella modestia, di liberarci di ogni preoccupazione terrena, di presentare a lui ogni nostra supplica, affinché, immersi nella sua pace, siamo fatti degni di vivere nella celeste Gerusalemme, città della pace. Ce lo conceda colui che è benedetto e glorioso nei secoli eterni. E ogni anima amante della pace dica: Amen. Alleluia! Domencia IV di Avvento Temi del sermone - Vangelo della IV domenica di Avvento: "La parola di Dio scese su Giovanni"; il vangelo si divide in due parti. - Anzitutto sermone ai predicatori o ai prelati della chiesa: "Sali su di un alto monte". - Parte I: "Andate, veloci messaggeri!…": in questa citazione vengono descritti i sette vizi. - La vita del predicatore o del prelato, e la passione di Cristo: "Voce di chi grida nel deserto". - Sermone ai penitenti all'inizio del digiuno: "Nel primo tempo fu consolata la terra di Zabulon". - Sermone ai religiosi, ai sacerdoti e ai prelati: "Il sentiero della giustizia", e "Voi, sacerdoti del Signore", e ancora: "In quel giorno chiamerò il mio servo Eliakim". - Parte II: Sermone sull'umiltà: "Ogni valle sarà colmata". - Il triplice stato dei buoni: "Quest'anno mangia ciò che cresce spontaneamente". - Il castigo dei superbi: "Negli inferi sarà precipitata la tua superbia". - L'incarnazione del Verbo e i suoi frutti: "Oh, se tu squarciassi i cieli! …" Esordio - Ai predicatori o ai prelati della Chiesa 1. In quel tempo: "La parola del Signore scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto" ( Lc 3,2 ). Dice Isaia: "Sali su di un alto monte, tu che evangelizzi Sion; alza la tua voce con forza, tu che evangelizzi Gerusalemme" ( Is 40,9 ). Vediamo quale significato morale abbiano il monte, Sion, e Gerusalemme. Il monte, così chiamato in quanto immobile ( mons, motum non habens ), è figura della vita coerente del giusto, di cui parla Isaia: "Sarà come uomo che si ripara dal vento e si protegge dal turbine; come ruscelli d'acqua in tempo di sete, come l'ombra di una roccia sporgente in una terra deserta" ( Is 32,2 ). Come dicesse: Il giusto, sicuro in mezzo alle tribolazioni, sarà come colui che fuggendo il vento e il turbine, si ripara in luogo sicuro, e come colui che nel deserto trova delle fonti limpidissime, come colui che si ripara dall'ardore del sole sotto una roccia sporgente. Il giusto si ripara dal vento della suggestione diabolica e si protegge dal turbine della prosperità mondana ed è irrigato da ruscelli di acqua, cioè della grazia, contro la sete dei desideri carnali, ed evita l'ardore del sole, cioè delle persecuzioni del mondo, riparandosi all'ombra della roccia sporgente, che è Cristo, il quale lo protegge nella tribolazione. Quindi la vita del giusto è raffigurata nel monte. Al contrario, dice Isaia: "Il suo cuore", del re Acaz, "e il cuore del suo popolo si agitò, come si agitano nel vento gli alberi della foresta" ( Is 7,2 ). E questo è ciò che dice Giobbe: "Il monte frana e cade, e il sasso scivola dal suo posto; le acque scavano le pietre e la terra a poco a poco viene travolta dall'inondazione ( Gb 14,18-19 ). Vedi la storia di Giobbe nel sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, III parte. Quindi "tu, che evangelizzi Sion, sali su di un alto monte", che non cade e non frana. Dice Gregorio: Chi si dedica al celeste ufficio della predicazione, abbandonata ormai l'abiezione delle opere terrene, appare come situato al di sopra di tutto; e tanto più facilmente trascina i fedeli a diventar migliori, quanto più parla dall'alto con l'esempio della sua vita. Penetra più facilmente nel cuore degli ascoltatori quella voce che è accreditata dalla vita di colui che parla, perché ciò che egli comanda con la parola, aiuta a metterlo in pratica, dimostrandolo con l'esempio. "Alza la tua voce con forza, tu che evangelizzi Gerusalemme". Sion, che era la parte più bassa della città, raffigura i secolari; Gerusalemme, che era la parte alta, raffigura i religiosi. Quando evagelizzi Sion, sali su di un alto monte, affinché essa salga con te dal basso verso l'alto. Si legge infatti nel secondo libro dei Re: "Davide saliva l'erta degli Ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi nudi, mentre tutto il popolo che era con lui aveva il capo coperto e saliva piangendo" ( 2 Sam 15,30 ). Davide raffigura il predicatore che, salendo l'erta degli Ulivi, tendendo cioè alla vita perfetta, illuminata e arricchita dall'olio della misericordia divina, deve compiere tre atti: piangere, coprirsi il capo, e camminare a piedi nudi. Piangere con Acsa ( figlia di Caleb ) per ottenere "la sorgente superiore e quella inferiore" ( cf. Gs 15,19; Gdc 1,5 ); coprirsi il capo, e nel capo sono compresi tutti i sensi; camminare a piedi nudi delle vanità del mondo, spogliare cioè gli affetti della mente da ogni pelle morta di proprietà e di propria volontà. Se il predicatore salirà così, tutto il popolo salirà devotamente dietro a lui, con il capo coperto contro la vanità del mondo e piangendo i suoi peccati. Ma non si legge che il popolo camminasse a piedi nudi come Davide, perché ai secolari è lecito avere delle proprietà. Parimenti, quando evangelizzi Gerusalemme, cioè i religiosi, alza la tua voce con forza, perché siano fortemente incoraggiati e esultino nel percorrere la via ( cf. Sal 19,6 ) e nel conquistare la corona incorruttibile ( cf. 1 Cor 9,25 ). Dice Giobbe del cavallo, cioè del giusto: "Quando sente la tromba", cioè la predicazione che risuona con forza, "grida: Aah! … Scalpita coraggiosamente e con impeto va incontro agli armati; sprezza la paura e non retrocede davanti alla spada" ( Gb 39,21-22.25 ). Era salito su di un alto monte ed aveva alzato con forza la sua voce il più grande predicatore, il beato Giovanni Battista; di lui e della sua predicazione è detto nel vangelo di oggi: "La parola del Signore scese su Giovanni". 2. In questo vangelo sono ricordate due cose: la sublimità della predicazione e la valle dell'umiltà. La prima quando dice: "La parola del Signore"; la seconda quando dice: "Ogni valle". Nell'introito della messa si canta: "Ricordati di noi, o Signore". Si legge poi il brano della prima lettera ai Corinzi del beato Paolo apostolo: "Ognuno ci consideri come ministri di Cristo", ecc. Divideremo il brano in due parti e ne troveremo la concordanza con le due parti del brano evangelico. La prima: "Ognuno ci consideri come ministri". La seconda: "Non vogliate quindi giudicare nulla prima del tempo". I. Sublimità della predicazione 3. "La parola del Signore scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto". Giovanni è figura del prelato o anche del predicatore della santa chiesa, che dev'essere figlio di Zaccaria, nome che s'interpreta "ricordo del Signore", per aver sempre nella sua mente un memoriale: la passione di Gesù Cristo. Dice Isaia: "Il tuo nome e il tuo memoriale sono nell'anelito della mia anima. L'anima mia anela a te di notte, e con il mio spirito e con il mio cuore ti cercherò al mattino" ( Is 26,8-9 ). Dobbiamo desiderarlo nella notte dell'avversità e rivolgerci a lui nel mattino della prosperità, e avere sempre nella mente il memoriale della sua passione. Si legge nell'Esodo: "Sarà come un segno nella tua mano e come un ricordo davanti a tuoi occhi" ( Es 13,9 ). E nel Deuteronomio: "Queste parole", cioè l'incarnazione e la passione, "siano fisse nel tuo cuore; le ripeterai ai tuoi figli, e le mediterai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te le legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio che si muove davanti agli occhi; e le scriverai sugli stipiti e sulle porte della tua casa" ( Dt 6,6-9 ). Se il prelato, o il predicatore, sarà figlio di Zaccaria, dicendo con il profeta: "Mi sono ricordato di Dio e ho avuto conforto" ( Sal 77,4 ) nell'amarezza della sua passione, così da dire con la sposa del Cantico dei Cantici: "Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra che riposa tra le mie mammelle" ( Ct 1,12 ), allora scenderà su di lui la parola del Signore, parola di vita e di pace, parola di grazia e di verità, parola che Isaia, figlio di Amos, vide sopra Giuda e Gerusalemme ( cf. Is 1,1 ), cioè sopra l'anima fedele e che vive in pace con se stessa. O Parola che non sferza, ma che inebria il cuore. O Parola dolce, che conforta il peccatore. O Parola di beata speranza! O Parola, fresca acqua per l'anima assetata, gradito messaggero che porta gradite notizie della patria lontana ( Pr 25,25 ). Qui c'è il "mormorio di una brezza leggera" ( 1 Re 19,12 ), cioè l'ispirazione di Dio onnipotente, della quale Giobbe dice: "Certamente c'è nell'uomo lo spirito, e l'ispirazione della virtù dell'Onnipotente largisce l'intelligenza" ( Gb 32,8 ). O quanto beato e veramente degno di essere chiamato Giovanni ( dono di Dio ), colui sul quale scese questa Parola! Ti scongiuro, o Signore, scenda sul tuo servo la tua Parola, e "secondo la tua Parola egli vada in pace" ( Lc 2,29 ). "Lampada per i miei passi è la tua Parola!" ( Sal 119,105 ). Abbiamo sentito su chi è discesa la Parola. Ma in quale luogo è discesa? "Nel deserto". Dov'è il deserto, lì è la Parola; però è il deserto del quale parla il salmo: "In una terra deserta, inaccessibile e arida …" ( Sal 63,3 ). Vedi il sermone della domenica III di Quaresima, parte IV, sul vangelo: "Quando lo spirito immondo esce da un uomo". 4. "Ed egli percorse tutta la regione del Giordano" ( Lc 3,3 ). Colui sul quale scende la divina ispirazione, senza dubbio percorre la regione del Giordano, nome che s'interpreta "umile discesa" e che simboleggia la compassione verso il prossimo. Il prelato, o il predicatore, deve scendere e mettersi al livello del prossimo, per poter rialzare chi giace a terra. E con questo concorda Isaia, quando riporta le parole che il Signore rivolge ai predicatori: "Andate, messaggeri veloci, ad una gente strappata [ dalla sua terra ] e lacerata, ad un popolo terribile più di ogni altro, a un popolo che aspetta e che è oppresso, la cui terra è stata dispersa dai fiumi" ( Is 18,2 ). In questa espressione vengono segnalati i sette vizi dai quali il genere umano è portato alla rovina. "O messaggeri", cioè prelati e predicatori, "andate veloci" perché il ritardo provoca il pericolo, e perciò il Signore disse agli apostoli: "Per via non salutate nessuno" ( Lc 10,4 ), affinché il cammino della vostra predicazione non trovi impedimenti; e nel quarto libro dei Re, Eliseo disse e Giezi: "Se t'imbatti in un uomo, non salutarlo; e se qualcuno ti saluta, non rispondergli" ( 2 Re 4,29 ). Andate dunque veloci ad una gente", che vive cioè da gentile, da pagana, "strappata" dalla radice dell'umiltà a causa dello spirito di superbia, per cui dice Giobbe: "Come una pianta sradicata mi toglie ogni speranza" ( Gb 19,10 ); a una gente "lacerata" dall'invidia che lacera il cuore, di cui il profeta Nahum dice: "Guai a te, città di sangue, tutta menzogne e piena di lacerazioni!" ( Na 3,1 ); andate "ad un popolo terribile" per l'ira, della quale Giobbe dice: "Il mio nemico mi ha fissato con occhi terribili" ( Gb 16,10 ); ad un popolo "che aspetta" la ricompensa della vanagloria: "Hanno già ricevuto la loro ricompensa" ( Mt 6,5 ); e Geremia: "Sedevi lungo le strade, aspettando gli uomini, come fa il brigante in luoghi disabitati; ad un popolo "oppresso" dall'avarizia ( Ger 3,2 ); Isaia: "Sarà calpestato e oppresso come il fango nelle piazze" ( Is 10,6 ), e Abacuc: "Guai a chi accumula ciò che non è suo! Fino a quando continuerà a caricarsi di denso fango?" ( Ab 2,6 ); un popolo "la cui terra è stata dispersa dai fiumi", la cui intelligenza cioè è stata rovinata dalla gola e dalla lussuria; e di questo dice Ezechiele: "Eccomi a te, spaventoso dragone, che riposi in mezzo ai tuoi fiumi e dici: Mio è il fiume!" ( Ez 29,3 ). Da questa citazione appare chiaro quanto sia necessaria la predicazione, della quale appunto il vangelo dice: "Giovanni andava predicando un battesimo di penitenza ( conversione ) per il perdono dei peccati" ( Lc 3,3 ). Lo stesso dice anche Isaia: "Lavatevi e siate mondi!" ( Is 1,16 ); e più avanti: "Se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana bianca" ( Is 1,18 ). Su questo argomento vedi il primo sermone della domenica II di Quaresima sul vangelo: "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni", ecc., seconda parte. Il Signore dice ancora per bocca di Isaia: "Ho disperso come una nuvola le tue iniquità e come la nebbia i tuoi peccati; ritorna a me" facendo penitenza, "poiché io ti ho redento" ( Is 44,22 ) con il mio sangue. E ancora: "Consòlati, consòlati, o mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua afflizione e la sua iniquità è perdonata. Essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio castigo per tutti i suoi peccati" ( Is 40,1-2 ). Commenta la Glossa: Il motivo della consolazione è la remissione dei peccati; il motivo della remissione è il fatto di aver ricevuto il doppio castigo. C'è da osservare che i nostri peccati non solvuntur, non sono pagati, espiati, se non abbiamo ricevuto i castighi dalla mano di Dio. E non è la stessa cosa solvi peccata, peccati espiati, e peccata remitti, peccati rimessi, perdonati; a chi vengono rimessi, perdonati, non è necessaria l'espiazione. Infatti è detto: "Ti sono rimessi, perdonati, i tuoi peccati". Quando invece solvuntur, cioè sono pagati, questo avviene perché sono stati espiati e cancellati per mezzo dei castighi inflitti da Dio. 5. "Come è scritto nel libro dei sermoni del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto" ( Lc 3,4 ). Fa' attenzione a queste tre parole: Voce, di uno che grida, e nel deserto. Quale è la voce, chi è che grida e cos'è il deserto? La voce è il predicatore, colui che grida è Cristo, e il deserto è la sua croce. La voce è aria, e il predicatore dev'essere aereo, cioè celeste, affinché la sua familiarità sia con il cielo. Si legge infatti nell'Esodo che "sotto i piedi del Signore c'era come un'opera di pietra di zaffiro, simile al cielo quand'è sereno" ( Es 24,10 ). Lo zaffiro è color dell'aria; l'opera di pietra di zaffiro è la vita del predicatore santo, che con l'umiltà della sua mente è prostrato ai piedi dell'incarnazione del Signore, ed è come sospeso nell'aria nella contemplazione della celeste beatitudine. Dice Isaia: "Chi sono costoro che volano come le nubi, e come colombe verso le loro colombaie?" ( Is 60,8 ). I predicatori santi sono paragonati alle nubi, perché sono leggeri, sono cioè liberi dalle cose terrene: fanno piovere parole, fanno rintronare minacce, illuminano con gli esempi e volano in cielo con le ali delle virtù. E semplici come le colombe, stanno alle finestre e custodiscono i cinque sensi del loro corpo affinché la morte non entri nella casa della loro coscienza. O Signore, se io sentissi una tale voce, griderei come Adamo: "Ho sentito la tua voce ed ho avuto paura!" ( Gen 3,10 ). Tale voce non è di uomo, ma quasi voce di Dio l'Altissimo. "Risuoni, dunque, la tua voce ai miei orecchi: la tua voce è dolce" ( Ct 2,14 ). A questa voce "hanno tremato le mie labbra" ( Ab 3,16 ). "La voce del tuo tuono nel turbine" ( Sal 77,19 ). Ma ahimè! Non sento la voce, ma un sussurro e un brontolio, per cui dice Isaia: "Parlerai dalla terra; dal terreno si udrà il tuo responso; la tua voce sarà come quella della pitonessa, voce che esce dalla terra; e il tuo responso come un sussurro che esce dal terreno" ( Is 29,4 ). Vedi il sermone della domenica II dopo Pentecoste, seconda parte: "Un uomo diede una grande cena". Questo sussurro non è di Cristo che grida: egli ci ha detto cose celesti e non cose terrene, e, come dice Isaia, "gridò come un leone" ( Is 21,8 ). Ma dove? "Nel deserto". Il deserto fu la sua croce, nella quale fu abbandonato, nudo e coronato di spine: lì ha gridato. Dice infatti il profeta Amos: "Moab morirà con grande strepito, al suono di tromba" ( Am 2,2 ). Moab è il diavolo che perì al suono della tromba, cioè al suono della predicazione del Signore, e al suono della sua voce, quando sulla croce gridò "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" ( Lc 23,46; cf. Sal 31,6 ). Dice ancora Isaia: "Ecco che il dominatore, il Signore degli eserciti, spezzerà il vaso con il terrore; e gli alti di statura saranno tagliati, e i grandi saranno umiliati; e le selve delle valli saranno devastate con il ferro, e il Libano cadrà con i suoi alti cedri" ( Is 10,33-34 ). Il vaso è l'umanità di Cristo, formato da terra vergine, e spezzato nella Passione: e questo incutendo terrore ai demoni i quali, alti di statura, sono stati come tagliati dalla sua potenza; e i grandi, cioè i superbi giudei, sono stati umiliati, cioè rifiutati, nella rivendicazione operata dalla passione di Cristo. E le selve delle valli, cioè la Gerusalemme terrestre, chiamata così per la moltitudine della sua popolazione, fu devastata con il ferro da Tito e Vespasiano; e il Libano, cioè il tempio, crollò insieme con gli alti cedri, cioè con i suoi sacerdoti. 6. "Preparate la via del Signore" ( Lc 3,4 ). Dice Isaia: "Nel primo tempo fu un po' alleviata la terra di Zabulon e la terra di Neftali; nell'ultimo tempo fu oppressa la via del mare" ( Is 9,1 ). Questo è una specie di "triduo" del quale Mosè dice: Ci inoltreremo nel deserto con un cammino di tre giorni e offriremo un sacrificio al Signore, nostro Dio ( cf. Es 3,18 ). "Nel primo tempo", cioè nel momento dell'infusione della grazia che all'inizio ha prevenuto il peccatore, "la terra", cioè la sua mente, "è alleviata" dal peso del peccato per mezzo della contrizione: e allora è "terra di Zabulon" ( primo giorno ), che significa "abitazione della forza". Infatti la grazia corrobora con la forza della costanza colui nel quale essa abita. Dice Isaia: "Colui che dà la forza a chi è stanco e moltiplica la forza e l'energia a coloro che sono venuti meno" ( Is 40,29 ). "È alleviata" anche nella confessione, quando dichiara il peccato e le sue circostanze; e allora è "terra di Neftali, che significa "espansione". La mente del peccatore si espande nella confessione, come disse il Signore ad Giacobbe: "Ti espanderai a oriente e ad occidente, a settentrione e a meridione" ( Gen 28,14 ). Osserva che nella confessione il sacerdote deve esigere dal peccatore quattro promesse: di dolersi e di fare penitenza dei peccati commessi e dei peccati di omissione; di essere disposto ad eseguire la penitenza che egli gli imporrà; di avere il fermo proposito di non più commettere peccati mortali in futuro; di essere pronto a riparare al male fatto al prossimo, a perdonare e ad amarlo. Solo se è disposto a fare e mantenere queste quattro promesse, può imporgli la penitenza ed assolverlo, altrimenti no. Quando dunque esprime il suo dolore e si pente, il peccatore si espande ad oriente, perché viene illuminato dal sole della giustizia. Quando è disposto ad obbedire alla volontà e alla voce del sacerdote, allora si espande ad occidente: cade ( lat. occidit ) infatti da se stesso ( dalla sua superbia ) quando si sottomette ad un altro. Quando ha il fermo proposito di non ricadere, allora si espande a settentrione o aquilone, in cui è simboleggiata la tentazione del diavolo: si dilata ad aquilone colui che combatte contro il diavolo che tenta di assalirlo: il nemico che combatte validamente, fa sì che anche tu combatta valorosamente ( Ovidio ). Quando infine il peccatore promette di amare il prossimo, allora si espande a meridione, in cui è simboleggiato l'ardore della carità. Se il peccatore farà questi due giorni di cammino, sarà in grado di fare anche il terzo, indicato dalle parole: "Nell'ultimo tempo fu oppressa", cioè profondamente contristata, "la via del mare" ( Is 9,1 ). La via del mare è l'esecuzione della penitenza che è veramente amara. "Amara sarà la bevanda per chi la beve" ( Is 24,9 ). Quindi, con la contrizione e con la confessione l'anima si sente come sollevata, ma nel fare la penitenza la carne viene sottoposta a grave sofferenza. Dice Gregorio: È necessario che la carne, dopo essere andata alla colpa godendo, ritorni al perdono soffrendo. Questa è la via per la quale il Signore giunge all'anima. Beato colui che la prepara in questo modo. "Il mio cuore, o Dio, è pronto. Pronto è il mio cuore!" ( Sal 57,8 ). 7. "Raddrizzate i sentieri del nostro Dio" ( Lc 3,4 ). Dice Isaia: "La via del giusto è diritta, retto il sentiero per il quale il giusto cammina" ( Is 26,7 ). Il sentiero è detto in lat. sèmita, come a dire metà cammino ( lat. semis iter ). È un sentiero ogni religione, cioè ogni ordine religioso, che si è come delimitato e ristretto con i voti di povertà, di castità e di obbedienza. Dice Isaia: "È stato ristretto il letto, perché un altro ne cada; e la coperta troppo corta non può coprirne due" ( Is 28,20 ). Il letto è sempre la religione, che se è bene stretta ( severa ), come il sentiero, può accogliere soltanto lo sposo della castità e lo spirito di obbedienza, e scaccerà l'adultero e il fornicatore e il vizio della disobbedienza. E la coperta troppo corta della povertà non sarà in grado di coprire due persone, cioè colui che vuole possedere e il povero nello spirito. "Quale intesa ci può essere tra Cristo e Beliar?" ( 2 Cor 6,15 ); quale intesa tra il povero e il possidente, che è come Beliar in mezzo ai figli di Dio? O religiosi, "raddrizzate dunque i sentieri del nostro Dio!". 8. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: "Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio" ( 1 Cor 4,1 ). E Isaia: "Voi sarete chiamati sacerdoti di Dio, ministri del Dio nostro" ( Is 61,6 ). Ministri e amministratori sono i prelati e i predicatori, che amministrano la parola di Dio e predicano il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati. Di essi dice sempre Isaia: "Quanto sono belli", cioè mondi dalla polvere del peccato, "sui monti", cioè con le virtù, "i piedi del messaggero che annunzia la pace", cioè la riconciliazione tra il peccatore e Dio, "che annunzia il bene", cioè l'infusione della grazia; "che predica la salvezza", cioè la vita eterna, "e che dice: O Sion", o anima, "regnerà" in te "il tuo Dio" ( Is 52,7 ), e non il peccato. "Ora, questo si richiede agli amministratori, che ognuno sia trovato fedele" ( 1 Cor 4,2 ). Dell'amministratore fedele il Signore, per bocca di Isaia, dice: "In quel giorno chiamerò il mio servo Eliakim, figlio di Chelkia e lo rivestirò con la tua tunica, lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani: sarà come un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per la casa di Giuda" ( Is 22,20-21 ). Eliakim s'interpreta "risurrezione di Dio", ed è figura del fedele amministratore della chiesa, per mezzo del quale Dio risuscita alla penitenza il peccatore. Egli è figlio di Chelkia, cioè della giustizia: rivestito della tunica della misericordia e sostenuto dalla cintura della continenza, è come un padre per tutti i fedeli della chiesa. Dove si può trovare oggi un amministratore così fedele? Ahimè! "O città" una volta "fedele, e piena di rettitudine, come hai potuto trasformarti in prostituta? La giustizia dimorava in essa, ora invece è piena di assassini. Il tuo argento di è cambiato in scoria, il tuo vino si è mescolato con l'acqua. I tuoi capi sono infedeli, complici di ladri: tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all'orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge" ( Is 1,21-23 ). L'argento, vale a dire l'eloquenza dei prelati e dei predicatori, si è cambiato nella scoria della vanagloria. Il vino della predicazione si è mescolato con l'acqua dell'adulazione e del lucro temporale. Le altre parole non hanno bisogno di spiegazione, tanto sono chiare agli occhi di tutti. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo, che faccia scendere su di noi la parola da lui stesso ispirata; che ci purifichi con il battesimo di penitenza, per mezzo del quale diveniamo capaci di preparargli la via e di raddrizzare i suoi sentieri. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. II. La valle dell'umiltà 9. "Ogni valle sarà colmata" ( Lc 3,5 ). E questo è ciò che dice il Signore: "A chi guarderò se non al poverello e a chi ha lo spirito contrito e che trema al suono delle mie parole?" ( Is 66,2 ). La valle raffigura l'umiltà della mente, di cui dice Geremia: "Guarda i tuoi passi là nella valle" ( Ger 2,23 ), cioè riconosci i tuoi peccati con una doppia umiltà. L'umiltà mostra all'uomo se stesso. Dice Isaia: "Il Signore sarà conosciuto dall'Egitto e in quel giorno gli Egiziani conosceranno il Signore" ( Is 19,21 ). In quel giorno, cioè nella luce dell'umiltà, gli Egiziani, cioè i superbi avvolti di tenebre, conoscono il Signore e viceversa: e così conoscono anche se stessi. Dice Agostino: "Concedimi, Signore, di conoscere te e di conoscere me". E anche Isaia, dopo aver visto il Signore, rimprovera se stesso dicendo: "Guai a me, che ho taciuto, perché io sono uomo dalle labbra immonde" ( Is 6,5 ). E il Signore dice a Ezechiele: "Figlio dell'uomo, mostra il tempio alla casa d'Israele", cioè mostrale Gesù Cristo, "e si vergognino delle loro iniquità" ( Ez 43,10 ). Dunque "ogni valle sarà riempita" con quel grano di frumento che caduto nella terra morì ( cf. Gv 12,24 ) e di cui il salmo dice: "La valli abbonderanno di frumento" ( Sal 65,14 ). La beata Maria, essendo una valle, fu colmata, e dalla sua pienezza noi tutti, vuoti, abbiamo ricevuto ( cf. Gv 1,16 ), e il salmo: Saremo riempiti dall'abbondanza della tua casa ( cf. Sal 36,9; Sal 65,5 ). Solo gli umili saranno riempiti da quell'abbondanza che il Signore promette nel Levitico: "Vi darò le piogge al tempo giusto, e la terra produrrà i suoi germogli e gli alberi si caricheranno di frutti" ( Lv 26,3-4 ). Il Signore dà le piogge quando infonde la grazia della compunzione. E Isaia: "Cadrà la pioggia sulla tua semente, ovunque tu abbia seminato sulla terra" ( Is 30,23 ), ed essa produrrà i suoi germogli. Dalla pioggia della compunzione nascerà il germoglio della buona volontà, e così gli alberi, cioè i sensi del corpo, saranno pieni dei frutti delle buone opere. 10. Con questo concorda ciò che Isaia dice al re Ezechia: "Quest'anno mangia ciò che nasce spontaneamente; nell'anno seguente nutriti di frutti; quindi nel terzo anno seminate e mietete, piantate vigne e mangiatene il frutto" ( Is 37,30 ). Osserva che c'è un triplice "stato" dei buoni, simboleggiato in questi tre anni, e cioè lo stato dei principianti, quello dei proficienti e in fine quello dei perfetti. Gli incipienti, prevenuti dalla grazia divina, infusa in loro gratuitamente, mangiano ciò che nasce spontaneamente. Questo è anche ciò che dice il Signore per bocca di Osea: "Io li amerò gratuitamente" ( Os 14,5 ). Infatti sono sostenuti dalla grazia, unicamente per la benevolenza divina, e non per i loro meriti anteriori. E anche il beato Bernardo dice: Talvolta non si riesce a trovare la disposizione alla pura orazione e una conveniente dolcezza di sentimenti; e invece la trova colui che non chiede, non cerca, non bussa e quasi non sa nulla, quando la grazia lo previene. Quando un'anima rozza e appena agli inizi viene introdotta in quella disposizione di orazione, che di solito è concessa solo come premio della santità e ai meriti dei perfetti, avviene come quando i servi vengono ammessi alla mensa dei figli. I proficienti, simboleggiati nel secondo anno, si nutrono dei frutti delle buone opere, affinché la buona volontà, che prima era solo un pio affetto, si traduca nella pratica delle opere. I perfetti invece, simboleggiati nel terzo anno, traboccano di ogni specie di pienezza, come è detto nel salmo: "Coroni l'uomo", cioè la vita perfetta dei giusti, "con la tua benevolenza e i tuoi campi saranno ricolmi di abbondanza" ( Sal 65,12 ). Giustamente quindi è detto: "Ogni valle sarà riempita". Questo riempimento è indicato in quella "visita" della quale parla l'introito della messa di oggi: "Ricordati di noi, Signore, nella tua bontà verso il tuo popolo" ( Sal 106,4 ). E anche Isaia dice: "Guarda dal cielo, Signore, e osserva dalla tua santa dimora e dal soglio della tua gloria" ( Is 63,15 ). E di nuovo: "Signore, non adirarti senza fine, e non ricordarti per sempre della nostra iniquità. Ecco, Signore, guarda: siamo tutti tuo popolo!" ( Is 64,9 ). "Visitaci con la tua salvezza" ( Sal 106,4 ), cioè con la venuta del tuo Figlio, affinché le valli si riempiano di frumento. 11. "Ogni monte e ogni colle sarà abbassato" ( Lc 3,5 ). È ciò che dice anche Isaia: "La tua superbia è stata precipitata negli inferi, il tuo cadavere è steso a terra; sotto di te è sparsa la tignola e tua coperta saranno i vermi" ( Is 14,11 ). Fa' attenzione a queste due parole: monte e colle. Il monte raffigura la superbia che è nel cuore; il colle la superbia che è nelle opere. Quella è peggiore di questa. Dice Isaia: "Abbiamo sentito la superbia di Moab: è molto superbo; la sua superbia, la sua arroganza e la sua tracotanza sono maggiori la sua forza" ( Is 16,6 ). E la Glossa interlineare commenta: Osa più di quanto non sia suo potere. "Perciò Moab urlerà contro Moab, tutti urleranno" ( Is 16,7 ). Vale a dire: nell'inferno, tra i tormenti, il superbo urlerà contro il superbo, il lussurioso contro il lussurioso, e tutti urleranno contro se stessi. Sempre Isaia: "I sàtiri urleranno uno contro l'altro" ( Is 34,14 ). Parimenti: "Abbatterà coloro che stavano in posti sublimi, umilierà la città superba, l'abbatterà fino a terra e la getterà nella polvere. Sarà calpestata sotto i piedi" dei demoni "la superba corona degli infatuati di Efraim" ( Is 26,5 ; Is 28,3 ). E infine: "Siedi, taci, nasconditi nelle tenebre, figlia dei Caldei, perché non sarai più chiamata signora di regni" ( Is 47,5 ). Perciò "Ogni monte e ogni colle sarà abbassato". 12. Un'altra considerazione sulla vera umiltà. Isaia, sospirando l'avvento di Cristo e prevedendo la sua umiltà, dice: "Oh, se tu squarciassi i cieli e discendessi: davanti al tuo volto si dissolverebbero i monti come il fuoco incendia le stoppie, e le acque arderebbero come il fuoco" ( Is 64,1-2 ). Vedi di quale desiderio arda chi brama che i cieli si squarcino per poter contemplare, visibile nella carne, colui che è invisibile. Si squarci il cielo, discenda il Verbo e di fronte a lui si dissolva la superbia dei monti. "Davanti al tuo volto", cioè alla presenza della tua umanità, "i monti si dissolverebbero". Chi sarebbe ancora sì superbo, sì arrogante e pieno di sé, se riflettesse a fondo sulla maestà che si è annientata, sulla potenza che si è resa debole e sulla sapienza che balbetta? Non si liqueferebbe il suo cuore come la cera al sole? ( cf. Sal 68,3 ). E non direbbe con il profeta: "Nella tua verità", cioè nel tuo Figlio umiliato, o Padre, "hai umiliato anche me" ( Sal 119,75 ). "Come il fuoco incendia le stoppie", cioè il legno, il fieno e la paglia, così gli avari "sarebbero consumati". Chi infatti potrebbe ancora essere avaro, se contemplasse devotamente il Figlio di Dio avvolto in fasce, adagiato nella mangiatoia, egli che non ebbe dove piegare il capo ( cf. Lc 9,58; Gv 19,30 ), se non quando "piegato il capo [ sulla croce ] rese lo spirito? Forse che l'avaro non rinuncerebbe all'amore delle cose terrene e tutto il suo denaro non si ridurrebbe in cenere come la paglia al fuoco? "E le acque" dei lussuriosi, che ogni giorno con le loro cadute camminano verso l'inferno, "non arderebbero del fuoco" dello Spirito Santo, che prosciuga le secrezioni della lussuria e infonde la grazia della continenza? 13. "E le vie tortuose saranno diritte" ( Lc 3,5 ). È ciò che dice anche Isaia: "Abbandoni l'empio la sua via", cioè la via perversa, "e l'uomo iniquo i suoi pensieri e ritorni al Signore che avrà misericordia di lui" ( Is 55,7 ). E Geremia: "Perverso è il cuore dell'uomo e inscrutabile: chi potrà mai conoscerlo?" ( Ger 17,9 ). E di questa perversità dice ancora Isaia: "Se ne andò ramingo", - cioè fuori di sé come Caino, al quale fu detto: "Sarai ramingo e fuggiasco sulla terra" ( Gen 4,12 ) -, ramingo "sulla strada", cioè nella perversa attività "del suo cuore" ( Is 57,17 ). Il cuore perverso diventa retto quando si avvera ciò che dice Isaia: "Rientrate nel vostro cuore, o prevaricatori!" ( Is 46,8 ), ritornate cioè alla ragione, voi che siete vissuti come bestie. E di nuovo: "Figli d'Israele, sia profonda la vostra conversione, quanto è stata profonda la vostra perversione" ( Is 31,6 ). E ancora: "Se cercate, cercate pure, convertitevi e venite" ( Is 21,12 ): "se cercate" il mio aiuto nell'avversità, cercatelo anche nella prosperità. "Convertitevi" a me col cuore, "e venite" a me con le opere. "E i luoghi scabrosi si cambieranno in vie pianeggianti" ( Lc 3,5 ). È ciò che dice Isaia: "Pascoleranno sulle strade e i loro pascoli saranno tutti in luoghi pianeggianti; non patiranno né la fame né la sete e non li colpirà né l'arsura né il sole, perché colui che ha pietà di loro li guiderà e li disseterà alle sorgenti di acqua" ( Is 49,9-10 ). I luoghi scabrosi simboleggiano i cuori degli spietati, e si cambiano in vie pianeggianti quando diventano sensibili e miti. E questo è ciò che si legge nel quarto libro dei Re, quando Isaia dice: "Portate un impasto di fichi. Quando l'ebbero portato e posto sulla ferita di Ezechia, questi guarì" ( 2 Re 20,7 ). La piaga del corpo è figura della spietatezza dell'animo; l'impasto di fichi raffigura la mitezza, la dolcezza e l'affabilità, virtù che guariscono la piaga della spietatezza. È detto infatti nel libro dei Proverbi: "Con la pazienza si calma il principe, e la lingua per quanto molle spezza le cose più dure" ( Pr 25,15 ). "E ogni carne vedrà la salvezza di Dio" ( Lc 3,6 ), cioè ogni uomo, nel giudizio finale, vedrà Gesù Cristo. Gli empi a loro confusione "vedranno colui che hanno trafitto" ( Gv 19,37 ). Dice Isaia: "Nella terra dei santi operò l'iniquità, perciò non vedrà la gloria di Dio" ( Is 26,10 ). I Settanta hanno tradotto: "L'empio venga allontanato, affinché non veda lo splendore di Dio". Invece i giusti, come dice Isaia: "vedranno con i loro occhi quando il Signore farà ritornare Sion a sé" ( Is 52,8 ). 14. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: "Non vogliate giudicare prima del tempo" ( 1 Cor 4,5 ). Contro chi giudica, Isaia dice: "Guai a voi, che chiamate male il bene e bene il male; che fate delle tenebre luce e della luce delle tenebre; che fate dolce l'amaro e amaro il dolce" ( Is 5,20 ). "Finché venga il Signore" ( 1 Cor 4,5 ). Ed Isaia: "Ecco, il Signore Dio viene con potenza e il suo braccio detiene il dominio. Egli ha con sé la mercede", cioè la retribuzione per tutti, "e i suoi trofei", cioè la croce e gli altri strumenti della sua passione, "con la quale ha operato la salvezza nella nostra terra" ( Sal 74,12 ), "lo precedono" ( Is 40,10 ), ad eterna confusione dei reprobi. "Egli metterà in luce i segreti delle tenebre" ( 1 Cor 4,5 ). E Isaia: "La luce d'Israele sarà nel fuoco, il suo Santo nella fiamma" ( Is 10,17 ): luce per illuminare, nel fuoco per saggiare, nella fiamma per bruciare. "E manifesterà le intenzioni dei cuori" ( 1 Cor 4,5 ). E Isaia: "Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion" - e qui è indicata la superbia del cuore -, "e procedono a collo eretto" - ecco l'arroganza nel portamento -, "e ammiccano con gli occhi" - e qui è indicata la lascivia -, "e avanzano pavoneggiandosi e muovendo i piedi con passo studiato" - ecco la superficialità e l'incostanza -: per questo, nel giorno del giudizio, "il Signore renderà calva la testa delle figlie di Sion", perché ciò che è nascosto sarà manifestato e così si vedrà la loro vergognosa calvizie, "e il Signore le denuderà della loro chioma", ( Is 3,16-17 ), cioè metterà a nudo i loro pensieri e i loro perversi disegni. E questa sarà la vergogna degli empi. Ma quando "ogni carne ( ogni uomo ) vedrà la salvezza di Dio" ( Lc 3,6 ), "allora ciascuno avrà la sua lode da Dio" giusto ( 1 Cor 4,5 ). E Isaia: "Dite al giusto: bene!" ( Is 3,10 ). Poiché non è possibile sapere e spiegare come sarà la lode e la gloria dei santi, Isaia non dice quanta e come sarà, ma dice soltanto: Bene! Perciò, fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo, che abbassi i monti, raddrizzi le vie tortuose, renda soavi le cose aspre, affinché possiamo giungere a quel "bene che occhio non vide" perché è nascosto, "né orecchio udì" perché è silenzioso, "né mai entrò in cuore di uomo" ( 1 Cor 2,9 ), perché è al di là di ogni umana comprensione. Ce lo conceda colui che nel suo primo avvento fu umile, che nel secondo sarà terribile, amabile, soave e desiderabile e benedetto nei secoli eterni. E ogni anima umile dica: Amen. Alleluia! Natale del Signore 1. In quel tempo: "Un editto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutto il mondo" ( Lc 2,1 ). In questo vangelo si devono considerare tre eventi: - il censimento del mondo, - la nascita del Salvatore, - l'annuncio dell'angelo ai pastori. Con l'aiuto di Dio presenteremo brevemente ognuno dei tre avvenimenti. I. Il censimento del mondo 2. Censimento del mondo: "Uscì un editto". Osserva che in questa prima parte si dice, in senso morale, che chi vuole veramente pentirsi dei peccati commessi, deve prima di tutto "fare il censimento", "descrivere" come dice il vangelo, con contrizione tutta la sua vita, e poi accostarsi alla confessione. "Uscì un editto di Cesare Augusto". Cesare, che s'interpreta "signore del potere", e Augusto, "in solenne atteggiamento", rappresenta Dio onnipotente, Signore di tutto il creato: "La mia mano ha fatto tutto questo" ( Is 66,2 ); e "sotto di lui si piegano coloro che reggono il mondo" ( Gb 9,13 ), cioè il peso del mondo, quindi i prelati della chiesa e principi del mondo. Dio sta in atteggiamento solenne perché, come dice Daniele: "Mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano" ( Dn 7,10 ). Si dice che uno sta ( in piedi ) quando è pronto ad andare in aiuto ai suoi; invece che siede, quando esercita il giudizio: in entrambe le positure è nobile, solenne, maestoso. Questo nostro "imperatore" emette ogni giorno un editto per mezzo dei suoi banditori, cioè i predicatori della chiesa, perché venga censito tutto il mondo. Il mondo è detto anche orbe, dal lat. orbis, cerchio, appunto per la sua rotondità: infatti l'oceano, circondandolo da ogni parte, ne lambisce tutt'intorno i confini. La vita dell'uomo è un orbe, cioè come un cerchio: infatti nella Genesi gli viene detto: Sei terra e alla terra ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). L'uomo deve censire, deve descrivere tutto questo cerchio, ripensando nell'amarezza della sua anima a ciò che ha commesso nella fanciullezza, nell'adolescenza, nella giovinezza e anche nella vecchiaia. E osserva che dice "tutto" il cerchio, per indicare che deve descrivere i peccati commessi con il cuore, con la bocca, con le azioni, e i peccati di omissione, e le loro circostanze: e questo è indicato dal fatto che non dice "scrivere" ma "descrivere", che significa scrivere i vari modi e i vari luoghi del peccato. "Questo primo censimento fu fatto dal governatore della Siria Quirino" ( Lc 2,2 ). Quirino, che s'interpreta "erede", è figura del penitente, erede di Dio e coerede di Cristo ( cf. Rm 8,17 ), il quale dice: "La mia eredità è splendida per me" ( Sal 16,6 ). Il penitente fa il primo censimento dei suoi peccati quando, per prima cosa, cerca diligentemente, con profonda contrizione, ciò che ha commesso e ciò che ha omesso. Egli è il governatore della Siria, nome che significa "altezza", cioè l'altezza della superbia e dell'arroganza. Dice Giobbe del diavolo: "Egli vede tutte le cose alte, ed è il re di tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ). Quale potere è più degno di lode, di quello che si esercita su se stessi e nell'umiliare la propria superbia? 3. "E tutti andavano" ( Lc 2,3 ). Ecco il giusto procedimento da seguire nel pentirsi: prima censire tutti i propri peccati e poi andare alla confessione. "Andavano tutti per farsi registrare" ( Lc 2,3 ). Ahimè, quanto pochi sono oggi quelli che vanno! Perciò si lamenta Geremia: "Le vie di Sion piangono, perché non c'è chi si rechi alla solennità" ( Lam 1,4 ). Ma "Giuseppe" - cioè il vero penitente, "della casa e della famiglia di Davide" ( Lc 2,4 ), il re che veramente si pentì e alla cui casa il Signore promise: "In quel giorno vi sarà una sorgente zampillante per la casa di Davide" ( Zc 13,1 ) - questo "Giuseppe" vi andò. La sorgente della misericordia divina zampilla per la comunità dei penitenti, "per la purificazione del peccatore e della donna immonda" ( Zc 13,1 ), lava cioè in essi sia i peccati palesi che quelli occulti. "Giuseppe salì dalla Galilea", - nome che significa "ruota" ( vicenda ) e indica la suddetta descrizione della propria vita -, "dalla città di Nazaret" ( Lc 2,4 ), che significa "fiore". Al fiore segue il frutto: è per mezzo del fiore che si arriva al frutto. Così anche alla contrizione deve seguire la confessione: per mezzo della contrizione si arriva al frutto della confessione, cioè all'assoluzione e alla riconciliazione. E osserva che Giuseppe salì "per farsi registrare insieme con Maria, sua sposa, che era incinta" ( Lc 2,5 ). Maria s'interpreta "mare amaro", e simboleggia la duplice amarezza con la quale il penitente deve salire alla Giudea, cioè alla confessione, nella quale c'è la città di Davide "che si chiama Betlemme" ( Lc 2,5 ), cioè "casa del pane". E questa simboleggia il cibo delle lacrime: "Le mie lacrime furono il mio pane" ( Sal 42,4 ). Con tutto questo concordano le parole di Isaia: "Per la salita di Luchit salirà piangendo; sulla via di Coronaim alzeranno grida di contrizione" ( Is 15,5 ). Ecco il mare amaro. Luchit s'interpreta "guance" o "mascelle", Coronaim "sfogo della loro tristezza". Il piangente, cioè il penitente, sale alla confessione tutto bagnato di lacrime, che dalle sue guance salgono a Dio, come dice l'Ecclesiastico: "Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza forse contro chi gliele fa versare? E dalle sue guance salgono fino al cielo, e il Signore che esaudisce, forse non le gradirà?" ( Sir 35,1819 ). Lo sfogo della tristezza è il dolore del cuore contrito, dal quale deve scaturire il grido della confessione, che il penitente deve elevare per confessare tutto con sincerità e chiarezza. 4. Osserva ancora che Giuseppe salì con Maria, che era incinta. L'anima, amareggiate per il duplice dolore dei suoi peccati, viene come impregnata dal timore di Dio, come dice Isaia: "Come colei che è incinta, quando si avvicina il parto soffre e grida per il dolore, così siamo stati noi davanti al tuo volto" o, secondo una diversa traduzione, "per paura di te"; "o Signore, abbiamo concepito, abbiamo sofferto i dolori del parto, abbiamo partorito lo spirito di salvezza" ( Is 26,17-18 ). Il volto di Cristo, che verrà per il giudizio, impregna di timore l'anima, affinché concepisca e partorisca lo spirito di salvezza. II. La nascita del salvatore 5. "E avvenne che, mentre si trovavano lì …" ( Lc 2,6 ). Lì, dove? Nella casa del pane: anche Maria è la casa del pane. Il pane degli angeli si è trasformato in latte per i bambini, affinché i bambini diventassero angeli. "Lasciate che i bambini vengano a me" ( Mc 10,14 ) perché succhino e si sazino all'abbondanza della sua consolazione ( cf. Is 66,11 ). Osserva che il latte è di sapore dolce e di gradevole aspetto. Così Cristo, come dice "Bocca d'Oro" ( Giovanni Crisostomo ), attirava a sé gli uomini con la sua dolcezza come il diamante attira il ferro; egli afferma di se stesso: "Chi mangia di me avrà ancora fame e chi beve di me avrà ancora sete" ( Sir 24,29 ); ed è anche di incantevole aspetto, infatti gli angeli desiderano fissare in lui lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ). "Si compirono per lei i giorni del parto" ( Lc 2,6 ). Ecco la pienezza dei tempi ( cf. Gal 4,4 ), il giorno della salvezza ( cf. 2 Cor 6,2 ), l'anno della benevolenza" ( cf. Sal 65,12 ). Dalla caduta di Adamo fino all'avvento di Cristo fu tempo vuoto; infatti dice Geremia: "Guardai la terra, ed ecco che era vuota e senza nulla" ( Ger 4,23 ), perché il diavolo aveva distrutto ogni cosa; fu giorno di dolore e di malattia; dice infatti il salmo: "Sei sempre stato vicino al letto del suo dolore" ( Sal 41,4 ); fu anno della maledizione, e dice la Genesi: "Maledetta sia la terra per quello che hai fatto" ( Gen 3,17 ). Ma oggi "si sono compiuti i giorni del parto". Dalla pienezza di questo giorno noi tutti abbiamo ricevuto ( cf. Gv 1,16 ). E il salmo: "Saremo riempiti con i beni della tua casa" ( Sal 65,5 ). A te, o beata Vergine, sia lode e gloria, perché oggi siamo stati ricolmati dei beni della tua casa, cioè del tuo grembo. Noi che prima eravamo vuoti, ora siamo pieni; noi che prima eravamo malati, ora siamo sani; noi che prima eravamo maledetti, ora siamo benedetti, perché, come dice il Cantico dei Cantici: "Ciò che da te proviene è il paradiso", o Maria! ( Ct 4,13 ). 6. Continua l'evangelista: "Diede alla luce il suo figlio primogenito" ( Lc 2,7 ). Ecco la bontà, ecco il paradiso! Correte dunque, o ingordi, o avari, o usurai, voi cui piace più il denaro che Dio, correte e comprate senza denaro e senza alcuna permuta ( Is 55,1 ) il frumento e il grano che oggi la Vergine ha tratto dal tesoro del suo grembo. Diede dunque alla luce il figlio. Quale figlio? Il Figlio di Dio, Dio lui stesso. O tu, donna più felice di ogni altra, che hai avuto il figlio in comune con Dio Padre! Di quale gloria risplenderebbe una misera donna se avesse un figlio da un imperatore di questo mondo? Di gran lunga più grande è la gloria di Maria che ha condiviso il Figlio con Dio Padre. "Partorì il Figlio suo". Il Padre ha dato la divinità, la Madre l'umanità; il Padre ha dato la maestà, la Madre l'infermità. "Partorì il suo Figlio", l'Emmanuele, cioè il "Dio con noi" ( cf. Mt 1,23 ): chi dunque sarà contro di noi? ( cf. Rm 8,31 ). Dice infatti Isaia: "Sul suo capo ha posto l'elmo della salvezza" ( Is 59,17 ). L'elmo è l'umanità, il capo è la divinità; il capo è nascosto sotto l'elmo, la divinità è nascosta sotto l'umanità. Quindi nessun timore: la vittoria è dalla nostra parte, perché con noi c'è un Dio in armi. Grazie a te, o Vergine gloriosa, giacché per merito tuo Dio è con noi. "Partorì dunque il figlio suo primogenito", cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli; o anche primogenito tra i morti ( cf. Col 1,18 ), oppure primogenito tra molti fratelli ( cf. Rm 8,29 ). 7. "Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia" ( Lc 2,7 ). O povertà, o umiltà! Il padrone di tutte le cose è avvolto in fasce, il re degli angeli è adagiato in una stalla. Vergògnati, o insaziabile avarizia! Sprofonda, o umana superbia! "Lo avvolse in fasce". Osserva che Cristo all'inizio e alla fine della sua vita viene avvolto in fasce. "Giuseppe ( d'Arimatea ) - dice Marco -, comprato un lenzuolo, calò Gesù dalla croce e ve lo avvolse" ( Mc 15,46 ). Beato colui che finirà la sua vita avvolto nella sindone, cioè nell'innocenza battesimale. Il vecchio Adamo, quando fu cacciato dal paradiso terrestre, venne ricoperto di una tunica di pelli ( cf. Gen 3,21 ); la pelle, quanto più si lava, tanto più si deteriora: e in ciò è raffigurata la sua carnalità e quella dei suoi discendenti. Invece il nuovo Adamo viene avvolto in panni, che nella loro bianchezza raffigurano il candore della Madre sua, l'innocenza battesimale e la gloria della risurrezione finale. "E lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo" ( Lc 2,7 ), detto in lat. diversorium. Ecco - come è scritto nei Proverbi - "la cerva amabile e il delizioso cerbiatto" ( Pr 5,19 ). Dice la Storia Naturale che la cerva partorisce nella strada battuta" ( frequentata ); così la beata Vergine partorì nella strada, che è pure un diversorium, come l'albergo, così chiamato perché ad esso si arriva da diverse strade. III. L'annuncio dell'angelo ai pastori 8. "C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte e custodivano il loro gregge" ( Lc 2,8 ). Le "veglie" si chiamano anche excubiae o stazioni. In antico i romani dividevano la notte in quattro veglie ( quattro turni di guardia ) e a turno custodivano la città. La notte raffigura la vita presente, nella quale camminiamo a tastoni come di notte. Non ci vediamo neanche tra di noi, cioè non vediamo la nostra coscienza; spesso inciampiamo con i piedi, cioè con i nostri sentimenti ed affetti. Chi vuole custodire validamente la sua città durante questa notte ( della vita ), deve stare alzato e vegliare attentamente per tutti i quattro turni, fare cioè le quttro veglie. La prima veglia raffigura l'impurità della nostra nascita, la seconda raffigura la malizia e la cattiveria che ci accompagnano, la terza raffigura lo stato miserando del nostro peregrinare e la quarta il pensiero della morte. Nella prima l'uomo deve vegliare per umiliare e disprezzare se stesso, nella seconda per mortificarsi, nella terza per piangere e nella quarta per suscitare un salutare timore. Beati quei pastori che fanno questo durante le quattro veglia di questa notte, perché così difendono veramente il loro gregge. Osserva che il pastore veglia sul suo gregge per due motivi: per non essere derubato dai predoni, e perché il gregge non venga assalito dal lupo. Tutti noi siamo pastori, e il nostro gregge è formato dai nostri buoni pensieri e dai nostri santi desideri. Su questo gregge dobbiamo fare un'attenta guardia durante le quattro veglie suddette, perché il predone, cioè il diavolo non ci derubi con le sue maligne suggestioni, e il lupo, cioè la concupiscenza della carne, non ci assalga strappandoci il consenso. A coloro che vegliano in questo modo viene annunziata la gioia di questa natività. 9. "E l'angelo disse ai pastori: Ecco, io vi annunzio una grande gioia, perché oggi vi è nato il Salvatore …" ( Lc 2,10.11 ). Con questo concordano le parole della Genesi: "Nacque Isacco. E Sara disse: Il Signore mi ha dato il sorriso e chiunque lo saprà, sorriderà con me " ( Gen 21,5-6 ). Sara s'interpreta "principessa" o "carbone", ed è figura della gloriosa Vergine, principessa e regina nostra, infiammata dallo Spirito Santo come il carbone dal fuoco. Oggi Dio le ha dato il sorriso, perché da lei è nato il nostro sorriso. "Io vi annunzio una grande gioia", perché è nato il sorriso, perché è nato Cristo. Questo abbiamo udito oggi dall'angelo: "Chiunque lo sentirà, sorriderà insieme con me". Sorridiamo dunque ed esultiamo insieme con la beata Vergine, perché Dio ci ha dato il sorriso, cioè il motivo di sorridere e di gioire con lei e in lei: "Oggi vi è nato il Salvatore". Se uno si trovasse in punto di morte o fosse condannato all'ergastolo, e gli venisse annunziato: Ecco, è arrivato uno che ti salverà! Forse che non sorriderebbe, forse che non esulterebbe? Certamente! Esultiamo quindi anche noi, nella serenità della coscienza e nell'amore autentico ( cf. 2 Cor 6,6 ), perché oggi ci è nato il Salvatore, colui che ci salverà dalla schiavitù del diavolo e dall'ergastolo dell'inferno. 10. E per trovare questa gioia ci è dato un segno, quando l'angelo soggiunge: "Questo sarà per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia" ( Lc 2,12 ). Qui dobbiamo osservare due cose: l'umiltà e la povertà. Beato colui che avrà questo segno nella fronte e nella mano, cioè nella professione di fede e nelle opere. Che cosa significa dire: "Troverete un bambino", se non che troverete la sapienza che balbetta, la potenza resa debole, la maestà abbassata, l'immenso fatto bambino, il ricco fattosi poverello, il re degli angeli che giace in una stalla, il cibo degli angeli divenuto quasi fieno per gli animali, colui che da nulla può essere contenuto, adagiato in una stretta mangiatoia? "Questo dunque sarà per voi il segno", perché non andiate in rovina insieme con gli Egiziani e gli abitanti di Gerico. Per il Verbo incarnato, per il parto verginale, per il Salvatore nato sia gloria a Dio Padre nei cieli altissimi, e sia pace in terra agli uomini che egli ama ( cf. Lc 2,14 ). Si degni di concederci questa pace colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone allegorico 11. "Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio; sulle sue spalle è stato posto il potere; e il suo nome sarà: ammirabile, consigliere, Dio, forte, Padre del secolo futuro, principe della pace" ( Is 9,6 ). E ancora: "Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, che sarà chiamato Emanuele" ( Is 7,14 ), cioè "Dio con noi". Questo Dio si è fatto per noi bambino e oggi per noi è nato. Cristo ha voluto essere chiamato "bambino" per molte ragioni, ma per brevità ne illustro una sola. Se fai un'ingiuria a un bambino, se lo provochi con un insulto, se lo percuoti, ma poi gli mostri un fiore, una rosa o qualcosa del genere, e mentre gliela mostri fai l'atto di dargliela, non si ricorda più dell'ingiuria ricevuta, gli passa l'ira e corre ad abbracciarti. Così, se offendi Cristo con il peccato mortale e gli fai qualsiasi altra ingiuria, ma poi gli offri il fiore della contrizione o la rosa di una confessione bagnata dalle lacrime - le lacrime sono il sangue dell'anima -, egli non si ricorda più della tua offesa, perdona la colpa e corre ad abbracciarti e a baciarti. Dice infatti Ezechiele: "Se l'empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commesso, io non mi ricorderò più di tutte le sue iniquità" ( Ez 18,21.22 ). E Luca, parlando del figlio prodigo: "Lo vide suo padre e, mosso a pietà, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" ( Lc 15,20 ). E nel secondo libro dei Re si racconta che Davide accolse con benevolenza Assalonne, che aveva ucciso il fratello, e lo baciò ( cf. 2 Re 14,33 ). Oggi dunque ci è nato un bambino. E quali vantaggi ci sono venuti dalla nascita di questo bambino? Grandissimi vantaggi sotto ogni aspetto. Senti Isaia: "Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide, il bambino metterà la sua mano nel covo del regolo ( serpente velenoso ); non nuoceranno più e non uccideranno più in tutto il mio santo monte" ( Is 11,8-9 ). Il regolo, ( che significa piccolo re ), perché si pensava fosse il re dei serpenti; questo serpente velenoso, detto anche aspide, raffigura il diavolo, e la sua buca e il suo covo sono i cuori dei cattivi, nei quali il nostro bambino ha messo la sua mano quando con la potenza della sua divinità ne ha estratto il diavolo stesso. Dice Giobbe: "Dalla sua mano, che operava da ostetrica, fu estratto il tortuoso serpente" ( Gb 26,12 ). È compito dell'ostetrica estrarre dalle tenebre il frutto del parto, e portarlo alla luce. Così Cristo, con la mano della sua potenza, strappò l'antico serpente, il diavolo, dai cuori tenebrosi dei reprobi: e così quel serpente e i suoi satelliti non potranno più recare danno ai corpi, se non con il suo permesso; infatti i diavoli non poterono entrare nei porci se non dopo il suo permesso ( cf. Mc 5,13 ); e non potranno più colpire le anime di morte eterna. Prima della venuta del Salvatore, i diavoli avevano sul genere umano tanto potere, da infierire turpemente sui corpi degli uomini e da trascinare miseramente le anime all'inferno. Ma d'ora in poi non potranno più fare danni "in tutto il mio santo monte", cioè in tutta la mia chiesa, nella quale io stesso dimoro. 12. "Ci è stato dato un figlio". Concorda con questo ciò che leggiamo nel secondo libro dei Re: "A Gob ci fu, contro i Filistei, la terza battaglia, nella quale Adeodato, il betlemita che tesseva stoffe variopinte, figlio di Salto, uccise Golia di Get" ( 2 Sam 21,19 ). Osserva che la prima battaglia avvenne nel deserto: "Gesù fu condotto nel deserto …" ( Mt 4,1 ); la seconda avvenne nella pianura, cioè in pubblico: "Gesù stava scacciando un demonio" ( Lc 11,14 ) [ davanti alla folla ]; la terza avvenne sul legno [ della croce ]: inchiodato su di essa, Cristo sconfisse i filistei, cioè le potenze dell'aria ( cf. Ef 2,2 ). Questa terza battaglia avvenne a Gat, nome che significa "lago": avvenne cioè nelle piaghe del Salvatore, e soprattutto nella piaga del costato, dalla quale scaturirono i due fiumi della nostra redenzione. In questo lago, Gesù ci è stato dato unicamente dalla misericordia di Dio Padre, per essere il nostro campione. Egli fu "figlio di Salto" perché, come dice Marco, stava nel deserto con le fiere ( cf. Mc 1,13 ); oppure "figlio di Salto", perché fu coronato di spine. "Che tesseva stoffe variopinte": Cristo si preparò nel grembo verginale di Maria la veste variopinta, cioè l'umanità, ornata dei doni della grazia settiforme; "fu betlemita" perché oggi è nato dalla Vergine a Betlemme. O anche: fu "figlio di Salto" nella passione; sarà "tessitore di stoffe variopinte" nella risurrezione finale, perché allora ci rivestirà della veste variopinta, ornata delle quattro doti dei corpi glorificati; sarà infine "betlemita" nell'eterno convito. Così il nostro campione, il nostro atleta, colpito nel lago della passione, sconfisse e debellò Golia di Get, cioè il diavolo. 13. "E fu posto sulle sue spalle il potere". E anche qui abbiamo la concordanza con ciò che dice la Genesi: "Abramo prese la legna per l'olocausto e la pose sulle spalle di Isacco, suo figlio" ( Gen 22,6 ). E dice Giovanni: " [ Gesù ], portando la croce, si avviò verso il luogo chiamato Calvario" ( Gv 19,17 ). O umiltà del nostro Redentore! O pazienza del nostro Salvatore! Egli, da solo, porta per tutti il legno al quale sarà appeso, inchiodato; sul quale dovrà morire e, come dice Isaia, "il Giusto perisce e non c'è alcuno che mediti nel suo cuore" ( Is 57,1 ). "E fu posto sulle sue spalle il potere". Dice il Padre, per bocca di Isaia: "Porrò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide" ( Is 22,22 ). La chiave è la croce di Cristo, con la quale egli ci ha aperto la porta del cielo. E osserva che la croce è detta "chiave" e "potere": chiave perché apre il cielo agli eletti, potere perché con la sua potenza precipita i demoni all'inferno. 14. "E sarà chiamato ammirabile nella nascita, consigliere nella predicazione, Dio nell'operare i miracoli, forte nella passione, Padre del secolo futuro nella risurrezione. Infatti quando risuscitò, lasciò a noi, come eredità ai figli dopo di sé, la sicura speranza della risurrezione. E nell'eternità sarà per noi il principe della pace. Si degni di prepararci questa pace lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen. V. sermone morale 15. "È nato per noi un bambino". Di questo bambino, dice il vangelo: Se non vi convertirete e non diventerete come questo bambino, ecc. ( cf. Mt 18,3 ). Osserva: il bambino quando è sveglio, nella sua culla, piange; se è nudo non arrossisce; se è sculacciato si riguia in braccio alla mamma. La mamma, quando vuole svezzarlo, si unge di amaro le mammelle; il bambino non sa nulla della malizia del mondo; è incapace di fare peccati; non fa del male al prossimo; non serba rancore; non odia nessuno; non cerca ricchezze; non è sedotto dalla bellezza di questo mondo; non fa preferenza di persone. Il bambino simboleggia il penitente convertito che, dopo essere stato una volta con il cuore gonfio di superbia, altero e borioso nelle parole, tronfio nella sua ricchezza, ora è diventato piccolo, umile e spregevole ai propri occhi. Quando è sveglio, quando cioè richiama alla mente il suo precedente modo di vivere, piange amaramente; divenuto nudo e povero per amore di Cristo non arrossisce, e neppure si vergogna di denudare se stesso nella confessione; se subisce un'ingiuria non si offende, ma corre alla chiesa e prega per coloro che lo calunniano e lo perseguitano. La chiesa lo ha, per così dire, svezzato quando con l'amarezza dei castighi e delle pene gli ha cosparso la mammella del piacere carnale, alla quale era solito succhiare. Le altre analogie sono chiare, e quindi vanno intese alla lettera. Quando perciò un mondano si converte e diventa "bambino" di Cristo, con il giubilo del cuore e l'allegria nella voce, dobbiamo prorompere dicendo: "Ci è nato un bambino". E Giovanni: "La donna", cioè la chiesa, "quando partorisce" con la predicazione o con la misericordia verso i peccatori, "è afflitta; ma quando ha dato alla luce" con la contrizione e con la confessione "il bambino", cioè il neoconvertito, " non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo" ( Gv 16,21 ). E di Giovanni "grazia di Dio" [ il Battista ] è detto: "Molti si rallegreranno della sua nascita" ( Lc 1,14 ). 16. "Ci è stato dato un figlio". Siano rese grazia a Dio, perché da uno schiavo del mondo e del diavolo abbiamo ricevuto un figlio di Dio, il quale dice nel salmo: "Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato" per mezzo della grazia, tu che ieri eri schiavo a causa della colpa; e giacché sei figlio "chiedi a me, ti darò in possesso le genti", cioè i pensieri ribelli, "e in eredità e in dominio i confini della terra" ( Sal 2,7-8 ), cioè i sensi del tuo corpo, perché tu sappia dominarli. "Figlio", del quale è detto nella Genesi: "Figlio che cresce, Giuseppe, figlio che cresce, e bello di aspetto" ( Gen 49,22 ). "Che cresce" per la povertà, come dice Giuseppe stesso: "Dio mi fece crescere nella terra della mia povertà" ( dov'ero povero ) ( Gen 41,52 ). "Bello d'aspetto" per l'umiltà: infatti è detto nella Genesi che "Rachele", nome che s'interpreta "pecora", e quindi umile, era "bella nel volto e avvenente di aspetto" ( Gen 29,17 ). "Ci è stato dato". "Infatti era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" ( Lc 15,24 ). E a che scopo ci è stato dato? E a che scopo è stato ritrovato? Proprio per l'esercizio della penitenza. 17. "Ed è stato posto il potere sopra le sue spalle". Concordano le parole della Genesi: "Issacar è un asino robusto, sdraiato entro i confini. Ha visto che il riposo era bello e che la terra era ottima. Ha piegato le spalle a portare pesi" ( Gen 49,14-15 ). Issacar, che s'interpreta "uomo della ricompensa", raffigura il penitente che lavora virilmente per l'eterna ricompensa, ed è quindi chiamato "asino robusto". Di lui è detto nell'Ecclesiastico: "Cibarie, bastone e soma per l'asino" ( Sir 33,25 ). Cibo qualunque, perché non venga meno; il bastone della povertà perché non insolentisca e non recaltrici; la soma, il peso dell'obbedienza perché non si disabitui alla fatica. Con queste tre rimedi si prepara la medicina per il penitente. "È sdraiato entro i confini". I due confini sono l'ingresso alla vita e l'uscita da essa, la nascita e la morte. È tra questi confini colui che pensando alla sua nascita si umilia, e pensando alla morte piange. Lo stolto non sta entro i due confini, ma piuttosto si sistema al centro di essi. È detto perciò nel libro dei Giudici: "Perché te ne stai tra i due confini per sentire i belati dei greggi?" ( Gdc 5,16 ). Il centro tra la nascita e la morte è la vanità del secolo, di questo tempo; i greggi sono gli stimoli della carne; ne ascolta i belati, cioè i lusinghieri richiami, colui che si adagia nella vanità del secolo. Invece il penitente, che dimora entro i confini, alza gli occhi della mente e contempla il riposo della gloria beata: quanto sia perfetta nella glorificazione del corpo, come sia veramente una terra di eterna sicurezza, quanto sia insuperata nella contemplazione della Trinità; piega la sua spalla a reggere il potere, cioè il giogo della penitenza, per mezzo della quale domina se stesso e vince le tentazioni. Dice infatti l'Ecclesiastico: "Piega la tua spalla e pòrtala! ( Sir 6,26 ), la penitenza. 18. "E sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio, forte, Padre del secolo futuro, principe della pace". In questi sei nomi è compendiata la perfezione del penitente, o del giusto. Infatti è ammirabile nel diligente esame e nella frequente revisione di se stesso, e vede quindi cose meravigliose nel profondo del suo cuore. Per questo è mirabile anche Giobbe, la cui pazienza tutto il mondo ammira: "Io - diceva - non terrò chiusa la mia bocca: parlerò nell'angoscia del mio spirito, converserò nell'amarezza della mia anima" ( Gb 7,11 ). L'angoscia dello spirito e l'amarezza dell'anima non lasciano nulla fuori discussione, quando tutto viene esaminato e vagliato con la massima diligenza. È consigliere nelle necessità corporali e spirituali del prossimo, come dice Giobbe: "Fui occhio per il cieco, piede per lo zoppo" ( Gb 29,15 ). Il cieco è colui che non vede nella sua coscienza; lo zoppo è colui che devia dal retto sentiero della giustizia. Ma il giusto è buon consigliere per entrambi, perché al primo è occhio nell'insegnargli a scoprire il guasto della sua coscienza; al secondo è piede, sostenendolo e guidandolo affinché compia i passi delle opere nella via della giustizia. È Dio. Nel governare i sudditi, il giusto è chiamato "dio" solo di nome, in quanto fa le veci di Dio. Infatti il Signore dice a Mosè: "Ecco che io ti ho costituito "dio" del faraone" ( Es 7,1 ). E anche: "Se non viene scoperto il ladro, il padrone di casa si accosterà a Dio", cioè ai sacerdoti, e giurerà che non ha allungato la mano sulle cose del suo prossimo" ( Es 22,8 ). E ancora: "Io ho detto: voi siete Dei" ( Sal 82,6 ). In altro senso: Dio si dice in greco Theòs, vale a dire "che guarda" - in quanto deriva da theorèo, guardare - perché guarda tutte le cose; thèo vuol dire anche corro, perché Dio percorre, passa in rassegna tutte le cose. Il penitente è detto "dio", cioè che guarda e che percorre: guarda infatti le cose superiori con la contemplazione, e perciò corre con la mente a quelle passate solo per impegnarsi alla penitenza. È forte nel combattere le tentazioni. Si legge nel libro dei Giudici: "Comparve un giovane leone infuriato, che correva ruggendo verso Sansone. Ma lo Spirito del Signore investì Sansone, il quale squartò il leone come si fosse trattato di fare a pezzi un capretto" ( Gdc 14,5-6 ). Il giovane leone raffigura lo spirito di superbia o di lussuria e simili: infuria con la sua insistenza, rugge con l'astuzia; compare all'improvviso e assale con violenza. Ma quando lo spirito della contrizione, dell'amore e del timore di Dio investe il penitente, questi squarta lo spirito di superbia simboleggiato nel leone, e fa a pezzi lo spirito di lussuria, simboleggiato nel capretto, a motivo del suo fetore: distrugge meticolosamente quel peccato e le sue circostanze. È padre del secolo futuro, nella predicazione della parola e in quella dell'esempio. Dice l'Apostolo: "Figlioli miei, che io di nuovo partorisco, finché in voi non sia formato Cristo" ( Gal 4,19 ). E anche: "Io vi ho generato in Cristo, mediante il vangelo" ( 1 Cor 4,15 ), per l'eterna vita. È principe della pace nell'armoniosa coabitazione dello spirito e del corpo. Dice Giobbe: "Le fiere della terra", cioè gli impulsi della tua carne, " saranno in pace con te; e constaterai che anche la tua tenda gode della pace" ( Gb 5,23-24 ). E anche: "Sepolto", cioè nascosto al mondo per mezzo della contemplazione, "dormirai sicuro. Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi" ( Gb 11,18-19 ). Si degni di concederci tutto questo, colui che è benedetto nei secoli. Amen. Festa di Santo Stefano protomartire 1. In quel tempo: "Gesù diceva alla folla dei Giudei: Ecco, io vi mando i profeti", ecc. ( Mt 23,1.34 ). In questo brano del vangelo si devono considerare due fatti: - la persecuzione dei giusti, - Cristo che si paragona alla chioccia. I. La persecuzione dei giusti 2. "Ecco, io vi mando i profeti …" In questa prima parte si fa osservare, in senso morale, in che maniera i mondani e i carnali distruggono se stessi o respingono da sé la molteplice ispirazione della grazia divina. "Diceva dunque alla folla dei Giudei". I Giudei, che amavano i beni passeggeri e solo ad essi si dedicavano, raffigurano i mondani, dediti al corpo, i quali, come è detto nel libro dei Giudici, non sono capaci di dire Scibbolet, che significa spiga o grano, ma dicono Sibbolet, che vuol dire paglia ( cf. Gdc 12,6 ). Vanno infatti dietro alla paglia e così diventano essi stessi paglia, destinata ad essere bruciata nel fuoco eterno. A costoro dunque il Signore dice: "Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi" ( Mt 23,1.34 ). In queste tre categorie di inviati è simboleggiata la triplice ispirazione della grazia divina. I profeti raffigurano il timore del giudizio e l'orrore dell'inferno, che il Signore manda all'anima peccatrice affinché le preannuncino il giudice tremendo e la geenna vendicatrice. Dice Nahum: "Davanti al suo sdegno chi può resistere? Chi affronterà il furore della sua ira? La sua collera si diffonde come il fuoco e perfino le pietre si dissolvono davanti a lui" ( Na 1,6 ). E Gioele: "Davanti a lui c'è il fuoco che divora, e dietro a lui c'è la fiamma che consuma" ( Gl 2,3 ). Il Signore, per bocca di Geremia, dice di questi profeti: "Io vi ho mandato i miei servi, i profeti, alzandomi di notte; li ho mandati perché vi dicessero: Non fate questa cosa abominevole! Ma essi non hanno ascoltato e non hanno prestato orecchio in modo da abbandonare la loro iniquità" ( Ger 44,4-5 ). È detto che il Signore si alza di notte a mandare i profeti, in quanto all'anima che vive nella notte del peccato, egli, nella sua misericordia, incute il salutare timore del giudizio e il terrore dell'inferno. Ma l'anima sventurata non accoglie l'ispirazione, né presta l'orecchio dell'obbedienza per allontanarsi dal male e volgersi alla penitenza. Ugualmente, i sapienti raffigurano quelle divine ispirazioni che mettono ordine nei pensieri, fanno riflettere prima di parlare, impreziosiscono le opere, regolano la vita e dispongono rettamente ogni cosa. Chi cammina con questi sapienti, diventa egli stesso sapiente. Di essi dice l'Ecclesiastico: Non disprezzare i discorsi dei sapienti, ma abbi familiarità con le loro massime: impara da loro il sapere e il discernimento ( cf. Sir 8,9-10 ). Preziosa è la loro scuola, gradito il loro insegnamento, lodevoli le loro direttive: riformano i costumi e distruggono i vizi. Infine gli scribi raffigurano gli affetti, i sentimenti della nostra mente, che nel libro della memoria scrivono l'impurità del nostro concepimento, la materialità della nostra nascita, la malvagità di chi compie il male, la miseria del nostro peregrinare, la brevità del tempo e il pensiero della morte. Leggi in questo scritto così veritiero, studia in questo libro nel quale, come dice Ezechiele, sono scritti lamenti, pianti e guai ( cf. Ez 2,9 ). Lamenti per l'impurità del concepimento e la materialità della nascita; pianti per la malvagità di chi compie il male, e la miseria del nostro peregrinare; guai per la brevità del tempo e il pensiero della morte. Ecco in qual modo il Signore pietoso e pieno di misericordia vi manda i profeti per infondervi il dolore, i sapienti per riformare i costumi, e gli scribi per ricordarvi sempre la condizione della vostra vita. 3. Ma sentiamo come i Giudei ingrati, cioè gli adoratori dei beni terreni, abbiano corrisposto con tante scelleratezze a sì grandi benefici. "Di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe" ( Mt 23,34 ). Uniamo tra loro i termini corrispondenti: uccidono i profeti, crocifiggono i sapienti e flagellano gli scribi. I superbi e i vanagloriosi uccidono i profeti; i golosi e i lussuriosi crocifiggono i sapienti; gli avari e gli usurai flagellano gli scribi. La superbia e la vanagloria uccidono nell'uomo il terrore del giudizio e l'orrore dell'inferno. Perciò oggi Stefano dice ai giudei: "O gente di dura cervice", ecco la superbia; "incirconcisi nel cuore e negli orecchi", ecco la vanagloria: infatti non vogliono capire né sentire se non quello che piace a loro; "voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo, come facevano anche i vostri padri. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto" ( At 7,51-52 ). Quindi li uccidono in se stessi, perché essi preannunciano l'arrivo del giudizio. I golosi e i lussuriosi crocifiggono e tormentano i sapienti: essi infatti sono corrotti nei pensieri, lascivi nelle parole, dissoluti nella loro condotta, disordinati nei costumi. Dicono perciò: "Riempiamoci di vino squisito e di profumi; non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera. Coroniamoci di rose prima che avvizziscano; nessun prato sfugga alle scorribande della nostra lussuria ( Sap 2,7-8 ). Gli avari e gli usurai flagellano gli scribi nelle sinagoghe, cioè nella loro coscienza, dov'è la sede e la sinagoga di satana ( cf. Ap 2,9.13 ). Gli sventurati non considerano la condizione della loro vita, la loro nascita e la loro morte. Sono nati senza borsa e senza un soldo, moriranno con poca stoppa e sacco; sono nati nudi, moriranno coperti di poca stoffa. E da dove allora hanno avuto tutto ciò che possiedono? Dalla rapina e dall'usura. Dice Abacuc: "Guai a colui che accumula ciò che non è suo! Fino a quando continuerà ad ammassare su di sé tanto fango?" ( Ab 2,6 ). Fa come lo scarabeo che accumula una quantità di sterco e con grande fatica ne fa una palla rotonda; ma alla fine passa un asino e mette la zampa sullo scarabeo e sulla palla, e in un istante distrugge lo scarabeo e la palla, per la quale ha tanto faticato. Così l'avaro, o l'usuraio, accumula a lungo lo sterco del denaro, a lungo fatica, ma quando meno se l'aspetta il diavolo lo strangola. E così l'anima va ai demoni, la carne ai vermi e il denaro ai parenti. 4. "Sarete perseguitati di città in città" ( Mt 23,34 ). Ahimè, non si accontentano quegli sventurati di rifiutare l'ispirazione della grazia divina e di spegnerla in se stessi, ma vogliono scacciarla anche dai loro congiunti, come dai figli e dalle mogli, quasi perseguitandoli di città in città. Un esempio: se il figlio di un usuraio, scosso dalla paura del giudizio e della pena dell'inferno, fa il proposito di vivere onestamente e di piangere sulla miseria della sua vita, e il padre suo ha sentore di ciò, questi, con tutte le sue forze, osteggia in lui questa grazia e lo stesso fa con la figlia, con la moglie e con tutta la famiglia. "Perché ricada su di voi tutto il sangue innocente", cioè la giusta vendetta per il sangue versato, "dal sangue del giusto Abele", nome che significa "lutto", "fino al sangue di Zaccaria", che s'interpreta "ricordo del Signore", "figlio di Barachia", che significa "benedizione del Signore" ( Mt 23,35 ). Ecco quante scelleratezze hanno perpetrato quegli omicidi! Uccidono in se stessi e nei loro parenti il pianto della penitenza e il ricordo della passione del Signore, che è stata data da Dio Padre in benedizione per tutto il mondo. "Che avete ucciso tra il tempio e l'altare" ( Mt 23,35 ), cioè nell'atrio del tempio. Dice l'Apocalisse: "L'atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte e non misurarlo, perché è stato dato in balìa dei pagani ( Ap 11,2 ), cioè di coloro che vivono da pagani. Il tempio è figura della chiesa trionfante; l'altare, della chiesa militante; l'atrio invece simboleggia la vanità del mondo, nella quale si sopprime il ricordo della passione del Signore. II. Cristo si paragona alla chioccia 5. "Gerusalemme, Gerusalemme!" ( Mt 23,37 ). Con sentimento di pietà Gesù piange sugli uomini, non sulle pietre [ della città ]. "Che uccidi i profeti", i quali annunciano il Signore dei profeti, "e li làpidi" ( Mt 23,37 ). Proprio a motivo di queste parole, si legge questo brano del vangelo in questo giorno, nel quale il beato Stefano fu lapidato dai Giudei: mentre li rimproverava per la loro durezza – "gente di dura cervice" ( At 7,51 ) , aveva loro detto –, affrontò la durezza delle pietre. Ma "gode chi è paziente nelle durezze" ( Lucano ). Ieri è nato il Signore, oggi viene lapidato il servo; ieri il Re è stato avvolto in fasce, oggi il soldato è stato spogliato della veste corruttibile; ieri il Salvatore è stato adagiato nel presepio, oggi Stefano viene portato in cielo. Stefano s'interpreta "regola", o "coronato", oppure anche "che fissa lo sguardo". Regola dev'essere per noi il suo esempio: "Piegate le ginocchia" pregò per quelli che lo lapidavano: "Signore, non imputar loro questo peccato" ( At 7,60 ). Fu coronato con il suo stesso sangue, e fissò lo sguardo nel Figlio di Dio: "Vedo i cieli aperti e Gesù che sta alla destra di Dio" ( At 7,56.60 ). "Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto" ( Mt 23,37 ). Come dicesse: Io volevo ma tu non hai voluto, e ogni volta che li ho raccolti, con la mia volontà sempre efficace, l'ho fatto contro la tua volontà, perché sei sempre stata ingrata! 6. In altro senso. Il Signore rivolge il suo rimprovero all'anima ingrata: "Gerusalemme, Gerusalemme!". Questo nome s'interpreta "timore perfetto", ossia completo, o anche "temerà totalmente" ( Girolamo ). È detta casa imperfetta quella non ancora finita, non ancora completata. Osserva che dice due volte "Gerusalemme", perché l'anima sventurata che, come si è detto sopra, uccide in se stessa i profeti, deve temere due cose: di vedere sopra di sé il giudice adirato, e sotto di sé la geenna aperta e ardente; e allora il suo timore sarà perfetto, completo. Adesso non teme perché in questo suo giorno [ non vuole conoscere ] ciò che serve alla sua pace ( cf. Lc 19,42 ). "E lapidi quelli che ti sono inviati" ( Mt 23,37 ), respingi cioè con la durezza del cuore le ispirazioni della grazia divina e le sue manifestazioni. Dice Isaia: "So che tu sei ostinato, che la tua cervice è una sbarra ( nervus ) di ferro e la tua fronte è di bronzo" ( Is 48,4 ). Nella sbarra di ferro è simboleggiata la superbia ostinata. Agostino dice: "Drizzare la testa è segno di superbia". Nella fronte di bronzo è indicata l'irriverenza; dice Ezechiele: "Tutta la casa d'Israele è di fronte impudente e di cuore indurito" ( Ez 3,7 ). "Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, e non hai voluto". Osserva che la giustificazione dell'uomo si effettua in due modi: e cioè con la propria decisione e con l'ispirazione divina: il Creatore coopera all'azione della sua creatura. Perciò il Creatore, nell'opera della nostra giustificazione, esige il nostro volontario assenso; infatti dice: "Se vorrete e mi ascolterete, mangerete i frutti della terra" ( Is 1,19 ). Quanto si mettono impedimenti a quest'azione, ciò viene imputato al libero arbitrio, perché è detto: "Se il mio popolo mi avesse ascoltato" ( Sal 81,14 ), ecc. Se noi infatti in questa opera non facciamo proprio niente, inutilmente imploriamo l'aiuto del Creatore, e falsamente lo chiamiamo adiutore. Una cosa infatti è fare e un'altra è aiutare. Che cosa vuol dire aiutare se non cooperare con chi opera? Ha inteso di aver in lui un aiuto e un cooperatore nel bene, colui che disse: "Tu sei mio aiuto e mio liberatore, o Signore, non tardare!" ( Sal 70,6 ). Ogni giorno cerchiamo il suo aiuto, quando nelle nostre preghiere quotidiane gridiamo: "Aiutaci, o Dio, nostro Salvatore!" ( Sal 79,9 ). È chiaro dunque che "da due" viene compiuta quest'opera, nella quale il creatore opera insieme con la sua creatura. In quest'opera perciò sono necessari il nostro impegno e la grazia divina. Invano uno si appoggia al libero arbitrio se non si sostiene con l'aiuto divino. La nostra giustificazione si compie per mezzo della nostra decisione e con l'ispirazione divina. Il volere solo cose giuste significa essere già giusto. Infatti soltanto dalla nostra volontà dipende l'essere detti, a ragione, giusti o ingiusti, sebbene in ambedue i casi siamo anche aiutati dalle opere. Fa' dunque ciò che tocca a te offrendo la tua volontà, e Dio farà quello che a lui compete infondendoti la sua grazia. E sia chiaro che né angelo, né uomo, né diavolo può costringere il libero arbitrio, e neppure Dio vuole fargli violenza. Ma Dio vuole amorevolmente raccogliere intorno a te, o anima, i figli, cioè i tuoi affetti e sentimenti, che sono dispersi in vari interessi temporali e vizi, perché tu abiti nella sua casa in perfetto accordo ( cf. Sal 68,7 ): per questo tu devi offrire volentieri te stessa e volere proprio questo. 7. "Come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali". Osserva che la chioccia si ammala quando i pulcini sono ammalati; li chiama a mangiare fino a tanto che diventa rauca; li protegge sotto le ali e resiste allo sparviero con le penne irte per difenderli. Così Cristo, Sapienza di Dio, per noi infermi si è fatto infermo. Dice infatti Isaia: "Lo abbiamo osservato: è disprezzato e l'ultimo degli uomini", cioè il più reietto; "uomo dei dolori che ben conosce il patire" ( Is 53,2-3 ). Chi vuole consolare un ammalato deve investirsi dei sentimenti dell'ammalato: infatti nel quarto libro dei Re è si narra che Eliseo "si curvò sopra il fanciullo, e il corpo del fanciullo riprese calore" ( 2 Re 4,34 ). Il curvarsi di Eliseo simboleggia l'incarnazione di Cristo, dalla quale abbiamo ricevuto il calore della fede e abbiamo ricuperato la vita. Ci chiamò al banchetto della sua dottrina, e ci ha chiamati così a lungo che riarse sono le sue fauci ( cf. Sal 69,4 ). Osserva che il rauco non ha una voce melodiosa, ma manda suoni bassi e aspri, e quindi non si ascolta volentieri. Così oggi la dottrina di Cristo non ha la voce melodiosa dell'adulazione, perché non blandisce i peccatori e non promette vantaggi temporali; ma risuona aspramente perché insegna a castigare la carne e a disprezzare il mondo; e quindi non è ascoltata volentieri. Per questo si lamenta Giobbe: "Ho chiamato il mio servo, ma non ha risposto; devo scongiurarlo con la mia bocca. Il mio alito è ripugnante anche per la mia sposa e devo pregare anche i miei figli" ( Gb 19,16-17 ). Sposa di Cristo sono i chierici, impinguati con il suo patrimonio: essi più di tutti hanno orrore del suo alito, cioè della sua predicazione che proviene dal suo profondo; poiché, come dice Giobbe, nascosto e profondo è il luogo dal quale si trae la sapienza ( cf. Gb 28,18 ). Allo stesso modo, per proteggerci ha aperto come ali le sue braccia sulla croce, e irto di spine si è opposto al diavolo che tramava di rapirci. La corona di spine sul capo come un elmo, la croce nelle braccia come uno scudo, i chiodi nelle mani come una clava: così armato ha sconfitto il nostro nemico. A lui dunque lode e gloria per i secoli eterni. Amen. III. Sermone allegorico 8. "Farai un candelabro di purissimo oro battuto ( duttile ): i bracci, le coppe, le sferule e i gigli si dirameranno da esso. Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall'altro" ( Es 25,31-32 ). "Farai un candelabro …". Leggiamo in Matteo: "Non accendono una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti quelli che sono in casa" ( Mt 5,15 ). Infatti la grazia dello Spirito Santo, "lampada che arde e risplende" ( Gv 5,35 ), fu posta sopra il candelabro, cioè sul beato Stefano, come dice Zaccaria: "Vedo un candelabro tutto d'oro, e una lampada è sulla sua sommità" ( Zc 4,2 ). Questa lampada, o lucerna, non fu posta sotto il moggio, non fu cioè usata per un guadagno materiale, ma faceva luce per tutti coloro che erano nella casa, cioè nella chiesa. E infatti Luca, nella lettura di oggi, dice: "Stefano, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo" ( At 6,8 ). Questo candelabro fu di oro purissimo: in esso è simboleggiata la sua aurea povertà. Allora infatti, come dice la Genesi, l'oro della terra di Avila – nome che s'interpreta "partoriente" e indica la chiesa primitiva –, era finissimo. ( cf. Gen 2,12 ). Ma ahimè, ora si è mutato in scoria. Fu anche "duttile" ( battuto ), perché è stato lavorato battendolo. Anche il beato Stefano fu, per così dire, lavorato e battuto a colpi di pietra, e le sue braccia allargate ad abbracciare i nemici. Infatti: "Lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: Signore, non imputar loro questo peccato" ( At 7,59.60 ). E concordano con questo le parole del terzo libro dei Re: "Condussero Nabot di Izreel fuori della città e lo uccisero, lapidandolo" ( 1 Re 21,13 ). Nabot non aveva voluto che la sua vigna, ereditata dai suoi padri, fosse trasformata in un orto per coltivare legumi ( cf. 1 Re 21,2-3 ). Anche il beato Stefano fu lapidato così: "Lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono" ( At 7,58 ), perché si opponeva ai Giudei, i quali volevano trasformare la chiesa primitiva in un orto di legumi, volevano cioè imporle l'osservanza dei loro riti e delle loro tradizioni. 9. "Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall'altro". I sei bracci simboleggiano le sei virtù che erano nel beato Stefano, sei virtù ricordate nella lettura della messa di oggi. La fede. È detto infatti: "Elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo" ( At 6,5 ), e queste parole fanno capire che la sua fede fu viva e operante. La grazia e la fortezza: "Era pieno di grazia e di fortezza" ( At 6,8 ). La sapienza e il coraggio nella predicazione: "Non riuscivano a resistere alla sapienza e allo spirito che parlava" ( At 6,10 ), e ancora: "Gente di dura cervice e incirconcisi di cuore, opponete resistenza allo Spirito Santo" ( At 7,51 ). La preghiera per quelli che lo lapidavano: "Signore, non imputar loro questo peccato" ( At 7,60 ). Di fede viveva, con la grazia comunicava, con la fortezza resisteva, con la sapienza istruiva, con il coraggio confutava e con la preghiera aiutava. In questi bracci c'erano coppe, sferette e gigli. Nella concavità della coppa è indicata l'umiltà del cuore; nella rotondità della sferetta la cura dei fratelli in necessità; nei gigli la purezza del corpo. Ecco dunque il candelabro d'oro nella tenda del Signore, che illumina la mensa delle offerte, cioè la chiesa e l'anima fedele: il protomartire Stefano, adorno di virtù, bagnato del suo sangue, trionfante nei cieli. Per le sue preghiere, ci faccia giungere agli eterni gaudi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. Sermone morale 10. "Farai un candelabro di oro purissimo, lavorato a martello". Nel candelabro è raffigurata l'anima dei fedeli. Di questo candelabro il Signore dice ad Aronne: "Quando avrai sistemato le sette lampade, erigerai il candelabro nella parte meridionale, affinché le lampade facciano luce verso settentrione e siano rivolte verso la mensa delle offerte" ( Nm 8,2 ). Le sette lucerne simboleggiano la grazia dello Spirito Santo, la fede nel Verbo incarnato, l'amore verso il prossimo, l'insegnamento della parola di Dio, la luce del buon esempio, la retta intenzione dell'animo e la costanza nei propositi. Della grazia dello Spirito Santo dice Giobbe: "La sua lampada brillava sopra il mio capo, e alla sua luce io camminavo anche in mezzo alle tenebre" ( Gb 29,3 ). La lampada brilla sopra il capo quando la grazia illumina la mente, e allora tra le tenebre del presente esilio vede chiaramente dove mettere il piede delle opere. Sulla fede nel Verbo incarnato leggiamo in Luca: "Quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa finché non la ritrova? " ( Lc 15,8 ). Le nove dracme raffigurano i nove ordini di angeli; la decima raffigura Adamo e la sua discendenza, la quale è stata perduta quando fu scacciata dal paradiso terrestre. Ma "la donna", cioè la Sapienza di Dio Padre, "accese la lampada" quando nella fragile creta della nostra umanità pose la luce della sua divinità. E così "spazzò la casa", cioè il mondo e l'inferno, "finché la ritrovò. Sull'amore verso il prossimo è scritto nei Proverbi: "Il precetto è lampada, la legge è luce, le correzioni della disciplina sono sentiero di vita" ( Pr 6,23 ). "Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda" ( Gv 13,34 ): questo comandamento "è la lampada"; "chi ama il suo fratello dimora nella luce, chi lo odia dimora nelle tenebre" ( 1 Gv 2,10-11 ). E la stessa "legge" dell'amore, dalla quale dipendono la Legge e i profeti ( cf. Mt 22,40 ), "è luce". E "le correzioni della disciplina" sono "sentiero di vita", sentiero cioè che conduce alla vita. Dice infatti l'Apostolo: "Ogni correzione non sembra, sul momento, causa di gioia, ma di tristezza": ecco la correzione; "dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo suo sono stati addestrati" ( Eb 12,11 ): ecco la via della vita. Sull'insegnamento della parola di Dio dice il salmo: "La tua Parola è lampada ai miei passi" ( Sal 119,105 ); e Pietro: "Abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori ( 2 Pt 1,19 ). Sulla luce del buon esempio parla Luca: "Siate pronti con i fianchi cinti e in mano le lampade accese" ( Lc 12,35 ). E Gregorio: "Abbiamo in mano le lampade accese, quando con le buone opere mostriamo al nostro prossimo esempi luminosi". Sulla retta intenzione dell'animo leggiamo in Matteo: "La lampada del tuo corpo è l'occhio. Se il tuo occhio sarà chiaro, tutto il corpo sarà nella luce" ( Mt 6,22 ). L'occhio simboleggia l'intenzione, il corpo l'opera. Se l'intenzione sarà chiara, vale a dire senza pieghe oscure, tutta l'opera sarà nella luce, perché illuminata dalla lampada della retta intenzione. E infine sulla costanza nei propositi, leggiamo nei Proverbi, dove si parla della donna forte: "La sua lampada non si spegne neppure durante la notte" ( Pr 31,18 ). È come dicesse: la notte della tentazione diabolica non spegne la luce dell'anima costante. Queste sette lampade devono essere poste nell'anima, in modo da essere rivolte a settentrione, contro l'Aquilone, cioè contro il diavolo, affinché l'anima, da esse illuminata, sia in grado di scoprire le astuzie di satana e di difendersene; e le lampade illuminino anche "la mensa dei pani dell'offerta", nella quale è simboleggiata la condotta dei i fedeli. Se l'anima si nutre di cose celesti, viene offerto a tutti da questa mensa, nelle tenebre della cecità presente, ciò che viene illuminato dalle suddette lampade. Osserva infine che il Signore ha comandato che questo candelabro "sia eretto nella parte meridionale", e non in quella occidentale. La parte meridionale raffigura la vita eterna: "Dio – dice Abacuc – verrà da meridione" ( Ab 3,3 ). L'anima del fedele, quando si alza per compiere un'opera buona, si alzi dalla parte di mezzogiorno, in modo che tutto ciò che fa, sia fatto non per la vacua gloria del mondo ma per la gloria celeste. "Farai dunque un candelabro". 11. "Duttile, battuto con il martello". L'anima viene lavorata e, per così dire, spianata e allargata verso l'amore del Redentore dal martello della contrizione; con le battiture l'anima matura, si dilata, perché "gode chi è paziente nelle durezze". Un riscontro a tutto questo lo troviamo nell'Ecclesiastico: "Il sapiente si rivela nelle sue parole" ( Sir 20,29 ). Quand'egli infatti si colpisce con la parola della propria accusa, ossia della confessione, guida se stesso all'amore di Dio. E poiché con le battiture della contrizione si giunge alla purezza del cuore, dice appunto: "di oro purissimo". E l'Apocalisse: "La città stessa è di oro puro, simile a terso cristallo ( Ap 21,18 ). L'anima del giusto, sede o città della sapienza, è detta oro puro, perché risplende per la purezza dei pensieri; e se talvolta, per la fragilità della condizione umana, si copre di qualche macchia, immediatamente la rivela, come un terso cristallo, nella confessione, e così progredisce nell'amore di Dio e del prossimo. "Sei bracci si dirameranno dai due lati", ecc. I sei bracci del candelabro sono nel giusto come delle braccia amorose con le quali l'anima abbraccia Dio e il prossimo. Di queste braccia con i quali abbraccia Dio, è detto nel Deuteronomio e in Luca: "Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" ( Dt 6,5; Lc 10,27 ). Agostino così parla e spiega: "Con tutto il cuore", cioè con l'intelletto senza errore; "con tutta la mente", cioè con la memoria senza dimenticanze; "con tutta l'anima", cioè con la volontà, senza aver mai nulla in contrario. Allo stesso modo, le braccia con le quali l'anima abbraccia il prossimo, sono queste: perdonare chi pecca, correggere chi sbaglia, nutrire chi ha fame. Su queste braccia ci sono le coppe, le sferette e i gigli. Le coppe raffigurano la grazia della dottrina celeste, dalla quale bevono gli amici e si inebriano i più cari, i parenti. Questa è la coppa d'argento di Giuseppe, nascosta nel sacco di Beniamino (cf. Gen 44,2.12 ), cioè nel cuore del giusto. Nelle sferette ( che ruotano ) è simboleggiato il rotolare del peccato verso la confessione. Dice Isaia: "Prendi la cetra", cioè la confessione, "percorri la città", cioè la tua memoria o la tua vita, per rivoltare tutto e nulla resti nascosto, "canta in modo giusto" accusando te stesso, "ripeti il tuo canto" dando la colpa a te stesso e piangendo "affinché tu sia ricordato" ( Is 23,16 ) al cospetto di Dio. Canta infatti l'istrione alla porta del ricco per averne qualche beneficio. Nei gigli è simboleggiata la luminosa e soave compagnia delle beate schiere angeliche. Il diletto si pasce tra i gigli, ( f. Ct 2,16 ), e dice: "Il vincitore indosserà vesti bianche" ( Ap 3,5 ). Anche l'angelo della risurrezione apparve rivestito di una veste candida ( cf. Mc 16,5 ). Colui che è benedetto nei secoli eterni conduca anche noi a ricevere questa candida veste. Amen. Festa di San Giovanni Evangelista 1. In quel tempo: Gesù disse a Pietro: "Séguimi!", ecc. ( Gv 21,19 ). In questo vangelo vengono proposti due argomenti: - l'imitazione di Cristo, - l'amore di Cristo verso il suo fedele discepolo. I. L'imitazione di Cristo 2. "Séguimi!", dice Gesù a Pietro, e lo ripete ad ogni fedele cristiano. Séguimi, anche tu nudo come io sono nudo, anche tu libero da impedimenti come lo sono io. Dice Geremia: "Tu mi chiamerai padre e non cesserai di seguirmi" ( Ger 3,19 ). Séguimi dunque, deponi il tuo bagaglio: così carico non puoi tener dietro a me che corro. "Io ho corso, arso dalla sete" ( Sal 62,5 ), la sete della salvezza dell'uomo. Dove corse? Alla croce. Corri anche tu dietro a lui, e come lui ha portato la sua croce per te, così anche tu porta per te la tua. E dice Luca: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso", rinunciando alla propria volontà, "prenda la sua croce", mortificando la carne, "ogni giorno", cioè in continuazione, "e così mi segua" ( Lc 9,23 ). Così dunque "séguimi!". In altro senso: se vuoi venire a me e se desideri trovarmi, "segui me", cioè vieni con me in disparte. Disse infatti ai discepoli: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano, e non avevano neanche più il tempo di mangiare" ( Mc 6,31 ). Ahimè, quanti stimoli carnali, quanta confusione di pensieri che vanno e vengono per il nostro cuore, così che non troviamo più il tempo di mangiare il cibo dell'eterna dolcezza, di provare il sapore della contemplazione interiore. E quindi il Maestro pietoso dice: "Venite in disparte", lontano dalla folla tumultuosa, "in un luogo solitario", cioè nella solitudine della mente e del corpo, "e riposatevi un po'". Veramente un po', perché è scritto nell'Apocalisse: "Si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora" ( Ap 8,1 ). "Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo?" ( Sal 55,7 ). E anche Osea: "Ecco, io la allatterò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" ( Os 2,14 ). In queste tre espressioni è indicato il triplice stato degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti. Allatta gli incipienti quando li illumina con la grazia perché crescano, e quindi progrediscano [ proficienti ] di virtù in virtù; poi li allontana dal tumulto dei vizi e dalla confusione dei cattivi pensieri e li conduce nel deserto, cioè nella quiete della mente, e lì, divenuti ormai perfetti, parla al loro cuore. E questo si avvera quando provano la dolcezza dell'ispirazione divina e si elevano totalmente nel gaudio dello spirito. Oh, quanto grande è allora nel loro cuore la devozione, la lode e l'esultanza. Con l'intensità della loro devozione si elevano al di sopra di se stessi, con la grandezza della lode vengono condotti al di sopra di se stessi, e con la grandezza dell'esultanza sono come portati al di fuori di sé. Dunque "séguimi!" Il Signore parla come una madre amorosa che, quando vuole abituare il figlioletto a camminare, gli mostra un pane o una mela: Vieni, gli dice, e te lo do! E quando il bambino si avvicina che quasi lo prende, la madre a poco a poco allunga il passo, e sempre mostrando ciò che ha in mano continua a dirgli: Vieni, se vuoi prenderlo! Anche alcuni uccelli tirano fuori dal nido i loro piccoli e con il loro volo insegnano loro a volare e a seguirli nell'aria ( cf. Dt 32,11 ). La stessa cosa fa Cristo: per indurci a seguirlo, propone se stesso come esempio e ci promette il premio nel suo Regno. 3. "Séguimi", dunque, perché io conosco la strada giusta per la quale condurti. Leggiamo nei Proverbi: "Ti mostrerò la via della sapienza; ti condurrò per i sentieri della rettitudine; quando vi sarai entrato non saranno intralciati i tuoi passi, e se corri non inciamperai" ( Pr 4,11-12 ). La via della sapienza è la via dell'umiltà: ogni altra è via della stoltezza e della superbia. Le vie giuste ci ha mostrato quando ha detto: "Imparate da me" ( Mt 11,29 ). Il sentiero è largo solo due piedi ( circa mezzo metro ), di modo che una persona non può affiancarsi all'altra; ed è chiamato in lat. semita, quasi a dire semis iter, mezza strada, da semis, metà, e iter, strada. I sentieri della rettitudine sono la povertà e l'obbedienza, e per essi Cristo, povero e obbediente, ti guida con il suo esempio. In essi non c'è alcuna tortuosità, ma tutto è diritto e chiaro. Ma – cosa meravigliosa! –, pur essendo così stretti, si afferma che in essi il cammino non è intralciato. Invece la via del mondo è larga e spaziosa; ma per i secolari, che vi camminano come ubriachi, essa non è mai abbastanza larga: per l'ubriaco la via è sempre stretta, per quanto larga sia. La malizia, la perfidia trovano tutto stretto; invece la povertà e l'obbedienza, proprio per il fatto che sono strette danno la libertà: perché la povertà rende ricchi e l'obbedienza rende liberi. E colui che corre dietro a Gesù in questi sentieri non trova l'inciampo della ricchezza e della propria volontà. "Séguimi", dunque, e ti mostrerò "ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo" ( 1 Cor 2,9 ). "Séguimi, e ti darò" – come è detto in Isaia – "tesori nascosti e ricchezze ben celate" ( Is 45,3 ); e ancora: "Allora vedrai e sarai raggiante, si meraviglierà e si dilaterà il tuo cuore" ( Is 60,5 ). Vedrai Dio faccia a faccia, com'egli è ( cf. 1 Cor 13,12; 1 Gv 3,2 ); sarai ricco di delizie e delle ricchezze della duplice stola dell'anima e del corpo; il tuo cuore sarà estasiato di fronte ai cori degli angeli, ai troni dei beati, e così si gonfierà di gioia e proromperà nel canto dell'esultanza e della lode. Dunque "séguimi!". II. L'amore di Cristo verso il suo fedele discepolo 4. "Pietro, voltatosi …" ecc. ( Gv 21,20 ). Chi veramente segue Cristo, desidera che tutti lo seguano, e perciò si rivolge al prossimo con lo zelo dello spirito, con la preghiera devota e con la predicazione della Parola. Questo è il significato del "volgersi" di Pietro. E con questo concordano le parole dell'Apocalisse: "Lo sposo e la sposa", cioè Cristo e la chiesa, "dicono: Vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!" ( Ap 22,17 ). Cristo con le ispirazioni e la chiesa con la predicazione dicono all'uomo: Vieni! E chi sente, da Cristo e dalla chiesa, questo richiamo, lo ripeta al suo prossimo: Vieni, cioè: segui Gesù. "Pietro, dunque, voltatosi, vide che il discepolo che Gesù amava li seguiva" ( Gv 21,20 ). Gesù ama chi lo segue; infatti dice: "Il mio servo Caleb, che mi ha seguito, lo introdurrò in questa terra che ha percorso: la sua stirpe la possederà" ( Nm 14,24 ). "Il discepolo che Gesù amava". Dice la Glossa: Pur non nominandolo, con queste parole viene come distinto dagli altri, non perché Gesù amasse solo lui, ma perché lo preferiva agli altri. Amava anche gli altri, ma questo più intimamente. Lo gratificò di una maggiore tenerezza del suo amore perché l'aveva chiamato quando era ancora vergine, e perché vergine era rimasto: anche per questo gli affidò la Madre. E questo discepolo, durante l'ultima cena, posò il capo sul petto del Signore. Fu un grande segno di amore che lui solo posasse il capo sul petto del Signore, "nel quale sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della scienza" ( Col 2,3 ). E questo fatto era come il presagio di quanto avrebbe scritto sugli "arcani" della divinità, molto meglio degli altri. 5. Osserva che Giacobbe riposò su di una pietra, e Giovanni sul petto di Gesù: quello mentre era in cammino, questi durante la cena. In Giacobbe quindi sono indicati i "pellegrini" ( viatori ), in Giovanni i beati comprensori: quelli sono in cammino, questi sono già arrivati alla patria. Leggiamo nella Genesi che Giacobbe, uscito da Bersabea, si dirigeva verso Aram. Volendo riposarsi, si mise sotto la testa una pietra e si addormentò. In sogno vide una scala drizzata e gli angeli che salivano e scendevano su di essa, e il Signore stava alla sommità ( cf. Gen 28,10-13 ). Giacobbe è figura del giusto ancora pellegrino e alle prese con molteplici conflitti; egli esce da Bersabea, che s'interpreta "settimo pozzo", e raffigura la cupidigia del mondo, che è come un pozzo senza fondo, come il "settimo giorno" di cui si legge che non ha fine; e si dirige verso Aram, che s'interpreta "eccelso", cioè verso la Gerusalemme celeste. Dice infatti Abacuc: "Salirò e mi unirò al nostro popolo ormai in pace" ( Ab 3,16 ), che ha trionfato sulla nequizia del secolo. E poiché desidera alleviare la fatica della sua peregrinazione, il giusto si mette sotto il capo una pietra e si addormenta. Il capo è la mente, la pietra è la costanza nella fede, la scala drizzata è la duplice carità verso Dio e verso il prossimo, gli angeli sono i giusti che salgono a Dio con l'elevazione della mente e scendono verso il prossimo con la compassione dell'animo. Quindi il pellegrino, per riposare, ferma la mente sulla saldezza della fede. Si legge nei Proverbi: "Il leprotto, razza paurosa, ha la sua tana nella roccia" ( Pr 30,26 ). Il leprotto, animale timido, è figura del povero nello spirito, che per la sua timidezza è esposto a tutte le ingiustizie, e quindi colloca il letto della sua speranza nella roccia della fede, dove può riposare e dormire e vedere in se stesso, eretta, la scala della carità. E osserva che il Signore sta alla sommità della scala per due scopi: per reggerla, e per accogliere coloro che salgono su di essa. Infatti egli sostiene il peso della nostra fragilità, affinché possiamo salire con le opere della carità; e accoglie coloro che salgono, affinché con lui che è eterno e beato, siamo eterni e beati anche noi. E allora in quella cena dell'eterna sazietà, riposeremo anche noi, con Giovanni, sul petto di Gesù. Il cuore nel petto è l'amore nel cuore. Riposeremo perciò nel suo amore, perché lo ameremo con tutto il cuore e con tutta l'anima, e in lui troveremo ogni tesoro di sapienza e di scienza. O amore di Gesù! O tesoro nascosto nell'amore, o sapienza di ineguagliabile sapore e scienza che tutto conosce! "Mi sazierò quando apparirà la tua gloria" ( Sal 17,15 ). E "Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo ( Gv 17,3 ). A lui la lode e la gloria per i secoli eterni. Amen. III. Sermone allegorico 6. "Un'aquila grande dalle grandi ali e di grande apertura alare, piena di piume variopinte, venne sul Libano e portò il midollo del cedro" ( Ez 17,3 ). L'aquila, così chiamata per l'acutezza della sua vista ( lat. aquila, acumen ), è figura del beato Giovanni, che elevato al di sopra di sé con l'acutissima intuizione della sua mente, poté contemplare e raccontarci l'Unigenito Figlio che sta nel seno del Padre, il Verbo che era fin dal principio ( cf. Gv 1,18.1 ). "E noi sappiamo che la sua testimonianza è verace" ( Gv 21,24 ). Dice Ezechiele: "Ognuno dei quattro animali aveva fattezze di uomo; poi fattezze di leone a destra e fattezze di toro a sinistra, e fattezze d'aquila al di sopra dei quattro" ( Ez 1,10 ). Nella destra è indicata la prosperità, nella sinistra l'avversità. Matteo e Marco, che sono raffigurati nell'uomo e nel leone, furono a destra: scrissero infatti dell'incarnazione e della predicazione di Cristo, fatti nei quali ci fu della prosperità. Luca poi è raffigurato nel toro, che veniva offerto nei sacrifici; infatti incomincia dal sacerdozio e quindi accompagna Cristo fino all'immolazione nel tempio e sull'altare della croce, dove c'è l'avversità della passione. Giovanni infine è raffigurato nell'aquila, che vola più in alto di tutti gli uccelli: e proprio lui svelò e penetrò più profondamente degli altri nel mistero; per questo è detto di lui: "al di sopra dei quattro". Fa però meraviglia che dica: "al di sopra dei quattro", perché anche lui è uno dei quattro. Egli era dunque al di sopra di sé stesso. Veramente al di sopra di se stesso perché parlò al di sopra di quanto possa parlare un uomo, e quindi è chiamato: "grande aquila dalle grandi ali". Quanto grandi fossero le ali di quest'aquila lo dice la lettura della messa di oggi, presa dal libro dell'Ecclesiastico: "In mezzo alla chiesa aprì la sua bocca" ( Sir 15,5 ). Ed è ciò che dice anche l'Apocalisse: "Vidi poi e udii la voce di un'aquila che volava nell'alto del cielo" ( Ap 8,13 ), nel quale è simboleggiata la chiesa, nel cui centro, e cioè per tutti comunitariamente, "aprì la sua bocca". "E il Signore lo riempì dello spirito della sapienza e dell'intelligenza" ( Sir 15,5 ). Ecco le due grandi ali con le quali volò fino al mistero della divinità: "In principio era il Verbo", ecc. ( Gv 1,1 ). 7. L'aquila era "di grande apertura alare". Le virtù sono come le ali dell'anima che si estendono grandemente quando si aprono alla opere di carità. E questo concorda con ciò che è detto nella lettura della messa di oggi: "Chi teme Dio fa il bene, e chi pratica la giustizia otterrà anche la sapienza: essa gli andrà incontro come una madre onorata, e lo accoglierà come una vergine sposa" ( Sir 15,1-2 ). Il beato Giovanni, poiché onorava Dio con filiale e casto timore, fece il bene, cioè si profuse in opere di carità. E questo ti balzerà agli occhi più chiaro della luce se leggi la sua epistola, nella quale scrisse sulla carità in modo straordinario, in quanto l'aveva in sé. "Incominciò infatti a fare e poi ad insegnare" ( At 1,1 ). E praticò anche la giustizia perché, come è detto nell'Ecclesiastico: "Era come un vaso di oro massiccio, ornato di ogni pietra preziosa" ( Sir 50,10 ). E poiché aveva in sé la giustizia, cioè la verità del vangelo, la praticò, cioè ne raccolse i frutti. Dice il Signore nel vangelo: Chi lascia il padre, la madre, la moglie, riceverà il centuplo, ecc. ( cf. Mt 19,29 ). Il beato Giovanni lasciò, per il Signore, sia la madre che la sposa; e il Signore gli diede un'altra madre, non una madre qualsiasi, ma la sua stessa Madre. Infatti dice: "Gli andrà incontro come una madre onorata". La beata Maria, Madre del Figlio di Dio, onorata di doni di virtù e di privilegi di grazie, andò incontro al beato Giovanni ai piedi della croce: stavano lei a destra e lui a sinistra; e lì, come vergine sposa, lo accolse, vergine lei e vergine lui. Narra Giovanni: "Gesù, vedendo la Madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla Madre: Donna, ecco il tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese con sé" ( Gv 19,26-27 ), come sua madre, o in custodia. O perla splendente di verginità, beato Giovanni, che meritò di essere accolto come figlio dalla Madre del Figlio di Dio e di avere per madre la Madre di Dio! 8. Della sua intemerata verginità è detto quindi: "Aquila piena di piume variopinte". E in Giobbe troviamo: "Morirò nel mio piccolo nido, e moltiplicherò i miei giorni come la palma" ( Gb 29,18 ). L'uccello costruisce il suo nido imbottendolo all'interno di piume e rendendolo soffice tutt'all'intorno, e ciò per due ragioni: perché le uova non si rompano a contatto con i ramoscelli, e i piccoli, ancora implumi, trovino riposo e calore tra il soffice delle piume. Il piccolo nido del beato Giovanni fu il suo umile sentire. E osserva che non è detto nido, ma piccolo nido. La verginità infatti si conserva con l'umiltà. La vergine superba non è vergine, ma corrotta. Nel diminutivo nìdulus, piccolo nido, è indicata appunto l'umiltà. Il suo nido fu costruito di soffici piume, ornato cioè della soavità della purezza verginale: in esso le uova dei suoi pensieri restarono intatti e i frutti delle opere trovarono impulso e silenzio. Quest'aquila dunque fu "piena di piume variopinte", perché dalla purezza della mente pervenne alla stupenda varietà delle opere. Stupenda varietà: gigli mescolati alle rose! Di questi due fiori dice la lettura della messa: "Lo rivestirà di una stola di gloria", per quanto riguarda la purezza verginale, "accumulerà su di lui un tesoro di gioia e di esultanza" ( Sir 15,5-6 ), per le sue opere meravigliose. E anche se non concluse la sua vita con il martirio, fu martire ugualmente perché fu gettato in una vasca di olio bollente, fu relegato in esilio a Patmos, a Efeso gli fu dato da bere veleno: tuttavia, per grazia di Dio, uscì illeso da tutti questi tormenti, e "moltiplicò come palma i suoi giorni". La palma non perde il suo verde né con il gelo né con la siccità e il caldo; così il beato Giovanni non perdette la forza d'animo e la verginità del corpo né tra le persecuzioni né tra le tentazioni. E così morì nel suo piccolo nido, perché perseverò nella verginità fino alla morte.Oppure, il suo piccolo nido io lo chiamo sepolcro: in esso, celebrati i divini misteri, come oggi discese vivo e si coricò, come volesse dormire2. 9. "Venne sul Libano e portò il midollo del cedro". Il monte Libano, che s'interpreta "candore", raffigura la patria celeste, i cui abitanti ( Nazarei ) sono più candidi della neve ( cf. Lam 4,7 ). E nell'Apocalisse: "Essi cammineranno con me in bianche vesti, perché ne sono degni" ( Ap 3,4 ). Il cedro, pianta altissima ( cf. 2 Re 19,23; Is 2,13 ), simboleggia l'altezza della divinità. Volò dunque l'aquila dalle grandi ali fino alla patria celeste e portò il midollo del cedro, quando disse: "In principio era il Verbo", ecc. Oppure: il cedro, albero che non marcisce, raffigura l'umanità di Cristo, che non conobbe corruzione, e il cui midollo è la divinità. Prese quindi il midollo del cedro e lo portò a noi quando disse: "Il Verbo si fece carne, ed abitò tra noi" ( Gv 1,14 ). E questo concorda con ciò che dice la lettura della messa: "Lo nutrì con il pane di vita e di intelligenza e lo dissetò con l'acqua della sapienza e della salvezza" ( Sir 15,3 ). Essere nutriti con il pane di vita ed essere dissetati con l'acqua della sapienza, altro non è che prendere il midollo del cedro. Preghiamo quindi il beato Giovanni affinché, per le sue preghiere, il Signore ci conceda di disprezzare le cose terrene e innalzarci alle celesti per essere nutriti con il midollo del cedro. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. Sermone morale 10. "Una grande aquila". In senso morale si possono considerare tre cose: La salda fede del giusto o del penitente, la sua speranza sicura, la sua carità perfetta. La fede salda: "Grande aquila dalle grandi ali, e di grande apertura alare". L'aquila deve il suo nome all'acutezza della sua vista o anche del becco; e quando il becco s'ingrossa e l'aquila non è più in grado di prendere il cibo, lo arrota, per così dire, sfregandolo contro una pietra, e così si dice che si rinnova: "Si rinnoverà come quella dell'aquila la tua giovinezza" ( Sal 103,5 ). L'aquila ha una vista così acuta, che quando è nell'aria scorge i pesciolini nella profondità dell'acqua. Così il penitente, così il cristiano, con l'occhio del cuore, illuminato dalla fede, giacché tanto vedi quanto credi, scorge i segreti di Dio e li proclama apertamente con la bocca. Dice infatti l'Apostolo in merito all'acutezza dello sguardo e del becco: "Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza ( Rm 10,10 ). Questa in verità è la "grande aquila" – grande infatti e acuto è l'occhio della fede –, che vede il Figlio di Dio mentre scende nel grembo della Vergine, lo vede nato in una stalla, adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce, offerto nel tempio e riscattato con l'offerta dei poveri; lo vede mentre fugge in Egitto, pellegrino per il mondo, seduto sopra un asinello, insultato dalla folla, battuto con i flagelli, coperto di sputi, abbeverato di fiele e aceto, sospeso nudo sul patibolo, deposto nel sepolcro, mentre conduce schiava dall'inferno la schiavitù, quando risorge dal sepolcro, mentre sale al cielo, mentre riempie gli apostoli di Spirito Santo, e in fine nel giudizio, quando ricompenserà ciascuno secondo le sue opere. Ecco l'aquila, grande perché acuta di vista e di rostro ( cioè franca di parola ). Dice infatti l'Apostolo: "La nostra bocca si è aperta a voi, o Corinzi!" ( 2 Cor 6,11 ). Ciò che credeva con certezza nel cuore, lo predicava a chiare parole, libero da ogni condizionamento. "Dalle grandi ali". Su questo abbiamo la concordanza dell'Apocalisse: "Furono date alla donna due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il suo rifugio" ( Ap 12,14 ). La donna è l'anima del penitente, della quale Isaia dice: "Come una donna abbandonata e con l'animo afflitto, il Signore ti ha richiamata" ( Is 54,6 ). Le sue due ali sono la contrizione e la confessione, con le quali vola nel deserto della penitenza, in cui trova il rifugio di pace e di tranquillità. E osserva che queste ali sono dette grandi. Infatti le ali della vera contrizione hanno quattro grandi penne. La prima è l'amarezza dei peccati passati, la seconda è il fermo proposito di non ricadervi, la terza è il perdono di ogni offesa dal profondo del cuore, la quarta è la riparazione verso tutti coloro che sono stati offesi. E anche nell'ala della confessione ci sono quattro grandi penne. La prima è umiliarsi con la mente e con il corpo davanti al sacerdote. Maria [ Maddalena ], dice il vangelo, sedeva ai piedi del Signore ( cf. Lc 10,39 ); e Isaia: "Scendi, siedi nella polvere, o vergine figlia di Babilonia; siedi in terra" ( Is 47,1 ). Scendi con l'umiltà della mente, siedi nella polvere o nella terra con l'umiliazione del corpo. La seconda è l'accusa completa e particolareggiata dei propri peccati: "Accuserò me stesso" ( Sal 32,5 ); e di nuovo: "Sono io che ho peccato, io che ho agito iniquamente" ( 2 Re 24,17 ). La terza è la precisazione delle circostanze del peccato, che consiste nella risposta a queste domande: Che cosa? Chi? Dove? Per mezzo di chi? Quante volte? Perché? In che modo? Quando? La quarta è l'accettazione rispettosa e pronta della penitenza ordinata dal sacerdote, in modo da poter dire con Samuele: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!" ( 1 Sam 3,9 ). E per ciò che riguarda la soddisfazione, cioè l'esecuzione della penitenza, aggiunge: "e di grande apertura alare". Infatti la mano, che prima era come rattrappita nel dare l'elemosina, ora si apre e si distende. Marco racconta che c'era nella sinagoga un uomo che aveva una mano inaridita. E il Signore gli disse: Stendi la tua mano! E quello la distese e riebbe l'uso della mano ( cf. Mc 3,1-5 ). Le ginocchia erano deboli e quasi contratte; i piedi non erano più in grado di svolgere la loro funzione, perché ne erano stati privati dalla pigrizia, come è detto nei Proverbi: "Dice il pigro: C'è una leonessa sul sentiero, c'è un leone sulla strada; e come la porta gira sui cardini, così il pigro si rigira nel suo letto" ( Pr 26,13-14 ). Ma ora corre e piega le ginocchia alla preghiera. Ecco "la grande aquila, dalla grande apertura alare". 11. La speranza sicura. "Piena di piume variopinte". Su questo c'è un riferimento in Giobbe: "Forse che al tuo comando si alzerà in alto l'aquila e porrà il suo nido in luoghi ardui?" ( Gb 39,27 ). Infatti il penitente, o anche il religioso, si solleva dalle cose terrene con le ali suddette, al comando del Signore che dice: "Venite dietro a me" ( Mt 4,19 ), ecc., e anche: "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti" ( Mt 8,22 ); "e mette il suo nido in luoghi ardui", pone cioè la sua speranza nel premio della vita eterna. Fabbrica questo nido con le piume della pazienza e della bontà. Con queste piume aveva fabbricato il suo nido anche Giobbe, quando diceva: "Anche se mi ucciderà, io spererò in lui" ( Gb 13,15 ). Si può render facile il patire, se non viene meno la pazienza ( Ovidio ). "Piena di piume variopinte". Quando si moltiplicano le tentazioni e le persecuzioni, il giusto fabbrica il suo nido con le piume della pazienza, con esse copre se stesso e le sue opere e così con la sua pazienza salva la sua anima ( cf. Lc 21,19 ). 12. La carità perfetta. "Venne sul Libano e portò il midollo del cedro". Il cedro, che con il suo aroma mette in fuga i serpenti, è figura della carità che scaccia dal cuore del giusto i serpenti dell'invidia, dell'ira, del rancore e dell'odio. Nella prima lettera ai Corinzi ( 1 Cor 13,4-5 ), l'Apostolo dice: "La carità non è invidiosa" perché, nulla bramando in questo mondo, ignora l'invidia dei successi altrui; "non agisce ingiustamente" perché, operando solo per amore di Dio e del prossimo, rifugge da tutto ciò che non è retto; "non pensa male" perché, con la mente ferma all'amore della purezza, mentre estirpa dalle radici qualsiasi odio, si guarda bene dal rimuginare nella mente ciò che contamina; per questo è detto che sta sul monte Libano, che s'interpreta "candore", al quale va il giusto a prendere il midollo del cedro. Il midollo simboleggia la dolcezza della contemplazione o anche la compassione verso il prossimo; infatti innalzandosi all'amore di Dio, è impregnato della sua dolcezza; quando poi si volge all'amore del prossimo, allora usa il midollo della compassione. Preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo che ci conceda di volarcene lontano dai peccati con le ali della contrizione e della confessione e di mettere il nido della speranza nelle cose celesti e di prendere così il midollo della duplice carità: carità verso Dio e carità verso il prossimo. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. Festa dei santi Innocenti 1. In quel tempo: "Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, e gli disse: Álzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto" ( Mt 2,13 ). In questo vangelo si devono considerare due fatti: - la fuga del Signore in Egitto, - la strage dei bambini innocenti. I. La fuga del Signore in Egitto 2. "Un angelo del Signore". In questa prima parte si dimostra, in senso morale, come ogni uomo di buona volontà debba custodire la sua opera ancor tenera ( come un bambino appena nato ) dalle insidie del diavolo e dal plauso del mondo. Vedremo che cosa significhino: l'angelo, Giuseppe e il suo sonno, che cosa la madre e il bambino, e che cosa infine l'Egitto ed Erode. L'angelo del Signore raffigura l'ispirazione divina, che annunzia all'uomo che cosa debba e che cosa non debba fare. Si legge nell'Esodo: "L'angelo di Dio precedeva l'accampamento d'Israele" ( Es 14,19 ); e ancora: "Il mio angelo ti precederà" ( Es 32,34 ), per due scopi: per mostrarti la via, e per difenderti dal nemico. E Tobia dice: "Fate un buon viaggio, il Signore vi sia vicino lungo il cammino e il suo angelo vi accompagni" ( Tb 5,21 ). Giuseppe, che s'interpreta "crescente" ( cf. Gen 49,22 ), raffigura il cristiano che, inserito nella chiesa per la fede in Cristo, deve crescere di bene in meglio e portare frutti di vita eterna. Il suo sonno è la pace della mente o anche la dolcezza della contemplazione. Il sonno è la quiete delle facoltà animali, con la intensificazione e il raffozamento di quelle naturali ( Aristotele. Vedi nota nel sermone della II dom. di Quaresima, n. 4 ). Infatti quando si quietano gli stimoli del corpo ed emergono le aspirazioni dello spirito, allora Giuseppe entra nel sogno. Dice infatti Giobbe: "Adesso dormirei nel silenzio, e riposerei nel mio sonno con i re e i consoli della terra, che si costruiscono mausolei appartati; oppure con i prìncipi che possiedono oro e riempiono le loro case di argento" ( Gb 3,13-14 ). Considera queste tre dignità: i re, i consoli e i prìncipi. 3. I re raffigurano "coloro che hanno fame e sete della giustizia" ( Mt 5,6 ). Dice a proposito Agostino: Entra nel tribunale della tua mente: la ragione sia il giudice, la coscienza sia l'accusatore, il timore sia il carnefice, il dolore sia il tormento e il posto dei testimoni sia riservato alle opere. I consoli ( consiglieri ) della terra raffigurano "quelli che piangono" ( Mt 5,6 ) la loro miseria e la loro colpa. Saggio consiglio quello di piangere se stessi! Lo suggeriva anche Geremia: "Tàgliati i capelli e gettali via, e datti al pianto in modo aperto e sincero" ( Ger 7,29 ). I capelli simboleggiano le preoccupazioni terrene che ti impediscono di vedere la tua miseria e di piangere i tuoi peccati. Tàgliali dunque dal tuo capo e gettali lontano dalla tua mente, e così potrai darti al pianto apertamente, senza falsità. Si dà al pianto senza falsità colui che non perdona a se stesso e non cerca scuse. L'amor proprio sa bene scusare e piangere falsamente, per finta. E coloro che vogliono veramente mettere in pratica questo consiglio, devono costruirsi posti solitari ed isolati, non solo per la mente ma anche per il corpo. Diceva Girolamo: La città è per me un carcere, la solitudine un paradiso. Parimenti i prìncipi raffigurano "i poveri nello spirito" ( Mt 5,3 ), che possiedono l'oro, cioè l'aurea povertà, e riempiono le loro case, cioè la loro coscienza, di argento, che ha un bel suono ( argentino ), e simboleggia il risuonare del canto di lode a Dio e quello della confessione del proprio peccato. Giuseppe che dorme con tutti costoro, è lontano dal frastuono delle cose del secolo, e riposa nel suo sonno senza il tumulto dei pensieri; e quindi gli appare un angelo che gli dice: "Lèvati su!", cioè "tendi all'alto", perché tu sia veramente uno che cresce verso l'alto, e non verso il basso come la rapa, che cresce nella terra e sotto terra, ma come la palma che si spinge verso l'alto. "Lèvati su!", dunque, e tendi all'alto come le rondini, le quali non prendono il cibo stando ferme, ma catturano i moscerini e li mangiano mentre sfrecciano nel cielo. Dice l'Apostolo: "Cercate le cose di lassù e non quelle che sono sulla terra" ( Col 3,1.2 ). "Lèvati su, dunque, e prendi il bambino e sua madre" ( Mt 2,13 ). 4. La madre simboleggia la buona volontà che, ispirata da Dio, concepisce l'opera buona nel sentimento e la partorisce nell'azione. Per esempio: se hai la buona volontà, ma non hai nel cuore il proposito di fare il bene, la volontà è sterile, e sta scritto: "Maledetta la donna sterile in Israele!" ( cf. Es 23,26; Dt 7,14 ). Quando fai il proposito di fare il bene, concepisci; quando porti ad esecuzione il proposito con l'opera, allora partorisci. Dice infatti Isaia: "Mi unii a una profetessa, che concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: chiamalo: Mahèr-salal-cash-baz, che significa: "Rapida preda, pronto bottino", vale a dire: Affréttati, prendi le spoglie, affrèttati a predare!" ( Is 8,3 ). La profetessa è figura dell'anima o anche della volontà dell'uomo, la quale deve predicare a se stessa la gloria del Regno, il castigo dell'inferno, la malizia del diavolo, la falsità del mondo e la propria miseria. Ti unisci a questa profetessa con la devozione, ed essa concepisce con il proposito e partorisce con l'esecuzione. E osserva che il figlio tuo, cioè la tua opera, ha tre nomi: si chiama infatti Affrèttati, perché l'indugio implica pericolo e il differire fu dannoso a chi era pronto ad agire ( Lucano ). "Quello che devi fare, fallo presto! ( Gv 13,27 ). Ed ogni opera buona dev'essere fatta in tre modi: con prontezza, con carità e con un fine; affrèttati dunque, per agire con prontezza. Prendi le spoglie, prendi da te stesso per provvedere al prossimo con la carità. "Affrèttati a predare, ad impadronirti del regno dei cieli, che dev'essere lo scopo, il fine ultimo di ogni tua opera. "Prendi dunque il bambino e sua madre", perché Esaù non possa colpire la madre con il figlio ( Gen 32,11 ), il faraone non anneghi il bambino nel fiume ed Erode non lo possa trafiggere di spada. 5. "Erode sta cercando il bambino per ucciderlo" ( Mt 2,13 ). Il nome di Erode s'interpreta "gloria della pelle". Egli personifica il diavolo o anche il mondo. "Il diavolo si trasforma in angelo di luce" ( 2 Cor 11,14 ), fa sfoggio del candore della pelle diversa, perché la sua è nerissima. Così è anche il mondo, simile ai sepolcri imbiancati che sono pieni di ogni sozzura ( cf. Mt 23,27 ); la sua bellezza sta solo all'esterno, nella bianchezza della pelle: infatti tutto ciò che fa, lo fa per essere ammirato dagli uomini ( cf. Mt 6,5 ); e Giovanni dice: "Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" ( Gv 5,44 ). Il diavolo e il mondo sono perfettamente d'accordo nel tramare la rovina del bambino, per distruggere cioè la santità delle nostre opere: il diavolo con l'inganno, il mondo con il plauso; il diavolo con la suggestione, il mondo con l'adulazione. Questi sono i satiri, i fauni, dei quali Isaia dice: "I satiri si chiameranno l'un l'altro" ( Is 34,14 ), per cercare il bambino e ucciderlo. Nel salmo vengono indicate cinque astuzie escogitate da questi due [ il diavolo e il mondo ], che di solito portano alla rovina il bambino; però prima viene anche indicato un rimedio per salvarlo. Dice dunque il salmo: "La tua verità ti proteggerà come uno scudo" ( Sal 91,5 ). La verità del Padre è il Figlio, il cui scudo è la croce, con la quale ti protegge per difenderti dal diavolo, dal mondo e dalla carne. Nella croce c'è l'umiltà contro la superbia del diavolo; c'è la povertà di Cristo contro l'avarizia del mondo; e c'è la crocifissione con i chiodi contro la lussuria della carne. E quindi "non temerai il terrore notturno", cioè la suggestione diabolica; "la freccia" della vanagloria "che vola di giorno", della quale Geremia dice: "Tu sai che non ho desiderato il giorno ( la gloria ) dell'uomo" ( Ger 17,16 ), e Luca: "E ora, in questo tuo giorno, non hai riconosciuto cioè che serviva alla tua pace" ( Lc 19,42 ); [ non temerai ] "la peste che vaga nelle tenebre", cioè l'inganno e l'ipocrisia, "il sopraggiungere" delle avversità, e "il demonio meridiano" ( Sal 91,5-6 ) della prosperità, che brucia come il sole a mezzogiorno. 6. Perché il bambino non venga ucciso, "prendilo con la madre sua e fuggi in Egitto", nome che s'interpreta "tenebre" o anche "strettezze", e in cui è simboleggiato le stato di penitenza. Osserva che la "gloria della pelle" consiste in due cose: nello splendore e nello sfarzo; al contrario la gloria della penitenza consiste nell'oscurità e nella ristrettezza. Oscurità nella veste perché, come è detto nell'Apocalisse: "Il sole si fece nero come il sacco tessuto di crine ( Ap 6,12 ); ristrettezza dell'umiltà, o anche dolore e angoscia dell'animo, di cui dice Isaia: "Mi hanno colto dolori come di una partoriente" ( Is 21,3 ), cioè di un penitente che partorisce lo spirito della salvezza. Vuoi dunque salvare il bambino? Fuggi in questo Egitto, "e resta lì finché non ti avvertirò" ( Mt 2,13 ). Ricorda che Gesù, come dice la Glossa, restò nascosto in Egitto sette anni: anche tu devi abitare nell'Egitto della penitenza per l'intero settenario della tua vita. Solo dopo aver finito "i sette anni" ti sentirai dire: "Ritorna nella terra d'Israele" ( Mt 2,20 ), cioè alla celeste Gerusalemme, nella quale vedrai Dio faccia a faccia ( cf. 1 Cor 13,12 ). II. La strage dei bambini 7. "Allora Erode, vedendosi beffato dai magi", ecc. ( Mt 2,16 ). Dice la Glossa che probabilmente Erode infierì contro i bambini un anno e quattro giorni dopo la nascita del Redentore, e che forse differì il suo intervento a motivo di un viaggio a Roma, o perché sotto accusa, oppure per consigliarsi con i Romani su ciò che si raccontava di Cristo; o anche che si trattenne così a lungo dal cercare il bambino per sorprenderlo più facilmente, senza che avesse nessuna possibilità di sfuggirgli. "Dall'età di due anni in giù" ( Mt 2,16 ), cioè dal bambino che era nato da una sola notte fino a quello di due anni: e li uccise tutti. Vedremo che cosa significhi tutto questo: i magi, l'inganno fatto a Erode, Betlemme e l'uccisione dei bambini, i due anni, Rama e Rachele. I Magi che adorano Cristo e gli offrono doni raffigurano i penitenti che, illuminati dalla stella della grazia, adorano in spirito e verità ( cf. Gv 4,23 ) , e offrono il triplice dono della penitenza. Da essi il diavolo viene beffato quando non ritornano più a lui, ma propongono di ritornare alla patria eterna per un'altra via, cioè per la via dell'umiltà. Dice Giobbe: "Beemot", il mostro, "spera che il Giordano scorra dentro la sua bocca"; "ma ecco che la sua speranza viene frustrata" ( Gb 40,18.28 ). Giordano s'interpreta "umile discesa", e simboleggia i penitenti che, dalla dignità del mondo scendono fino al disprezzo di sé. Il diavolo spera ancora di attirarli e di farli ritornare a sé; ma invano spera nel loro ritorno: l'avvertimento dell'angelo, cioè la grazia dello Spirito Santo li sostiene perché a lui più non ritornino. Oppure: Erode è figura del mondo, che essi beffano quando gli lasciano tutte le loro cose. Inganniamo un cane che ci rincorre, lascinadogli un nostro indumento. Così Giuseppe ( l'antico ) beffò la meretrice che lo tratteneva dicendogli: "Dormi con me. Ma lui, lasciato tra le sue mani il mantello, fuggì e uscì all'aperto" ( Gen 39,12 ). E quella, vedendosi respinta, disse ( al marito ): Ecco che hai introdotto in casa quell'uomo ebreo perché ci ingannasse" ( Gen 39,14 ). La meretrice è il mondo; se il mondo ti vuole trattenere nel peccato, lasciagli il mantello, cioè le cose temporali, e fuggi in libertà. 8. "S'infuriò terribilmente" – il diavolo, beffato, va su tutte le furie –, "e mandò ad uccidere tutti i bambini che erano a Betlemme e nei luoghi vicini" ( Mt 2,16 ). Il lupo divora di preferenza i piccoli, così il diavolo macchia di preferenza la purezza della continenza. Nessun'altra opera buona odia quanto la castità, e per questa ragione nel battesimo viene distrutto il suo potere, i peccati sono perdonati, viene infusa la grazia e viene aperta la porta della vita. Egli si sforza di distruggere tutto questo tentando con ogni mezzo di macchiare con la lussuria della carne, sia nell'uomo che nella donna, la stola dell'innocenza battesimale. Ma ciò che è più doloroso e deplorevole, uccide "i piccoli a Betlemme", nome che significa "casa del pane". Betlemme raffigura la religione, l'ordine religioso, nel quale viene nutrita l'anima. I suoi bambini vengono uccisi quando i religiosi si corrompono con l'incontinenza della carne. E non solo nell'Ordine, ma anche "in tutti i luoghi vicini": anche in coloro che sembrano in qualche modo seguire le loro orme e vivere secondo il loro insegnamento va perduto lo splendore della castità. E questo "dai due anni in giù": nel numero due è indicata la perdita della duplice castità: dell'anima e del corpo. In altro senso: Erode simboleggia l'ira; Betlemme l'anima; i bambini i sinceri sentimenti della ragione; i luoghi vicini raffigurano i sensi del corpo; i due anni gli atti della duplice carità. L'ira impedisce all'animo di discernere la verità, turba la stabilità della mente, fa perdere i sentimenti della ragione. Dice Giobbe: "L'ira uccide lo stolto e l'odio uccide il bambino" ( Gb 5,2 ). E questo non solo all'interno, ma anche all'esterno: l'occhio si oscura, la lingua minaccia, la mano si prepara a colpire e così si perde la carità. Perciò: "L'ira dell'uomo non opera la giustizia di Dio" ( Gc 1,20 ) e neppure quella del prossimo. Ed ecco che, a motivo di tutti questi mali, il grido del lamento e del pianto – cioè la contrizione del cuore e la confessione della bocca – si deve sentire in Rama ( cf. Mt 2,18 ), cioè nell'alto dei cieli, davanti a Dio: "Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata perché non sono più" ( Mt 2,18 ). La chiesa piange, e non vuole essere consolata quaggiù, perché i suoi figli non sono di questo mondo. Rachele, che s'interpreta "pecora" o anche "che vede Dio", è figura dell'anima penitente, la quale, quasi con la semplicità della pecora, vede Dio nella contemplazione. Essa piange i figli, cioè le sue opere, perché esse non sono più così vive, piene e perfette, com'erano prima che commettesse il peccato mortale, e quindi non vuole essere consolata. Dice Isaia: "Allontanatevi da me, che io pianga amaramente; non cercate di consolarmi per la desolazione della figlia del mio popolo" ( Is 22,4 ). "Rifiutai che la mia anima fosse consolata" ( Sal 77,3 ), perché spero di venir consolato "quando apparirà la tua gloria" ( Sal 17,15 ). Si degni di concederci questa gloria colui che è benedetto nei secoli. Amen. III. Sermone allegorico 9. "I tuoi figli, come virgulti di olivo, intorno alla tua mensa" ( Sal 128,3 ). Anche in Luca troviamo un riferimento a questo: "I miei bambini sono a letto con me" ( Lc 11,7 ). Dei figli è detto nel Deuteronomio: "Benedetto nei figli è Aser" ( Dt 33,24 ). Aser s'interpreta "delizia" ed è figura di Cristo che è la delizia di tutti i beati. Cristo è benedetto e lodato nei figli Innocenti, che per lui e al suo posto sono stati oggi uccisi da Erode. "Un bambino è cercato, vengono uccisi dei bambini, nei quali nasce l'immagine, la figura del martirio e nei quali viene consacrata a Dio l'infanzia della chiesa ( Glossa ). E la chiesa per bocca di Isaia dice: "Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di figli e sterile, espatriata e condotta schiava: questi chi li ha allevati? Io ero abbandonata e sola, e questi dov'erano?" ( Is 49,21 ). "I tuoi figli quindi sono come virgulti di olivo". Osserva che nel virgulto è indicata la delicatezza della prima infanzia, e nell'oliva, dalla quale si spreme l'olio, lo spargimento del sangue. O crudeltà di Erode! Lascia almeno che l'oliva maturi per poterne estrarre completamente l'olio. Tu spargi prima il latte che il sangue, perché la pianticella che sradichi sta appena germogliando, tenera la creatura cui tagli la gola. O strazio, o pietà! Il bimbo sorrideva alla spada dell'uccisore e giocava, il pargoletto! Gli agnellini, come afferrati per i piedi, vengono condotti al macello per essere uccisi per Cristo. Le olive nuove vengono portate al torchio per estrarne l'olio. Ecco la passione dei pargoli! 10. E quale il loro premio? Ecco: "Sono intorno alla tua mensa" ( Sal 128,3 ), dove cantano un canto nuovo ( cf. Ap 14,3 ). Leggiamo infatti nell'Apocalisse: "E nessuno poteva cantare quel cantico, se non quei centoquarantaquattromila che sono stati riscattati dalla terra. Essi sono coloro che non si sono contaminati con donne: sono infatti vergini e seguono l'Agnello ovunque vada. Essi sono stati riscattati tra tutti, come primizie per Dio e per l'Agnello. E nella loro bocca non fu trovata menzogna: sono senza macchia dinanzi al trono di Dio" ( Ap 14,3-5 ). Nota che in questa citazione sono poste in evidenza cinque grandi "glorie" dei santi Innocenti. Primo, la grazia della verginità, quando dice: "Sono infatti vergini". Secondo, la gloria dell'eternità, con le parole: "Seguono l'Agnello". Terzo, la precoce offerta del loro sangue, dove è detto: "come primizie per Dio" Padre, "e per l'Agnello", cioè il Figlio. Quarto, l'innocenza dell'infanzia, con le parole: "Nella loro bocca non fu trovata menzogna". Quinto, la contemplazione della maestà divina: "Sono dinanzi al trono di Dio". Osserva che abbiamo usato tre parole: trono, mensa, letto. Tutte e tre indicano una stessa cosa: la vita eterna. Stanno dinanzi al trono cantando le lodi di Dio e contemplando il suo volto. Dice infatti Isaia: "Voce delle tue sentinelle: alzeranno la voce e insieme canteranno lodi, perché vedranno con i loro occhi" ( Is 52,8 ). Sederanno alla tua mensa mangiando e bevendo; infatti dice Luca: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno" ( Lc 22,29-30 ). È detto anche che questa mensa è rotonda ( "attorno alla tua mensa" ), perché l'eterna sazietà sarà senza principio e senza fine. Parimenti, riposando dormono nel letto; infatti dice Isaia: "Va', popolo mio, entra nelle tue stanze, chiudi le porte dietro a te" ( Is 26,20 ); e ancora: "Mese seguirà mese, e sabato seguirà sabato" ( Is 66,23 ); vale a dire che alla perfezione della vita seguirà la perfezione della gloria, e al riposo del corpo il riposo dell'eternità. Per le preghiere dei santi Innocenti si degni di concedere tutto questo anche a noi colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone morale 11. "I tuoi figli", o buon Gesù, sono questi cristiani che hai generato con le sofferenze della tua passione. Dice Isaia: "Forse non partorirò, io che faccio partorire gli altri? – dice il Signore. Io che do agli altri la facoltà di generare, sarò sterile? – dice il Signore Dio" ( Is 66,9 ). Chi ci ha partorito nel dolore della passione? "La donna", cioè la Sapienza del Padre, "quando partorisce è nella tristezza" ( Gv 16,21 ). E Gesù dice: "La mia anima è triste fino alla morte" ( Mt 26,38 ). Egli stesso con la grazia fa partorire agli altri lo spirito della salvezza. Nota che figlio deriva dal verbo greco filèo, che significa amare. Dice Osea: "Li amerò di vero cuore" ( Os 14,5 ). L'amore è chiamato in lat. dilectio, quasi duos ligans, che lega cioè due persone tra loro. L'amore lo ha talmente legato a noi, da attirarlo verso la nostra miseria, quasi che non potesse più vivere in cielo senza di noi. Fu come un'aquila che vola in cerca di cibo, di cui dice Giobbe: "Dov'è un cadavere, là essa si trova" ( Gb 39,30 ). Cadavere deriva da cadere, oppure dal verbo latino careo, sono privo: infatti cade dalla vita, o è privo della vita. Il cadavere è figura della natura umana che, quando "cadde" dalla grazia divina, fu privata della vita. O amore incomparabile! O pietà smisurata! Dal più alto cielo dei serafini volare a un cadavere putrido, prendere un corpo umano, portare il patibolo della croce, versare il proprio sangue, per risuscitare il figlio morto. Per questo si paragona al pellicano, dicendo: "Mi sono fatto simile al pellicano del deserto" ( Sal 102,7 ). 12. Osserva che il pellicano è un piccolo ( sic ) uccello, al quale piace stare in solitudine. Si racconta che uccida a forza di colpi i suoi piccoli, che li pianga, ma che dopo tre giorni si ferisca, e che essi, bagnati del suo sangue, ritornino in vita ( Glossa ). Cristo, fattosi piccolo per umiltà, amante della solitudine per la preghiera – dicono gli evangelisti che passava le notti in preghiera ( cf. Lc 6,12 ) e che dimorava in luoghi deserti ( cf. Lc 1,80 ) –, uccise per così dire a forza di colpi i suoi figli Adamo ed Eva e la loro discendenza, quando disse: "Sia maledetta la terra per ciò che hai fatto" ( Gen 3,17 ), e "Sei polvere, e in polvere ritornerai" ( Gen 3,19 ). Ma poi li pianse, come dice il salmo: "Quasi triste e in pianto, così mi umiliavo" ( Sal 35,14 ). Nel secondo libro dei Re si racconta che Davide, affranto dal dolore, salì in pianto alla sue stanze sospirando: "Figlio mio Assalonne, Assalonne figlio mio! Chi mi concederà di morire per te?" ( 2 Sam 18,23 ). Così Cristo, rattristato per la morte del genere umano, salì sul patibolo della croce e ivi pianse, poiché dice l'Apostolo: Offrì se stesso con forti grida e lacrime ( cf. Eb 5,7 ); e poté dire: Figlio mio, Adamo! Adamo, figlio mio! Chi mi concederà di morire per te? Chi farà che la mia morte ti sia di giovamento? E dopo tre giorni, cioè dopo i tre tempi, della natura, della legge e della grazia ( cioè da Adamo a Mosè, da Mosè a Gesù e da Gesù in poi ), ferì se stesso, cioè permise che altri lo ferissero, e con il suo sangue asperse i suoi figli morti e li fece ritornare in vita. E tutto questo provenne dall'immenso amore con il quale ci amò. Dice infatti Giovanni: "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" ( Gv 13,1 ), cioè fino alla morte. "Tuoi figli", dunque. Veramente tuoi, perché redenti con il tuo sangue; e voglia il cielo che siano "tuoi", e non "suoi", cioè schiavi della loro carne, perché "i suoi non l'hanno ricevuto" ( Gv 1,11 ). E per essere tuoi è necessario che siano "come virgulti di olivo". 13. Osserva che l'ulivo ha la radice amara, il legno durissimo e quasi indistruttibile, la foglia verde, il frutto gradevole. Anche il cristiano dev'essere amaro per la contrizione, fermo nel proposito, fedele alla parola, gradito nelle opere di misericordia. L'olio infatti simboleggia l'opera di misericordia. E considera attentamente che è detto in lat. novellae, germogli, e questo per indicare che i figli di Cristo devono camminare nella novità dello spirito ( cf. Rm 6,4 ): di giorno in giorno devono rinnovare, per mezzo della confessione, il loro spirito ( cf. 2 Cor 4,16 ), che altrimenti si corrompe dietro le passioni ingannatrici ( cf. Ef 4,22 ). "Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente" ( Ef 4,23 ). E Geremia: "Questo dice il Signore agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme" – cioè ai laici e ai chierici –: "Rimettete a coltura il campo arato per la prima volta e non seminate tra le spine" ( Ger 4,3 ). Il campo arato per la prima volta è figura del cuore dell'uomo, che dev'essere solcato dall'aratro della contrizione, ripulito dalle erbe nocive con il sarchio della confessione: questo vuol dire rimettere a coltura un campo arato di fresco. Invece semina tra le spine colui che compie qualche opera buona mentre si trova in peccato mortale. Quindi "i tuoi figli siano come virgulti ( nuovi germogli ) di olivo". 14. E dov'è la loro abitazione? Dove deve svolgersi la loro vita? Sicuramente "intorno alla tua mensa". Osserva che ci sono tre tipi di mensa, e in ognuna c'è una propria refezione. La prima è la mensa della dottrina: "Davanti a me tu prepari una mensa, di fronte a quelli che mi perseguitano ( Sal 23,5 ), cioè contro gli eretici. La seconda è la mensa della penitenza: "Tranquillità alla tua mensa, piena di grasse vivande" ( Gb 36,16 ). Felice quella penitenza che produce la quiete della coscienza e abbondanza di bene, cioè opere di carità verso i fratelli. La terza è la mensa dell'Eucaristia, di cui dice l'Apostolo: Non potete partecipare alla mensa di Cristo e alla mensa dei demoni ( cf. 1 Cor 10,21 ). Nella prima mensa la refezione è la Parola di vita, nella seconda i gemiti e le lacrime, nella terza la carne e il sangue di Cristo. E anche qui fa' attenzione che non è detto "alla mensa", ma "intorno alla mensa". Intorno a queste mense deve stare ogni cristiano, a somiglianza di coloro che girano avidamente intorno a ciò che desiderano vedere e trovare, ma dove non riescono ad entrare. Così costoro devono girare intorno alla mensa della dottrina, per imparare a distinguere il bene dal male, e tra bene e bene; devono girare intorno alla mensa della penitenza per suscitare in sé il dispiacere dei peccati commessi e anche dei peccati di omissione, per confessare le loro colpe, precisando le circostanze, per riparare il danno arrecato, per restituire ciò che hanno illecitamente tolto, per elargire le cose proprie a chi è nel bisogno; devono girare intorno alla mensa eucaristica per credere con fermezza, per accostarsi ad essa con devozione, e ricevere il corpo di Cristo dopo profonda riflessione, reputandosi indegni di tanta grazia. Preghiamo dunque il Figlio di Dio che ci conceda di ristorarci a questa triplice mensa per essere degni di saziarci alla mensa celeste insieme ai beati Innocenti. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Domenica I dopo Natale Temi del sermone – Vangelo della prima domenica dopo Natale: "Giuseppe e Maria si stupivano"; si divide in tre parti. – Anzitutto sermone sulla grazia e la gloria di Gesù Cristo: "Impara dove sia la sapienza". – Parte I: Sermone sulla povertà: "Dio mi fece crescere". – La miseria dei ricchi: "Il Signore ti colpirà con l'indigenza". – L'umiltà, la condanna dei superbi e l'esaltazione degli umili: "Il Signore guardò dalla colonna di nubi". – La salutare tristezza dei penitenti: "Uno spirito triste inaridisce le ossa". – L'obbedienza: "Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta". – Ai penitenti e ai religiosi: "Issacar, asino robusto". – Parte II: Sermone sulla superbia e sull'umiltà del cuore: "Depose i potenti dai troni". – La rovina salutare per i peccatori convertiti: "Sarà la rovina del cavallo". – La risurrezione dell'anima dai peccati: "Venne su di me la mano del Signore"; le facoltà dei nervi. – Contro gli amanti dei beni terreni: "Ho aperto le mie mani". – Il duplice parto della beata Vergine Maria: "Prima di partorire"; la passione del suo figlio: "Ricòrdati della mia miseria". – Le quattro stagioni dell'anno e il loro significato: "Quando venne la pienezza del tempo". – Parte III: L'annunciazione, ossia la nascita del Signore: "Mentre tutte le cose erano avvolte nella quiete del silenzio". – Sermone morale sulla penitenza: "Mentre tutte le cose erano avvolte nella quiete del silenzio". Esordio - La grazia e la gloria di Gesù Cristo 1. In quel tempo: "Giuseppe e Maria, madre di Gesù, erano stupiti delle cose che si dicevano di lui" ( Lc 2,33 ). Dice Baruch: "Impara dov'è la sapienza, dov'è la prudenza, dov'è la fortezza, dov'è l'intelligenza, per comprendere allo stesso tempo dov'è la longevità e il nutrimento, dov'è la luce degli occhi e la pace" ( Bar 3,14 ). E nel salmo è detto: "Il Signore darà la grazia e la gloria" ( Sal 84,12 ): la grazia nella vita presente e la gloria in quella futura. Le prime quattro virtù di cui parla Baruch si riferiscono alla grazia, le seconde quattro alla gloria. La sapienza, così chiamata da sapore, consiste nel gusto della contemplazione, la prudenza nel prevedere e cautelarsi dalle insidie, la fortezza nel sopportare le avversità, l'intelligenza nel rifuggire dal male e scegliere il bene. Parimenti, la longevità sarà data ai santi nell'eterna beatitudine: "Io vivo e anche voi vivrete" ( Gv 14,19 ); il nutrimento consisterà nella fruizione del gaudio: "Preparo per voi un regno, affinché mangiate e beviate alla mia mensa" ( Lc 22,29-30 ); la luce degli occhi consisterà nella visione dell'umanità glorificata di Cristo: "Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato" ( Gv 17,24 ); la pace consiste nella glorificazione dell'anima e del corpo: "Tu gli assicurerai la pace, pace perché in te ha sperato" ( Is 26,3 ). Della longevità e della luce degli occhi è detto nel salmo: "È in te la sorgente della vita, e alla tua luce vedremo la luce" ( Sal 36,10 ); della pace e del nutrimento: "Egli ha messo pace nei tuoi confini e ti sazia con fior di frumento" ( Sal 147,14 ). Il fior di frumento è la fruizione del gaudio derivante dall'umanità di Cristo, della quale si sazieranno tutti i santi. Altro commento. Impara, o uomo, ad amare Gesù, e allora imparerai dov'è la sapienza, ecc. Egli stesso è la sapienza: "La Sapienza si è edificata una casa" ( Pr 9,1 ). Egli stesso è la prudenza; infatti dice Giobbe: "La sua prudenza", la prudenza del Padre, "colpì il superbo" ( Gb 26,12 ), cioè il diavolo. Egli stesso è la fortezza: Egli è la fortezza di Dio e la Sapienza di Dio ( cf. 1 Cor 1,24 ). In lui c'è l'intelligenza ( la conoscenza ) di tutte le cose: ai suoi occhi tutto è chiaro e aperto ( cf. Eb 4,13 ). Egli è la vita: "Io sono la via, la verità, la vita" ( Gv 14,6 ). Egli è il nutrimento, perché è il pane degli angeli e il nutrimento dei giusti. Egli è la luce degli occhi: "Io sono la luce del mondo" ( Gv 8,12 ). "Egli è la nostra pace: è colui che di due popoli ha fatto un popolo solo" ( Ef 2,14 ). Questa sapienza, o uomo, devi imparare per sapere; questa prudenza devi avere per cautelarti, questa fortezza per valere, questa intelligenza per conoscere, questa vita per vivere, questo nutrimento per non venir meno, questa luce per vedere, questa pace per riposare. O Gesù beato, e dove ti cercherò? Dove ti troverò? Dove, dopo aver trovato te, troverò sì grandi beni? E dove, dopo aver posseduto te, verrò in possesso di sì grandi beni? Cerca e troverai! Dimmi, ti supplico, dove dimora? Dove riposa al meriggio? ( cf. Ct 1,6 ). Vuoi sentire dove? Dimmelo, ti scongiuro! Tra Giuseppe e Maria, tra Simeone e Anna troverai Gesù. Infatti leggiamo nel vangelo di oggi: "Giuseppe e Maria erano stupiti delle cose che si dicevano di lui". 2. E in questo vangelo sono poste in evidenza queste quattro persone, e quindi vedremo quale sia il loro simbolismo morale. Giuseppe significa "crescente", Maria "Stella del mare", Simeone "che sente la tristezza", Anna "che risponde". In Giuseppe è indicata la povertà, in Maria l'umiltà, in Simeone la penitenza, e in Anna l'obbedienza. Tratteremo di ogni persona singolarmente. I. La povertà, l'umiltà, la penitenza e l'obbedienza 3. La povertà. Giuseppe significa "crescente" ( cf. Gen 49,22 ). Quando l'uomo misero abbonda di piaceri e si espande nelle ricchezze, allora diminuisce perché perde la libertà. Infatti la cupidigia delle ricchezze lo rende schiavo, e mentre diventa loro servo, egli diminuisce da se stesso e in se stesso. Sventurata quell'anima che è più piccola di ciò che possiede: è più piccola perché invece di mettersi al di sopra delle cose, si mette al di sotto di esse. E questa servile sottomissione si esperimenta più chiaramente quando ciò che si è posseduto con tanto amore, si perde con tanta sofferenza. La sofferenza stessa è una grande schiavitù. In breve, non esiste vera e autentica libertà se non nella povertà volontaria. E questo è il Giuseppe "crescente" del quale parla la Genesi: "Il Signore mi fece crescere ( prosperare ) nella terra della mia povertà" ( Gen 41,52 ). "Nella terra della povertà", e non dell'abbondanza, "mi fece crescere il Signore": mi fece diminuire nell'abbondanza e crescere nella povertà. Leggiamo nel secondo libro dei Re che "Davide prosperava e si faceva sempre più forte, mentre la casa di Saul andava indebolendosi" ( 2 Sam 3,1 ). Davide che dice: "Io sono povero e mendìco" ( Sal 40,18 ), "come luce che incomincia a risplendere, progredisce e cresce fino al giorno perfetto" ( Pr 4,18 ), e supera se stesso in fortezza, perché la povertà scelta volontariamente e in letizia infonde vigore. Dice infatti Isaia: "Lo spirito dei forti", cioè dei poveri, "è come il turbine che fa traballare la muraglia" ( Is 25,4 ) delle ricchezze. Invece i piaceri e le ricchezze svigoriscono e consumano; per cui dice Geremia: "Fino a quando ti consumerai nei piaceri, o figlia vagabonda?" ( Ger 31,22 ). Invece la casa di Saul, nome che s'interpreta "colui che abusa", cioè la casa dei ricchi di questo mondo che abusano dei beni e dei doni del Signore nei piaceri del corpo, la casa di Saul diminuisce ogni giorno. Dice Mosè: "Il Signore ti colpirà con l'indigenza, con la febbre, con il freddo, con il caldo e con la siccità, con l'aria inquinata e con la ruggine, e ti perseguiterà finché andrai in rovina" ( Dt 28,22 ). Il Signore colpisce il ricco di questo mondo, cioè permette che sia colpito, con l'indigenza, perché sempre gli manca qualcosa; con la febbre, perché è tormentato e soffre della felicità altrui; con il freddo, cioè con la paura di perdere quello che ha accumulato; con il caldo, perché arde dalla brama di avere ciò che non ha; con l'arsura della gola, con l'aria inquinata della cattiva reputazione, con la ruggine della lussuria. Ecco come diminuisce la casa di Saul. Invece la casa di Davide, del mendìco e del povero, cresce di virtù in virtù nella terra della sua povertà. 4. L'umiltà. "Maria, stella del mare". O umiltà! O stella, la più luminosa, che illumina la notte, che guida al porto, che splende come fiamma e presenta Dio, Re dei Re, il quale dice: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ). Chi manca di questa stella "è cieco e va a tentoni" ( 2 Pt 1,9 ), la sua nave si sfascia nella tempesta ed egli stesso affonda tra i flutti. Leggiamo nell'Esodo che "il Signore dalla colonna di nubi e di fuoco gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani, distrusse il loro esercito, frenò le ruote dei loro carri di guerra, che così affondarono nel fango. Invece i figli di Israele camminarono attraverso il mare prosciugato, e le acque erano per loro come una muraglia a destra e a sinistra" ( Es 14,24-25.29 ). Gli Egiziani, oscurati dalla nube tenebrosa, sono figura dei ricchi e dei potenti di questo mondo, ottenebrati dalla caligine della superbia: il Signore li distruggerà. Egli frenerà le ruote dei loro carri, cioè la loro potenza e la loro gloria, paragonate alle ruote perché girano per tutte le quattro stagioni dell'anno, e li precipiterà nel profondo dell'inferno. Invece i figli d'Israele, illuminati dallo splendore del fuoco, raffigurano i penitenti e i poveri nello spirito, illuminati dallo splendore dell'umiltà; essi camminano sull'asciutto, attraversano il mare di questo mondo, le cui acque, cioè le ondate di amarezza, sono per loro come una muraglia che li difende e li protegge a destra dalla prosperità, e a sinistra dalle avversità; come a dire: perché il plauso della gente non li esalti e la tentazione della carne non li deprima. Leggiamo in proposito nel Deuteronomio: "Assorbiranno le inondazioni del mare come il latte" ( Dt 33,19 ). Rifletti che nessuno può succhiare qualcosa se non stringe le labbra. Coloro che hanno la bocca spalancata nella brama delle ricchezze, nei traffici della vanagloria, nel plauso della gente, non possono succhiare, non possono assorbire le inondazioni del mare. Difficilmente si possono tener lontani i lupi dalle carogne, le formiche dal grano, le mosche dal miele, i becchini dal vino, le meretrici dal postribolo e i mercanti dalla piazza. Dice Salomone: "È un proverbio: l'adolescente prende una via, e neppure quando sarà vecchio se ne allontanerà" ( Pr 22,6 ). Solo gli umili, che stringono le labbra rifiutando l'amore delle cose temporali, assorbono come latte le inondazioni del mare. O Stella del mare! O umiltà del cuore, che converti l'orribile mare amaro in latte dolce e gustoso! Quanto dolce è l'amarezza all'umile, quanto leggera la sofferenza, sopportata per il nome di Gesù. Furono dolci a Stefano le pietre, la graticola a Lorenzo, i carboni accesi a Vincenzo: per Gesù hanno succhiato come il latte le inondazioni del mare. Il verbo succhiare dà anche il senso dell'avidità e del piacere. Solo l'umiltà sa succhiare la sofferenza e il dolore con avidità e piacere dello spirito. Sta scritto nel Cantico dei Cantici: "Chi mi darà un fratello, che succhi alle mammelle di mia madre?" ( Ct 8,1 ). Ci sono qui proposte tre persone: la madre, la sorella e il fratello. La madre è la penitenza, che ha due mammelle, il dolore nella contrizione e la sofferenza nella soddisfazione ( l'opera penitenziale di riparazione ); la sorella è la povertà, il fratello lo spirito di umiltà. Dice dunque la sorella povertà: Chi mi darà come fratello lo spirito dell'umiltà, perché succhi avidamente alle mammelle della madre nostra? Ecco il fratello e la sorella; Giuseppe e Maria, sposo e sposa, povertà e umiltà. "È sposo colui che ha una sposa" ( Gv 3,29 ). Beato quel povero che ha per sposa l'umiltà. 5. La tristezza della penitenza. Simeone, "colui che sente la tristezza". Dice l'Apostolo: La tristezza che è secondo Dio produce la salvezza ( cf. 2 Cor 7,10 ). E nei Proverbi: "Lo spirito triste dissecca le ossa" ( Pr 17,22 ) dalla grassezza della lascivia e dell'impudenza. E Giobbe: "Lo rimprovera aspramente anche nel letto con il dolore e fa marcire tutte le sue ossa. In questo suo stato, sente nella sua vita orrore del pane e del cibo, che prima la sua anima tanto bramava" ( Gb 33,19-20 ). Il letto simboleggia il piacere della carne, in cui l'anima giace come paralizzata, distrutta in tutte le sue facoltà. Infatti dice Matteo: "Gli portarono un paralitico disteso nel letto" ( Mt 9,2 ). Il Signore rimprovera per mezzo della sofferenza nel letto, quando all'anima, che poltrisce nei piaceri della carne, infonde il dolore dei peccati, e allora essa avverte quella tristezza che fa marcire tutte le sue ossa. E questo è anche ciò che dice Daniele quando ebbe la visione: "Non restò in me alcun vigore, si alterò il mio aspetto: venni meno e restai completamente privo di forze" ( Dn 10,8 ). Quando questo si avvera in un peccatore, il pane, cioè il piacere della carne, gli diventa abominevole, e così ogni altro cibo che prima la sua anima, cioè la sua animalità, tanto bramava. E Daniele dice appunto: "Non mangiai più il pane tanto saporito; carne e vino non entrarono nella mia bocca, e neppure mi unsi con unguento" ( Dn 10,3 ). Dice Salomone: "Il cuore che conosce l'amarezza della sua anima, non permette che un estraneo partecipi alla sua gioia" ( Pr 14,10 ). Dov'è la mirra della tristezza non può entrare il verme della lussuria. Dice Isaia: "Allontanatevi da me e lasciatemi piangere amaramente; non sforzatevi di consolarmi per la desolazione della figlia del mio popolo" ( Is 22,4 ). Questo deve dire anche il penitente agli spiriti immondi: Allontanatevi da me e lasciatemi piangere amaramente. Come il fumo scaccia le api, così la compunzione, amara e bagnata di lacrime, scaccia i demoni che assediano l'anima come le api ronzano attorno al favo. E non cercate, o stimoli della carne, di consolarmi, perché, come dice Giobbe, "voi siete tutti consolatori odiosi" ( Gb 16,2 ). "La mia anima rifiuta di essere consolata" ( Sal 77,3 ) con la vostra consolazione. "Le tue consolazioni, Signore", non le mie, "hanno allietato la mia anima" ( Sal 94,19 ), perché "guai a voi che avete la vostra consolazione!" ( Lc 6,24 ). Quindi non sforzatevi di consolarmi per la desolazione, cioè per la sofferenza, della figlia, ossia della carne, che è figlia "del mio popolo", vale a dire di tutti i miei cinque sensi. Dice infatti il salmo: "Egli mi ha assoggettato il mio popolo" ( Sal 144,2 ). 6. L'obbedienza. Anna: "colei che risponde" con Samuele: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta" ( 1 Sam 3,10 ), e con Isaia: "Eccomi, manda me" ( Is 6,8 ); e con Saulo: "Signore, che cosa vuoi che io faccia?" ( At 9,6 ). Sta scritto: "Una risposta gentile vince l'ira" ( Pr 15,1 ), e "nell'uomo retto abbonderà il parlare garbato" ( Sir 6,5 ). La risposta gentile del suddito umile vince l'ira del prelato superbo. "La pazienza" del suddito "calma il principe" ( Pr 25,15 ). "Non opporti all'impeto del fiume" ( Sir 4,32 ), cioè alla volontà del prelato, "ma abbassa davanti a lui la tua testa" ( Sir 4,7 ). E il parlare garbato, cioè deferente, abbonderà nel suddito retto, per poter dire con Giobbe: Chiamami e ti risponderò ( cf. Gb 14,15 ). Risponde a chi lo chiama, colui che obbedisce di buon animo a chi gli dà un ordine. Ecco, abbiamo così trattato brevemente di queste quattro virtù, perché chi desidera trovare Gesù abbia con sé queste quattro persone, poiché in mezzo a loro sta la salvezza. Giuseppe e Maria portano al tempio Gesù. Simeone e Anna lo riconoscono e lo benedicono. Infatti la povertà e l'umiltà portano Gesù povero e umile. È la povertà che lo porta sulle spalle. 7. Leggiamo nella Genesi: "Issacar, asino robusto, sdraiato sui confini, ha visto che il luogo di riposo era bello e che la terra era splendida, ha piegato la spalla a portare il peso" ( Gen 49,14-15 ). Issacar s'interpreta "ricompensa", e simboleggia la povertà, la quale rifiuta tutte le cose terrene per poter riceve la ricompensa eterna. Issacar è detto "asino robusto". L'asino è un animale da trasporto ( oneriferum, che porta la soma, somaro ), che si nutre di cibi grossolani e di poco prezzo. Così anche la povertà porta il peso del giorno e del caldo ( cf. Mt 20,12 ) e si accontenta di cose grossolane e rozze. Dice il beato Bernardo: Il pane di crusca e l'acqua pura, le semplici verdure e i legumi non sono cibi molto piacevoli; ma nell'amore di Cristo e nel desiderio della dolcezza interiore, è invece molto piacevole poter soddisfare con questi cibi un ventre sobrio e morigerato. Quante migliaia di poveri soddisfano volentieri le necessità della natura con questi cibi, e anche solo con alcuni di essi! Quindi sarebbe facilissimo e anche gradevole vivere allo stato naturale, aggiungendovi il condimento dell'amore di Dio, se la nostra stoltezza non ce lo impedisse. "Sdraiato sui confini", non "tra i confini" ( Gen 49,14 ). I confini sono due: l'entrata e l'uscita dalla nostra vita. Su di essi sta e riposa la povertà. Essa considera il miserevole ingresso dell'uomo alla vita e volge l'attenzione alla sua lacrimevole dipartita, e quindi non vuole sdraiarsi "tra i due confini" per ascoltare – come è detto nel libro dei Giudici – il belare dei greggi ( cf. Gdc 5,16 ), cioè le seduzioni e le suggestioni dei demoni. Dimora, o sta sdraiato tra i due confini chi non medita sull'inizio e sulla fine della sua vita, ma riposa nei piaceri della carne e nella vanità del mondo. "Vide che il luogo del riposo", della beatitudine celeste, "era bello, e che la terra" della dimora eterna "era splendida: piegò la sua spalla per portare" Gesù povero, il Figlio di Dio. Porta Gesù colui che per suo amore sopporta con pazienza tutte le avversità che incontra. Dice infatti l'Ecclesiastico: "Accetta tutto quello che ti è mandato e sopportalo nella sofferenza" ( Sir 2,4 ). La povertà porta sulle spalle, l'umiltà porta al petto, sulle braccia. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: "Il mio diletto è per me un sacchettino di mirra: riposa tra le mie mammelle" ( Ct 1,12 ). Nel diminutivo sacchettino è indicata l'umiltà, e nella mirra l'amarezza della passione del Signore. Il cuore è situato tra le mammelle, ed è come se l'umile sposa dicesse: Porto nel cuore il mio diletto Gesù, sacchettino di mirra, cioè umile e crocifisso, per essere umile di cuore e con il corpo inchiodato con lui sulla croce. Quindi la povertà e l'umiltà portano Gesù al tempio, lo portano cioè finché giungeranno al tempio non fatto da mani d'uomo, al tempio della celeste Gerusalemme. Parimenti, la penitenza e l'obbedienza riconoscono e benedicono. Dice il salmo: "Confessione e bellezza al suo cospetto" ( Sal 96,6 ), riguardo al penitente, la cui confessione è la sua bellezza. Infatti la confessione monda la lebbra del peccato e orna della grazia dello Spirito Santo. "Hai indossato confessione e splendore" ( Sal 104,2 ), cioè ne hai rivestito i penitenti, i quali con la confessione si purificano e con la grazia risplendono. Nei riguardi dell'obbediente: "Perfezione e magnificenza nella sua santificazione" ( Sal 96,6 ); il Signore santifica l'obbediente con la purezza della coscienza e la mortificazione della sua volontà; con la perfezione della vita nell'esecuzione dei comandi degli altri. Ecco dove abita il Re delle "virtù" ( cf. Sal 68,13 ), [ il Re potente ]. Acquista queste "virtù" e troverai la Sapienza di Dio e la Fortezza di Dio, Cristo Gesù. Fratelli carissimi, imploriamolo umilmente perché voglia edificare su queste quattro colonne la casa della nostra dimora, nella quale abiti lui con noi e noi con lui. Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto nei secoli. Amen. II. La profezia di Simeone 8. "Disse Simeone a Maria, madre del bambino: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele" ( Lc 2,34 ). La beata Maria dice nel suo cantico: "Ha deposto i potenti dai troni e ha innalzato gli umili" ( Lc 1,52 ). "Ha deposto", cioè ha posto in basso. Ed è ciò che dice anche il profeta Abdia: "L'orgoglio del tuo cuore ti ha esaltato, tu che abiti nei crepacci delle rocce, che innalzi il tuo trono. Tu dici nel tuo cuore: Chi mi getterà in terra? Anche se ti innalzassi come un'aquila e collocassi il tuo nido tra le stelle, di lassù ti farei precipitare", cioè ti tirerei giù, "dice il Signore ( Abd 1,3-4 ). Vedi su questo argomento il sermone della domenica di Sessagesima: "Un seminatore uscì a seminare la sua semente", e il sermone della domenica di Quinquagesima, prima parte: "Un cieco sedeva lungo la via". "Depose, dunque, i potenti". È ciò che dice anche Daniele: "Ecco un vigilante, un santo, scese dal cielo, gridò a gran voce e disse: Tagliate l'albero, stroncate i suoi rami, scuotete le sue foglie e disperdete i suoi frutti" ( Dn 4,10-11 ). L'albero, detto in lat. arbor, da robur, forza e rovere, è figura del potente di questo mondo, il quale, come dice Giobbe: "alza contro Dio le sue mani e si fa forte contro l'Onnipotente" ( Gb 15,25 ). Costui viene tagliato con la scure della morte e precipitato nell'inferno; e allora i suoi rami, cioè la potenza della parentela, la nobiltà della stirpe, che era solito incrementare e allargare, saranno stroncati; allora le sue foglie, cioè i suoi discorsi pieni del vento della superbia, saranno scosse via; allora i suoi frutti di ricchezza e di piaceri, che aveva accumulato per la sua rovina, saranno dispersi. "Depose, dunque, i potenti dai troni, e innalzò gli umili". E questo dice Giobbe: "Riporta i sofferenti al benessere, alla salute" ( Gb 5,11 ); e ancora: "Quando ti crederai distrutto, risorgerai come la stella del mattino. Porrai la tua fiducia nella speranza promessa" ( Gb 11,17-18 ). Depose Aman il superbo ed esaltò l'umile Mardocheo. Il primo precipitò dal suo alto seggio, questi fu innalzato al posto di quello. Giustamente quindi dice la beata Vergine Maria: "Ha deposto i potenti dai troni e ha innalzato gli umili". Perciò il santo Simeone dice a lei, parlando del Figlio suo: "Egli è qui per la rovina", ecc. È ciò che dice anche per bocca di Giovanni: "Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi" ( Gv 9,39 ). Della rovina di costoro, dice Isaia: "Gerusalemme va in rovina e Giuda crolla, perché la loro lingua grida: Crocifiggilo, crocifiggilo! E le loro false accuse" – cioè: Posso distruggere questo tempio, ecc. – "sono scagliate contro il Signore, fino ad offendere gli occhi della sua maestà divina" ( Is 3,8 ). 9. Senso morale. Leggiamo nei libro dei Proverbi: Rovescia l'empio, e più non sarà ( cf. Pr 12,7 ), cioè non sarà più empio. Cadde Paolo persecutore e si rialzò Paolo predicatore. Quindi l'espressione "Egli è qui per la rovina", s'intende "dei peccatori". Dice infatti Zaccaria: "Sarà la rovina del cavallo e del mulo, del cammello e dell'asino e di tutti i giumenti" ( Zc 14,15 ). Nel cavallo è indicata la superbia: "Tutti continuano nella loro corsa, come il cavallo che corre impetuosamente all'attacco" ( Ger 8,6 ). Nel mulo è indicata la lussuria: "Non diventate come il cavallo e il mulo ( Sal 32,9 ). Nel cammello è indicata l'avarizia: un cammello non può passare per la cruna di un ago ( cf. Mt 19,24 ), cioè un avaro non può vivere nella povertà di Gesù Cristo. Nell'asino è indicato il torpore dell'accidia e dell'ozio, che sono la sentina di tutti i vizi. Infatti si dice "asino" come a dire alta sinens, che rifiuta le cose alte. Il torpore dell'accidia non permette certo che si salga in alto: al contrario, vuole sempre camminare in piano. Abramo disse ai suoi servi: "Aspettate qui con l'asino" ( Gen 22,5 ). I servi raffigurano le tendeze fatue e viziose che "aspettano con l'asino", cioè con l'inerzia e la lentezza proprie dell'asino. Nei giumenti è indicato il godimento voluttuoso dei cinque sensi, di cui Isaia dice: "Peso dei giumenti del meridione: in una terra di angoscia e di tribolazioni, adatta alla leonessa e al leone, alla vipera e ai draghi volanti" ( Is 30,6 ). La terra è la carne, che ci procura le spine della tribolazione e i pruni dell'angoscia. E questo è il peso dei giumenti, cioè dei cinque sensi che sono i giumenti del meridione, vale a dire del piacere mondano. In questa terra di tribolazione e di angoscia, che i giumenti pestano e lordano, ci sono la leonessa della lussuria e il leone della superbia, la vipera dell'ira e il drago volante dell'invidia e della vanagloria. O Signore Gesù, vadano in rovina questi animali e questi giumenti, affinché il peccatore bestiale ( iumentinus ) rovini insieme ad essi e, andando in rovina, faccia risorgere l'uomo spirituale. Diciamo dunque: "Egli è qui per la rovina". 10. "E per la risurrezione di molti". Concordano con questo le parole di Ezechiele: "La mano del Signore fu sopra di me e mi portò in una pianura piena di ossa di morti: erano in grandissima quantità e tutte disseccate. Il Signore mi disse: "Figlio dell'uomo, profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, ascoltate la parola del Signore. Ecco, io faccio entrare in voi lo Spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne e su di voi stenderò la pelle" ( Ez 37,1-2.4-6 ). Le ossa inaridite sono figura dei peccatori che sono aridi, privi della linfa della grazia: il loro cuore venne meno perché dimenticarono di mangiare il pane ( cf. Sal 102,5 ) che ha in sé ogni sapore e ogni gusto ( cf. Sap 16,20 ). Di questi peccatori dice Giobbe: Le ossa di Beemot sono come tubi di bronzo ( cf. Gb 40,13 ). Depravati in ogni genere di male, induriti come le ossa del diavolo, le quali sorreggono i lussuriosi come le ossa del corpo sorreggono la carne; sono come tubi di bronzo, poiché come il bronzo respingono da sé le frecce della predicazione e al colpo del rimprovero emettono il suono, lo stridore della mormorazione. A parole professano ancora Cristo, ecco il tubo; mentre con i fatti lo negano ( cf. Tt 1,16 ), ecco la durezza del bronzo. Ma poiché la misericordia di Cristo è più grande dell'aridità delle ossa e della loro durezza, soggiunge: "Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito, e rivivrete", ecc. Fa' attenzione a queste quattro entità: lo spirito, i nervi, la carne e la pelle. Nello spirito è indicata l'infusione della grazia preveniente; nei nervi l'intreccio, la rete dei buoni pensieri; nella carne la pietà verso il prossimo; nella pelle il conseguimento della perseveranza finale. "Farò entrare in voi lo spirito e rivivrete". Dice anche la Genesi: "Alitò sul suo volto il soffio della vita" ( Gen 2,7 ). Vedi su questo argomento il secondo sermone della I domenica di Quaresima: "Il Signore fu condotto dallo Spirito nel deserto". 11. "Metterò su di voi i nervi". Gran parte dei nervi si trova nelle mani e nei piedi, nelle costole e nelle articolazioni delle spalle e del collo; e anche le ossa, che sono unite insieme, sono collegate tra loro dai nervi. Attorno ad essi c'è un certo umore, dal quale i nervi sono prodotti e nutriti. Quando il Signore fa entrare nel peccatore lo spirito della grazia, allora nel suo cuore si forma la linfa della compunzione, dalla quale è prodotto e nutrito il nervo dei buoni sentimenti e della buona volontà, che congiunge e collega tutto il corpo dell'opera buona. "Farò crescere su di voi la carne". È ciò che dice in altra parte lo stesso profeta: "Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" ( Ez 36,26 ), un cuore cioè che, quando è pentito, soffra di compassione per il suo prossimo, perché è carne e fratello nostro ( cf. Gen 37,27 ). O cuore di pietra, che non senti alcuna compassione per il tuo prossimo! Dice infatti: "Sono forse io il custode del mio fratello?" ( Gen 4,9 ). Sappi che se sarai veramente il suo custode, avrai una grande ricompensa ( cf. Sal 19,12 ). Si legge nel primo libro dei Re che "A Nabal tramortì il cuore nel petto, e gli diventò come una pietra" ( 1 Sam 25,37 ). Non ebbe infatti compassione di Davide e non volle dargli niente del suo, anzi proruppe in parole ingiuriose, dicendo: "Chi è Davide, e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono aumentati i servi che scappano dai loro padroni. Dovrei forse prendere il pane, l'acqua e la carne che ho preparato per i miei tosatori, e dare tutto ciò a gente che non so da dove venga?" ( 1 Sam 25,10-11 ). Queste parole e altre simili dicono oggi ai poveri di Gesù Cristo gli avari e gli usurai, che hanno il cuore di pietra. "Su di voi stenderò la pelle". Lo stendere la pelle è figura della perseveranza finale. "Voi – dice il Signore – siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove ( Lc 22,28 ). Ma guai a coloro che hanno perduto la pazienza! Dice Giobbe: "La mia pelle si è inaridita e raggrinzita" ( Gb 7,5 ). La pelle si inaridisce e si raggrinza quando l'opera buona viene spogliata della perseveranza finale. Dice l'Ecclesiastico: "L'uomo viene denudato ( cioè mostra quello che è veramente ) solo alla fine" ( Sir 11,29 ). E allora sarà manifesta la sua nefandezza. Ecco che abbiamo spiegato in qual modo il Signore faccia rivivere le ossa inaridite: "Egli che è qui per la risurrezione di molti". 12. "E segno di contraddizione" ( Lc 2,34 ). Di questo dice Matteo: "E allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo" ( Mt 24,30 ), ed Isaia: "Issate un segno sopra il monte caliginoso, alzate la voce e levate la mano" ( Is 13,2 ). Il monte caliginoso raffigura il diavolo: monte a motivo della superbia, caliginoso a motivo della caligine della suggestione con la quale annebbia la mente. E su quel monte i predicatori innalzano un segno, quando predicano che è stato vinto dalla potenza della croce; alzano la voce quando in ogni occasione opportuna e non opportuna ammoniscono, rimproverano ed esortano ( cf. 2 Tm 4,2 ); levano la mano quando mettono in pratica con le opere ciò che predicano con la bocca. Di questo segno dice il Signore per bocca di Ezechiele: "Segna un tau ( T ) sulla fronte degli uomini che gemono e soffrono per tutti gli abomini che si compiono nel mondo" ( Ez 9,4 ). Soltanto questi non si oppongono al segno della passione del Signore, perché essi lo portano in fronte. E chi sono coloro che gemono e soffrono se non i penitenti, i poveri nello spirito, che si gloriano della croce di Cristo, e gemono e soffrono per tutti gli abomini che si compiono nel mondo? Gli infedeli vi si oppongono con le parole e con le opere, e quindi l'Apostolo dice: "Predichiamo Gesù crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" ( 1 Cor 1,23 ). I falsi cristiani vi si oppongono con le opere. "Guai – dice Isaia – a chi si oppone a colui che lo ha plasmato; è come se un coccio della terra di Samo, ossia un vaso di creta, si rivoltasse contro il vasaio" ( Is 45,9 ). Samo è la città dove è nata l'arte dei vasai. Il coccio si chiama in lat. testa, che suona quasi come tosta, ed è figura del falso cristiano, tosto ( bruciato e indurito dal fuoco ) perché privo di devozione, fragile nelle opere, fatto di creta; e si oppone a chi l'ha plasmato, o anche a Cristo, che l'ha formato con le sue mani inchiodate sulla croce e lo ha risollevato all'onore della primitiva dignità, e nella quale non può mantenersi se non per mezzo di lui. Perché dunque lo sventurato si oppone al suo plasmatore, al suo redentore, con la cattiva testimonianza della sua vita disonesta? 13. Per questo si rammarica profondamente Isaia: "Tutto il giorno ho teso le mie mani a un popolo incredulo, che cammina per una strada non buona, perseguendo i propri disegni. È un popolo che di continuo mi provoca all'ira, proprio davanti al mio volto; che immola vittime nei giardini e sacrifica sopra i mattoni, abita nei sepolcri e dorme nei templi degli idoli, che mangia carne di porco e beve brodo impuro nei suoi vasi" ( Is 65,2-4 ). "Ho teso le mie mani", aprendole, senza mai negare nulla a quelli che chiedevano. "Ho teso la mia mano e non ci fu chi guardasse" ( Pr 1,24 ). Nel primo avvento la mano del Signore fu tesa ed aperta, ma nel secondo sarà chiusa, e allora colpirà con il pugno, "e spezzerà i denti dei leoni" ( Sal 58,7 ). "Ho allargato le mie mani" sulla croce; ed è scritto nel Cantico dei Cantici: "Le mie mani sono tornite, ornate d'oro e piene di giacinti ( ametiste )" ( Ct 5,14 ). Le mani di Cristo sono dette tornite, cioè lavorate al tornio, al tornio della passione: infatti sono state perforate dai chiodi come da un trapano; sono piene d'oro per la purezza delle opere da lui compiute; sono piene di giacinti, cioè dei premi che darà nella vita eterna: e il primo giacinto lo meritò il ladrone pentito: "Oggi sarai con me in paradiso!" ( Lc 23,43 ). "Tutto il giorno", dice, e anche la notte; perché quando il giorno della prosperità mondana ci sorride, allora dobbiamo ricordarci della morte di Gesù Cristo. Infatti sta scritto che alla sua morte il sole si oscurò ( cf. Lc 23,45 ). Il sole della gloria umana si deve oscurare per noi, nel ricordo della passione del Signore. "A un popolo incredulo" ho steso le mie mani. Dice Isaia: "L'incredulo opera da infedele" ( Is 21,2 ). E Agostino: Credere in Dio vuol dire amare Dio, andare a lui ed essere incorporato alle sue membra. Chi non fa così, mente quando dice: Io credo in Dio. Dunque l'incredulo è colui che non crede in questo modo e agisce da infedele: la sua fede è morta, perché manca della carità. "Che cammina nella via non buona …", larga e spaziosa, che conduce alla morte. È ciò che leggiamo nei Proverbi: "L'apostata, uomo inutile, va con la bocca distorta, parla con il dito puntato, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi" ( Pr 6,12-13 ). "Perseguendo i suoi disegni", dei quali il libro della Sapienza dice: "I disegni perversi allontanano da Dio", e "Lo Spirito Santo si tiene lontano dai progetti insensati" ( Sap 1,3; Sap 1,5 ). "Un popolo che continuamente mi provoca all'ira", cioè alla vendetta per la sua tendenza al peccato. Dice Sofonia: "Guai a te, città provocatrice e riscattata" ( Sof 3,1 ), come dicesse: Mi provocano all'ira, essi che io ho riscattato con il mio sangue. "Proprio davanti al mio volto", cioè apertamente, che è peggio. "Dice Isaia: "Come Sodoma, si vantano del loro peccato, invece di nasconderlo" ( Is 3,9 ). "Che immola nei giardini", ecco la lussuria. Isaia: "Vi vergognerete dei vostri giardini", cioè dei luoghi di piacere, "che vi siete scelti" ( Is 1,29 ) per soddisfare la vostra lussuria. "E fanno sacrifici sopra i mattoni", ecco l'avarizia. L'Esodo: "Non vi sarà data la paglia, ma costruirete lo stesso numero di mattoni" ( Es 5,18 ). Spesso avviene che gli avari e gli usurai vengano derubati delle loro ricchezze; ma ciononostante continuano a costruire i mattoni dell'avarizia, almeno con la volontà e le parole. Oppure anche: sacrificano sopra i mattoni coloro che recitano l'ufficio divino accanto al fuoco o al letto e simili, e in questo modo pensano di compiere il loro dovere verso Dio. "Che abita nei sepolcri …", ecco la detrazione. "È un sepolcro aperto la loro gola" ( Sal 13,3 ), " e dorme nei templi degli idoli", ecco l'ipocrisia, che come l'idolo si presenta sotto l'apparenza della religione, ma manca della prova delle opere. Ahimè, quanti sono oggi gli adoratori degli idoli; venerano un simulacro, che raffigura una santità inesistente, fittizia. "Che mangiano carne di porco", ecco la sozzura della gola; "e bevono brodo impuro nei loro vasi", cioè nei loro cuori: ecco l'impurità dei pensieri. Tutti coloro che fanno queste cose contraddicono, rinnegano il segno della passione del Signore. 14. "E anche a te una spada trafiggerà l'anima" ( Lc 2,35 ). Il dolore che la beata Vergine Maria soffrì nella passione del suo Figlio fu come una spada che trapassò la sua anima. È quanto dice Isaia: "Prima di avere i dolori ha partorito" ( Is 66,7 ). Il parto della beata Vergine Maria fu duplice: uno nella carne e l'altro nello spirito. Il parto della carne fu verginale e ricolmo di ogni gioia, perché la beata Vergine partorì senza dolore il "gaudio degli angeli". E quindi dice insieme con Sara: "Il Signore mi ha dato il sorriso, e chiunque lo saprà, sorriderà con me" ( Gen 21,6 ). Con la beata Maria dobbiamo sorridere e godere della nascita del Figlio suo; ma dobbiamo partecipare anche al suo dolore: nella passione del Figlio la sua anima fu trapassata da una spada, e quello fu il secondo parto, doloroso e ricolmo di ogni amarezza. E questo non deve far meraviglia, perché quel Figlio di Dio che lei, per opera dello Spirito Santo, vergine aveva concepito e vergine aveva dato alla luce, lo vedeva appeso alla croce con i chiodi, sospeso tra due ladroni. C'è forse da meravigliarsi, se una spada le trapassò l'anima? "Considerate e vedete se c'è un dolore simile al suo dolore!" ( Lam 1,12 ). Prima dunque di partorirlo nella passione, lo partorì nel giorno della natività ( prima di partorirlo nel dolore, lo partorì nella gioia ). 15. Senso morale. Geremia nelle Lamentazioni, parlando in persona di Gesù Cristo, dice al Padre: "Ricòrdati della mia povertà, del mio superamento, dell'assenzio e del fiele" ( Lam 3,19 ). La passione di Cristo è chiamata "superamento" perché ha superato il dolore e le sofferenze di tutti i martiri. Per questo Luca dice che "Mosè ed Elia parlavano della sua dipartita - ( in lat excessus, che suggerisce il senso di eccesso ) -, cioè della sua passione, "che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme" ( Lc 9,31 ), e che avrebbe superato ogni altro patimento. Quando il giusto considera tutto ciò, subito ricorda quanto è detto, sempre nelle Lamentazioni: "Mi ricorderò sempre di queste cose, e l'anima mia si struggerà dentro di me" ( Lam 3,20 ). O Figlio di Dio, "mi ricorderò sempre …" ( lat. memoria memor ero ) – la ripetizione della parola esprime il profondo sentimento di chi ama; mi ricorderò della tua "povertà", la quale fu sì grande che alla sua morte non aveva un sudario nel quale essere avvolto, né un sepolcro nel quale essere deposto, se non gli fosse stato ceduto in elemosina o a titolo di pietà, come a un povero mendìco; "… e del superamento", cioè della passione, nella quale ha superato ed è andato al di là di ogni dolore umano. Dice infatti Giovanni: "Gesù uscì con i suoi discepoli e andò al di là del torrente Cedron" ( Gv 18,1 ), che s'interpreta "profonda tristezza". Infatti nella sua passione Cristo superò ogni altra tristezza o mestizia. I martiri, prima di andare incontro alla loro passione, ignoravano in quale misura avrebbe dovuto patire, e quindi non soffrivano quanto avrebbero sofferto se l'avessero saputo. Invece il Signore, che tutto conosce prima che accada, prima di avviarsi alla sua passione conosceva perfettamente l'intensità dei tormenti ai quali andava incontro, e quindi non c'è da meravigliarsi che abbia sofferto più di tutti. "… dell'assenzio e del fiele", di cui parla anche il salmo: "Mi diedero per cibo fiele" ( Sal 69,22 ): fiele di toro, come raccontano, del quale nulla esiste di più amaro. Quando richiamo alla memoria tutto questo, la mia anima viene meno, perché è trapassata dalla spada della tua passione. E quando questo avviene, allora "sono svelati i pensieri di molti cuori" ( Lc 2,35 ). È ciò che dice anche Giobbe: "Egli rivela ciò che è nella profondità delle tenebre e illumina l'ombra della morte" ( Gb 12,22 ). Quando il Signore trapassa l'anima con la spada della sua passione, allora rivela ciò che è nel profondo, cioè i vizi che sono ben lontani dal fondo del pozzo, perché non dicono mai "basta", ma "ancora, ancora!" ( cf. Pr 30,15 ); "li libera dalle tenebre", cioè dalla cecità della mente, con la contrizione del cuore, perché l'uomo li riconosca e dopo averli riconosciuti li manifesti nella confessione; infatti aggiunge: "e illumina l'ombra della morte", vale a dire porta il peccato mortale alla luce della confessione. 16. Con questa parte del brano evangelico concorda la parte dell'epistola di oggi che dice: "Ma quando venne la pienezza dei tempi" ( Gal 4,4 ). Se infatti, come dice l'Ecclesiaste, "per ogni cosa c'è il tempo opportuno" ( Qo 8,6 ), e l'Ecclesiastico, "il saggio tacerà fino a un dato tempo" ( Sir 20,7 ), si deve credere che anche Dio abbia scelto il tempo opportuno per compiere l'opera della salvezza dell'uomo e mandare il suo Verbo. Ricòrdati che nell'anno ci sono quattro stagioni: inverno, primavera, estate e autunno. Da Adamo fino a Mosè abbiamo avuto in certo modo l'inverno: "Da Adamo a Mosè – dice l'Apostolo – regnò la morte" ( Rm 5,14 ). Fu primavera da Mosè a Cristo: in quella primavera incominciarono a germogliare i fiori, promessa del frutto. Quando poi venne l'estate, che è la "pienezza del tempo", nella quale gli alberi si caricano di frutti, allora "Dio mandò il suo Figlio, fatto da donna" ( Gal 4,4 ). E con questo concordano anche le parole del Levitico: "Vi darò le piogge alla loro stagione, la terra produrrà si suoi germogli e gli alberi si riempiranno di frutti. La trebbiatura durerà fino alla vendemmia e la vendemmia fino alla nuova semina; avrete cibo a sazietà" ( Lv 26,3-5 ). Il Signore mandò la pioggia quando la rugiada bagnò tutta l'aia e la pioggia cadde sul vello ( cf. Gdc 6,40 ), vale a dire, quando all'annuncio dell'angelo la Vergine concepì il Figlio di Dio. La terra produsse il suo germoglio quando la stessa Vergine diede al mondo il Salvatore, che con la predicazione e con il compimento dei miracoli riempì gli alberi, cioè gli apostoli, dei frutti delle virtù. E la trebbiatura, cioè la passione del Signore, nella quale egli fu schiacciato per le nostre iniquità ( cf. Is 53,5 ), si congiunse con la vendemmia, cioè con l'infusione dello Spirito Santo, dalla quale gli apostoli furono come inebriati: "Sono accusati di essere pieni di vino, coloro che sono ricolmi di Spirito Santo" ( cf. At 2,13-15 ). E la vendemmia stessa si congiunse con la semina seguente, cioè con la predicazione degli Apostoli: infatti incominciarono subito a predicare e a dire: "Fate penitenza e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo" ( At 2,38 ). L'autunno verrà nella beatitudine celeste, nella quale i santi mangeranno il pane a sazietà e "sederanno – come dice Michea – sotto la loro vigna e sotto il loro fico, e non ci sarà chi incuta timore" ( Mic 4,4 ). "Fatto sotto la legge" ( Gal 4,4 ), cioè soggetto all'osservanza della legge. Disse infatti: "Non sono venuto ad abolire la legge, ma a completarla" ( Mt 5,17 ), "per redimere quelli che erano sotto la legge" ( Gal 4,5 ). Leggiamo nella lettera agli Ebrei: "[ Venne ] per distruggere con la morte colui che aveva della morte il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù tutta la vita" ( Eb 2,14-15 ). Ecco che adesso è chiaro in che senso Gesù è venuto per la rovina dei demoni e per la risurrezione di molti. "Perché ricevessimo l'adozione a figli" ( Gal 4,5 ). Quale grazia! Dio adottò gli schiavi come figli! "E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo" ( Rm 8,17 ). L'annunciazione o la nascita del signore, e la penitenza 17. Con questa parte dell'epistola concordano le parole dell'introito della messa di oggi: "Mentre un grande silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, dal tuo trono regale scese la tua potente Parola, e si lanciò, guerriero implacabile, in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata il tuo ordine inesorabile. Fermatasi, riempì tutto di morte, e stando sulla terra toccava il cielo" ( Sap 18,14-16 ). Letteralmente, il testo della Sapienza è questo: "Mentre un quieto silenzio custodiva tutte le cose" ( Sap 18,14 ). E questo è ciò che dice il Signore per bocca di Luca: "Quando un uomo forte e bene armato", cioè il diavolo, "custodisce il suo atrio", cioè il mondo, o l'inferno, "sono in pace tutte le cose che possiede" ( Lc 11,21 ). Nel libro di Isaia troviamo Sennacherib, nel quale è raffigurato il diavolo, che dice: "La mia mano ha distrutto la potenza dei popoli come un nido", erano cioè incapaci di difendersi; "e come si raccolgono le uova abbandonate" dalla madre, "così io ho raccolto tutta la terra, e non ci fu chi muovesse un'ala", alzasse cioè una mano contro di me, "aprisse la bocca e si lamentasse" ( Is 10,14 ). Ecco come tutte le cose mantenevano un quieto silenzio. "E la notte era a metà del suo corso". Si dice "a metà" in rapporto ai due punti estremi. I due punti estremi della notte sono ( in lat. ) il conticinium, ( da conticesco, sto in silenzio ) che è il momento che segue il crepuscolo serale, e l'aurora. Da Adamo alla Legge, cioè a Mosè, fu in certo modo la prima parte della notte; dalla Legge fino all'annunciazione della beata Vergine Maria si arrivò alla metà della notte, nella quale è simboleggiata la trasgressione dei comandi della Legge. Né Adamo nel paradiso, né il popolo nel deserto custodirono i precetti; tutti erano ottenebrati dalla caligine di questa notte, e quindi avevano bisogno dell'aurora, cioè del dono e dell'aiuto dell'avvento del Signore, che ebbe il suo inizio con il saluto dell'angelo. L'inizio della notte fu la suggestione diabolica del serpente ad Eva. L'inizio del giorno fu il saluto dell'angelo a Maria. E allora, o Padre, la Parola onnipotente e consustanziale con te, cioè il Figlio tuo, scese dal trono regale, cioè dal seno della tua Maestà, di cui Giovanni dice: "Il figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, egli stesso lo ha rivelato" ( Gv 1,18 ). "Guerriero implacabile". Anche Luca dice: "Ma se arriva uno più forte di lui …" ( Lc 11,22 ). Colui che era venuto per infrangere le porte di bronzo e spezzare le sbarre di ferro ( cf. Sal 107,16 ), doveva assolutamente essere un guerriero implacabile. Giobbe dice che il diavolo "valuta il ferro come paglia e il bronzo come legno marcio. L'arciere non lo mette in fuga, e le pietre della fionda si cambiano per lui in pula. Un martello lo reputa come stoppia e si fa beffe di colui che vibra la lancia" ( Gb 41,18-20 ). In breve: "È fatto per non temere nessuno" ( Gb 41,24 ). Era proprio necessario, quindi, che fosse un guerriero implacabile, colui che veniva a spogliare il diavolo, e che il diavolo nulla potesse contro di lui. "In mezzo a quella terra": in mezzo, perché sta tra il cielo e l'inferno; "di sterminio", che il diavolo aveva sterminato, aveva cioè posto extra terminos, vale a dire fuori dei confini della vita eterna. Dice infatti Isaia: "È questo colui che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto e ne distruggeva le città?" ( Is 14,16-17 ). In mezzo a questa terra, dunque, il Verbo di Dio "si lanciò" con tutti e due i piedi uniti, della divinità e dell'umanità. "Spada affilata". Dice l'Apostolo: "La Parola di Dio è viva ed efficace, più penetrante di una spada a due tagli" ( Eb 4,12 ). La spada è figura della divinità, che era nascosta nel fòdero dell'umanità. Dice Isaia: "Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d'Israele, Salvatore" ( Is 45,15 ). Da questa spada fu trafitto il diavolo, che andava sterminando la terra. "La polvere è finita, quel miserabile è perito, è scomparso colui che distruggeva la terra". 18. "Portando il tuo ordine inesorabile". Dice Giovanni: Il Padre tutto ha posto nelle sue mani ( cf. Gv 3,35; Gv 13,3 ). E ancora: "Tutto quello che il Padre possiede, è mio" ( Gv 16,15 ). Parimenti;: "Tutte le cose mie sono tue, e tutte le cose tue sono mie" ( Gv 17,10 ). Portò dunque l'ordine del Padre, il quale gli aveva dato potere sopra ogni essere umano ( cf. Gv 17,2 ); e il suo potere è un potere eterno ( cf. Dn 7,14 ); egli è colui che comanda ai venti e al mare, ed essi gli obbediscono ( cf. Lc 8,25 ). "Portando un ordine inesorabile": è ciò che dice Marco: "Insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi" ( Mc 1,22 ), che insegnavano con l'ipocrisia e con la finzione. E Luca: "Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti immondi ed essi se ne vanno?" ( Lc 4,36 ). "Fermatosi, riempì tutto di morte". Fermo, con le mani aperte sulla croce, riempì con la sua morte tutte le cose che erano state svuotate con la disobbedienza del primo uomo. E della sua pienezza tutti abbiamo ricevuto ( cf. Gv 1,16 ). "E toccava il cielo", nel quale è la divinità: La Sapienza si estende da un confine all'altro con forza ( cf. Sap 8,1 ), stando sulla terra, nella quale è indicata l'umanità. Dice Giovanni: "Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo" ( Gv 3,13 ). E Giobbe: "È più alto del cielo, e che cosa puoi fare? È più profondo degli inferi, e che cosa ne conosci? La sua dimensione è più grande della terra e più larga del mare" ( Gb 11,8-9 ). Fratelli carissimi, preghiamo la Parola di Dio ( il Verbo ), che ci faccia andare in rovina in quanto ai vizi, e risorgere alle virtù. La spada della sua passione trapassi l'anima nostra, affinché possiamo giungere alla felicità della risurrezione finale. Ce lo conceda lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen. 19. "Mentre un grande silenzio avvolgeva tutte le cose". Di questa espressione consideriamo il significato morale. Dice Giobbe del diavolo: "Dorme nell'ombra, nel folto del canneto e in luoghi paludosi" ( Gb 40,16 ). Nell'ombra è simboleggiata la superbia, che è detta anche "ombra di morte", cioè ombra del diavolo. Infatti come l'ombra segue il corpo, così la superbia segue il diavolo. Sta scritto nell'Apocalisse: "Ed ecco un cavallo pallido, e colui che lo cavalcava si chiamava morte; e l'inferno lo seguiva" ( Ap 6,8 ). Ecco il cavallo, il cavaliere e lo scudiero. Il cavallo pallido è figura dell'ipocrita; il cavaliere che si chiama morte è il diavolo; l'inferno che lo segue come scudiero è la superbia, la quale nutre il cavallo con orzo e acqua, cioè con l'austerità dell'astinenza, per far vedere agli uomini che digiuna ( cf. Mt 6,16 ); e gli carica addosso la sella della finta umiltà e lo frena con il morso del silenzio. Dice Salomone, "Anche lo stolto, se tace, è ritenuto saggio" ( Pr 17,28 ): così l'ipocrita è ritenuto santo. Su questo cavallo sale la morte e gira per il mondo: va a caccia di lodi, cerca i saluti nelle piazze, i primi seggi nelle sinagoghe e i posti d'onore nei conviti ( cf. Mt 23,6-7 ). Non c'è superbia più grande di quella dell'ipocrita: "La falsa giustizia non è giustizia, ma doppia ingiustizia" ( Agostino ). "Nel folto del canneto". Canna si dice in lat. càlamus, da cui deriva calamità. Nella canna è raffigurata l'avarizia. La canna è vuota, e al grande vuoto dell'avarizia che mai si riempie, che mai dice basta, segue l'eterna calamità ( la dannazione ). "Nei luoghi paludosi": sono indicate qui la gola e la lussuria. L'umidità infatti è madre della corruzione; da essa pullulano vermi e insetti simili. Nei superbi, negli avari e nei lussuriosi si insedia il diavolo, e allora un pesante silenzio si impadronisce di tutte le loro membra. Il cuore non ha più buoni sentimenti, la lingua smette di lodare Dio e le mani sono sterili di opere buone. Dice Isaia: "Guai a me, che taccio!" ( Is 6,5 ). C'è il "guai", la minaccia della dannazione eterna in tale silenzio. "La notte era a metà del suo corso". La parola notte, in lat nox, deriva da nuocere, perché è dannosa agli occhi, ed è figura del peccato mortale, dal quale viene oscurata la luce della ragione. Chi cammina nella notte inciampa ( cf. Gv 11,10 ). I momenti estremi di questa notte sono il primo buio ( crepuscolo ), detto in lat. conticinium, e l'aurora; il primo simboleggia il consenso della volontà accecata, la seconda l'infusione della grazia divina: tra questi due estremi sta in mezzo l'opera cattiva e l'abitudine del peccato. Di questo cammino intermedio è detto nel salmo: "Il cammino degli empi andrà in rovina" ( Sal 1,6 ). E questo si avverò quando "la Parola onnipotente si lanciò", quando cioè venne la grazia dello Spirito Santo, che giustamente è detta "Parola onnipotente", perché ha il potere di travolgere ogni ostacolo che si frappone alla salvezza. È detta Parola, in lat. sermo, perché sémina e inserisce, innesta nell'anima le virtù, o anche perché mantiene sana la mente ( sermo, servat mentem ), che ha risanato dal peccato. Leggiamo nel libro della Sapienza: Non l'erba, cioè non il lussureggiare delle ricchezze che ben presto disseccano, né il lenitivo o l'emolliente dei piaceri li guarì, ma la tua Parola onnipotente, o Signore, che risana tutte le cose ( cf. Sap 16,12 ), che è discesa "dal trono regale" della tua bontà e misericordia. E conclude Gioele: "Ritornate al Signore, Dio vostro, perché egli è misericordioso e benigno" ( Gl 2,13 ). 20. "Guerriero implacabile", nella contrizione. La grazia è detta "guerriero implacabile", perché come un martello spezza la durezza della mente. Forse che le mie parole non sono come il fuoco, e come il martello che spezza le pietre? ( cf. Ger 23,29 ). "In mezzo alla terra", cioè nella mente del peccatore, che è detta terra perché tende ai beni terreni; è detto "in mezzo" perché è posta tra la misericordia e la giustizia. Si legge infatti in Giovanni che "restò Gesù solo, e la donna là in piedi nel mezzo" ( Gv 8,9 ), cioè tra la misericordia ( Gesù ) e la giustizia ( i Giudei che volevano giustiziarla ). "Terra di sterminio". Due sono i punti estremi: l'entrata nella nostra vita e l'uscita. Quando la mente dell'uomo non dimora, non si ferma sopra di essi, e non vi fa delle considerazioni, allora è sterminata, vale a dire ( letteralmente ) che viene posta fuori di questi due punti ( in lat. extra terminos ). Dice Isaia: Grande clamore si sentì tutt'intorno ai confini di Moab ( cf. Is 15,8 ). Moab è figura del peccatore, e in tutti i suoi due "confini" [ nascita e morte ] si sente questo grande clamore: quando viene al mondo, piange e grida lui; quando ne esce, piangono i suoi. Dice infatti l'Ecclesiaste: "Faranno il giro della piazza" con il suo cadavere, "piangendo" ( Qo 12,5 ). "Spada affilata", nella confessione. La grazia diventa spada affilata quando affila la lingua del peccatore nella confessione, affinché possa dire con Isaia: "Ha reso la mia bocca come spada affilata" ( Is 49,2 ). E di questo dice il Signore a Ezechiele: "E tu, figlio dell'uomo, prenditi una spada affilata, usala come un rasoio da barbiere, passala sul tuo capo e raditi tutta la barba" ( Ez 5,1 ). Il peccatore con la spada della confessione deve radersi il capo, nel quale sta la mente, perché non resti alcun peccato nella coscienza; deve radersi la barba, nella quale è raffigurato il valore delle opere buone, per indicare che deve confidare non in sé, ma nel Signore, dal quale proviene ogni bene. "Portando il tuo ordine inesorabile". La vera confessione non conosce simulazione; la vera confessione manifesta la verità della coscienza davanti all'Altissimo e davanti al suo confessore, e così ricostituisce in sé la sovranità assoluta del Signore. Tieni presente che quattro sono i nemici della confessione: l'attaccamento al peccato, la vergogna di confessarsi, la paura della penitenza e il disperare del perdono. Chi nella confessione sbaraglia completamente questi quattro nemici, senza dubbio ripristina in se stesso il completo dominio del Signore. "Fermatosi, riempì tutto di morte", con la soddisfazione, cioè con la riparazione della penitena. La grazia è come ferma in piedi, quando produce nel penitente una virile perseveranza nella penitenza, con la quale riempie in qualche modo di morte, cioè di mortificazione, tutte le sue membra, affinché, morto al peccato, viva soltanto per Dio ( cf. Rm 6,11 ). E allora si potrà dire di lui ciò che segue: "E stando sulla terra, toccava il cielo". La grazia giunge fino al cielo stando sulla terra, quando fa sì che il penitente, mentre è ancora in questo mondo, tocchi il cielo con il suo pensiero e il suo desiderio e possa così dire con l'Apostolo: "La nostra patria è nei cieli" ( Fil 3,20 ). Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo perché mandi in mezzo a questa terra di sterminio la grazia dello Spirito Santo, la quale spezzi la durezza della mente, affili la lingua nella confessione, riempia le membra del corpo di mortificazione, affinché possiamo toccare il cielo con pensieri e aspirazioni celesti. Ce lo conceda lui che è benedetto nei secoli. Amen. Circoncisione del Signore 1. In quel tempo: "Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del bambino …" ( Lc 2,21 ). In questo vangelo considereremo due avvenimenti: - la circoncisione di Cristo, - l'imposizione del nome. I. La circoncisione di Cristo 2. "Quando furono passati gli otto giorni, prescritti per la circoncisione del bambino" ( Lc 2,21 ). In questa prima parte ci viene insegnato, in senso anagogico ( mistico ), come tutti i giusti, nella risurrezione finale, saranno circoncisi di ogni corruzione. Ma poiché del Verbo circonciso avete sentito una parola "circoncisa", anche noi parleremo circoncisamente ( brevemente ) della sua circoncisione. Cristo fu circonciso soltanto nel corpo, perché nulla c'era da circoncidere nel suo spirito. Infatti "egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca" ( 1 Pt 2,22 ). E neppure contrasse il peccato [ di origine ] perché, come dice Isaia: "Salì su una nuvola leggera" ( Is 19,1 ), assunse cioé una carne immune da peccato. Venendo tra i suoi, poiché "i suoi non l'avrebbero accolto" ( Gv 1,11 ), dovette essere circonciso, affinché i Giudei non avessero contro di lui dei pretesti, col dire: È un incirconciso, dev'essere eliminato dal popolo perché, come è scritto nella Genesi, "il maschio al quale non è stato reciso il prepuzio, sarà eliminato dal suo popolo" ( Gen 17,14 ). Sei un trasgressore della legge, non vogliamo uno che è contro la legge. Fu quindi circonciso per almeno tre motivi: primo, per osservare la legge – si dovette compiere il mistero della circoncisione finché non fu sostituito dal sacramento del battesimo –; secondo, per togliere ai Giudei il pretesto di calunniarlo; terzo, per insegnarci la circoncisione del cuore, della quale dice l'Apostolo: "La circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini, ma da Dio" ( Rm 2,29 ). 3. "Passati gli otto giorni prescritti". Vediamo il significato di queste tre cose: il giorno ottavo, il bambino e la sua circoncisione. La nostra vita si svolge, per così dire, in un giro di sette giorni ( settenario ): segue poi il "giorno ottavo" ( ottonario ) della risurrezione finale. Dice l'Ecclesiaste: "Da' la loro parte a sette, e anche a otto, perché non sai che cosa di male potrà venire sulla terra" ( Qo 11,2 ). Come dicesse: fa' che i sette giorni della tua vita prendano parte alle opere buone ( siano impegnati nell'operare il bene ), perché poi ne riceverai la ricompensa nel giorno ottavo, quello della risurrezione; in quel giorno sopra la terra, cioè per coloro che amano la terra, ci sarà un male così grande, quale nessun uomo potrà immaginare. Allora l'aia sarà ripulita, il grano sarà separato dalla paglia, le pecore saranno divise dai capri ( cf. Mt 3,12; Mt 25,32; Lc 3,17 ). La ripulitura dell'aia simboleggia la revisione che sarà operata nell'ultimo giudizio. Il grano raffigura i giusti che saranno accolti nei granai del cielo. Dice Giobbe: "Te ne andrai nella tomba, pieno di anni, come si ammucchia il grano a suo tempo" ( Gb 5,26 ). La tomba indica la vita eterna, dove i giusti entreranno carichi di opere buone, e saranno al riparo dagli attacchi dei demoni, come uno che si nasconde in una tomba per sfuggire agli uomini. La paglia invece, cioè i superbi, superficiali e incostanti, saranno bruciati nel fuoco. Di essi dice Giobbe: "Saranno come paglia al soffio del vento e come pula che l'uragano disperde" ( Gb 21,18 ). Gli agnelli o le pecore, cioè gli umili e gli innocenti, saranno posti alla destra di Dio: "Come un pastore pascerà il suo gregge, con il suo braccio radunerà gli agnelli, li solleverà al suo petto ed egli stesso porterà le pecore gravide" ( Is 40,11 ). 4. Osserva che in queste quattro parole: pascerà, radunerà, solleverà e porterà, si possono ravvisare le quattro prerogative delle quali sarà dotato il corpo dei giusti nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione finale. Pascerà con lo splendore: "Dolce è la luce, e agli occhi piace vedere il sole" ( Qo 11,7 ); e i giusti splenderanno come il sole nel Regno di Dio ( cf. Mt 13,43 ). Se l'occhio ancora corruttibile tanto si diletta dell'illusorio splendore di un misero corpo, quanto più grande sarà quel piacere di fronte al vero splendore di un corpo glorificato? Radunerà con l'immortalità: la morte dissolve e divide, l'immortalità riunisce e raduna. Solleverà con l'agilità: ciò che è agile si solleva facilmente. Porterà con la sottigliezza: ciò che è sottile [ una veste ], si porta senza fatica. Invece i capri, cioè i lussuriosi, saranno appesi per i piedi ai ganci dell'inferno. Infatti il Signore, per bocca di Amos, minaccia "le vacche grasse" ( cf. Am 4,1 ), cioè i prelati della chiesa superbi e lussuriosi: "Ecco, verranno per voi i giorni in cui" i demoni "vi appenderanno ai ganci, e getteranno i rimanenti di voi in caldaie bollenti. Uscirete per le brecce uno contro l'altro; e sarete scagliati contro l'Hermon" ( Am 4,2-3 ), che s'interpreta "scomunica", perché i superbi e i lussuriosi, scomunicati e maledetti dalla chiesa trionfante, sprofonderanno nell'eterno supplizio. Tutto questo, cioè la gloria e la pena, sarà dato a ciascuno nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione, secondo ciò che ha fatto nella settimana di questa vita. Dice in proposito la Genesi: "Giacobbe servì sette anni per [ avere ] Rachele, e gli sembrarono pochi giorni, tanto grande era l'amore che nutriva per lei" ( Gen 29,20 ). Infatti era una donna molto bella di forme e di aspetto avvenente ( Gen 29,17 ). E continua: "Passata la settimana, prese Rachele in moglie" ( Gen 29,28 ). E più avanti dice: "Di giorno mi divorava il caldo e il gelo di notte, e il sonno fuggiva dai miei occhi" ( Gen 31,40 ). O amore della bellezza! O bellezza dell'amore! O gloria della risurrezione, quante cose riesci a far sopportare all'uomo, per poter giungere alle nozze con te! Il giusto fatica per tutti i sette giorni della sua vita nell'indigenza del corpo e nell'umiltà del cuore: di giorno, cioè quando gli sorride la prosperità nel calore della vanagloria; e di notte, vale a dire quando sopravvengono le avversità e viene tormentato dal gelo della tentazione del diavolo. E così il sonno e il riposo fuggono da lui perché ci sono battaglie all'interno e paure all'esterno ( cf. 2 Cor 7,5 ). Teme il mondo, è combattuto in se stesso, e tuttavia, in mezzo a tante sofferenze i giorni gli sembrano pochi a motivo della grandezza dell'amore. Infatti "per chi ama nulla è difficile" ( Cicerone ). O Giacobbe, ti scongiuro: lavora con pazienza, sopporta con umiltà perché, finita la settimana della presente miseria, conquisterai le bramate nozze della gloriosa risurrezione, nella quale sarai finalmente circonciso di ogni fatica e di ogni schiavitù di corruzione. 5. "Passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del fanciullo". In lat. è detto puer, fanciullo, non vecchio. Per sapere chi sia questo fanciullo, leggi il sermone del "Natale del Signore". Nella risurrezione finale ogni eletto sarà circonciso, perché risorgerà per la gloria, come dice Isidoro, senza alcun difetto, senza alcuna deformità. Sarà ben lontana ogni infermità, ogni incapacità, ogni corruzione, ogni inabilità, e ogni altra carenza indegna di quel Regno del sommo Re, nel quale i figli della risurrezione e della promessa saranno uguali agli angeli di Dio ( cf. Lc 20,36 ); allora ci sarà la vera immortalità. La prima condizione dell'uomo fu il poter non morire; per causa del peccato gli fu inflitta la pena di non poter non morire: seconda condizione; lo attende, nella futura felicità, la terza condizione: non poter più morire. Allora usufruiremo in modo perfetto del libero arbitrio, che al primo uomo fu dato in modo che "potesse non peccare"; sarà appunto perfetto quando questo libero arbitrio sarà tale da "non poter peccare". O giorno ottavo, tanto desiderabile, che in modo così meraviglioso circoncidi dal bambino tutti i mali! II. L'imposizione del nome 6. "E gli fu posto nome Gesù" ( Lc 2,21 ). Nome dolce, nome soave, nome che conforta il peccatore, nome di beata speranza. Giubilo al cuore, melodia all'orecchio, miele alla bocca. Piena di giubilo, la sposa del Cantico dei Cantici dice di questo nome: "Olio sparso è il tuo nome" [P rofumo olezzante è il tuo nome ]( Ct 1,2 ). Osserva che l'olio ha cinque proprietà: galleggia sopra tutti i liquidi; rende cedevoli le cose dure, tempera quelle acerbe, illumina le oscure, sazia il corpo. Così anche il nome di Gesù, per la sua grandezza è al di sopra di tutti i nomi degli uomini e degli angeli, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si piega ( cf. Fil 2,10 ). Quando lo proclami intenerisce i cuori più duri; se lo invochi tempera le tentazioni più aspre; se lo pensi illumina il cuore, se lo leggi sazia il tuo spirito. E fa' attenzione che questo nome di Gesù non è detto soltanto "olio", ma olio "sparso". Da chi? E dove? Dal cuore del Padre, nel cielo, sulla terra e nell'inferno. In cielo per l'esultanza degli angeli, che perciò acclamano esultanti: "Salvezza al nostro Dio, seduto sul trono, e all'Agnello" ( Ap 7,10 ), cioè a Gesù, che è chiamato "Salvezza, Salvatore"; sulla terra per la consolazione dei peccatori: "Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio. Di notte anela a te l'anima mia" ( Is 26,8-9 ); nell'inferno per la liberazione dei prigionieri, infatti si dice che, prostrati alle sue ginocchia, abbiano gridato: "Sei venuto finalmente, o nostro Redentore!"… ( Breviario Romano, antico Ufficio dei defunti ). 7. Riporterò brevemente ciò che scrive Innocenzo di questo nome. Questo nome di Gesù ( lat. Iesus ) è composto di due sillabe e di cinque lettere: tre vocali e due consonanti. Due sillabe, perché Gesù ha due nature, la divina e l'umana: la divina dal Padre, dal quale è nato senza madre; l'umana dalla Madre, dalla quale è nato senza padre. Ecco, due sono le sillabe in quest'unico nome, perché due sono le nature in quest'unica persona. Da notare però che la vocale è quella che ha un suono per se stessa, la consonante invece ha suono solo unita con una vocale. Quindi nelle tre vocali è simboleggiata la divinità la quale, essendo unica in se stessa, produce il suono nelle tre persone. Infatti "tre sono quelli che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo; e questi tre sono uno" ( 1 Gv 5,7 ). Nelle due consonanti è simboleggiata l'umanità la quale, avendo due sostanze, cioè il corpo e l'anima, non ha suono per se stessa, ma solo in virtù dell'altra natura, alla quale è congiunta nell'unità della persona. "Infatti come l'anima razionale e la carne sono un solo uomo; così Dio e l'uomo sono un solo Cristo" ( Simbolo Atanasiano ). La persona infatti è definita "una sostanza razionale a se stante", e tale è Cristo. Cristo è Dio e anche uomo, ma per sé "suona" in quanto è Dio e non in quanto è uomo, perché la divinità conservò il diritto di personalità assumendo l'umanità, ma l'umanità assunta non ricevette il diritto di personalità, [ poiché non la persona assunse la persona, né la natura assunse la natura, ma la persona assunse la natura ] ( Innocenzo III, papa, Sermone sulla Circoncisione ). Questo dunque è il nome santo e glorioso "che è stato invocato sopra di noi" ( Ger 14,9 ), e non c'è altro nome – dice Pietro – sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati ( cf. At 4,12 ). Per la virtù di questo nome ci salvi Dio, Gesù Cristo nostro Signore, che è benedetto sopra tutte le cose nei secoli dei secoli. Amen. III. Sermone allegorico 8. "Sefora prese una pietra molto tagliente e circoncise il prepuzio del suo figlio" ( Es 4,25 ). E anche nella Genesi leggiamo: "Abramo chiamò col nome di Isacco il figlio che Sara gli aveva partorito e lo circoncise il giorno ottavo [ dalla nascita ] come Dio gli aveva comandato" ( Gen 21,3-4 ). Non la madre Maria, non Giuseppe che era il suo custode, ma Abramo, cioè l'Eterno Padre, impose al Figlio suo unigenito il nome di salvezza. Dov'è la salvezza c'è il sorriso. Isacco significa "sorriso", e il nostro sorriso è Gesù, nome che significa "salvezza" e "salvatore". Esiste una certa erba chiamata in lat. salutaris ( che risana ), perché allevia il mal di testa e mitiga il bruciore di stomaco ( strychnos, morella, erba mora ). Il mal di testa simboleggia la superbia della mente, della quale si legge nel quarto libro dei Re che il sole con il suo calore colpì alla testa un fanciullo, che disse a suo padre: "Mi duole la testa, mi duole la testa!" ( 2 Re 4,19 ). E nel libro di Giuditta si narra che Manasse "morì nei giorni della mietitura dell'orzo. Sorvegliava quelli che legavano i covoni nella campagna, e fu colpito alla testa da insolazione" ( Gdt 8,2-3 ). Manasse, che s'interpreta "smemorato", è figura di colui che è amico del mondo: egli, dimentico dell'eternità, esce a mietere l'orzo. Nell'orzo, che è foraggio per gli animali, sono indicati i beni terreni: mentre l'uomo materiale ( bestialis ) si affanna ad accumularli e a legarli in covoni, cioè a metterli nel suo tesoro, si abbatte sulla sua mente il colpo di sole della vanagloria, dalla quale nasce poi l'altezzosità della superbia e quindi la morte dell'anima. Allo stesso modo il bruciore di stomaco simboleggia il bollore dell'ira, di cui dice Isaia: "Gli empi sono come un mare ribollente che non può calmarsi e i cui flutti portano su melma e fango" ( Is 57,20 ). Quando un uomo s'infiamma d'ira, diventa come un mare ribollente: perché ha crudezza nel cuore, confusione nel cervello, accecamento nella mente, rancore contro il fratello; perciò è detto empio cioè senza pietà: calpesta gli uni, bestemmia gli altri. Ma il nostro salvatore, Gesù, ha risanato questi mali quando ha detto: "Beati i poveri nello spirito" ( Mt 5,3 ), contro coloro che cercano i beni della terra, e "Beati i miti" ( Mt 5,4 ), contro gli iracondi. Perciò gloria al Padre che ci ha mandato la salvezza, il salvatore; lode alla Vergine che l'ha dato alla luce e oggi l'ha portato alla circoncisione. "Sefora prese …" Sefora s'interpreta "colei che lo guarda". È figura della beata Vergine, la quale guardò, faccia a faccia, adagiato nella mangiatoia, avvolto in fasce e mentre vagiva nella culla, colui che regna nei cieli e nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ). 9. "Sefora prese una pietra molto tagliente". I Giudei dicono che da questo momento ha avuto inizio l'uso di circoncidere con coltelli di pietra; altri dicono che iniziò da Giosuè, in Galgala ( cf. Gs 5,2ss ). Tuttavia, dove noi abbiamo scritto pietra, gli Ebrei hanno acies, ferro tagliente, che chiamano novacula, rasoio; quindi i Giudei circoncidono con il rasoio. Che la circoncisione del Signore sia stata fatta con il coltello di pietra o con quello di metallo, sia stata praticata da Maria o da Giuseppe o dai loro parenti, non ha molta importanza e non è il caso di appurarlo: sappiamo con certezza che come oggi Gesù fu circonciso. Quello che dice la Scrittura, che Sefora "circoncise il prepuzio del suo figlio", va inteso nel senso che Sefora, o fece la circoncisione lei stessa, o la fece eseguire da altri, secondo il comando del Signore. E ricorda che tutta la vita di Cristo fu segnata dal sangue. Ebbe inizio nel sangue nell'ottavo giorno dalla nascita, e nel sangue si concluse. E questo fu necessario proprio per noi perché, come dice l'Apostolo: "Tutto viene purificato con il sangue e senza spargimento di sangue non c'è perdono" ( Eb 9,22 ). Ricordiamo quindi che cinque volte Cristo sparse il sangue. La prima volta fu nella circoncisione che oggi commemoriamo; la seconda nel sudore di sangue all'orto degli Ulivi; la terza nella flagellazione; la quarta nella crocifissione e la quinta con il colpo di lancia ricevuto nel costato sopra la croce. Il sole al suo sorgere e al suo tramonto si mostra di color rosso: così Cristo al principio e alla fine della sua vita fu sanguineus, rosso sangue. Sia egli benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. Sermone morale 10. "Sefora prese una pietra molto tagliente". Leggiamo anche in Giosuè: "Disse il Signore a Giosuè: Fabbricati dei coltelli di pietra e circoncidi di nuovo i figli d'Israele. Giosuè fece ciò che il Signore aveva comandato" ( Gs 5,2-3 ). Quindi il Signore disse: "Oggi ho allontanato da voi l'infamia dell'Egitto" ( Gs 5,9 ). Il nome Sefora ha varie interpretazioni: "uccello", "che scruta", "che piace", "che aderisce". Sefora è figura dell'anima fedele, la quale se sarà uccello sarà anche in grado di scrutare; se scruterà piacerà, e se piacerà aderirà: così una cosa scaturirà dall'altra. Sarà uccello rinunciando alle cose terrene; scruterà con la contemplazione delle cose celesti; piacerà con l'amore; aderirà con l'unione perfetta. Quando si innalza scruta, quando scruta si infiamma d'amore; quando si infiamma di amore si unisce. Consideriamo i singoli punti. Nell'uccello ci sono due ali, nell'anima c'è la fede e la speranza. La fede e la speranza riguardano le cose invisibili, e quindi dalle cose visibili innalzano a quelle invisibili. Ma coloro che hanno la fede solo a parole, che pongono la loro speranza solo in se stessi e nelle loro cose e pongono la fiducia nell'uomo, costoro bramano avidamente le cose terrene e gustano solo quelle. Perciò dice Giobbe: "L'uomo", che sa di terra, di humus, che vive nel fradicio della gola e della lussuria, "nasce alla fatica" della mola d'asino ( Gb 5,7 ). Il contadino benda gli occhi all'asino e lo batte con il bastone, e così l'asino trascina intorno una mola di grande peso. Il contadino è il diavolo e il suo asino è il mondano. Il diavolo gli chiude gli occhi quando gli acceca l'intelletto e la ragione; e allora lo colpisce con il bastone della cupidigia perché trascini con sé la mola della vanità mondana. "Gli empi camminano in circolo" ( Sal 11,9 ). "Mio Dio, rendili come una ruota" ( un turbine ) ( Sal 83,14 ). Invece "l'uccello nasce per il volo" ( Gb 5,7 ). Dice la Storia Naturale che quanto più l'uccello ha il petto stretto e penetrante, tanto più è idoneo al volo, perché se il petto fosse largo muoverebbe molta più aria e il volo risulterebbe più faticoso. Dice il Signore: "Forse che al tuo comando l'aquila si leverà in alto e su luoghi ardui porrà il suo nido? Essa resta tra le pietre e dimora tra selci scoscese e su rupi inaccessibili. Di là scorge la preda e lontano scrutano i suoi occhi" ( Gb 39,27-29 ). L'aquila è figura dell'anima fortunata che, rifiutata la larghezza delle cose temporali, restringe il suo petto, cioè i pensieri del suo cuore, per poter così, sollevata al di sopra delle cose terrene, fare il nido del suo soggiorno sulle ardue vette. "La nostra patria è nei cieli" ( Fil 3,20 ), dice l'apostolo. E osserva bene che non dice nel cielo, ma "nei cieli". I cieli sono tre. Il primo, l'acutezza dell'intelligenza; il secondo, lo splendore della giustizia ( della santità ); il terzo, la sublimità della gloria. Nel primo c'è la contemplazione della verità; nel secondo c'è l'amore della giustizia; nel terzo la pienezza del gaudio eterno. Nel primo l'ignoranza viene illuminata, nel secondo viene estinta la concupiscenza, nel terzo viene eliminata ogni inquietudine. Se sei avvolto nella luce della verità, possiedi il primo cielo. Se sei bruciato dalla fiamma dell'amore abiti nel secondo. Se hai assaporato un qualche gaudio di soavità interiore, sei ammesso al terzo cielo. E questo gaudio è appunto l'unione dello sposo e della sposa. Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito ( cf. 1 Cor 6,17 ). Questi tre cieli possono essere individuati anche nella pietra, nella selce e nella rupe, di cui parla Giobbe a proposito dell'aquila. Nella pietra, per la sua solidità, possiamo riconoscere la contemplazione della verità; nella selce, l'amore della giustizia: poiché dalla selce sprizza il fuoco, ciò raffigura anche l'amore del Creatore; nella rupe, per la sua stabilità, si riconosce la pienezza dell'eterna beatitudine. Queste tre cose possono anche simboleggiare le potenze angeliche, confermate in eterno nell'amore del Creatore: esse sono dette "selci scoscese" e "rocce inaccessibili", perché, mentre altri angeli caddero, esse resistettero irremovibili; ad esse gli apostati non possono né salire, né avvicinarsi. E da queste rocce Sefora, aquila alata, cioè anima contemplativa, contempla Dio, suo cibo e suo nutrimento. 11. "Sefora prese una pietra molto tagliente e circoncise il prepuzio del suo figlio". Vediamo quale significato abbiano la pietra molto tagliente, il prepuzio del figlio e la circoncisione. La pietra è figura della penitenza. Dice Giobbe: "Chi mi concederà di ritornare com'ero nei mesi passati, quando mi lavavo i piedi nel latte, e la pietra mi versava ruscelli di olio?" ( Gb 29,2.6 ). Nel mese è simboleggiata la perfezione, nel latte la soavità della grazia, e nei ruscelli d'olio lo sgorgare delle lacrime. Quindi Giobbe, che s'interpreta "dolorante", raffigura il penitente che anela alla perfezione della prima conversione e del precedente comportamento: in quel tempo c'era nella sua mente la soavità della grazia che gli purificava i piedi, cioè i sentimenti e gli affetti, da ogni bruttura; in quel tempo la pietra, cioè l'austera penitenza faceva sgorgare abbondanti le lacrime. E come l'olio galleggia sopra ogni altro liquido, così le lacrime sono al di sopra di ogni opera buona. La lampada senza olio è l'opera senza devozione. Questa pietra è tagliente nella contrizione, più tagliente nella confessione, e traglientissima nell'opera di soddisfazione, di riparazione, cioè nella penitenza: con essa Sefora deve circoncidere il prepuzio del suo figlio. Il figlio è figura del corpo, il prepuzio delle cose temporali superflue, che impediscono all'uomo di meditare sulla sua miseria. Per questo il prepuzio ha questo nome, che significa "davanti al pudore". Queste cose superflue sono raffigurate nei perizomi, dei quali è detto nella Genesi: Adamo ed Eva "accortisi di essere nudi, intrecciarono delle foglie di fico e ne fecero dei perizomi" ( Gen 3,7 ), cioè delle fasce, come delle corte brache. Esuli dal paradiso terrestre, i figli di Adamo, poiché sono denudati della grazia di Dio, volentieri si coprono con le foglie di fico. Le foglie di fico producono prurito e al calore del sole si restringono, si arricciano e si disseccano: così le cose temporali producono il prurito della lussuria, e alla fiamma della morte lasciano nudi coloro che in vita se ne sono ricoperti. Fortunata quell'anima che circoncide il prepuzio del suo figlio. Questo è il coltello di pietra, con il quale vengono circoncisi nuovamente i figli d'Israele, cioè i cristiani che sono stati circoncisi di ogni peccato la prima volta nel Battesimo. Ma poiché la malizia è aumentata e sovrabbonda l'iniquità, di nuovo vengono circoncisi da Cristo con il coltello di pietra, cioè con l'austerità della penitenza; e così viene allontanata l'infamia dell'Egitto, cioè il peccato mortale, che hanno contratto nelle tenebre del mondo. 12. In altro senso. La pietra è Cristo ( cf. 1 Cor 10,4 ). Dice il salmo: "La pietra è il rifugio", il retrorifugio, "per gli iraci" ( erinacei ) ( Sal 104,18 ) , cioè per i peccatori, ricoperti delle spine dell'iniquità. E di nuovo: Beato chi terrà i suoi piccoli alla pietra ( cf. Sal 137,9 ), colui cioè che frenerà i suoi impulsi tendolo fermo alla pietra che è Cristo. L'onda del mare, quando sbatte contro la pietra, si infrange. Così anche la tempesta della tua tentazione, se sbatte contro Cristo, sarà infranta dalla grandezza della sua potenza e tu ne uscirai salvo. Questa pietra fu tagliente nei castighi della misera vita presente; infatti dice la Genesi: "Maledetta la terra per causa tua: spine e cardi produrrà per te" ( Gen 3,17.18 ). Sarà ancor più tagliente nella corruzione: Sei polvere, e in polvere ritornerai ( cf. Gen 3,19 ). Sarà taglientissima nella proclamazione dell'ultima sentenza: "Andate, maledetti, nel fuoco eterno!" ( Mt 25,41 ). Con l'acutezza di questo timore, l'anima non separa, ma circoncide il prepuzio del suo figlio, non soltanto restituendo il mal tolto, assistendo gli altri con le opere di misericordia, ma anche togliendo alla propria bocca le cose dolci, agli occhi le cose provocanti, agli orecchi le cose lusinghiere, alle mani quelle morbide e delicate, a tutto il corpo quelle piacevoli. Lo stesso Gesù, per noi oggi circonciso, si degni di circoncidere anche noi dei vizi, affinché nel giorno ottavo della risurrezione meritiamo di esultare per la duplice stola che riceveremo. Ce lo conceda lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen. Domenica II dopo Natale Temi del sermone – Vangelo della seconda domenica dopo Natale: "Quando Gesù ebbe dodici anni"; vangelo che divideremo in tre parti. – Anzitutto sermone ai penitenti per la Quaresima: "Applicate i vostri cuori a riflettere sulle vostre vie". – Parte I: Le dodici virtù e i genitori del giusto, cioè la speranza e il timore: "Quando Gesù ebbe dodici anni". – Sermone ai contemplativi: "Le porte di Gerusalemme". – Il triplice stato dei penitenti: "Tre volte all'anno"; e la loro triplice offerta: "Vi scongiuro". – Parte II: Sermone sulla compassione verso il prossimo: "Si vedevano tra quegli esseri". – Il triduo dei penitenti: "Il viaggio di tre giorni". – Parte III: Sermone sull'umiltà e sull'obbedienza: "Il mio diletto scese nel suo giardino"; e "Fiorirà il mandorlo"; e ancora: "Ed era ad essi sottomesso". Esordio - sermone ai penitenti per la quaresima 1. "Quando Gesù ebbe dodici anni" ( Lc 2,42 ). Dice il Signore per bocca del profeta Aggeo: "Mettete i vostri cuori sulle vostre vie; salite il monte, portate la legna ed edificate la casa" ( Ag 1,7-8 ). In queste tre parole: mettete, salite, e edificate, sono indicate la contrizione, la confessione e la soddisfazione ( cioè l'opera di riparazione ): e chi le ha potrà edificare la casa al nome del Signore. Le vie sono le nostre opere. Dice infatti Geremia: "Osserva le tue vie nella valle, e saprai ciò che hai fatto" ( Ger 2,23 ). Vedi il sermone della III domenica di Quaresima, prima parte: "Gesù aveva scacciato un demonio, che era muto". "Mettere il cuore sulle vie" significa pensare con la contrizione del cuore a quello che si è fatto. Dice infatti il salmo: "Ho ripensato alle mie vie e ho rivolto i miei passi verso il tuoi comandamenti" ( Sal 119,59 ). Ma poiché sono pochi, o non c'è nessuno che faccia questo, il Signore si lamenta: "Ho fatto attenzione e ho ascoltato: nessuno dice ciò che è bene; non c'è nessuno che faccia penitenza del suo peccato, dicendo: Che cosa ho fatto? Tutti sono ritornati alla loro corsa, come il cavallo che va impetuosamente alla battaglia" ( Ger 8,6 ). Davide, giacché aveva posto il suo cuore, cioè aveva riflettuto, sulle sue vie, rivolse i suoi passi, cioè i suoi affetti, verso le testimonianze del Signore, cioè verso le atroci sofferenze della sua passione. Invece costoro, che non pensano a quello che fanno e neppure fanno penitenza, continuano la loro corsa dietro alle cose di questo mondo. Colui che non conosce la sua vita interiore, si rivolge alle cose esteriori ed estranee. È estraneo tutto ciò che tu non potrai portare con te al momento della morte. Quindi metti il tuo cuore sulle cose tue e non su quelle estranee, perché dov'è il cuore è anche l'occhio, dov'è l'occhio è anche la conoscenza, e dov'è la conoscenza c'è il perdono. Mettete dunque i vostri cuori sulle vostre vie, e così potrete salire al monte, nel quale è raffigurata la confessione, che è "il monte di Dio, il monte fecondo" ( Sal 68,16 ). Della cui fecondità è detto anche: "Sarà come ingrassata e rinvigorita la mia anima" ( Sal 63,6 ). "Hai cosparso il mio capo di olio", cioè la mia mente della luce della confessione, "e quanto è prezioso il mio calice" ( Sal 23,5 ), cioè la bevanda delle lacrime. "O come è bella la generazione casta, con la gloria ( lat. clàritas, chiarezza )" ( Sap 4,1 ). La confessione, essendo prodotta dalla contrizione, può essere chiamata "generazione", e la sua bellezza consiste appunto nella castità e nella chiarezza. Nella castità, perché i peccati devono essere per così dire denudati davanti ad un unico sacerdote, e non divisi tra molti; nella chiarezza, perché il penitente dev'essere come inondato di lacrime, dalle quali la sua coscienza viene resa limpida e chiara. "Portate la legna". Con questo è indicata la soddisfazione, cioè l'opera di riparazione: dal monte della confessione il penitente porta la legna della soddisfazione. E pensa che come nel legno della croce di Cristo ci fu la lunghezza, la larghezza, l'altezza e la profondità ( cf. Ef 3,18 ), così in questo legno, che è la croce della penitenza, ci dev'essere la lunghezza della perseveranza finale, la larghezza della carità, l'altezza della speranza e la profondità del timore. Con questa legna viene edificata la casa del Signore, nella città di Gerusalemme, della quale è detto nel vangelo di oggi: "Quando Gesù ebbe dodici anni, salirono a Gerusalemme come usavano fare per la festa di Pasqua" ( Lc 2,42 ). 2. In questo vangelo si devono considerare tre fatti. Primo, il viaggio di Gesù e dei suoi genitori a Gerusalemme: "Quando Gesù ebbe dodici anni". Secondo, il ritrovamento di Gesù dopo tre giorni: "E avvenne che dopo tre giorni …". Terzo, il ritorno di Gesù a Nazaret con i genitori: "E ritornò con loro …" Nell'introito della messa di oggi si canta: "Nel trono eccelso della tua gloria …" ( era una composizione liturgica presa, come sembra, da Is 6,1-3 ). Si legge poi l'epistola del beato Paolo ai Romani: "Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio" ( Rm 12,1ss ). La divideremo in tre parti e la confronteremo con le tre parti del vangelo per vederne la concordanza. La prima parte: "Vi scongiuro"; la seconda: "Non conformatevi"; la terza: "Per la grazia a me concessa, dico a ciascuno di voi". I. L'andata di Gesù e dei suoi genitori a Gerusalemme 3. "Quando Gesù ebbe dodici anni". Vedremo quale sia il significato morale di queste espressioni: il fanciullo Gesù, i suoi genitori, Gerusalemme, l'usanza della festa di Pasqua. "Il fanciullo Gesù". Con questi due nomi viene indicata la perfezione del giusto, che dev'essere "fanciullo", cioè puro ( fanciullo, in lat. puer, purus ) riguardo a se stesso, e "Gesù", cioè salvatore, nei riguardi del prossimo. Per essere puro gli sono necessarie sei virtù: la purezza del cuore, la castità del corpo, la pazienza nelle avversità per non abbattersi, la costanza nella prosperità per non esaltarsi e, per perseverare in queste virtù, l'umiltà e la povertà. Per essere "salvatore" gli sono necessarie le sei opere di misericordia, enumerate nel vangelo: "Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ecc. ( Mt 25,35ss ). E questo è il numero di "dodici anni" del giusto, che desidera salire a Gerusalemme con Gesù, del quale appunto è detto: Quando Gesù ebbe dodici anni. "I suoi genitori". Giuseppe e Maria. Giuseppe si interpreta "aumento"; Maria "mare amaro", non perché si sia amaramente lamentata della sofferenza, ma perché ebbe in sorte il nome dell'amarezza quasi per un presentimento della passione del Figlio. Giuseppe e Maria sono figura della speranza e del timore, che sono come i genitori del giusto. La speranza è l'attesa dei beni futuri, che genera un sentimento di umiltà e una pronta disponibilità di servizio. Ecco Giuseppe, umile e diligente servitore [ del figlio di Dio ]. La speranza è detta in latino spes, quasi pes, piede, passo di avanzamento: ecco l'aumento, l'accrescimento. Al contrario si dice disperazione, quando non c'è nessuna possibilità di andare avanti, poiché quando uno ama il peccato non spera certo nella gloria futura. E perché la speranza non degeneri in presunzione, dev'essere unita al timore, che è principio della saggezza ( cf. Sal 111,10; Sir 1,16 ), al cui possesso nessuno può giungere se prima non ha assaporato l'amarezza del timore. Per questo è detto nell'Esodo che i figli d'Israele, prima di arrivare alla dolcezza della manna, trovarono l'amarezza dell'acqua di Mara ( cf. Es 15,23 ). Bevendo una medicina amara si arriva alla gioia della guarigione. Con questi genitori il giusto deve salire a Gerusalemme, nella quale è raffigurata la perfezione della vita, la tranquillità della coscienza, la soavità della contemplazione. Dice Tobia: "Le porte di Gerusalemme saranno costruite di zaffiro e di smeraldo, e tutta la cinta delle sue mura di pietre preziose. Tutte le sue piazze saranno lastricate di pietre pure e candide, e per tutte le sue vie si canterà Alleluia" ( Tb 13,21-22 ). Nello zaffiro che è di colore celeste, e nello smeraldo che è di colore verde è simboleggiata la perfezione della vita, che consiste nel disprezzo delle cose terrene e nel desiderio di quelle celesti. Nelle pietre preziose, pure e candide, è simboleggiata la tranquillità della coscienza. Nell'Alleluia è indicata la soavità della contemplazione. Nel sermone della domenica XV dopo Pentecoste., parte terza, troverai trattata più a fondo questa citazione, nell'esposizione della storia di Tobia. 4. "Secondo l'usanza della festa di Pasqua" ( Lc 2,42 ). Mosè aveva comandato ai figli d'Israele: "Tre volte all'anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che egli avrà scelto: nella festa degli azzimi", cioè la pasqua, "nella festa delle settimane e nella festa delle capanne. Nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote, ma ognuno offrirà ciò che ha, in misura della benedizione che il Signore Dio suo gli ha dato" ( Dt 16,16-17 ). Considera che in queste tre solennità sono raffigurati i tre stati della vita spirituale: quello degli incipienti, quello dei proficienti e quello dei perfetti. Nella solennità degli azzimi è raffigurato lo stato degli incipienti, i quali devono celebrare la pasqua "con azzimi di sincerità e verità" ( 1 Cor 5,8 ), e mangiare l'agnello con erbe amare di campo ( cf. Es 12,8 ), cioè nell'amarezza dei loro peccati. Su questo argomento vedi anche il sermone della Risurrezione, prima parte. Nella solennità delle settimane, nella quale venivano offerti al Signore i due pani nuovi delle primizie ( cf. Lv 23,16 ), è raffigurato lo stato dei proficienti, il cui uomo interiore si rinnova di giorno in giorno ( cf. 2 Cor 4,16 ): essi offrono al Signore i due pani nuovi, vale a dire la purezza dell'anima e del corpo. Nella solennità delle capanne, detta anche, in greco, scenopegìa, cioè allestimento delle tende, è raffigurato lo stato dei perfetti i quali, come dice Isaia, dimoreranno nelle tende della confidenza ( cf. Is 32,18 ). "Le loro tende – dice Balaam – sono belle come valli boscose": in esse sono indicate la povertà e l'umiltà che offrono un riparo di ombra contro gli ardori delle cose temporali; le tende sono belle "come giardini irrigati lungo i fiumi" ( Nm 24,5-6 ), nei quali è simboleggiata l'infusione della grazia, che spegne la sete della concupiscenza carnale. Questa dunque è l'usanza del giorno di festa, secondo la quale ogni giusto è tenuto e deve salire a Gerusalemme, dove, per non comparire davanti al Signore a mani vuote, deve offrire l'agnello dell'innocenza, per quanto riguarda il prossimo, i due pani nuovi della duplice purezza del corpo e dello spirito per quanto riguarda se stesso, e, come è detto nel Levitico, prendere i frutti dell'albero più bello e rami di palma, ecc. ( cf. Lv 23,40 ). Vedi anche l'ultima parte del sermone della domenica delle Palme. 5. Questa prima parte del vangelo concorda con la prima parte dell'epistola: "Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale" ( Rm 12,1 ). Il giusto che voglia salire a Gerusalemme con i genitori, secondo l'uso di questa festa, deve assolutamente osservare le tre norme delle quali parla l'Apostolo, altrimenti comparirà a mani vuote davanti al Signore, il quale dice: "Qualunque cosa offrirai in sacrificio, la condirai con sale, e dal tuo sacrificio non toglierai il sale dell'alleanza del tuo Dio. In ogni offerta – cioè in ogni opera buona – offrirai anche il sale del discernimento" ( Lv 2,13 ). "Vi scongiuro, dunque, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio". Fa' attenzione a queste tre parole: vivente, santo, gradito a Dio. Gli incipienti devono offrire il loro corpo come sacrificio vivente, i proficienti come sacrificio santo, i perfetti come sacrificio gradito a Dio. E a queste tre qualità si riferisce anche il Levitico quando parla di tre specie di offerte. La prima consisteva nell'offerta di bestiame, la seconda nell'offerta di volatili, la terza nell'offerta di fior di farina impastata con l'olio; e quest'ultima in tre forme di cottura: al forno, al tegame e alla graticola. La prima, il sacrificio vivente, è l'offerta degli incipienti; infatti sta scritto: "Tolta la pelle alla vittima, ne farà a pezzi le membra; preparata prima la catasta della legna, porranno il fuoco sull'altare; vi disporranno sopra i pezzi tagliati: la testa, tutto ciò che è unito al fegato; laverà con acqua gli intestini e le zampe; quindi il sacerdote brucerà il tutto sull'altare come olocausto di soave profumo per il Signore" ( Lv 1,6-9 ). L'altare simboleggia il cuore, il fuoco l'amore divino, la catasta della legna il cumulo delle sofferenze di Cristo; il togliere la pelle raffigura la rivelazione del peccato; le membra tagliate a pezzi simboleggiano la precisazione delle circostanze del peccato nella confessione; la testa raffigura l'origine del peccato; il fegato l'ostinato attaccamento ad esso; gli intestini i pensieri immondi; le zampe sono i passi [ verso il male ] e l'acqua l'effusione delle lacrime. Ecco dunque che il peccatore che si converte, iniziando il suo cammino di penitenza, deve prima fare, sull'altare del suo cuore, come una catasta delle sofferenze di Cristo, pensare cioè ai flagelli, alle percosse, agli sputi, alla croce, ai chiodi, alla lancia, e quindi scoprire nella confessione i peccati e specificare con precisione le loro circostanze, quale sia stata l'origine del peccato e quanta la compiacenza e l'attaccamento ad esso. Poi deve purificare con l'acqua delle lacrime l'impurità dei pensieri e delle opere. Quando tutte queste cose saranno eseguite e poste sopra il cumulo delle sofferenze di Gesù Cristo, egli stesso, che è il sommo sacerdote, vi pone il fuoco del suo amore che divorerà tutti i peccati: allora il penitente stesso diverrà olocausto, cioè totalmente bruciato, nulla risparmiando di sé, ma mettendosi completamente al servizio del Signore, per essere ovunque il buon profumo di Cristo ( cf. 2 Cor 2,15 ). In questo modo offrirà se stesso come vittima vivente: vittima perché morto al peccato, vivente perché vivo solo per la santità; dice infatti l'apostolo: "Io vivo, ma non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me" ( Gal 2,20 ). 6. La seconda, il sacrificio santo, è l'offerta dei proficienti. "Se l'offerta al Signore è un olocausto di volatili, il sacerdote offrirà all'altare tortore o colombe. Torcendone il capo sul collo provocherà una rottura e dalla ferita farà scorrere il loro sangue sullo zoccolo dell'altare. Invece la vescichetta del collo ( il gozzo ) e le piume le getterà vicino all'altare, dalla parte d'oriente, nel luogo dove di solito si versano le ceneri. Ne spezzerà le ali, senza segarle o tagliarle con il ferro, e le brucerà sopra l'altare sul fuoco di legna. Questo è l'olocausto e l'offerta di soavissimo profumo al Signore" ( Lv 1,14-17 ). Si fa l'olocausto e l'offerta con i volatili, quando il giusto, coperto per così dire delle penne delle virtù – raffigurato nella tortora e nella colomba per la castità, la semplicità e il lamento della penitenza – progredisce di virtù in virtù. Egli piega la testa sul collo e la bocca sulla spalle, quando pratica con le opere ciò che proclama con le parole. Questa flessione, o torsione, provoca la rottura, che simboleggia la devozione della mente, dalla quale fluisce il sangue delle lacrime, che sono appunto, come dice Agostino, il sangue dell'anima. "Farà scorrere il sangue sullo zoccolo dell'altare", vale a dire nell'animo dell'ascoltatore. L'armonioso accordo, nel predicatore, tra ciò che insegna e ciò che fa, suscita la devozione che penetra nel cuore di chi ascolta. Dice appunto l'Ecclesiastico: Non distruggere questo armonioso accordo ( cf. Sir 32,5 ). Nella vescichetta del collo ( il gozzo ) è raffigurata la vampa dell'avarizia, e nelle piume la vacuità della superbia: vizi che il giusto getta lontano da sé, "dalla parte d'oriente, nel posto delle ceneri", quando considera da quale stato di felicità e di gloria è caduto per causa dell'avarizia e della superbia dei progenitori, ai quali fu detto: "Sei cenere, e in cenere ritornerai" ( Gen 3,19 ). Il giusto "spezza le ali" quando, meditando sull'umiliazione del Signore nella sua passione, "deprezza il valore delle sue virtù". Dice Ezechiele: Quando rintronava la voce nel firmamento, i quattro esseri viventi abbassavano le loro ali ( cf. Ez 1,25 ). Il firmamento è Cristo, sul quale risuonò la voce: "Colpirò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse" ( Mt 26,31 ). Quando questi esseri viventi, cioè i santi, sentono tale voce, sminuiscono il valore dei loro meriti, e non confidano in se stessi ma nella passione del Pastore "colpito", trafitto. Il giusto che ogni giorno progredisce migliorando se stesso, spezza con l'umiltà le ali delle sue virtù, però non se ne allontana nel tempo delle difficoltà con il ferro dell'impazienza: in questo modo consuma se stesso come vittima santa sopra l'altare, imitando la passione del Signore, nel fuoco di legna della santa devozione, vale a dire con gli esempi dei santi padri; e così fa di se stesso un olocausto e un'offerta di soavissimo profumo al Signore. 7. La terza, "Il sacrificio gradito a Dio". L'uomo perfetto fa la terza offerta, che, come è detto nel Levitico, consisteva in fior di farina, impastata con l'olio ( cf. Lv 2,5 ). Il fior di farina è una farina raffinatissima e bianchissima ed è figura della vita dell'uomo perfetto, nella quale non c'è la crusca delle vanità del mondo, ma risplende della bianchezza della castità ed è impregnata dell'olio della pietà. E questa vita perfetta viene per così dire bruciata nel forno della povertà, nel tegame delle necessità del prossimo e delle sue infermità, nella graticola della passione del Signore. In verità, questa vittima è gradita a Dio! E queste tre offerte, con le loro modalità, costituiscono "il culto spirituale" ( rationabile obsequium ), sincero, distinto, integro e santo. Fratelli carissimi, preghiamo Gesù Cristo che, come è salito a Gerusalemme con i suoi genitori, faccia salire anche noi, con la pratica delle dodici virtù su descritte, unite alla speranza e al timore, alla Gerusalemme morale ( spirituale ), dove potergli offrire, nelle tre solennità, l'ostia vivente, santa e a lui gradita. Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nella celeste Gerusalemme. Amen. Alleluia. II. Il ritrovamento di Gesù dopo tre giorni 8. "E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava" ( Lc 2,46 ). Vedremo il significato dei tre giorni, del tempio, di Gesù che siede, dei dottori, e del fatto che li ascoltava e li interrogava. I tre giorni raffigurano la consapevolezza della propria iniquità, il dovere della partecipazione alle necessità dei fratelli, la considerazione e l'ammirazione della misericordia di Dio. Sul primo giorno, leggiamo nel libro del profeta Michea: "Se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce" ( Mic 7,8 ). Sul secondo giorno dice Ezechiele: "Una visione si muoveva qua e là in mezzo agli esseri viventi: uno splendore di fuoco e dal fuoco si sprigionavano bagliori" ( Ez 1,13 ). Lo splendore di fuoco simboleggia la compartecipazione della carità, che riscalda e illumina, e dalla quale esce il bagliore di opere meravigliose. Questa visione, che fa realmente vedere, deve andare qua e là in mezzo agli esseri viventi, cioè tra i cristiani. E giustamente è detto ( in lat. ) discurrens, cioè che corre per vari luoghi. Alla vera compartecipazione non basta provvedere alle necessità del corpo, ma pensa anche a quelle dell'anima, e viceversa. Se qualcuno soffre nel corpo, anch'essa soffre, e se qualcuno riceve scandalo nell'anima, anch'essa ne freme ( cf. 2 Cor 11,29 ). E per il terzo giorno troviamo nell'Ecclesiaste: "Dolce è la luce, e piace agli occhi" della mente "vedere il sole" ( Qo 11,7 ), cioè meditare sullo splendore della misericordia divina. Chi avrà fatto questo "triduo" potrà veramente ritrovare Gesù nel tempio. Il tempio, nome che suona quasi come "ampio tetto", è figura della mente del giusto, che è tetto, perché tegit, copre con la compassione le necessità del prossimo, ed è ampio per la conoscenza che ha di se stesso e di Dio. In questo tempio, dopo il triduo suddetto, si ritrova Gesù. E che cosa fa lì Gesù? Fa tre cose: siede in mezzo ai dottori, ascolta e interroga. Nella mente del giusto ci sono i dottori, cioè le facoltà della ragione che insegnano da che cosa si deve guardarsi e che cosa si deve fare: in mezzo ad esse siede Gesù che apporta alla ragione la pace, con la pace la tranquillità, e con la tranquillità le serene e sagge decisioni: "Governa con bontà eccellente ogni cosa" ( Sap 8,1 ). E questo è anche ciò che dice Giobbe: "Anche quando sedevo quasi fossi un re, attorniato dall'esercito, ero sempre un consolatore degli afflitti" ( Gb 29,25 ). Ecco la consolazione: ascoltare e interrogare. Quando la mente si trova nella quiete e nel silenzio, allora Gesù ascolta i sentimenti del cuore che parlano al suo orecchio, e poi interroga con l'assillo della benevola correzione. Dice ancora Giobbe: "Lo visiti di buon mattino", ecco l'ascolto, "e subito lo metti alla prova" ( Gb 7,18 ): ecco l'interrogazione. E questa è la consolazione degli afflitti, cioè dei giusti, i quali gemono, in questa valle di lacrime, per mancanza della sorgente dall'alto ( cf. Gs 15,18-19 ), e pregano affinché il buon Gesù li ascolti e li interroghi, li visiti e li metta alla prova. "Questa sia la mia consolazione", continua Giobbe, "che egli, affliggendomi con il dolore, non voglia risparmiarmi" ( Gb 6,10 ). 9. Altra esposizione. I tre giorni, il triduo, raffigura la penitenza, che consiste in tre atti: nella contrizione, nella confessione e nella soddisfazione ( cioè nell'opera penitenziale ). Di questo triduo, dice Mosè: Faremo un viaggio di tre giorni verso il deserto e sacrificheremo al Signore, nostro Dio ( cf. Es 3,18 ). Dopo tre giorni Giuseppe e Maria, cioè i penitenti, i poveri nello spirito e gli umili troveranno Gesù nel tempio della celeste Gerusalemme. E questo è anche ciò che racconta la Genesi, che dopo tre giorni il capo dei coppieri fu ripristinato nel suo grado e nel suo ufficio ( cf. Gen 40,20-21 ). "Seduto in mezzo ai dottori". Dice Giovanni nell'Apocalisse: "Ebbi una visione: c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Attorno al trono c'erano ventiquattro seggi, e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi" – nei quali possiamo riconoscere i dodici patriarchi e i dodici apostoli –, "avvolti in candide vesti e con corone d'oro sul capo" ( Ap 4,1-2.4 ). Sono quasi le stesse parole che si cantano nell'introito della messa di oggi: "Su di un trono eccelso vidi seduto un personaggio: la moltitudine degli angeli lo adorava cantando tutti insieme, e il suo dominio dura in eterno" ( vedi il n. 2 ). E l'Apocalisse continua: "I ventiquattro vegliardi si prostravano davanti a colui che sedeva sul trono e adoravano colui che vive nei secoli dei secoli" ( Ap 4,10 ). Così sia! E cantavano un cantico nuovo, dicendo: "Tu sei degno, Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza" ( Ap 4,11 ). "Li ascoltava e li interrogava". Il Signore ascolta i beati spiriti quando, per mezzo del loro ministero, accoglie benignamente l'offerta della nostra devozione. "Dalla mano dell'angelo salì il fumo degli aromi insieme con le preghiere dei santi" ( Ap 8,4 ). E Raffaele dice a Tobia: "Io presentai la tua preghiera al Signore" ( Tb 12,12 ). E l'Apostolo: "Sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza" ( Eb 1,14 ). "Li interroga" dunque, quando ad essi rivela i segreti della sua volontà. 10. Con questa seconda parte del vangelo, concorda anche la seconda parte dell'epistola: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo" ( Rm 12,2 ). Dice il Signore per bocca di Isaia: "Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco di pruni, e fa un vaso come sua opera" ( Is 54,16 ). Il fabbro è il diavolo, creato da Dio nella sua sostanza. Il diavolo, con il soffio della cattiva suggestione, soffia sui pruni nel fuoco, cioè su tutto ciò che stimola al vizio. Questo mondo è come la fornace di Babilonia, della quale è detto in Daniele: "La fornace era accesa al massimo" ( Dn 3,22 ). Vedi il sermone della domenica XXII dopo Pentecoste, parte II, dove si racconta la storia di Daniele. Questa fornace ( del mondo ) viene accesa dal soffio del diavolo in modo tale da far fondere il ferro, cioè i superbi, il piombo, cioè gli avari, e lo stagno, cioè i lussuriosi; e allora il diavolo produce, con queste tre categorie di peccatori, un vaso e lo presenta come opera sua, esige cioè che eseguisca la sua volontà. Uno infatti entra nella forma della superbia, un altro nella forma dell'avarizia, e un terzo in quella della lussuria. Questi sono i vasi dell'ira e dell'ignominia, che saranno gettati nello sterco dell'eterna dannazione. Voi dunque che con Maria e Giuseppe cercate e desiderate trovare, "non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente e i vostri sentimenti" ( Rm 12,2 ). È ciò che dice anche Isaia: "Ci saranno cinque città nella terra d'Egitto" ( Is 19,18 ). Vedi il sermone della III domenica di Quaresima, parte III, "Quando un forte, bene armato". "Per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, [ a lui ] gradito e perfetto" ( Rm 12,2 ). Ecco il triduo, ecco i tre giorni dopo i quali si ritrova Gesù nel tempio. Ciò che buono è la contrizione del cuore, ciò che è gradito è la confessione, ciò che è perfetto è la soddisfazione, ossia l'opera di penitenza. Per il primo, dice il salmo: "Nella tua buona volontà, agisci benignamente verso Sion, o Signore" ( Sal 51,20 ); e la Sapienza: "Quanto è buono il tuo spirito, Signore, in tutte le cose!" ( Sap 12,1 ). Per il secondo, leggiamo in Daniele: "Tale sia il nostro sacrificio davanti a te", cioè la confessione, "affinché ti sia gradito" ( Dn 3,40 ). E la Genesi: "Il Signore guardò ad Abele e gradì i suoi doni" ( Gen 4,4 ). Per il terzo, dice il salmo: "Guida i miei passi, Signore, sui tuoi sentieri" ( Sal 17,5 ): nei sentieri del Signore è indicata l'austerità della vita, e l'asprezza delle opere di penitenza. Preghiamo perciò il Signore nostro Gesù Cristo, perché ci conceda di compiere questo triduo, per poter essere degni di ritrovarlo nel tempio del cielo, assiso tra gli angeli: lui che è benedetto nei secoli eterni. Amen. III. Il ritorno di Gesù a Nazaret insieme con i genitori 11. "Gesù discese con loro e andò a Nazaret, e stava loro sottomesso" ( Lc 2,51 ). Fa' attenzione a queste tre parole: discese, Nazaret, e sottomesso. Discenda e sieda nella polvere la figlia di Babilonia ( cf. Is 47,1 ), perché anche il Figlio di Dio è disceso. O ostinata superbia, che ti affanni per salire al di sopra delle nubi, per innalzare il tuo trono più in alto delle stelle del cielo, e sedere sul monte dell'assemblea, discendi, te ne scongiuro, perché anche Gesù è disceso ( cf. Is 14,13-14 ). E tu, Cafarnao, innalzata fino al cielo, discendi con Gesù, prima di venir sprofondata nell'inferno ( cf. Mt 11,23 ), perché egli solo è il paradiso: "Ciò che da te proviene è paradiso" ( Ct 4,13 ). O meretrice, "che siedi sulla bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi" ( Ap 17,3 ), discendi con Gesù. Arrossisca, si vergogni l'insensata superbia, si squarci la gonfia arroganza, perché anche la Sapienza di Dio è discesa. Il misero essere umano va strisciando e con le mani e con i piedi si arrampica e fa ogni sforzo per salire sul piedistallo del suo onore, o piuttosto della sua vergogna, mentre il buon Gesù, al rimprovero della sua Madre amorosa che gli dice: "Figlio, perché ci hai fatto questo?" ( Lc 2,48 ), rinviò ai trent'anni l'opera che aveva incominciato a dodici, e discese dal tempio, dove sedeva in mezzo ai dottori. 12. "E andò a Nazaret". Dice la stessa cosa anche la sposa del Cantico dei Cantici: "Il mio diletto discese nel suo giardino, all'aiuola degli aromi" ( Ct 6,1 ), cioè abbracciò l'umiltà, che è la madre delle altre virtù. Ci eravamo proposti di fermarci su questo passaggio solo brevemente, ma il fascino di Nazaret non ci permette di proseguire. La bellezza del luogo, la grazia del fiore, la soavità del profumo ci trattengono: facciamo una piccola sosta, mentre siamo avviati a celebrare le nozze in Cana di Galilea. Nazaret, località modesta: il suo nome s'interpreta "fiore" e sta ad indicare l'umiltà, virtù che giustamente è chiamata fiore. Nel fiore si trovano tre qualità: la bellezza del colore, la soavità del profumo e la speranza del frutto. Nella vera umiltà c'è la bellezza dell'onestà. Dice infatti l'Ecclesiastico: "I miei fiori danno frutti di onore e di onestà ( Sir 24,23 ). C'è la soavità, il gusto della buona reputazione. Come il fiore quando emana il suo profumo non si guasta, così il vero umile, anche se viene lodato per il profumo della sua santa vita, non va in superbia. Il vero umile, dice Bernardo, desidera essere disprezzato e non dichiarato umile. Anche Salomone dice: "Fiorirà il mandorlo, si ingrasserà la locusta e sarà disperso il cappero" ( Qo 12,5 ). Il mandorlo che fiorisce prima delle altre piante, è figura dell'umile, che dice con Davide: "Danzerò, ( lett. giocherò ) davanti al Signore e mi abbasserò ancor più di quanto ho fatto oggi, e mi farò umile, spregevole ai miei occhi" ( 2 Sam 6,22 ). E di questo "gioco" dice la Sapienza del Padre: "Mi deliziavo tutti i giorni, giocando davanti a lui, giocando sul globo terrestre, trovando le mie delizie tra i figli degli uomini" ( Pr 8,30-31 ). Il Figlio, il buon Gesù, davanti al Padre giocava quando veniva tradito dal discepolo, quando legato alla colonna veniva flagellato, quando veniva schernito da Erode, quando veniva coronato di spine, quando veniva colpito con schiaffi e pugni e lordato di sputi, quando il suo volto veniva velato, quando veniva percosso con la canna, quando gli veniva strappata la barba. Giocava anche quando, portando la sua croce, uscì verso il luogo chiamato Golgota, calvario ( Gv 19,17 ), dove venne crocifisso dai soldati, deriso dai prìncipi dei sacerdoti, abbeverato di fiele e di aceto e il suo fianco fu trapassato dalla lancia. Ecco in che modo la Sapienza di Dio giocò e si rese spregevole sopra il globo terrestre. Ecco quali delizie trovò tra i figli degli uomini! A questo gioco si unisce, per quanto gli è possibile, colui che è veramente umile, colui che quanto più si rende spregevole ai propri occhi, tanto più diventa sublime davanti a quelli di Dio. "Fiorirà, dunque, il mandorlo e si ingrasserà la locusta". Quando nell'animo fiorisce l'umiltà e l'onestà nelle opere, allora si ingrasserà la locusta, cioè l'anima stessa dell'umile, spiccando il salto verso la contemplazione. Non s'ingrasserà, come l'ipocrita, con l'inebriante effluvio dell'autoesaltazione, ma gusterà il tenue e delicato profumo del fiore della vera umiltà. L'umile si nutrirà con il proprio fiore e non con la bocca degli altri: e allora sarà disperso il cappero, cioè la superbia e la vanagloria. E finalmente c'è la speranza di raccogliere i frutti dall'abbondanza della casa del Signore. Quando vedo il fiore, spero nel frutto; così quando vedo un vero umile, spero che egli sarà beato nei cieli. Ma ahimè! "Ogni ipocrita è malvagio" ( Is 9,17 ), dice Isaia; e Michea: "Il migliore tra di essi è come un pruno, e il più retto come le spine della siepe" ( Mic 7,4 ). Veramente oggi tutti sono ipocriti, pruni e spine. L'ipocrita, che finge di essere ciò che non è; il cespuglio di pruni, che sembra morbido nelle parole, ma punge con i fatti; le spine che feriscono i passanti per succhiarne il sangue della lode e del denaro. Nel giardino di Nazaret non c'è il pruno né la spina, ma il giglio e la viola, e per questo Gesù "andò a Nazaret". 13. "Ed era loro sottomesso". Ogni superbia sprofondi, ogni arroganza si disperda, ogni insubordinazione si arrenda quando sente queste parole: "Era loro sottomesso". Chi è sottomesso? Colui che con una sola parola ha creato tutto dal nulla. "Colui – dice Isaia – che ha misurato con il cavo della mano le acque, che ha calcolato l'estensione dei cieli con il palmo; colui che con tre dita sostiene la massa della terra, che pesa con la statera i monti e con la bilancia i colli" ( Is 40,12 ). "Colui – dice Giobbe – che scuote la terra dal suo posto e tremano le colonne del cielo. Colui che comanda al sole ed esso non sorge e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea l'Orsa e Orione, le Pleiadi e i penetrali del cielo australe. Colui che fa cose grandi e incomprensibili, e meraviglie che non si possono contare" ( Gb 9,6-10 ). Colui che può far cessare l'armonia dei cieli ( cf. Gb 38,37 ). Egli prenderà come all'amo il Leviatan e lo catturerà, legherà con una fune la sua lingua, gli forerà con un giunco le narici e la mascella con un uncino" ( cf. Gb 40,19-20 ). Questi, così grande e così potente, è colui che "era loro sottomesso". "Era sottomesso a loro". A chi? A un falegname e alla Vergine poverella. O Primo, o Ultimo, o Sovrano degli angeli, sottomesso agli uomini! O creatore del cielo sottomesso a un falegname, il Dio dell'eterna gloria sottomesso alla Vergine poverella. Chi mai ha udito un simile fatto? E chi mai ha veduto una cosa simile? Perciò non disdegni il filosofo di obbedire e di sottomettersi a un pescatore, il sapiente a un semplice, il letterato all'analfabeta, il figlio del principe a un plebeo. 14. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola: "Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi", filosofi, sapienti, letterati, nobili e simili, "di non voler sapere più di quanto conviene sapere" ( Rm 12,3 ); e altrove dice: "Non montare in superbia, ma temi!" ( Rm 11,20 ). Ti manca ancora molto in fatto di sapienza, se non sei sapiente nei riguardi di te stesso. Non sei sapiente, se pretendi di sapere più di quanto conviene. Sapere ciò che conviene vuol dire "discendere", abbassarsi, andare a Nazaret, sottomettersi e obbedire incondizionatamente. Questo dev'essere tutto il tuo sapere, e questo sapere realizza in te la moderazione, la sobrietà ( cf. Rm 12,3 ), la convenienza richiesta dall'Apostolo. Il voler sapere di più produce solo "ebbrezza", esaltazione, nella quale ogni sapienza è insensata. Il sapere e lo scrutare più di quanto sia necessario fa "errare", porta fuori strada l'animale separato dal branco, il novizio precipitoso, e il sapiente ancora agli inizi", come "erra" e va qua e là chi è ubriaco e vomita. Dice Bernardo: L'obbedienza perfetta, soprattutto nel principiante, è quella indiscussa, acritica, vale a dire un'obbedienza che non cerca di sapere che cosa o perché la tal cosa venga comandata, ma si sforza soltanto di compiere fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superiore. Tutta la sua voglia di sapere consista nel non volere saper nulla in questo campo. Tutta la sua sapienza consista nel non averne per nulla in questa materia. E questo vuol dire "sapere nella giusta misura". La pura semplicità, che è l'acqua di Siloe che scorre silenziosa ( cf. Is 8,6 ), rende sobria l'anima; se il vino della sapienza dei sapienti di questo mondo verrà annacquato e diluito, il loro sapere rientrerà nella giusta misura. E se nella religione ci sono dei sapienti, Dio li ha chiamati per mezzo dei semplici. Infatti egli ha scelto ciò che nel mondo è stolto, meschino, debole e disprezzato per riunire i sapienti, i forti e i nobili, perché nessun uomo possa gloriarsi di se stesso ( cf. ), ma solo in colui "che discese e andò a Nazaret, ed era loro sottomesso". A lui sia onore e gloria per i secoli eterni. Ogni anima semplice e sottomessa risponda: Amen. Alleluia! Epifania del Signore 1. "Essendo nato Gesù in Betlemme di Giuda" … ecc. ( Mt 2,1 ). In questo brano evangelico considereremo tre avvenimenti: - l'apparizione della stella, - il turbamento di Erode, - l'offerta dei tre Magi. I. L'apparizione della stella 2. "Essendo nato Gesù a Betlemme" ( Mt 2,1 ), ecc. Nella prima parte c'è questo insegnamento morale: in quale modo uno, dalla vanità del mondo, si converte a vita nuova. Prima però ascoltiamo brevemente la storia, il racconto. Gesù nacque in una notte di domenica, perché nel giorno in cui Dio disse: "Sia fatta la luce, e la luce fu" ( Gen 1,3 ), "venne a visitarci dall'alto un sole che sorge" ( Lc 1,78 ). Si racconta che Ottaviano Augusto, su indicazione della Sibilla, abbia veduto in cielo una vergine, gravida di un figlio, e che da allora vietò che lo chiamassero Dominus, Signore, perché era nato "il Re dei re e il Signore dei signori" ( Ap 19,16 ). Perciò il poeta scrisse: "Ecco, una nuova prole scende dall'alto del cielo" ( Virgilio, Egloga IV,7 ). Per tutto il giorno sgorgò da una vecchia taverna un abbondante getto d'olio, perché in quel giorno nasceva sulla terra colui che è consacrato con olio di letizia, a preferenza dei suoi eguali ( cf. Sal 45,8 ). Il tempio della Pace crollò dalle fondamenta. I Romani, infatti, a motivo della pace universale in cui si trovava tutto il mondo sotto Cesare Augusto, avevano costruito un meraviglioso tempio alla Pace. Coloro che vi entravano per consultare la divinità e sapere quanto sarebbe durata quella pace, ebbero questo responso: Finché una vergine partorirà. Essi furono felici perché lo interpretarono così: La pace durerà in eterno, perché mai una vergine potrà partorire. Ma Dio distrusse la sapienza dei sapienti e la prudenza dei prudenti ( cf. 1 Cor 1,19 ), perché il tempio crollò dalle fondamenta nell'ora della nascita del Signore. Tredici giorni dopo la sua nascita, cioè come oggi, "ecco che dall'oriente arrivarono a Gerusalemme dei Magi, che domandavano: "Dov'è il Re dei Giudei, che è nato? Abbiamo veduto la sua stella" ( Mt 2,1-2 ). Erano chiamati "Magi" per la vastità delle loro conoscenze; quelli che i Greci chiamano filosofi, i Persiani li chiamano magi. Venivano dai territori dei Persiani e dei Caldei. Forse non fu loro impossibile percorrere in tredici giorni, in groppa ai dromedari, quelle grandi distanze. La stella che avevano visto si distingueva dalle altre per lo splendore, per la posizione e per il movimento. Per lo splendore, che neppure la luce del giorno faceva scomparire; per la posizione, perché non stava nel firmamento con le stelle minori, e neppure nell'etere con i pianeti, ma faceva il suo viaggio nell'aria, nelle vicinanze della terra; e per il movimento, perché restò dapprima immobile sopra la Giudea, poi diede ai Magi l'indicazione per arrivarvi; essi presero per loro conto la decisione di entrare in Gerusalemme, che della Giudea era la capitale. Quando ne uscirono, con il primo movimento visibile la stella li precedette. Portato a termine il suo compito scomparve, ritornando alla primitiva materia, dalla quale era stata presa. Questa festa si chiama Epifania, dai termini greci epì, sopra, e fanè, manifestazione, perché come oggi Cristo fu manifestato con il segno della stella. È detta anche Teofania, sempre dai termini greci Theòs, Dio, e fanè, perché come oggi Cristo, passati trent'anni, fu manifestato dalla voce del Padre, e battezzato nel Giordano. È detta anche Bethfania, dal termine ebraico beth, casa, perché, passato un anno dal battesimo, come oggi compì un miracolo divino tra le mura di una casa, ad una festa di nozze. 3. Vediamo ora che cosa significhino, in senso morale, la stella, i Magi, l'oriente e Gerusalemme. La stella simboleggia l'illuminazione della grazia divina, o anche la conoscenza della verità. Infatti Gesù, dal quale proviene ogni grazia, dice nell'Apocalisse: "Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino" ( Ap 22,16 ). Gesù Cristo, benché figlio, è anche radice, cioè padre di Davide. Oppure, come la radice sostiene la pianta, così la misericordia di Cristo sostenne Davide peccatore e penitente. Cristo è stella radiosa nella illuminazione della mente; è stella del mattino nella conoscenza della verità. I Magi rappresentano i sapienti del mondo, dei quali dice Isaia: "I sapienti, i consiglieri del faraone, gli diedero un consiglio stolto" ( Is 19,11 ). Il faraone, nome che s'interpreta "che scopre l'uomo", è figura del mondo che, dopo aver coperto l'uomo con la sua vanità, lo scopre nella miseria della morte; il mondo non dà, ma solo impresta, e nel momento della massimo bisogno, esige ciò che ha imprestato e così abbandona l'uomo nella miseria e nella nudità. Stolto è quindi il consiglio di quei sapienti che esortano ad accumulare le cose altrui, i beni di questo mondo, che non potranno portare con sé, che inducono a caricarsi di cose solo imprestate, che non potranno far passare con sé attraverso il passaggio stretto. Infatti il passaggio della morte è così stretto, che a stento vi può passare l'anima sola e nuda. Quando si arriva a quel passaggio ogni carico di cose temporali dev'essere lasciato: solo i peccati, che non sono sostanza ( materiale ), vi passano agevolmente insieme con l'anima. L'oriente è figura della vanità del mondo o della sua prosperità. Dice Ezechiele: "Vidi, ed ecco degli uomini con le spalle rivolte al tempio del Signore, e la faccia ad oriente, che adoravano il sole nascente" ( Ez 8,16 ). Il tempio raffigura l'umanità di Cristo, o anche la vita di ogni giusto. Hanno il dorso rivolto al tempio del Signore e la faccia ad oriente coloro che, dimentichi della passione e della morte di Cristo, orientano alla vanità del mondo tutto ciò che conoscono e tutto ciò che sanno. Per questo il Signore si lamenta per bocca di Geremia: "Voltarono verso di me il dorso, non il volto. Ma al tempo della loro sventura", cioè della morte, "diranno: Àlzati e salvaci! Dove sono i tuoi dèi", cioè i piaceri e le ricchezze, "che ti sei procurato? Si alzino loro e ti liberino nel tempo della tua sventura" ( Ger 2,27-28 ). O anche: hanno il dorso contro il tempio e adorano il sole nascente coloro che disprezzano la povertà, l'umiltà e le sofferenze dei giusti, e proclamano felici quelli che abbondano di piaceri e di ricchezze. Gerusalemme, che significa "pacifica", raffigura la vita nuova, cioè la vita di penitenza. Dice Isaia: "Il mio popolo dimorerà in una pace meravigliosa, nelle tende della fiducia e nella quiete della ricchezza" ( Is 32,18 ). Felice condizione, nella quale c'è la grazia della coscienza tranquilla, la fiducia della condotta santa, la ricchezza della carità fraterna. Perciò, come la stella richiamò i Magi dall'oriente, così la grazia divina richiama i peccatori dalla vanità del mondo alla penitenza, affinché ricerchino il nato Re, cercandolo lo trovino e trovatolo lo adorino. "Dov'è il Re dei Giudei, che è nato?". Vale a dire: Dov'è il Re di coloro che confessano i loro peccati, il Re dei penitenti? Cercano il Re dei penitenti, che è nato in loro, coloro che promettono di fare penitenza. Noi, dicono, che abitavamo in oriente, che eravamo presi dalla vanità del mondo, abbiamo visto la sua stella, cioè abbiamo riconosciuto la sua grazia, e così "per mezzo di lui", per sua grazia, "siamo venuti ad adorarlo" ( Mt 2,2 ). II. Il turbamento di erode 4. " Il re Erode, sentendo ciò, restò turbato" ( Mt 2,3 ). Il diavolo, il re della turba turbata, si turba! Anche il mondo si turba, quando sente che Cristo è ormai nato nei penitenti e vede anche altri peccatori convertirsi a lui per opera della grazia. Satana freme al vedere che il suo regno si riduce e il Regno di Cristo si allarga ogni giorno di più. Leggiamo nell'Esodo: "Disse il faraone al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d'Israele è più numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo in tutti i modi, perché non cresca ancor più di numero" ( Es 1,9-10 ). L'astuzia del diavolo opprime i figli di Dio con la suggestione, la malizia del mondo li opprime con la bestemmia e con l'ingiuria. Continua infatti l'Esodo: "Gli Egiziani odiavano i figli d'Israele e li facevano soffrire insultandoli, e resero loro amara la vita" ( Es 1,13-14 ). Tormento ( in lat. frixorium, padella per friggere, o griglia ), tormento dei giusti è la vita dei peccatori! Dice il salmo: "Moab è il vaso della mia speranza" ( Sal 60,10 ). Moab s'interpreta "dal padre", cioè coloro che vengono da quel padre che è il diavolo; essi sono "il vaso della speranza" perché anche gli empi vivono per i giusti, cioè per la loro utilità, per il loro vantaggio. Erode dunque restò turbato. Erode s'interpreta "gloria della pelle". Egli restò turbato perché era nato quel Re povero che dice: "Io non ricevo gloria dagli uomini" ( Gv 5,41 ), e "Io non cerco la mia gloria ( Gv 8,50 ). "Il mio regno non è di questo mondo" ( Gv 18,36 ). Erode, gloria della pelle, resta turbato, perché vede il suo splendore cambiarsi in negrezza, il suo lusso e la sua effeminatezza in ruvidezza, come dice Isaia: "Invece del profumo raffinato ci sarà il fetore, invece della cintura una corda, invece di una chioma ricciuta la calvizie, e invece della fascia pettorale il cilicio" ( Is 3,24 ). E queste parole non hanno bisogno di commento perché nei penitenti si avverano alla lettera. Vedi il sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, seconda parte. Leggiamo ancora nell'Esodo: "Ora tògliti i tuoi ornamenti e poi saprò che cosa dovrò farti" ( Es 33,5 ). Per questo "La regina Ester cercò rifugio presso il Signore, sgomenta per il pericolo che sovrastava. Deposte le vesti regali, indossò vesti adatte al pianto e al lutto; e invece dei vari profumi si cosparse la testa di cenere e di immondizie; mortificò con digiuni il suo corpo, e con i capelli sconvolti si aggirava per le stanze nelle quali prima viveva in letizia" ( Est 4,1-2 ). Ester, nome che s'interpreta "nascosta", raffigura l'anima penitente che si apparta dalla dissipazione del mondo e si rifugia nella solitudine dello spirito e talvolta anche del corpo; si rifugia presso il Signore, perché in nessuno se non in lui c'è rifugio dal pericolo del peccato, che sempre le è presente e la minaccia, e quindi ne ha paura. Si toglie le vesti della gloria, indossa gli indumenti della penitenza e, invece dei profumi dei vari piaceri, si cosparge il capo, cioè la mente, con la cenere della sua fragilità e con le immondizie della propria iniquità; insiste nei digiuni, e ripensa con angoscia a tutti i luoghi nei quali prima si divertiva. Questo è ciò che dice Gregorio della Maddalena: "Quanti erano stati i piaceri provati in se stessa, tanti furono i sacrifici ( le espiazioni ) che a se stessa impose". III. L'offerta dei tre magi 5. "Ed ecco, la stella che avevano visto in oriente …" ( Mt 2,9 ). O misericordia di Dio, che mai dimentica di aver pietà! Infatti è subito vicino a chi ritorna a lui. Dice Isaia: "Tu invocherai, e il Signore ti esaudirà; chiamerai, ed egli dirà: èccomi!" ( Is 58,9 ), "perché io, il Signore Dio tuo, sono misericordioso" ( Dt 4,31 ). "Ed ecco la stella". I Magi erano andati da Erode, e avevano perduto di vista la stella. E questo sta ad indicare i recidivi che, ritornando al diavolo, ossia al peccato mortale, perdono la grazia; quando invece se ne liberano, allora la riacquistano. Dice infatti Geremia: "Si dice comunemente: Se un uomo ripudia la moglie ed essa, allontanatasi da lui, si sposa con un altro uomo, forse che ritornerà ancora da lui? Quella donna non è forse immonda e contaminata? Tu invece, che pure hai fornicato con molti amanti", cioè con i demoni e i peccati, "tuttavia ritorna da me, dice il Signore?" ( Ger 3,1 ). "Ed ecco che la stella li precedeva" ( Mt 2,9 ). Troviamo la concordanza nell'Esodo: "Il Signore li precedeva per indicare loro la strada: di giorno con una colonna di nubi, di notte con una colonna di fuoco, per essere loro di guida nel cammino in entrambi i tempi" ( Es 13,21 ). Di giorno la colona di nubi era contro l'ardore del sole, di notte la colonna di fuoco era contro le tenebre, perché potessero difendersi dai serpenti. Osserva che l'illuminazione della grazia divina è detta "colonna" perché sostiene, "di nubi", perché raffredda il calore del sole, cioè il calore della prosperità terrena, "di fuoco", contro il freddo dell'infedeltà, contro le tenebre delle avversità e contro il veleno della suggestione diabolica. "Finché giunse e si fermò sopra la casa dov'era il bambino" ( Mt 2,9 ). Ecco la fine della fatica, la meta del viaggio, la gioia di chi cerca, il premio di chi trova. "Gioisca il cuore di coloro che ti cercano" ( Sal 105,3, o Gesù; e se gioiscono quelli che ti cercano, quanto più gioiranno quelli che ti trovano? La stella procede, la colonna precede. Quella indica la strada alla culla del Salvatore, questa alla Terra Promessa: e nella culla c'è la Terra Promessa dove scorre il miele della divinità e il latte dell'umanità. Corri dunque dietro alla stella, affrettati dietro alla colonna, perché ti guidano alla vita. Faticherai poco, arriverai presto, e troverai il desiderio dei santi, il gaudio degli angeli. 6. "Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia" ( Mt 2,10 ). Fa' attenzione, perché in queste parole è indicata una triplice gioia, quella che deve provare colui che riacquista la grazia perduta. Deve gioire perché non è morto mentre era in peccato mortale e si sarebbe dannato eternamente; perché è stato riportato alla grazia, che non ha meritato; perché, se persevererà, sarà condotto alla gloria. Di questa triplice gioia dice Isaia: "Esultando gioirò nel Signore, e l'anima mia si allieterà nel mio Dio" ( Is 61,10 ). "Ed entrando nella casa" ( Mt 2,11 ). Racconta Luca che "il figlio maggiore, indignato, non voleva entrare in casa" ( Lc 15,25.28 ); invece il figlio prodigo vi era già entrato, perché era già rientrato in se stesso ( cf. Lc 15,17 ). È stato detto agli apostoli: "Per via non salutate nessuno" ( Lc 10,4 ). Chi è sulla via, è fuori, e chi è fuori, è fuori di casa, e quindi è indegno di essere salutato. Anzi, come dice Amos: "In tutte le piazze ci sarà pianto, e a tutti coloro che sono fuori si dirà: Guai, guai!" ( Am 5,16 ). "Trovarono il fanciullo con Maria, sua Madre, e prostratisi lo adorarono" ( Mt 2,11 ). Poiché entrano, trovano; e perché trovano, si prostrano e adorano. Nel fanciullo e in Maria sono indicate l'innocenza e la purezza; nel fatto che si prostrano il disprezzo di sé; e nel fatto che adorano l'ossequio della fede. Ecco dunque che i penitenti entrano nella casa della propria coscienza e trovano l'innocenza ( l'innocuità ) nei riguardi del prossimo, la purezza nei riguardi di se stessi; e di ciò non si insuperbiscono, ma si prostrano con la faccia a terra e adorano devotamente e fedelmente colui che ha dato loro tutte queste grazie. "Ed entrati nella casa" – forse era quel diversorio, albergo, di cui parla Luca –, "trovarono il bambino con Maria, sua madre". Osserva la Glossa: Perché, insieme con Maria, non fu trovato dai Magi anche Giuseppe? Perché da quel fatto non fosse dato motivo di ingiusto sospetto a quei popoli che sùbito, appena nato il Salvatore, gli avevano mandato sùbito "le loro primizie", i loro primi rappresentanti, ad adorarlo. "Aprirono i loro scrigni" ( i loro tesori ) ( Mt 2,11 ). La Glossa: Guardiamoci bene dallo scoprire i nostri tesori lungo la via; aspettiamo che siano passati i nemici, per poterli offrire solo a Dio dal segreto del cuore. Il re Ezechia, che mostrò agli stranieri i tesori [ del tempio ], venne punito nei suoi discendenti ( cf. 2 Re 20,12-19 ). Desidera essere derubato, colui che porta un tesoro pubblicamente per la via ( Gregorio ). 7. "Gli offrirono i doni: oro, incenso e mirra" ( Mt 2,11 ). L'oro si richiama al tributo ( che si pagava al re ), l'incenso ai sacrifici, e la mirra alla sepoltura dei morti. Per mezzo di questi tre doni vengono proclamate in Cristo la potestà regale, la maestà divina e la mortalità umana. In altro senso: nell'oro, che è lucente e compatto, e quando è battuto non scricchiola, è indicata la vera povertà, che non viene oscurata dalla fuliggine dell'avarizia, non si gonfia al vento delle cose temporali. Una virtù salda ( in lat. res solida, una sostanza compatta, un monastero concorde ) fa lo stesso: davanti agli scandali non si turba e non replica con mormorazioni. In Arabia, nome che significa "sacra", ci sono delle piante dalle quali si ricavano l'incenso e la mirra. Coloro che ne sono proprietari vengono chiamati in arabo sacri. Quando incidono o vendemmiano queste piante, essi non partecipano a funerali e non si contaminano in rapporti con donne. L'incenso, una pianta grandissima e frondosa, con una corteccia leggerissima, produce un succo aromatico come quello del mandorlo. L'incenso è chiamato in lat. thus, da tùndere, pestare, o anche dal termine greco Theòs, Dio, in onore del quale viene bruciato. L'incenso viene spesso mescolato con resina e altre sostanze gommose, ma si distingue lo stesso per le sue proprietà. Infatti l'incenso, posto sulla brace, arde, mentre la resina fuma e le sostanze gommose si liquefano. L'albero dell'incenso raffigura la preghiera devota, che è grandissima per la contemplazione, frondosa per la carità fraterna, giacché intercede sia per l'amico che per il nemico; ha una scorza sottilissima, cioè si manifesta all'esterno con la benevolneza; ed emette il succo delle lacrime, profumatissimo e olezzante al cospetto di Dio. È detto nel Cantico dei Cantici: "Sorgi, o aquilone!", vale a dire: Allontànati, o diavolo!, "e vieni tu, o austro", cioè Spirito Santo; "soffia nel mio giardino", cioè nella mia mente, "e si effondano i suoi aromi", cioè le lacrime! ( Ct 4,16 ). La vera devozione si infiamma del fuoco dell'amore divino, mentre quella guastata dalla vanità manda fumo, e quella corrotta dalla cupidigia si squaglia. L'albero della mirra si spinge fino a cinque cubiti di altezza. Il succo che da esso emana spontaneamente è ritenuto più pregiato, mentre lo è meno quello estratto tagliando la corteccia. La mirra, così chiamata da "amarezza", simboleggia l'amara sofferenza del cuore o del corpo, il cui primo cùbito è il pensiero della morte, il secondo la presenza del giudice severo nel giudizio, il terzo la sua sentenza irrevocabile, il quarto la geenna inestinguibile, il quinto la compagnia di tutti gli uomini perversi e la penitenza ( lat. poena tenax ), cioè i tormenti assolutamente inevitabili e continui inflitti dai demoni. Se la sofferenza esce spontaneamente da quest'albero, è più preziosa, cioè più accètta a Dio; invece quella che è prodotta dalle ferite delle infermità o delle avversità, ha minor valore. 8. I Magi dunque "offrirono al Signore oro, incenso e mirra". Così anche i veri penitenti gli offrono l'oro della totale povertà, l'incenso della devota orazione, la mirra della volontaria sofferenza. E fa' attenzione che l'incenso della devota orazione e la mirra della salutare penitenza non si trovano se non in Arabia, cioè nella santa chiesa. Quelli che vogliono conservarle e coglierne i frutti, devono allontanare se stessi dal cadavere del denaro accumulato ingiustamente, sul quale gli avari si gettano come il corvo sulla carogna, e dai contatti lussuriosi. Supplichiamo dunque il Signore che ci conceda di offrirgli questi tre doni, per poter poi regnare con lui, che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone allegorico 9 . "In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo diviso e lacerato, da un popolo terribile, dopo il quale non ce ne fu un altro di uguale; da una gente che attende ed è oppressa, la cui terra è devastata dai fiumi" ( Is 18,7 ). Questa profezia di Isaia si riferisce alla conversione dei gentili, le cui primizie, cioè i Magi, portarono oggi i doni di oro, incenso e mirra a Gesù Cristo, Signore degli eserciti, vale a dire delle schiere angeliche. Dice infatti Malachia: "Dall'oriente all'occidente è grande il mio nome tra le genti, e in ogni luogo viene sacrificata e offerta al mio nome un'oblazione pura, dice il Signore degli eserciti" ( Ml 1,11 ). Ora, per conoscere meglio la miseria del popolo gentile e la misericordia di Dio liberatore, trattiamo brevemente i due argomenti. Quel popolo gentile ( pagano ), del quale anche noi siamo figli, era separato da Dio a motivo del culto degli idoli; per questo Osea, parlando dei Giudei idolatri, che si erano uniti a Geroboamo, dice: "Efraim si è alleato agli idoli, màndalo via," perché "il suo convito è separato" ( Os 4,17-18 ). Geroboamo, il cui nome s'interpreta "divisione del popolo", "fabbricò due vitelli d'oro e disse al popolo: Non salite a Gerusalemme; ecco i tuoi dèi, Israele, che ti hanno fatto uscire dalla terra d'Egitto" ( 1 Re 12,28 ). Allo stesso modo il popolo pagano era lacerato dall'oppressione del diavolo, come si legge nelle Passioni di alcuni apostoli: il diavolo privava della vista, dell'udito e della capacità di camminare coloro che lo adoravano e li opprimeva con varie tribolazioni. Dice infatti Marco: "E gridando e straziandolo crudelmente [ il diavolo ] uscì da lui" ( Mc 9,25 ). E altrove: "Coloro che erano tormentati dagli spiriti immondi, venivano guariti" ( Lc 6,18 ). Il popolo pagano era anche terribile per la ferocia dell'animo. Dice Abacuc: "Ecco, io solleverò i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre in lungo e largo la terra per impadronirsi di tende non sue" ( Ab 1,6 ). I tre magi vennero appunto dalle terre dei Persiani e dei Caldei, ad adorare il Signore. Dopo quel popolo, "non ce ne furono altri così terribili; infatti Abacuc continua: "È feroce e terribile. Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli e più agili dei lupi che escono la sera" ( Ab 1,7.8 ). "Gente in attesa". Attendeva che si avverasse quella profezia di Balaam di cui parla la Scrittura: "Spunterà una stella da Giacobbe e sorgerà uno scettro" ( Nm 24,17 ), ossia un uomo, "da Israele". "Gente oppressa" da tante guerre. Come opprimeva gli altri, così era anche dagli altri oppressa: i Caldei distrussero Gerusalemme e a loro volta furono poi distrutti da Ciro e da Dario. Ed erano oppressi non solo dagli estranei, ma si distruggevano anche tra loro. Continua infatti Isaia: "La loro terra era distrutta dai loro fiumi", cioè dalle guerre intestine e da spargimento di sangue. Rendiamo grazie a Gesù Cristo che da un tale popolo, infedele e barbaro, si è degnato di accettare oggi i doni, primizie di fede, e da esso formare la sua chiesa, che siamo noi. A lui onore e gloria nei secoli eterni. Amen. V. Sermone morale 10. "In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo avulso da Dio", ecc. In questo passo di Isaia sono indicati i sette peccati mortali nei quali erano invischiati in passato alcuni, che ora per grazia di Dio si sono convertiti a penitenza. Popolo avulso da Dio per la superbia, lacerato per l'avarizia, tremendo per l'ira; gente in attesa per la vanagloria, oppressa per l'invidia; terra distrutta dai due fiumi, che sono la gola e la lussuria. Parliamo di ognuno singolarmente. "Popolo avulso, staccato", popolo di superbi. Come il vento sradica la pianta, così la superbia separa l'uomo da Dio; dice infatti Giobbe: "Come un albero sradicato ha strappato, cioè ha permesso che fosse strappata, da me la speranza" ( Gb 19,10 ). La speranza dell'uomo è Dio, dal quale viene separato quando, dal vento della superbia, viene staccato dalla radice dell'umiltà. E non deve far meraviglia, perché la superbia ha questo nome in quanto va al di sopra di sé ( lat. super se iens ), mentre umiltà vuol dire bassezza della terra ( lat. humi vilitas ). Il superbo sale, Dio discende. Che cosa c'è di più contrapposto e antitetico? Il superbo in alto, Dio in basso. Il superbo è sradicato da Dio: a lui non è gradito, e a lui non si unisce se non l'umile. La radice è la vita dell'albero, l'umiltà è la vita dell'uomo. Se uno ha nel suo giardino un bell'albero da frutto, non gli dispiacerebbe forse che venisse sradicato dal vento? Ma certamente! Quanto maggior dispiacere, quando il vento della superbia strappa l'anima nostra dal suo creatore, il quale detesta la superbia più di tutti i peccati, resiste ai superbi ( cf. 1 Pt 5,5 ) e rovescia i potenti! ( cf. Lc 1,52 ). La superbia infatti è soggetta a crolli; chi è in basso è più sicuro di colui che sta in alto. Dice giustamente Seneca: "Lìmitati alle cose piccole, dalle quali non puoi cadere". 11. "Popolo lacerato" è il popolo degli avari e degli usurai. Come gli uccelli rapaci e le belve lacerano un cadavere, così i demoni lacerano con l'avarizia il cuore dell'avaro e dell'usuraio. Dice Naum: "Guai a te, città di sangue, tutta falsità, piena di lacerazioni. La rapina non si allontanerà da te" ( Na 3,1 ). L'anima vive per mezzo del sangue ( cf. Dt 12,23 ), il povero delle proprie misere sostanze. Togli all'uomo il sangue, al povero le sue sostanze: entrambi muoiono. I predoni quindi e gli usurai, che si impadroniscono delle cose altrui, sono detti "città di sangue". Si legge nella Storia Naturale che gli elefanti hanno il sangue freddissimo e che i draghi velenosi ardono dalla voglia di bere quel sangue e quindi, quando ci sono i grandi calori, si avventano contro gli elefanti per succhiarne il sangue. Così anche gli avari e gli usurai, contagiati dal veleno dell'avarizia, bramano le cose altrui. Il sangue dei poveri è freddo e così tutte le loro povere cose. La povertà e la nudità non permettono loro di riscaldarsi, ma quando si accende in essi il calore della necessità, allora gli avari sopraggiungono, fanno loro dei prestiti per poi succhiarne il sangue. "Guai a te, dunque, città di sangue, tutta falsità!" La falsità sta nella lingua, la lacerazione nel cuore, la rapina nelle mani. Leggiamo nel secondo libro dei Maccabei che Giuda, tagliata la lingua del sacrilego Nicànore ( dopo avergli tagliato la testa ), la fece gettare a pezzetti agli uccelli ( cf. 2 Mac 15,33 ). Nicànore, nome che s'interpreta "lucerna eretta", raffigura l'usuraio che sembra eretto e luminoso, e invece ben presto crollerà e si spegnerà. Dice Giobbe: "Quante volte si spegne la lampada degli empi?" ( Gb 21,17 ); e ancora: "Non si spegnerà forse la luce del malvagio e mai più brillerà la fiamma del suo focolare? La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna che sta sopra di lui si spegnerà" ( Gb 18,5-6 ). La lucerna ha due cose: la luce e il calore. Così l'avaro ha la luce del favore umano, e il calore, la brama del lucro temporale. Quando si spegnerà con la morte, sarà privato di entrambe le cose. E poiché la sua lingua fu divisa e ripartita in molte falsità, sarà tagliata e consegnata ai demoni; oppure, per i peccati della lingua sarà punito in modi diversi. Il suo cuore è lacerato perché accumula con fatica, custodisce con paura e perde con dispiacere. Il diavolo tiene stretto a se tutto intero l'usuraio: con la rapina lo tiene per le mani perché non faccia elemosine; con il tormento di accumulare lo tiene per il cuore perché non pensi al bene; con la falsità lo tiene per la lingua perché non preghi e non dica mai nulla di buono. 12. "Popolo terribile" sono gli iracondi o i furiosi. Del diavolo o dell'uomo iracondo Giobbe dice: "Concentra tutto il suo furore contro di me; minacciandomi digrigna i denti. Con occhi terribili mi fissa il mio nemico" ( Gb 16,10 ). Vedi quant'è spaventoso un uomo infiammato dall'ira: corruga la fronte, ha la faccia terrea, le narici frementi, gli occhi torvi, le labbra livide, digrigna i denti e nelle mani ha la sferza. Un uomo così ridotto altro non sembra che una bestia feroce. Infatti dice Isaia: "Non ci fu dopo di lui un altro uomo" ( Is 18,7 ) così crudele, così bestiale. Nel libro di Daniele è detto di Nabucodonosor: "Sia cambiato in lui il cuore di uomo, e gli sia dato un cuore di belva" ( Dn 4,13 ). Non si deve intendere che Nabucodonosor abbia subìto un cambiamento nel corpo, bensì che ebbe un'alienazione mentale, un delirio. Gli fu tolto l'uso della lingua per parlare, e gli sembrava di essere un bue nella parte anteriore e un leone in quella posteriore. Così colui che è infiammato dall'ira subisce un'alienazione e non è più capace di parlare rettamente. Prima si agita come un bue con le corna, prorompendo in minacce e bestemmie, poi, come un leone, si avventa e dilania con le mani e con i piedi. 13. "Gente che attende" sono gli ipocriti e i vanagloriosi: per ogni opera che fanno attendono, come i mercenari, la ricompensa della lode. Leggiamo nel vangelo: "Il mercenario vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge" ( Gv 10,12 ). Il lupo è la suggestione diabolica, le pecore sono i pensieri buoni. Chi agisce non per amore della giustizia ma per la ricompensa della vanagloria, cede con facilità alla tentazione, e se si era proposto qualcosa di bene, lascia andare tutto. Di questa attesa è detto nel salmo: "Si disseteranno tutte le bestie della campagna; aspetteranno gli ònagri nella loro sete" ( Sal 104,11 ). Ci sono due specie di ònagri: uno senza corna in Spagna, e uno con le corna in Grecia. Due sono pure le specie di ipocriti. Alcuni ipocriti sono, per così dire, senza corna: essi, quando ricevono un'ingiuria si mostrano mansueti, sono calmi nella tribolazione, e talvolta rifiutano gli onori; ma fanno tutto questo per calcolo, perché, fingendo di fuggire la gloria, in realtà la cercano. Gli altri ipocriti invece hanno le corna: sono quelli che alla prima parola ingiuriosa puntano le corna della superbia, e mostrano subito al di fuori ciò che sono al di dentro. L'ònagro deriva il suo nome dal greco onos, asino, e dal latino ager, campo ( l'ònagro è l'asino selvatico ). "Il campo è il mondo" ( Mt 13,38 ). Quindi gli ipocriti, sia quelli con le corna come quelli senza corna, sono gli asini del mondo, al quale servono; aspettano la ricompensa della lode e del denaro, e tutto questo "nella loro sete", della quale bruciano, e non si danno pace finché non bevono qualcosa. Invece "le bestie della campagna", cioè i semplici, "si dissetano in letizia alle fonti del Salvatore" ( Is 12,3 ), che sono due: la grazia e la gloria. Alla prima fonte si dissetano di fatto, alla seconda nella speranza, in attesa di poterlo fare nella visione. 14. "Gente oppressa" sono gli invidiosi, tormentati e oppressi dall'altrui felicità. Neanche i tiranni di Sicilia inventarono un supplizio più tormentoso dell'invidia ( Orazio ). Leggiamo nel primo libro dei Re: "Saul ne uccise mille, e Davide diecimila. Saul ne fu molto dispiaciuto e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: Ne hanno attribuito a Davide diecimila e a me soltanto mille. Che cosa gli manca, se non il regno? E da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide" ( 1 Sam 18,7-9 ). Ecco come era tormentato, ecco come si sentiva oppresso. 15. "I due fiumi" simboleggiano la gola e la lussuria. Il Cobar e il Tigri sono i due fiumi di Babilonia ( cf. Ez 1,1.3; Dn 10,4 ). Cobar s'interpreta "pesantezza", e raffigura la gola, della quale Luca dice: "State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in gozzoviglie, ubriachezze e affanni della vita, e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso" ( Lc 21,34 ). Tigri, fiume che prende il nome da una fiera ( la tigre ) variamente maculata, di incredibile forza e rapidità di corsa, raffigura la lussuria. Questo vizio è coperto delle macchie dei vari piaceri della vita; è forte quando tenta, ed è veloce, perché anche il piacere passa presto. Dice il beato Bernardo: Tormenta il futuro, non sazia il presente, non delizia il passato. Questi due fiumi "distruggono la terra", sconvolgono cioè la mente di chi è loro schiavo e lentamente la distruggono. Abbiamo visto la miseria di tutti costoro; consideriamo anche la misericordia che li libera da tanta sciagura. Ecco: in questo tempo di bontà e di misericordia divina, i peccatori di cui abbiamo parlato, portano a Gesù Cristo, il Signore degli eserciti, cioè delle celesti schiere, il dono della loro penitenza. Anche voi, o carissimi, portate, insieme con i magi, i vostri doni: l'oro della contrizione, l'incenso della confessione, la mirra della soddisfazione, ossia dell'opera di penitenza, per poter essere degni di ricevere dallo stesso Gesù Cristo il dono della gloria in cielo. Ve lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. Domenica I dopo l'ottava dell'Epifania Temi del sermone – Vangelo della prima domenica dopo l'ottava dell'Epifania: "Si celebrarono delle nozze in Cana di Galilea". – Anzitutto sermone ai predicatori: "Una piccola gemma di rubino". – Le quattro virtù: castità, umiltà, povertà e obbedienza: "C'era lì la Madre di Gesù". – Contro gli amatori del piacere mondano: "Non guardare il vino quando rosseggia". – Le sei parole della beata Vergine Maria: "Sua Madre gli disse". – Le sei idrie e il loro simbolismo: "C'erano lì sei idrie"; la pupilla e le palpebre e il loro significato. – Il convito e il gaudio della vita terna: "Giuseppe, lavatosi il volto dalle lacrime". Esordio - sermone ai predicatori 1. In quel tempo: In Cana di Galilea si celebrarono delle nozze" ( Gv 2,1 ). Si legge nell'Ecclesiastico: "Una piccola gemma di rubino incastonata nell'oro è un concerto di musici in un convito rallegrato dal vino" ( Sir 32,7 ). Vedremo il significato di queste cinque entità: la piccola gemma, il rubino, l'oro, la musica e il convito. La piccola gemma ( in lat. gemmula ) e il rubino ( in lat. carbunculus ) sono ( sempre in latino ) due diminutivi, nei quali è simboleggiata una duplice umiltà: nella piccola gemma è raffigurata la limpidezza della ( propria ) riputazione, e nel rubino, che è color fuoco, è simboleggiata la carità. Sono queste le due virtù che ornano l'oro, cioè la sapienza del predicatore; se egli è dotato di queste due virtù, la sua predicazione sarà come un "concerto di musici". Quando la sapienza esteriore si accorda con la delicatezza della coscienza, e l'eloquenza è coerente con la condotta di vita, allora si ha il concerto musicale. Quando la lingua non fa rimpiangere la vita, allora abbiamo una gradevole sinfonia. Giustamente la predicazione è chiamata musica. Dicono che la natura della musica è tale che se l'ascolta uno che è triste, diventa ancora più triste, mentre se l'ascolta uno che è lieto, lo rende ancora più lieto. Così è anche la predicazione: quando dichiara che il ricco, vestito di porpora, è sepolto nell'inferno ( cf. Lc 16,19.22 ); quando afferma che, come per il cammello è impossibile passare per la cruna di un ago, così è impossibile per il ricco entrare nel regno dei cieli ( cf. Mt 19,24; Mc 10,25 ); quando insegna che ogni fasto e gloria terrena saranno un nulla, allora quei perfidi avari e usurai, che sono sempre nella tristezza perché accumulano con fatica, custodiscono con paura e perdono con grande dispiacere, diverranno ancora più tristi. "Un discorso inopportuno è sgradito, come la musica in tempo di lutto" ( Sir 22,6 ); "Come aceto su una piaga viva sono i canti allegri per un cuore afflitto" ( Pr 25,20 ). La parola che morde il vizio strazia l'udito dei cattivi; al contrario, rende ancora più lieti i giusti, che vivono nel gaudio dello spirito e nella letizia di una coscienza tranquilla. "La coscienza tranquilla è come un perenne convito" ( Pr 15,15 ), e, aggiunge l'Ecclesiastico: "come un convito rallegrato dal vino". Il convito rallegrato dal vino e la festa di nozze fatta a Cana di Galilea sono la stessa cosa. Dice appunto il vangelo di oggi: "Ci fu una festa di nozze in Cana di Galilea". 2. Nell'introito della messa di oggi si canta: "Tutta la terra ti adori, o Dio" ( Sal 66,1 ). Si legge un brano dell'epistola ai Romani: "Abbiamo doni diversi" ( Rm 12,6 ). Di questo brano prenderemo in considerazione solo sei parole che paragoneremo, per quanto è possibile, alle sei idrie di cui parla il brano evangelico. Le nozze celebrate in cana di galilea 3. "C'era una festa di nozze". Consideriamo quale significato morale abbiano le nozze, Cana di Galilea, la Madre di Gesù, i discepoli di Gesù, il vino che manca, le sei idrie, l'acqua cambiata in vino e l'architriclino, cioè il maestro di tavola. Si è già parlato ampiamente delle nozze nel commento al vangelo: "Il Regno dei cieli è simile ad un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio" ( Mt 22,2 ) nel sermone della domenica XX dopo Pentecoste, prima parte. Perciò qui tratteremo brevemente dell'unione dello sposo e della sposa, cioè dello Spirito Santo e dell'anima del penitente. Cana s'interpreta "zelo", Galilea "emigrazione". Nello zelo, vale a dire nell'amore dell'emigrazione ( del cambiamento ), avvengono le nozze tra lo Spirito Santo e l'anima del penitente. E con questo concorda ciò che leggiamo nel libro di Rut, la quale dalla regione di Moab emigrò a Betlemme; in seguito Booz la prese in moglie (cf. Rt 1,6 ; Rt 4,13 ). Rut s'interpreta "che vede", "che s'affretta", o anche "che viene meno". Essa raffigura l'anima del penitente che considera i suoi peccati con la contrizione del cuore, si affretta a lavarli alla fonte della confessione, e recede dalla sua prima malizia con la pratica delle opere di riparazione e di penitenza. Dice infatti il salmo: "Vengono meno la mia carne e il mio cuore" ( Sal 73,26 ), cioè la carnalità e la superbia del mio cuore, e così dalla regione di Moab, cioè dalla schiavitù del peccato, emigra con lo zelo dell'amore a Betlemme, che significa "casa del pane". L'amore di Dio è per l'anima la casa del pane, nella quale è protetta e ristorata, e allora, come dice il beato Bernardo, per la via dell'amore penetra, irrompe lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è raffigurato in Booz, nome che s'interpreta "in lui è potenza", della quale dice Luca: "Restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" ( Lc 24,49 ). L'anima che lo Spirito Santo prende come sua sposa, egli la riveste di potenza dall'alto. Dice Isaia: "Egli dall'alto dà forza allo stanco, e ai deboli moltiplica il vigore e la potenza" ( Is 40,29 ). Dà la forza di risorgere, dà la potenza perché non soccombano nella tentazione, dà il vigore perché perseverino sino alla fine. Nell'unione tra lo Spirito Santo e l'anima si celebrano le nozze: viene addobbata la camera della coscienza, disposto in bell'ordine il letto nuziale dei buoni pensieri, con mano abile e delicata si promuove l'accordo dei cinque sensi, e così tutt'all'intorno si esulta e si giubila al ricordo dell'infinita dolcezza di Dio ( cf. Sal 145,7 ) e realmente si sperimenta la bontà del Signore. Questo è l'epitalamio ( il canto nuziale ) che si canta oggi nell'introito della messa: Tutta la terra ti adori, o Dio, e suoni il salterio; canti un salmo al tuo nome, o Altissimo! ( cf. Sal 66,4 ). Tutta la terra comprende l'oriente, il meridione, l'occidente e il settentrione. L'oriente raffigura gli incipienti; il meridione raffigura i proficienti, che sono ardenti come il sole a mezzogiorno; l'occidente raffigura i perfetti, che sono del tutto morti al mondo; invece il settentrione raffigura i bravi sposi e i buoni cristiani, i quali ancora in possesso delle sostanze di questo mondo, sopportano pazientemente i numerosi affanni delle tribolazioni e del dolore. Tutta questa terra adori il Signore con la contrizione del cuore, suoni il salterio della gioiosa confessione, canti il salmo dell'opera penitenziale, nelle nozze che si celebrano in Cana di Galilea. 4. "C'era anche la Madre di Gesù. Alle nozze fu invitato Gesù con i suoi discepoli" ( Gv 2,1-2 ). O nozze fortunate, onorate di tali e tanti privilegi, gloriose per tanti favori! In Maria, che fu vergine e madre, è personificata la castità e la fecondità; in Gesù, che fu umile e che disse: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" ( Mt 11,29 ); che fu povero – "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli il loro nido, ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" ( Mt 8,20 ) –, è personificata l'umiltà e la povertà; nei suoi discepoli è rappresentata l'obbedienza e la pazienza. Ecco l'onore e l'ornamento delle nozze, ecco i loro privilegi e la loro dignità. Lo Spirito Santo, sposo dell'anima, mentre la unisce a se stesso, la rende casta e feconda: casta per la purezza della mente, feconda della prole delle opere buone. È detto nel Cantico dei Cantici: "Tutte hanno parti gemellari", sono cioè ricche di opere della duplice carità, oppure della vita attiva e della contemplativa, "e nessuna di loro è sterile" ( Ct 4,2 ). Al contrario è detto: "Maledetta la sterile in Israele" ( cf. Es 23,26; Dt 7,14 ). E anche Geremia: "Il Signore ha pigiato il torchio alla vergine", cioè alla sterile, "figlia di Sion" ( Lam 1,15 ). Perciò l'anima, per sfuggire a questa sentenza di maledizione, dev'essere casta e feconda, per poter dire di sé: "Io sono la madre del bell'amore", ecco la fecondità, "del timore, della scienza e della santa speranza" ( Sir 24,24 ), ecco la castità. Parimenti lo Spirito Santo rende l'anima umile e povera. Perciò per bocca di Isaia dice: "Verso chi volgerò il mio sguardo, se non all'umile, ossia al povero e al contrito di spirito?" ( Is 66,2 ). Infatti su Gesù, al fiume Giordano, discese lo Spirito in forma di colomba ( cf. Mt 3,16 ), volatile mansueto e che ha come canto il gemito. È molto difficile praticare l'umiltà in mezzo alle ricchezze, e raramente o mai la purezza in mezzo ai piaceri e ai divertimenti. Se trovi un ricco umile e un gaudente che vive casto, rèputali due astri del firmamento; ma temo che quelli che hanno questa apparenza, siano piuttosto dipinti con il colore dell'ipocrisia. Chi vuole essere veramente umile, si liberi delle ricchezze, dal cui contatto l'umiltà è contaminata e nasce la superbia. Per questo il Signore si lamenta per bocca di Osea: "Io li ho istruiti e ho dato vigore alle loro braccia; ed essi hanno tramato il male contro di me. Sono ritornati per essere liberati dal giogo, e sono diventati come un arco fasullo, allentato" ( Os 7,15-16 ). Il Signore li istruisce come figli con doni gratuiti, e rafforza le loro braccia, sostiene cioè la loro energia e il loro vigore, con doni naturali e temporali, affinché difendano Israele come un baluardo e resistano valorosamente in battaglia ( cf. Ez 13,5 ). Ma poiché dalla pinguedine procede l'iniquità, "sono ritornati ad essere figli di Beliar", cioè senza giogo ( cf. Gdc 19,22 ), vale a dire pieni di superbia. "Hanno abbandonato il Signore – dice Isaia –, hanno bestemmiato il Santo d'Israele, si sono voltati indietro" ( Is 1,4 ), e così sono diventati come un arco fasullo ( allentato ). Mentre avrebbero dovuto lanciare frecce di vita santa e di sana dottrina e colpire l'avversario, lanciano invece frecce di vita viziosa e di bestemmia contro il Signore. Ancora, lo Spirito Santo rende l'anima obbediente e paziente. Leggiamo nel libro della Sapienza che lo Spirito Santo è benigno, umano, stabile ( cf. Sap 7,22-23 ). In chi è obbediente e paziente ci sono queste tre qualità: è benigno, cioè bene infiammato ( lat. bene ignitus ) ad obbedire al superiore; è umano nel sopportare e nel soffrire insieme con il prossimo; è stabile, cioè costante nei suoi propositi. Non sarai mai veramente obbediente se non sarai paziente. Infatti è vedova ( carente ) l'obbedienza che non è rafforzata e sostenuta dalla pazienza. 5. "Venne a mancare il vino" ( Gv 2,3 ). "Fiele di draghi è il loro vino" ( Dt 32,33 ): sono i piaceri del mondo e della carne. Dice in proposito Salomone: "Non guardare il vino quando rosseggia, quando il suo colore scintilla nella coppa di vetro: scende giù pian piano ma finirà con il morderti come un serpente, e come una vipera ti inietterà il suo veleno" ( Pr 23,31-32 ). Osserva che il vetro è un materiale di poco valore, un materiale fragile, ma bello e splendente. Il vetro raffigura il corpo dell'uomo, il quale in quanto materia è di poco valore, perché originato da fetide secrezioni; è fragile nella sua sostanza, perché "come un fiore germoglia ed è reciso" ( Gb 14,2 ), "e i suoi anni sono considerati come tela di ragno" ( Sal 90,9 ). E Isaia: "Hanno tessuto tele di ragno che non serviranno loro come vesti" ( Is 59,5-6 ). È anche ammirato per lo splendore della sua bellezza fisica, ma di essa è detto: "Fallace è la grazia e vana è la bellezza" ( Pr 31,30 ). Perciò non guardare a questo vetro quando in esso rosseggia il vino, cioè l'allegria del mondo; quando ti sorride la prosperità del mondo e il piacere della carne, non dilettarti in esso: si insinua infatti inavvertitamente, ma alla fine morde come un serpente. Questo è ciò che dice anche il Signore: "Guai a voi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete" ( Lc 6,25 ). L'allegria del mondo è il vivaio dell'eterno pianto. "E come una vipera ti inietterà il suo veleno". Qui vino, di là veleno. E verso la fine di questo brano evangelico leggiamo: "Ogni uomo", che sa di humus ( terra ), "serve dapprima il vino buono", il piacere del mondo, "e quando tutti sono brilli serve quello più scadente" ( Gv 2,10 ), berrà cioè nell'inferno il veleno di morte che la vipera, cioè il diavolo, farà bere alle anime dei dannati. Ahimè, quanto "amara sarà quella bevanda per coloro che la bevono" ( Is 24,9 ), coloro che prima si erano ubriacati al calice d'oro della grande meretrice, con la quale hanno fornicato i re della terra ( cf. Ap 17,1-4 ). Perciò vi supplico, venga pure a mancare alle nozze della sposa e dello sposo il vino dell'allegria del mondo. Quando verrà a mancare, si avvererà ciò che dice il vangelo: "La Madre di Gesù disse al Figlio: Non hanno più vino" ( Gv 2,3 ). Fa' bene attenzione che Maria, come si desume dai vangeli di Luca e di Giovanni, parlò solo sei volte, disse soltanto sei espressioni. La prima, "Come avverrà questo?" ( Lc 1,34 ); la seconda, "Ecco la serva del Signore" ( Lc 1,38 ); la terza, "L'anima mia magnifica il Signore" ( Lc 1,46 ); la quarta, "Figlio, perché ci hai fatto questo?" ( Lc 2,48 ); la quinta, "Non hanno più vino" ( Gv 2,3 ); la sesta, "Fate tutto quello che vi dirà" ( Gv 2,5 ). Queste sei espressioni sono come i sei gradini d'avorio del trono di Salomone, i sei petali del giglio, i sei bracci del candelabro. Nella prima frase è indicato il fermo proposito di mantenere inviolata la sua verginità; nella seconda il suo sublime esempio di obbedienza e di umiltà; nella terza la sua esultanza per i privilegi che le furono concessi; nella quarta la sua sollecitudine per il Figlio; nella quinta la sua partecipazione alle altrui necessità; nella sesta la sua certezza nella potenza del Figlio. 6. "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancor giunta la mia ora" ( Gv 2,4 ). Dio, Figlio di Dio, ricevette dalla beata Vergine la natura umana, nell'unità della persona. Il Padre pose la divinità, la madre l'umanità; il Padre la maestà, la Madre l'infermità. Dalla divinità ebbe il potere di mutare l'acqua in vino, di ridare la vista ai ciechi, di risuscitare i morti; dall'infermità della sua umanità ebbe invece la possibilità di aver fame, di aver sete, di essere legato, coperto di sputi e crocifisso. Dice dunque: "Che ho da fare con te, o donna?". In lat. "Quid mihi et tibi mulier?". Fa' attenzione alle due parole mihi e tibi. Nel mihi, a me, è indicata la divinità; nel tibi, a te, è indicata l'umanità. Come avesse detto alla Madre sua: Tu chiedi che adesso venga operato un miracolo, il che a me è possibile, da parte della divinità; a te invece, cioè all'umanità che da te ho ricevuto, devo la capacità di subire la passione. E quindi soggiunge: "Non è ancor giunta la mia ora", cioè l'ora della passione, nella quale sarò come schiacciato nel torchio, e le mie vesti saranno come quelle di coloro che pigiano nel tino ( cf. Is 63,2-3 ). Non è ancor giunta l'ora in cui Giuda alzerà il suo calcagno sopra il grappolo, dal quale zampillerà il vino che inebria "i cuori di coloro che cercano il Signore" ( Sal 105,3 ). Non è ancor giunta l'ora in cui l'uva dell'umanità che da te ho ricevuto, verrà schiacciata con la pressa della croce, affinché ne scorra il vino che allieta il cuore dell'uomo ( cf. Sal 104,15 ). Quando giungerà quell'ora, che cosa avverrà a me e a te, o donna? 7. "Vi erano là sei idrie ( giare ) di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre metrete" ( Gv 2,6 ). In Cana di Galilea, cioè nell'anima che nello zelo dell'amore è passata dai vizi alle virtù, ci sono sei idrie, vale a dire la contrizione, la confessione, l'orazione, il digiuno, l'elemosina e il perdono delle offese, dato di tutto cuore. Sono queste che purificano i giudei, cioè i penitenti da tutti i loro peccati. La contrizione purifica; dice infatti il Signore per bocca di Ezechiele: "Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure" ( Ez 36,25 ); e Geremia: "Lava dalla malvagità il tuo cuore, Gerusalemme, se vuoi essere salva; fino a quando albergheranno in te pensieri d'iniquità?" ( Ger 4,14 ). La contrizione lava il cuore dalla malvagità e lo purifica dai pensieri iniqui; e infatti dice il Levitico: "Laveranno con acqua le interiora e i piedi" delle vittime ( Lv 1,13 ). Nelle interiora sono indicati i pensieri impuri, nei piedi i desideri carnali: tutto si lava nell'acqua della contrizione. "Mi laverai, e diventerò più bianco della neve" ( Sal 51,9 ). Parimenti la confessione purifica, e quindi è detto: Tutto viene lavato nella confessione ( Bernardo ). Dice Geremia: "Effondi come acqua il tuo cuore al cospetto del Signore" ( Lam 2,19 ). Dice "come acqua", non come vino, o latte, o miele. Quando versi il vino, resta nel vaso il suo odore; quando versi il latte ne resta il colore; quando versi il miele ne resta il sapore; ma quando versi l'acqua, nessuna traccia resta nel vaso di tutto questo. Nell'odore del vino è simboleggiata la fantasia del peccato, nel colore del latte l'ammirazione della vana bellezza, e nel sapore del miele il ricordo del peccato confessato, unito alla compiacenza della mente. Sono questi gli avanzi maledetti dei quali parla il salmo: "Sono sazi di figli", cioè di opere cattive, o di carne suina, vale a dire dell'immondezza del peccato, "e hanno lasciato i loro avanzi ai loro piccoli" ( Sal 17,14 ), cioè agli impulsi istintivi. Tu invece quando effondi il tuo cuore nella confessione, effondilo come acqua, affinché tutte le sozzure e ogni loro traccia venga totalmente cancellata, e così sarai purificato dal peccato. E anche l'orazione purifica. Dice il Signore: "Verranno piangendo e io li ricondurrò in preghiera e li guiderò ai torrenti di acque" ( Ger 31,9 ). E l'Ecclesiastico continua: "Non disprezzerà la preghiera dell'orfano", cioè dell'umile penitente che dice: "Mio padre e mia madre", cioè il mondo e la concupiscenza della carne, "mi hanno abbandonato; invece il Signore mi ha accolto" ( Sal 27,10 ); "non disprezzerà la vedova", cioè l'anima dello stesso penitente, ormai distaccata dal diavolo e dal vizio, "quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare? E dalle sue guance salgono fino al cielo e il Signore che esaudisce, certamente non si diletterà di esse. Chi adora Dio sarà accolto con benevolenza e la sua supplica giungerà fino alle nubi. La preghiera di chi si umilia penetrerà le nubi" ( Sir 35,17-21 ). E anche il digiuno purifica. Dice il profeta Gioele: "Ritornate a me con tutto il vostro cuore, nel digiuno, nel pianto e nel lamento" ( Gl 2,12 ); e Matteo: "Tu invece quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto" ( Mt 6,17 ). Mosè dopo il digiuno di quaranta giorni meritò di ricevere dal Signore la legge perfetta ( cf. Es 34,28; Dt 9,9 ), legge che converte e purifica l'anima ( cf. Sal 19,8 ); ed Elia meritò di sentire il soffio di una leggera brezza ( cf. 1 Re 19,12 ). La saliva dell'uomo digiuno uccide i serpenti. Grande potenza del digiuno, che guarisce la peste dell'anima e smaschera le insidie dell'eterno nemico. E anche l'elemosina purifica: "Date in elemosina … e tutto per voi sarà mondo" ( Lc 11,41 ). Come l'acqua spegne il fuoco, così l'elemosina cancella il peccato. E dice ancora l'Ecclesiastico: "L'elemosina dell'uomo è come il sacco ch'egli ha con sé. [ Dio ] terrà conto della generosità dell'uomo come della pupilla del suo occhio" ( Sir 17,18 ). L'elemosina è raffigurata nel sacco, perché ciò che in essa viene riposto sarà poi ritrovato nella vita eterna. È ciò che dice anche l'Ecclesiaste: "Getta il tuo pane sulle acque che passano", dàllo cioè ai poveri che passano di luogo in luogo e di porta in porta, "e dopo lungo tempo", cioè il giorno del giudizio, "lo ritroverai" ( Qo 11,1 ), ne avrai cioè la ricompensa: "Avevo fame e mi avete dato da mangiare" ( Mt 25,35 ). Sei pellegrino, o uomo! Porta questo sacco lungo la strada del tuo pellegrinaggio perché, quando alla sera giungerai al tuo asilo, tu possa trovarvi il pane con cui rifocillarti. 8. "L'elemosina custodisce anche la grazia come la pupilla dell'occhio. Per conservare l'acutezza della vista c'è una pellicola molto leggera, che sta sopra la pupilla; e per la protezione degli occhi sono state create le palpebre; e ogni animale chiude gli occhi per non lasciar entrare in esse dei corpi estranei, e questo non volontariamente ma per stimolo naturale; e l'uomo, avendo questa pellicola molto più sottile di tutti gli altri animali, chiude gli occhi con grande frequenza. Invece l'uccello, quando chiude gli occhi, li chiude soltanto con la palpebra inferiore. Come la palpebra preserva la pupilla coprendola, così anche l'elemosina preserva la grazia, che è come la pupilla dell'anima, per mezzo della quale l'anima vede. È ciò che dice Tobia: "L'elemosina libera da ogni peccato e dalla morte, e non permette che le anime cadano nelle tenebre" ( Tb 4,11 ). Come l'uomo chiude molto spesso gli occhi per istinto naturale, così deve anche fare spesso l'elemosina per conservare la grazia. La natura stessa gli insegna e lo spinge a far questo. Dice Giobbe: "Visitando la tua specie, non peccherai" ( Gb 5,24 ). La tua specie, o uomo, è l'altro uomo: come per inclinazione naturale provvedi a te stesso, così devi provvedere anche all'altro: "Ama il prossimo tuo, come te stesso" ( Mt 19,19 ). E l'uomo deve far questo perché la pellicola del suo occhio è più sottile di quella degli altri animali. La sottigliezza della pellicola simboleggia la compassione della mente che è, e dev'essere maggiore che in qualsiasi altro vivente. L'animale dà la prova di essere "bruto", cioè feroce, proprio perché manca di compassione. Dice Mosè: "Il pellegrino, l'orfano e la vedova che stanno dentro le tue porte, mangeranno e si sazieranno, affinché il Signore, Dio tuo, ti benedica in tutte le opere delle tue mani" ( Dt 14,29 ); e ancora: "Ti comando di aprire le mani al tuo fratello povero e bisognoso, che abita con te nella stessa terra" ( Dt 15,11 ). Parimenti il perdono dell'offesa purifica l'anima dai peccati. Dice il Signore: "Se perdonerete agli uomini le loro colpe, anche il Padre vostro celeste perdonerà a voi i vostri delitti" ( Mt 6,14 ). Chi fa questo è come l'uccello che chiude gli occhi con le palpebre inferiori. L'uccello è chiamato in lat. avis, da a privativo, senza, e vis che suona quasi come via. Infatti, quando vola non segue una via. Così chi perdona a colui che lo offende non ha nel suo cuore la via del rancore e dell'odio; e chiude gli occhi con le palpebre inferiori quando di tutto cuore perdona l'offesa ricevuta. E questa è l'elemosina spirituale, senza la quale ogni opera buona resta priva della ricompensa della vita eterna. Dice l'Ecclesiastico: "Perdona al tuo prossimo che ti ha fatto del male, e quando implorerai, anche i tuoi peccati saranno perdonati. Se l'uomo cova l'ira verso un altro uomo, come potrà chiedere a Dio la guarigione? Non ha pietà verso il suo simile, ed osa pregare per i suoi peccati? Egli, che è soltanto carne, conserva rancore, e chiede che Dio gli sia propizio. Chi perdonerà i suoi peccati?" ( Sir 28,2-5 ). "Ricordati dell'alleanza dell'Altissimo" – che dice: "Perdonate e sarà perdonato a voi" –, e non far caso dell'ignoranza del prossimo. Astieniti dalle risse e diminuirai i tuoi peccati" ( Sir 28,9-10 ). Non fa caso dell'ignoranza del prossimo colui che attribuisce appunto all'ignoranza, e non alla malizia, l'offesa ricevuta: così finge di non accorgersene e quindi non la conserva nel cuore. 9. Ecco dunque le sei idrie di pietra, ricavate da quella pietra "che i costruttori avevano scartato" ( Sal 118,22 ), staccata "dal monte non per mano d'uomo" ( Dn 2,34 ). E come sono piene? "Fino all'orlo" ( Gv 2,7 ), dell'acqua della salvezza. "Contenevano ciascuna due o tre metrete". La metreta era una misura [ di circa 40 litri ]. Nelle idrie che ne contenevano due è simboleggiato l'amore di Dio e del prossimo, in quelle che ne contenvano tre la professione di fede nella Santa Trinità: questo è necessario a tutte le suddette idrie. L'Apostolo nomina, con altre parole, queste sei idrie nell'epistola di oggi ( cf. Rm 12,11-14 ). Siate – dice – "ferventi nello spirito": ecco la contrizione, che è la prima idria. Fa' attenzione alla parola "ferventi". Come le mosche non osano entrare in una pentola che ferve, cioè che bolle, così in un cuore veramente contrito non possono entrare "le mosche morte che guastano il profumo dell'unguento" ( Qo 10,1 ). "Lieti nella speranza": ecco la confessione ( la seconda idria ). Nella confessione il peccatore deve allietarsi nella speranza del perdono, e nondimeno dolersi di aver commesso la colpa. "Perseveranti nella preghiera", ecco la terza idria. "Partecipi delle privazioni dei santi", ( la quarta idria ): ecco il digiuno. Nelle privazioni, cioè nel digiuno e nell'astinenza i santi furono afflitti, tribolati: di essi non era degno il mondo ( cf. Eb 11,37-38 ); "nelle fatiche – dice l'Apostolo –, nelle veglie e nei digiuni" ( 2 Cor 6,5 ). Però queste parole possono anche essere applicate all'elemosina materiale. E infatti soggiunge: "Praticate l'ospitalità", che è la quinta idria. "Benedite coloro che vi perseguitano; benedite e non maledite", ecco la sesta idria, cioè il perdono delle offese. 10. "Dice loro Gesù: Adesso attingete e portate al maestro di tavola ( architriclino ). Quando l'architriclino gustò l'acqua divenuta vino", ecc. ( Gv 2,8-9 ). Troviamo su questo una concordanza nella Genesi, quando Giuseppe, lavatosi il viso dalle lacrime, dice: Servite il pranzo. Dopo che il pranzo fu servito, a parte per Giuseppe, a parte per i suoi fratelli e a parte anche per gli Egiziani, i fratelli di Giuseppe bevvero insieme con lui fino ad essere un po' brilli ( cf. Gen 43,31-34 ). "Giuseppe, figlio crescente e bello d'aspetto" ( Gen 49,22 ) è figura di Gesù Cristo. Cristo fu come il grano di senape, di profondissima umiltà, ma poi crebbe e diventò un grande albero, tra i cui rami dimorano gli uccelli del cielo ( cf. Mt 13,31-32 ), cioè coloro che contemplano le cose celesti. Egli è "il più bello tra i figli dell'uomo" ( Sal 45,3 ), "e in lui gli angeli desiderano fissare lo sguardo" ( 1 Pt 1,12 ). Egli laverà il volto dalle lacrime, come dice Isaia: "Il Signore Dio asciugherà le lacrime da ogni volto" ( Is 25,8 ), quando muterà l'acqua delle sei idrie nel vino del gaudio celeste; l'acqua della contrizione sarà allora convertita nel vino della letizia del cuore. Il Signore infatti promette: "Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia" ( Gv 16,22 ). Allora il cuore che ora "è contrito e umiliato" ( Sal 51,19 ) sarà giocondo e allietato dal vino della gioia. Dice Salomone: "Il cuore che ha conosciuto l'amarezza, al suo gaudio non farà partecipare un estraneo" ( Pr 14,10 ). Parimenti, l'acqua di una confessione bagnata di lacrime sarà mutata nel vino della lode divina. Dice Isaia: "Ritorneranno e verranno in Sion cantando lodi; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e scompariranno tristezza e pianto" ( Is 35,10 ), in cui si trovavano prima, nella confessione del loro peccato. Similmente l'acqua della preghiera bagnata di lacrime sarà cambiata nel gaudio della contemplazione della Trinità e dell'Unità. Sempre Isaia: "Canteranno lodi insieme, perché vedranno con i loro occhi il Signore che fa ritornare Sion" ( Is 52,8 ). E anche il digiuno sarà mutato nella letizia di un'eccellente vendemmia. Isaia: "Su questo monte il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli un convito di grasse vivande", ecc. ( Is 25,6 ). Vedi il sermone della domenica II dopo Pentecoste, prima parte: "Un uomo diede una grande cena". Ugualmente la duplice elemosina, quella materiale, e il perdono dell'offesa ricevuta, che è l'elemosina spirituale, sarà mutata nel gioia della duplice stola, cioè nella glorificazione dell'anima e del corpo. Isaia: "Possederanno il doppio nella loro terra, godranno di una letizia perenne" ( Is 61,7 ). 11. Dunque "Giuseppe, lavatosi il volto dalle lacrime, disse: Servite il pranzo ( Gen 43,31 )". È ciò che dice il Signore: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno" ( Lc 22,29-30 ). Però a parte per Giuseppe, a parte per i suoi fratelli, e a parte anche per gli Egiziani. È ciò che dice Matteo: "Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua maestà con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti; ed egli separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai capri. E porrà le pecore alla sua destra e invece i capri alla sua sinistra" ( Mt 25,31-33 ). "Bevvero insieme con lui fino ad essere un po' brilli". Ecco adesso l'architriclino, presso il quale saremo inebriati dell'abbondanza della sua casa ( cf. Sal 36,9 ). Archi, cioè principe, tri, tre, clino, letto: quindi principe di tre ordini di letti: quei letti sui quali gli antichi usavano adagiarsi per mangiare. I tre ordini di letti simboleggiano le tre categorie di fedeli della chiesa: i coniugati, i casti e i vergini, il cui principe è il buon Gesù: egli "li farà accomodare a mensa e quindi passerà a servirli" ( Lc 12,37 ). Fratelli carissimi, imploriamo umilmente questo principe perché conceda anche a noi di celebrare le nozze in Cana di Galilea, di riempire d'acqua le sei idrie, per poter bere con lui il vino del gaudio eterno nelle nozze della celeste Gerusalemme. Si degni di concedercelo lui che è benedetto, degno di lode e glorioso per i secoli eterni. E ogni anima, sposa dello Spirito Santo, risponda: Amen. Alleluia. Domenica II dopo l'ottava dell'Epifania Temi del sermone – Vangelo della II domenica dopo l'ottava dell'Epifania: "Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. - Ed ecco venire un lebbroso"; il vangelo si divide in due parti. – Anzitutto sermone contro i ricchi e i sapienti di questo mondo: "Non un'erba né un unguento li ha guariti". – Parte I: Contro coloro che sono affetti dalla lebbra della vanagloria, della lussuria e dell'avarizia: "Se nella cute c'è il colore bianco". – Le tre virtù senza le quali nessuno può essere mondato dalla lebbra del peccato: "Ed ecco un lebbroso". – Si deve attendere solo la ricompensa della vita eterna: "Guàrdati dal dirlo a qualcuno". – La duplice offerta che ogni penitente deve fare per la sua purificazione: "Disse il Signore a Mosè". – Contro i prudenti del mondo: "Non vogliate essere prudenti ai vostri occhi". – Parte II: Sermone sulla guerra che il diavolo muove contro il giusto, e i cinque soldati che lo difendono: "Ai nemici apparvero nel cielo cinque cavalieri". Esordio - sermone contro i ricchi e i sapienti di questo mondo 1. In quel tempo: "Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. Ed ecco venire un lebbroso", ecc. ( Mt 8,1-2 ). Leggiamo nel libro della Sapienza: "Non un'erba né un unguento li risanò, ma la tua onnipotente Parola, o Signore, che tutto risana" ( Sap 16,12 ). Fa' attenzione a queste due parole: erba e unguento. Nell'erba sono indicate le ricchezze transitorie, nell'unguento, o empiastro, la sapienza di questo mondo. Il verdeggiare dell'erba raffigura il lusso della ricchezza, la quale, quando arde la fiamma della morte, si secca. Dice Giacomo: "Il ricco passerà come fiore d'erba. Si levò il sole con il suo ardore e fece seccare l'erba e il suo fiore cadde e la bellezza del suo aspetto svanì. Così il ricco appassirà nelle sue imprese" ( Gc 1,10-11 ). E Isaia: "La canna e il giunco marciranno" ( Is 19,6 ). Nella canna, che all'esterno è lucida e all'interno è vuota, è simboleggiata la vanagloria; nel giunco, che è avido d'acqua, la cupidigia delle ricchezze, le quali poi alla morte marciranno. Dice Isaia: "Sarà come il fiore caduco della splendida gloria di Efraim" ( Is 28,4 ), cioè dei carnali, i quali dicono: "Non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera; coroniamoci di rose prima che avvizziscano, non ci sia prato che sfugga alle scorribande della nostra lussuria" ( Sap 2,7-8 ). O sventurati! Che giova al ladrone, se viene trascinato alla forca attraverso un prato verdeggiante e fiorito? E al ricco epulone che vantaggio ha dato la porpora e il bisso, se dopo un po' è stato sepolto nell'inferno? ( cf. Lc 16,19.22 ). "Io so – dice Giobbe – che il plauso degli empi dura poco, e il giubilo dell'ipocrita è come un punto" ( Gb 20,4-5 ), cioè dura un solo istante. Ecco, adesso sai perché l'erba delle ricchezze non guarisce l'anima dalla malattia del peccato, anzi piuttosto la uccide. In quell'erba infatti non c'è salute ma veleno, veleno che si espelle solo con l'antidoto della povertà. Così, neppure l'unguento ( il balsamo ) della sapienza del mondo dà la salute perché, come dice Isaia: "I saggi consiglieri del faraone gli diedero un consiglio stolto" ( Is 19,11 ). A quel consiglio non si deve attenere l'anima di coloro che cercano il Signore ( cf. Gen 49,6 ). La loro sapienza è svanita ( cf. Sal 107,27 ): essi stanno sempre lì a studiare, ma non giungono mai alla conoscenza della verità ( cf. 2 Tm 3,7 ). "Come Iannes e Iambres – sapienti del faraone – si opposero a Mosè, così costoro si mettono contro la verità: uomini dalla mente corrotta e riprovati in materia di fede. Essi però non potranno progredire" ( 2 Tm 3,8-9 ). Come potranno dunque conferire la salute coloro che dalla salute sono così lontani? Non è dunque l'erba delle ricchezze che risana il lebbroso; anzi, quel che è peggio, rende lebbroso un sano. Né l'unguento della sapienza terrena risana il servo paralizzato, ma, peggio ancora, lo strazia crudelmente ( cf. Mt 8,6 ). "Sono sapienti nel fare il male, ma non sanno fare il bene" ( Ger 4,22 ). "Invece è la tua onnipotente parola, o Signore, – "Lo voglio, sii mondato! ( Mt 8,3 ), e "Va', e sia fatto secondo la tua fede" ( Mt 8,13 ) – che guarisce il lebbroso e il servo paralizzato del centurione. Di tutto questo parla il vangelo di oggi: "Quando Gesù fu sceso dal monte". 2. In questo vangelo si devono considerare due eventi: la guarigione del lebbroso e quella del servo paralizato. Il primo dove dice: "Quando Gesù fu sceso dal monte"; il secondo: "Entrato Gesù in Cafarnao". Nell'introito della messa di oggi si canta: "Adorate il Signore, voi tutti suoi angeli" ( Sal 97,7 ). Si legge poi la lettera ai Romani: "Non vogliate essere prudenti ai vostri occhi"; la divideremo in due parti e la confronteremo con le due parti del brano evangelico. La prima parte: "Non vogliate, ecc."; la seconda: "Se il tuo nemico ha fame". I. la guarigione del lebbroso 3. "Quando Gesù fu sceso dal monte". Vediamo che cosa significhi il monte, e che cosa la discesa di Gesù. Il monte è l'eternità della gloria celeste. Dice il salmo: "Chi salirà il monte del Signore?" ( Sal 23,3 ). Colui che scende da se stesso "e si umilia, si fa piccolo come un bambino" ( Mt 18,4 ), questi è colui che discende dal monte. La discesa di Gesù nella carne umana fu la sua umiliazione: "Abbassò i cieli" della divinità "e discese" ( Sal 18,10 ) nel grembo della Vergine Madre. Poiché abbiamo trattato già varie volte di questo argomento, affinché la ripetizione non produca noia, non vogliamo insistervi ulteriormente, ma passiamo alla guarigione del lebbroso, come sia stata operata e quale ne sia il significato morale. "Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi davanti a lui" ( Mt 8,2 ). Per le varie specie di lebbra e il loro significato, vedi il vangelo dei dieci lebbrosi, sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, parte II. Questo lebbroso è figura del peccatore colpito dalla lebbra del peccato mortale. Il Levitico dice: "Quando il colore bianco compare sulla pelle, e il colore dei capelli cambia, e sulla pelle compare la carne viva, si tratta certamente di lebbra inveterata e sviluppata nel corpo" ( Lv 13,10-11 ). Nel colore bianco sono indicate la superbia e la vanagloria; nel cambiamento del colore dei capelli l'avarizia; nella carne viva la lussuria. Ecco la lebbra ormai inveterata. Dice il Signore: "Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno, davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità" ( Mt 23,27-28 ). E Paolo: "Dio ti colpirà, muro imbiancato!" ( At 23,3 ). Così pure del cambiamento che l'avarizia produce, dice Giacobbe a Lia e a Rachele: "Il vostro padre si è beffato di me e ha cambiato dieci volte il mio salario" ( Gen 31,7 ). Quante volte l'avarizia cambia il colore dei capelli, cioè i pensieri della mente. "Lo stolto, cioè l'avaro, cambia come la luna" ( Sir 27,12 ). Cresce e cala, e non può mai restare lo stesso; ha due pesi e due misure, e perciò è in abominio davanti Dio ( cf. Pr 20,10 ). Dice infatti Michea: "Nella casa dell'empio ci sono ancora, come fuoco, i tesori iniquamente accumulati, e le misure scarse sono ripiene d'ira. Potrò io giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi? Con essi i ricchi della città si sono riempiti di ingiustizie e i suoi abitanti dicono menzogne e nella loro bocca c'è una lingua ingannatrice" ( Mic 6,10-12 ). Quante le lingue, tante le coscienze. Questo non è "il mutamento della destra dell'Altissimo" ( Sal 77,11 ). "La loro destra è ricolma di regali" ( Sal 26,10 ), e perciò saranno posti a sinistra. Parimenti, la lussuria è così chiamata dal lusso del cibo e delle bevande, per il cui eccesso la carne viva e sfrontata si dà alla lussuria. Vivendo in questo modo, "nessun vivente sarà giustificato al tuo cospetto ( Sal 143,2 ), anzi sarà condannato. Dice Rebecca: "Sono disgustata della mia vita, a causa delle figlie di Hit", nome che s'interpreta "vita"; se Giacobbe prenderà in moglie una donna di questo paese, non voglio più vivere" ( Gen 27,46 ). Gesù Cristo, crocifisso e morto, non prese una "sposa viva", ma crocifissa e morta. Dice infatti l'Apostolo: "Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e le sue passioni" ( Gal 5,24 ), e soggiunge: "Io porto nel mio corpo le stimmate del Signore Gesù" ( Gal 6,17 ). Carne viva, carne lebbrosa: la sua vita non è vita, ma dev'essere detta piuttosto morte. Chi si trova in questo stato, se vuole vivere venga alla Vita, come fece il lebbroso, del quale appunto è detto: 4. "Ed ecco venire un lebbroso che, prostratosi, lo adorava dicendo: Signore, se tu vuoi, puoi mondarmi" ( Mt 8,2 ). Nelle tre parole: venne, adorò, disse, sono indicate la contrizione, la confessione e la fede, che sono assolutamente necessarie ad ogni peccatore. Il peccatore deve anzitutto andare a Dio con la contrizione. È detto nel Cantico dei Cantici: "Vieni dal Libano!" ( Ct 4,8 ), vieni cioè dal falso splendore della vanità del mondo; e nell'Apocalisse: "Chi ascolta, dica: Vieni!" ( Ap 22,17 ). Chi sente nella sua mente il soffio della brezza leggera ( cf. 1 Re 19,12-13 ), che è l'ispirazione interiore, deve dire al peccatore: Vieni, per mezzo della contrizione. Anche Isaia dice: "Se volete cercare, cercate; convertitevi e venite" ( Is 21,12 ). "Il lebbroso dunque venne e lo adorò". Ecco l'umiltà della confessione, della quale Marco con più precisione dice: "Venne da lui un lebbroso, supplicandolo, e piegato il ginocchio, disse: Se vuoi …" ( Mc 1,40 ). Così il peccatore, quando va alla confessione, deve piegare le ginocchia davanti al sacerdote, che rappresenta Cristo, al quale Cristo stesso ha dato il potere di legare e di sciogliere. Il peccatore deve professare una fede così grande nella dignità del ministero del sacerdote da dirgli: "Signore, se vuoi, puoi mondarmi", e assolvermi dai miei peccati. "Gesù, stendendo la mano, lo toccò e disse: Lo voglio, sii mondato!" ( Mt 8,3 ), così, in modo imperativo. O mani piene di grazia, mani d'oro, ricolme di giacinti ( cf. Ct 5,14 ), al cui tocco si scioglie il nodo della lingua del muto, risuscita la figlia del capo della sinagoga, la lebbra del lebbroso viene mondata! Dice Isaia: "Tutto questo ha fatto la mia mano" ( Is 66,2 ). Mano suona quasi come munus, dono. O Signore, stendi dunque, per porgere il dono, quella mano che fu tenuta stesa sulla croce dal chiodo, e tocca il lebbroso; tutto ciò che con essa toccherai sarà mondato e risanato. "E toccandogli l'orecchio – racconta Luca – lo guarì" ( Lc 22,51 ). Stese la mano e largì il dono della guarigione dicendo: "Lo voglio, sii mondato! E subito la sua lebbra scomparve" ( Mt 8,3 ). "Egli opera tutto ciò che vuole" ( Sal 115,3 ). Tra il suo dire e il suo fare non c'è distanza alcuna. Questa stessa cosa il Signore opera ogni giorno nell'anima del peccatore con il ministero del sacerdote, il quale pure deve compiere questi tre atti: stendere, toccare, volere. Stende la mano quando effonde a Dio la sua preghiera per il peccatore, e soffre di compassione per lui; lo tocca quando lo consola e gli promette il perdono; ha la volontà di mondarlo quando lo assolve dai suoi peccati. E questo è quel triplice "pascere", che Gesù rivolse a Pietro, quando gli disse "Pasci … pasci … pasci!" ( Gv 21,15-17 ). 5. "E gli disse Gesù: Guàrdati dal dirlo a qualcuno!" ( Mt 8,4 ). Certamente non dicono e non pensano così coloro che, quando fanno qualcosa di bene, suonano la tromba davanti a sé, e la loro sinistra sa molto bene quello che fa la loro destra ( cf. Mt 6,3 ); coloro che "prostituiscono la loro figlia", mentre Mosè lo proibiva dicendo: "Non prostituire la figlia tua" ( Lv 19,29 ). La "figlia tua" è la tua opera buona, che metti nel postribolo quando la vendi nel lupanare del mondo per il denaro della vanagloria. O miserabile scambio! Vendere il premio del Regno dei cieli per il vento che esce dalla bocca dell'uomo! Guàrdati dal dirlo a qualcuno, non mostrare ad alcuno le tue cose. Fratello, non ti bastano Dio e la tua coscienza? Che vantaggio ti dà la lingua dell'uomo, la quale lodando condanna e condannando loda? La quale precipita il giusto fino al profondo dell'inferno, e invece pretende di innalzare l'iniquo fino al trono di Dio e dell'Agnello? Guàrdati bene, dunque, dal dirlo a qualcuno. Dice L'Ecclesiastico: "Non dare all'acqua un'uscita, neppure piccola" ( Sir 25,25 ). E Isaia: "Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me!" ( Is 24,16 ). Infatti leggiamo nel quarto libro dei Re che, alla parola di Eliseo, "la donna andò e chiuse la porta dietro di sé e i suoi figli" ( 2 Re 4,5 ). E Matteo: "Chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà" ( Mt 6,6 ). E Luca: "Non passate di casa in casa" ( Lc 10,7 ). Guàrdati, dunque, dal dirlo a qualcuno. La natura ha collocato due porte davanti alla lingua: i denti e le labbra, proprio perché quella meretrice, che ama sempre il luogo pubblico, non vada fuori in piazza, "loquace, randagia e insofferente di pace" ( Pr 7,1011 ). Serra dunque i denti, stringi le labbra, affinché la meretrice non entri nel lupanare. Dice infatti l'Ecclesiastico: "Non dare alla donna malvagia il permesso di comparire", e così obbedirai al comando di Cristo: "Guàrdati dal dirlo a qualcuno!". Ma va', e mostrati ai sacerdoti" ( Mt 8,4 ). Per il significato di queste parole vedi il vangelo dei dieci lebbrosi: "Mentre Gesù andava verso Gerusalemme" ( Lc 17,11 ); sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, II parte. 6. "Offri il dono prescritto da Mosè, in testimonianza per loro" ( Mt 8,4 ). Leggiamo nel Levitico: "Il Signore parlò a Mosè dicendo: Questo è il rito da osservare con il lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall'accampamento e lo esaminerà; se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita, comanderà al lebbroso che viene purificato di offrire per sé due passeri vivi, dei quali sia lecito cibarsi, legno di cedro, panno scarlatto ed issopo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno dei passeri in un vaso di terracotta con acqua viva ( di sorgente ); poi prenderà il passero vivo, il legno di cedro, il panno scarlatto e l'issopo e li immergerà nel sangue del passero sgozzato sopra l'acqua viva. Ne aspergerà poi sette volte colui che dev'essere purificato dalla lebbra; lo dichiarerà mondo, e lascerà andare libero a volare per la campanga il passero vivo" ( Lv 14,1-7 ). Quindi colui che deve essere purificato "prenderà" ( offrirà ) "due agnelli senza macchia, un'agnella di un anno senza macchia, tre decimi di efa di fior di farina intrisa di olio, in sacrificio, e un sestario ( mezzo litro ) di olio" ( Lv 14,10 ). "Se [ il lebbroso ] è povero e non può disporre delle cose suddette, prenderà un agnello in riparazione del suo peccato, un decima ( di efa ) di fior di farina intrisa con olio, come sacrificio, e un sestario di olio; prenderà anche due tortore o due colombi: uno per espiazione del suo peccato e l'altro per l'olocausto. Offrirà queste cose al sacerdote, all'ingresso della tenda della testimonianza, davanti al Signore" ( Lv 14,21-23 ). Vediamo il significato morale di questo rito. Anzitutto, due sono le specie di penitenti che vengono mondati dalla lebbra del peccato: la prima si trova nella religione ( ordine religioso), la seconda nel mondo. I religiosi devono fare la prima offerta. Gli altri, cioè i coniugati e i buoni cristiani, costretti a occuparsi anche delle cose del secolo, che non sono così ricchi di virtù, devono fare la seconda. I due passeri vivi sono il corpo e lo spirito del religioso, che può dire con l'Apostolo: " Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me" ( Gal 2,20 ). Offre questi due passeri al Signore per la sua emendazione. Infatti il libro dei Giudici dice: "Voi che vi offriste volontari alla prova, benedite il Signore. Voi che montate su asini affaticati che sedete nei tribunali e camminate sulla via" ( Gdc 5,9-10 ). Gli asini affaticati sono i corpi dei religiosi, che portano il peso del giorno e del caldo ( cf. Mt 20,12 ), e che devono venir nutriti, come gli asini, di cibi ordinari e frugali. Dice il Qoelet clesiastico: "Foraggio, bastone e soma per l'asino; pane, severità e lavoro per il servo" ( Sir 33,25 ), cioè per il religioso, che siede in tribunale quando obbedisce al suo superiore, e cammina sulla via di cui parla Geremia: Questa è la via, camminate su di essa ( Ger 6,16 ); la Via stessa che dice: "Io sono la via, la verità e la vita" ( Gv 14,6 ). Deve anche offrire legno di cedro, nel quale è raffigurata la povertà, e il panno scarlatto o cocco, che simboleggia la carità, e l'issopo nel quale è indicata l'umiltà. Il cedro sublime della povertà, che con il suo profumo scaccia i serpenti dell'avarizia e della rapina, ben si accorda con l'issopo dell'umiltà che guarisce il gonfiore del polmone, cioè l'orgoglio, mediante il panno scarlatto della duplice carità [ verso Dio e verso il prossimo ]. "E immolerà uno dei due passeri", cioè il corpo, per poter dire con l'Apostolo: "Per me il mondo è stato crocifisso, come lo sono io per il mondo" ( Gal 6,14 ); e ancora: "Io sono già versato in libagione" ( 2 Tm 4,6 ), vengo cioè offerto in sacrificio. "In un vaso di terracotta". Dice l'Apostolo: "Abbiamo questo tesoro in vasi di terracotta, fragili" ( 2 Cor 4,7 ). "Sopra acqua viva", che è la compunzione delle lacrime: sono vive quando fluiscono dalla sorgente superiore e da quella inferiore. Dice Zaccaria: "In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme", cioè dal cuore del penitente; "la metà verso il mare orientale", ecco la sorgente superiore; "e l'altra metà verso il mare occidentale" ( Zc 14,8 ), ecco la sorgente inferiore. Il mare orientale è l'amarezza, invece dello splendore della luce eterna; il mare occidentale è l'acuta afflizione per aver commesso il peccato, per la dimora di questo esilio terreno, per i peccati del prossimo. Quindi il religioso sacrifica il passero in un vaso di terracotta sopra l'acqua viva, quando crocifigge il suo corpo con i suoi vizi e le sue concupiscenze, e nell'amarezza della sua anima medita sulla fragilità della vita e sulla infelicità dell'esilio. "L'altro passero vivo …" Il passero vivo raffigura lo spirito che, insieme con il legno di cedro della povertà, con lo scarlatto della carità e l'issopo dell'umiltà, deve essere immerso nel sangue del passero immolato, cioè del corpo, sull'altare della penitenza. Infatti la sofferenza e la macerazione del corpo, indicate nel sangue, purificano e santificano lo spirito, il quale in questo modo, mediante le virtù suddette, sulle ali della contemplazione vola libero per la campagna, cioè nel cielo. "Prenderà due agnelli senza macchia e un'agnella di un anno senza macchia, tre decimi di efa di fior di farina e un sestario di olio". Nei due agnelli è simboleggiata la mitezza dello spirito e del corpo, nell'agnella la retta e pura intenzione in tutto ciò che si fa, e nei tre decimi ( di efa ) di fior di farina la triplice obbedienza, quella prestata ai superiori, agli uguali e agli inferiori; nel sestario di olio sono indicate le sei opere di misericordia. E questa è l'offerta che ogni religioso deve presentare in espiazione dei suoi peccati. "Se invece è povero" …, ecc. Nell'agnello è simboleggiata l'innocenza della vita, nel decimo ( di efa ) di fior di farina la perfezione dell'eterno amore, nel sestario di olio le sei opere di misericordia, nelle due tortore, o due colombi il duplice lamento della contrizione che il peccatore deve emettere per i peccati commessi e per i peccati di omissione. E questa è l'offerta che, in riparazione dei loro peccati, devono presentare al Signore i coniugati e le altre brave persone che vivono nel mondo: vivere nell'onestà, amare il prossimo, praticare le opere di misericordia, pentirsi dei peccati commessi e di quelli di omissione. Diciamo dunque: "Va' e mostrati ai sacerdoti: Fa' l'offerta ordinata da Mosè in testimonianza per loro". 7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte del brano dell'epistola: "Non vogliate essere prudenti per voi stessi" ( Rm 12,16 ). La prudenza della carne è la lebbra dell'anima. "La prudenza della carne è morte" ( Rm 8,6 ). Dice Isaia: "La tua scienza e la tua sapienza ti hanno ingannato" ( Is 47,10 ). E Geremia: "Sono sapienti nel fare il male, ma non sanno operare il bene" ( Ger 4,22 ). Ma "non c'è sapienza, non c'è prudenza, non c'è consiglio contro il Signore" ( Pr 21,30 ), il quale "rende stolti i consiglieri e priva i giudici di senno" ( Gb 12,17 ). Dice il profeta Abdia: "Disperderò i saggi dall'Idumea e la prudenza dal monte di Esaù" ( Abd 1,8 ). Idumea s'interpreta "sanguinosa", Esaù "mucchio di pietre". Gli Idumei raffigurano i legisti e i canonisti, che spremono il sangue dei poveri. Essi sono "le due figlie della sanguisuga", cioè del diavolo, che dicono sempre "ancora, ancora", e mai "basta!" ( cf. Pr 30,15 ). Il monte di Esaù raffigura le dignità ecclesiastiche, che nella chiesa di Cristo sono come dei mucchi di pietre; costoro, come le pietre miliari, mostrano la via agli altri, ma essi restano lì immobili, duri e insensibili. Il Signore disperderà la sapienza degli Idumei e la prudenza di costoro. Non vogliate, dunque, essere prudenti per voi stessi. "Non rendete a nessuno male per male" ( Rm 12,17 ), ecco la mitezza e l'onestà, raffigurate nei suddetti agnelli senza macchia. "Procurate di compiere il bene non soltanto davanti a Dio, ma anche davanti a tutti gli uomini" ( Rm 12,17 ): ecco il sestario di olio, cioè le opere di misericordia. "Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti" ( Rm 12,18 ): ecco l'agnella senza macchia e il decimo ( di efa ) di fior di farina intrisa d'olio. "Non vendicatevi, o carissimi, ma lasciate fare all'ira divina" ( Rm 12,19 ): ecco i piccoli colombi, che sono senza fiele. Lasciate "a me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore" ( Rm 12,19 ), il quale nel giorno della ricompensa si pronunzierà a favore dei miti e dei mansueti della terra, cioè delle tortore e delle colombe, dei penitenti e degli umili della santa chiesa, i quali presentano la suddetta offerta per essere purificati dalla loro lebbra. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di mondarci dalla lebbra della superbia e della vanagloria, dalla lebbra della lussuria e dell'avarizia, affinché siamo degni di presentargli l'offerta stabilita e, purificati da tutti i peccati, meritiamo di essere presentati a lui, che è benedetto nei secoli eterni. Amen. II. guarigione del servo paralizzato 8. "Entrato Gesù a Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava …" ( Mt 8,5 ). Per il nome di Cafarnao e il suo significato vedi il vangelo: "Vi era un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao" ( Gv 4,46 ); sermone della domenica XXI dopo Pentecoste, prima parte. Il Signore non volle andare dal figlio del funzinario del re, per non sembrare un estimatore della ricchezza; invece acconsentì subito ad andare dal servo del centurione per non sembrare ( con un rifiuto ) uno spregiatore della condizione servile. Perciò disse: "Io verrò e lo curerò" ( Mt 8,7 ). Ecco il nostro medico che con la sola parola cura tutto l'universo. Di lui dice l'Ecclesiastico: "Onora il medico a motivo del bisogno" ( Sir 38,1 ) che hai di lui. "Ma il centurione disse: "Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto" ( Mt 8,8 ). Invece Zaccheo accolse il Signore pieno di gioia ( cf. Lc 19,6 ). In questo si deve osservare la diversità delle intenzioni. Alcuni, a motivo del rispetto che nutrono verso il Corpo di Cristo, dicono: Signore, non sono degno; e perciò si astengono dall'accostarsi con frequenza all'Eucaristia; altri invece, proprio per onorare il Corpo di Cristo, lo ricevono con gioiosa riconoscenza. Dice Agostino: Non lodo e non biasimo coloro che ricevono ogni giorno l'Eucaristia, perché alcuni proprio per venerazione non osano riceverla quotidianamente, altri invece per la stessa venerazione, non osano lasciar passare giorno senza riceverla. "Ma di' soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito. Perché anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va', ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene" ( Mt 8,8-9 ). Da questo è provato che colui al quale gli angeli servono e obbediscono in adorazione, senza presenza corporale può ordinare alla malattia di andarsene, e alla guarigione di venire. Si canta infatti nell'introito della messa di oggi: "Adorate Dio, voi tutti suoi angeli" ( Sal 97,7 ). "All'udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a coloro che lo seguivano: In verità vi dico, non ho trovato tanta fede in Israele" ( Mt 8,10 ), cioè nel popolo israelitico del suo tempo; l'ho trovata invece negli antichi, cioè nei patriarchi e nei profeti. Sono eclusi da questa affermazione la Vergine e i discepoli, ai quali è stata infusa dal cielo una fede maggiore. "Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente", verranno cioè alla fede cattolica molti pagani, dei quali il centurione è figura, "e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli", cioè riposeranno con gli altri salvati; "invece i figli del Regno", cioè i Giudei, "saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti" ( Mt 8,11-12 ). Il pianto sta per il fuoco, lo stridore di denti per il freddo, perché, come dice Giobe, passeranno dalle acque nevose [ gelate ] a un calore smisurato ( cf. Gb 24,19 ): nell'inferno c'è un fuoco inestinguibile e un gelo intollerabile: sono le pene alle quali il Signore si riferisce. "E Gesù disse al centurione: Va', e sia fatto secondo la tua fede" ( Mt 8,13 ), poiché ad ognuno è dato ciò che domanda, ma solo nella misura della sua fede. "E proprio in quell'istante il servo guarì" ( Mt 8,13 ). La tua parola onnipotente, o Signore, ha mondato il lebbroso e ha guarito il servo. 9. In senso morale. Il centurione circondato di soldati raffigura il prelato o anche il semplice giusto, che dev'essere dotato di virtù, come di soldati, a sua difesa. Leggiamo nel secondo libro dei Re: "Tutto il popolo e tutti i guerrieri camminavano a destra e a sinistra del re Davide" ( 2 Sam 16,6 ); e ancora: "Tutti i ministri del re camminavano al suo fianco, e anche le legioni dei Cretei", cioè degli sterminatori, "e quelle dei Peletei" ( 2 Sam 15,18 ), cioè dei vivificatori: in tutti costoro sono raffigurate le virtù che distruggono i vizi e ridanno la vita all'anima. Leggiamo nel secondo libro dei Maccabei che quando Giuda Maccabeo e Timoteo vennero a conflitto, "accesasi una durissima lotta, apparvero dal cielo ai nemici ( dei Giudei ) cinque uomini splendidi su cavalli dalle briglie d'oro, che guidavano i Giudei. Due di essi presero in mezzo Giuda Maccabeo e, proteggendolo con le loro armature, lo preservavano illeso; invece scagliavano dardi e e folgori contro i nemici; questi, confusi e accecati, si dispersero in preda alla confusione" ( 2 Mac 10,29-30 ). Timoteo s'interpreta "benèfico", ma indica il diavolo che verso coloro che amano il mondo sembra al momento benèfico, ma col passar del tempo diverrà venèfico, perché quelli che lo hanno seguito quando li incitava al peccato, se lo ritroveranno carnefice nei tormenti. Il diavolo dunque, radunato l'esercito dei vizi, avanza per combattere contro il Maccabeo, cioè contro il giusto. E quando tra le due parti si accende una violenta battaglia, ecco apparire dal cielo, dalla misericordia celeste, cinque personaggi, cioè cinque virtù, che sono l'umiltà della mente, la castità del corpo, l'amore alla povertà, la perfezione della duplice carità e il proposito della perseveranza finale. Queste virtù, "sul cavallo" della buona volontà, – "il cavallo, dice Salomone, è pronto alla battaglia, ma è il Signore dà la salvezza" ( Pr 21,31 ) –, "con il morso" dell'astinenza e della disciplina, con il morso "d'oro" della discrezione, "fanno da guida ai giudei", cioè ai penitenti. Invece "ai nemici", cioè ai demoni e ai vizi, preparano lo sterminio. Infatti quando subentrano le virtù, vengono scacciati i vizi. L'umiltà difende e conserva incolume il Maccabeo, cioè il giusto, dalla superbia del cuore, e la castità dalla depravazione del corpo. Chi è difeso da simili combattenti, ben a ragione potrà "dire a uno: Va'": potrà dire cioè all'umiltà della mente o alla pazienza: Va' all'obbedienza, accetta qualsiasi dipendenza; va' e sopporta ogni offesa; e quelle virtù andranno, perché dice il Filosofo: Gode chi è paziente nelle durezze; e "Sopra il mio dorso" cioè sulla mia pazienza, "hanno costruito i peccatori" ( Sal 129,3 ). Potrà "dire ad un altro: Vieni": potrà dire cioè alla castità o all'astinenza: vieni a frenare la brama della gola, la lubricità della carne, e quelle virtù "verranno". E questo vale anche per tutte le altre virtù. 10. "E dico al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa" ( Mt 8,9 ). Il servo del giusto è la carne il corpo. Dice l'Ecclesiastico: "Per il servo cattivo tortura e ceppi; mandalo al lavoro perché non stia in ozio: poiché l'ozio insegna molte cattiverie" ( Sir 33,28-29 ). E quanto fortunato è colui che ha un servo così soggetto, da obbedirgli in tutto ciò che giustamente gli viene comandato; che quando gli dice: digiuna, egli digiuna; e quando gli dice: veglia, egli veglia; e così in tutto il resto. Allora l'uomo spirituale dice al suo servo: "Fa' questo, ed egli lo fa". Il servo del centurione è il parrocchiano affidato al suo pastore, il parrocchiano crudelmente tormentato dalla paralisi, che ogni qualvolta cerca di liberarsi dai vizi e dai piaceri, viene trattenuto brutalmente dal diavolo. Ma il prelato che, cinto e protetto dalle sue virtù, ha domato virilmente il suo servo, cioè la carne, il corpo, è certamente in grado di ottenere la guarigione del suo suddito, sull'esempio del centurione. Considera inoltre che, come in questo vangelo risalta meravigliosamente la misericordia di Dio, la sua pietà e la carità verso il lebbroso e il paralizzato, così nella seconda parte dell'epistola di oggi risalta la misericordia e la carità che dobbiamo avere noi verso il prossimo, senza alcuna distinzione. "Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete, dagli da bere" ( Rm 12,20 ). Così fece Eliseo che – come racconta il quarto libro dei Re – davanti ai suoi nemici che cercavano di catturarlo, fece mettere pane e acqua perché mangiassero e bevessero ( cf. 2 Re 6,22 ). "Facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti" di carità "sopra il suo capo" ( Rm 12,20 ), cioè nella sua mente e nel suo cuore. La cattiveria di una mente fredda, insensibile, si brucia al fuoco della carità quando si ama colui che nutre odio, quando si previene con atti di bontà colui che ci perseguita. La natura dell'uomo si vergogna di non amare colui che ama, di non circondare con le braccia della carità colui che devotamente serve. Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di difenderci e rafforzarci con i suddetti soldati, di risanare il servo paralizzato, di infiammare con il fuoco della carità la mente fredda e insensibile. Si degni di concederci tutto questo colui che è benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli. E ogni anima risanata dalla paralisi dica: Amen. Alleluia! Domenica III dopo l'ottava dell'Epifania Temi del sermone – Vangelo di questa domenica: "Gesù montò poi su una barca". – Sermone sul predicatore e sulla società ( lega ) dei peccatori: "Sali alla foresta". – Sermone sulla passione: "Gesù montò su una barca". – Sermone sulla tentazione del diavolo e sull'aiuto di Gesù Cristo: "Quando uno sale sulla barchetta della penitenza". Esordio - sermone sul predicatore e sulla "società" dei peccatori 1. In quel tempo: "Gesù montò su una barca, e i suoi discepoli lo seguirono" ( Mt 8,23 ). Leggiamo nel libro di Giosuè: "Sali alla foresta e taglia piante per crearti degli spazi liberi nel territorio dei Perezei e di Rafaim" ( Gs 17,15 ). La foresta raffigura la sterile società dei peccatori, fredda, oscura, piena di fiere. Fredda per l'assenza della carità: Dilagò l'iniquità e la carità si raffreddò ( cf. Mt 24,12 ). Oscura per l'assenza della vera luce: "Gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce" ( Gv 3,19 ). Piena di fiere della gola, della lussuria, dell'usura e della rapina: "La devastò il cinghiale della foresta …" ( Sal 80,14 ), cioè il diavolo. In questa foresta c'è anche il cacciatore Nemrod ( cf. Gen 10,9 ), cioè il diavolo. Entra dunque in questa foresta, o predicatore, e con quella scure il cui manico è l'umanità, ma il cui ferro tagliente è la divinità, taglia piante e créati degli spazi liberi. "La scure è posta alla radice", è detto nel vangelo ( Mt 3,10 ). L'albero della grandezza umana, la foresta della società sterile e peccatrice viene tagliata con la scure dell'incarnazione del Signore. Infatti, se questa "foresta" considera attentamente il capo della divinità ( cioè di Cristo ) reclinato nel grembo della Vergine poverella, decàde dalla sua condizione di foresta inesplorata e inaccessibile, e diventa un luogo aperto e spazioso nel quale si può edificare la città del Signore delle virtù ( degli eserciti ), che il corso del fiume rallegra ( cf. Sal 46,5 ). È questo il cambiamento della destra dell'Altissimo ( cf. Sal 77,11 ), affinché dove abbondò il peccato, sovrabbondi la grazia ( cf. Rm 5,20 ). "Nel territorio dei ferezei", nome che significa "separato", "e di Rafaim", che vuol dire "giganti" o anche "madri dissolute". In questa triplice interpretazione viene indicata quella malefica terna, che è data dalla superbia, dall'avarizia e dalla lussuria. I superbi di spirito si tengono separati dagli altri con il loro fasto, con loro arroganza; gli avari sono come i giganti, figli della terra, tutti presi dalle cose terrene; i lussuriosi sono come le madri dissolute che con le due mammelle della gola e della lussuria alimentano gli affetti della carne. Per abbattere dunque questa foresta, radicata in questo territorio, il predicatore salga, seguendo le orme di colui che sale sulla barca, del quale il vangelo di oggi dice: "Gesù salì su una barca". La barca della croce e della penitenza 2. La barca è la croce di Cristo, in grazia della quale possiamo approdare al litorale della patria celeste. Fa' attenzione che, come la barca alle due estremità è stretta e invece al centro è larga, così la croce al suo inizio e alla sua fine, cioè all'inchiodatura dei piedi e delle mani e alla loro schiodatura, fu stretta, cioè piena di atroci sofferenze. Quanto larga invece fu al centro, cioè quando Gesù pregò per i crocifissori, quando promise il suo regno al ladrone, quando affidò la Madre al discepolo! A proposito di questa barca, vedi il vangelo "Gesù, salito su una barca, passò all'altra riva" ( Mt 9,1 ); sermone della domenica XIX dopo Pentecoste, prima parte. "Lo seguirono i suoi discepoli". Questo è ciò che dice il Signore per bocca di Geremia: "Tu mi chiamerai Padre, e non cesserai mai di seguirmi" ( Ger 3,19 ). Beata quell'anima che può dire a Gesù ciò che disse Rut a Noemi: "Dove andrai tu andrò anch'io, dove ti fermerai anch'io mi fermerò" ( Rt 1,16 ). Ed Elia: "Se il Signore è Dio, seguitelo!" ( 1 Re 18,21 ). In verità, lui è il Signore nostro Dio che, per redimerci, salì sulla croce. Seguiamolo dunque, portando la croce della penitenza. Egli ha detto: "Se uno vuole venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua" ( Mt 16,24 ). Dice la Storia Naturale che la pantera emana un odore molto gradevole che attira irresistibilmente il bestiame, il quale ovunque ne fiuti la presenza vi si raduna rapidamente e poi le va dietro. Il vaso d'alabastro dell'unguento, spezzato sulla croce, con il suo profumo ha riempito tutto il mondo ( cf. Mc 14,3; Gv 12,3 ). Lo seguano dunque i discepoli, corrano i cristiani al profumo del Crocifisso. "I suoi discepoli lo seguirono". Si legge nel quarto libro dei Re: "Mentre i figli dei profeti tagliavano le piante, avvenne che a uno di essi cadde nell'acqua il ferro della scure. Egli gridò ad Eliseo: Ahimè, signore mio, l'avevo preso in prestito. Eliseo domandò: Dov'è caduto? E quegli gli indicò il punto. Eliseo prese un legno e lo gettò in quel punto, e il ferro venne a galla. Gli disse: Prendilo! Quegli stese la mano e lo prese" ( 2 Re 6,4-7 ). Il ferro raffigura il genere umano che, per il peso dei peccati, dall'albero proibito cadde nelle acque della miseria e della colpa. Ma il vero Eliseo, cioè Cristo, per mezzo del legno della croce e le acque del battesimo lo liberò. Il ferro galleggia e va anche verso il legno, quando il peccatore convertito si assoggetta a portare la croce di Cristo. "Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era coperta dalle onde; ed egli dormiva" ( Mt 8,24 ). Quando Gesù sulla croce si addormentò nel sonno della morte, i suoi discepoli, non facendo quasi alcun conto della croce, vennero meno nella fermezza della fede; ma poi lo svegliarono quando bramarono ardentemente la sua risurrezione. "Li rimproverò per la loro incredulità dicendo: Stolti e tardi di cuore nel credere. Non era forse necessario che il Cristo sopportasse queste sofferenze? …" ( Mc 16,14; Lc 24,25-26 ). "Comandò ai venti e al mare" ( Mt 8,26 ), quando cessò la loro incredulità. 3. Senso morale. Quando uno sale sulla barca della penitenza, si scatena nel mare una grande tempesta. Il mare è il cuore. Profondo, dice Geremia, è il cuore dell'uomo, e insondabile: e chi lo conosce? (cf. Ger 17,9 ). "Impressionanti i ribollimenti del mare!" ( Sal 93,4 ), cioè del cuore, quando si gonfia di superbia, si espande oltre i limiti con l'ambizione, si rannuvola per la tristezza, si turba in vani pensieri, produce la schiuma della gola e della lussuria. Questi sono "i serpenti dei quali non si conosce il numero" ( Sal 104,25 ). "Ed ecco che si scatenò nel mare una grande tempesta". Con questo concorda ciò che leggiamo del profeta Giona: "Il Signore scatenò – cioè permise che si scatenasse – sul mare un forte vento, e ne venne in mare una tempesta tale che la nave correva il pericolo di sfasciarsi. I marinai furono presi da grande spavento … perché il mare andava sempre più gonfiandosi contro di loro" ( Gn 1,4-5.13 ). Troviamo un riferimento a ciò negli Atti degli Apostoli: "Si scatenò contro la nave – racconta Luca – un tremendo tifone, che chiamavano "euroaquilone"; la nave fu travolta nel turbine e, non potendo più resistere al vento, abbandonatala alle onde, si andava alla deriva" ( At 27,14-15 ). Provano il ribollimento del mare, l'impeto del vento, e sentono il fragore dei flutti soltanto coloro che salgono sulla barca della penitenza, perché chi dissente, sente. Dice infatti Mosè: "Dal momento in cui mi sono recato dal faraone per parlargli in tuo nome ( di Dio ), il faraone ha incominciato ad opprimere il tuo popolo" ( Es 5,23 ). Come dire: il diavolo sprezzato, scatena un putiferio e suscita tempeste nel mare. Scrive Marco: "Strepitando e straziandolo crudelmente, uscì da lui" ( Mc 9,25 ). 4. "Gesù intanto dormiva". Marco così si esprime: "Egli era a poppa della barca, e dormiva appoggiato a un cuscino" ( Mc 4,38 ). Vediamo quale sia il significato del sonno di Cristo, della poppa della barca e del cuscino. Il sonno di Cristo simboleggia il torpore nella fede; la poppa della barca la fine della nostra vita; il cuscino la rilassatezza della carne. La fede in Cristo si intorpidisce nella rilassatezza della carne. "Fino a quando illanguidirai nei piaceri, figlia vagabonda? ( Ger 31,22 ). Gli effeminati, dice Paolo, non erediteranno il regno di Dio ( cf. 1 Cor 6,10 ). Quando la nostra carne illanguidisce nei vizi, la fede in Cristo si intorpidisce in noi, e così l'anima chiude gli occhi a poppa, perché, tutta presa dai piaceri, non medita sulla miseranda conclusione della sua vita. "Gli si avvicinarono i discepoli, lo svegliarono e gli dissero: Signore, sàlvaci! Siamo perduti!" ( Mt 8,25 ). Senza dubbio è destinato alla rovina colui nel quale la fede in Cristo dorme: dev'essere quindi risvegliata aumentando la devozione, gridando i propri peccati nella confessione, ponendo mano alle opere sante. "Allora Gesù si levò e comandò ai venti e al mare" ( Mt 8,26 ). Questo corrisponde a ciò che leggiamo in Giobbe: "Chi ha chiuso tra due porte il mare? Chi gli ha detto: Fin qui giungerai e non oltre, e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde?" ( Gb 38,8.11 ). Come dicesse: Solo il Signore ha chiuso come tra due porte il mare, cioè l'amarezza della persecuzione o della tentazione diabolica, in modo che, se a lui piace, le tentazioni arrivino, e quando a lui piacerà se ne vadano. E quando fa cessare le tentazioni, dice: "Qui si infrangeranno i tuoi marosi ribollenti". E Isaia: "Il giogo marcirà a contatto con l'olio" ( Is 10,27 ), vale a dire: la tentazione cesserà alla presenza della misericordia di Gesù. Perciò quando siamo tentati dal diavolo, con tutta la devozione della mente dobbiamo dire: Nel nome di Gesù Nazareno, che ha comandato ai venti e al mare, io ti comando, o tentatore, di allontanarti da me. "E si fece una grande bonaccia" ( Mt 8,26 ). Questo è ciò che dice Anna, nel libro di Tobia: "Sono certa, Signore, che chiunque ti onora, quando si troverà nella prova sarà aiutato; e se sarà nella tribolazione sarà liberato; se dovrà subire un castigo, potrà ricorrere alla tua misericordia. Tu non godi della nostra rovina e dopo la tempesta riporti la tranquillità; dopo le lacrime e il pianto infondi la gioia". 5. E poiché non è possibile godere della pace del cuore senza l'amore verso il prossimo – perché dove c'è amore non c'è né ira, né sdegno –, per possedere questa pace l'Apostolo, nella lettera che si legge oggi, ci esorta dicendo: "Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo prossimo ha adempiuto la legge. Infatti pieno compimento della legge è l'amore" ( Rm 13,8.10 ). L'amore è detto in lat. dilectio, come dire duos lego, lego tra loro due persone. Sono legato ad ogni uomo con il debito dell'amore, che devo sempre pagare. E se lo pago come devo, "per tutto il resto nessuno mi procuri fastidi" ( Gal 6,17 ), perché a nessuno devo nulla se non questo. E chiunque pretende da me qualche cos'altro al di fuori di questo, non si comporta più secondo la legge dell'amore: "L'amore non fa nessun male al prossimo" ( Rm 13,10 ) 9. Epilogo A te, Signore Gesù Cristo, Figlio diletto di Dio Padre, autore di ogni nostro bene, a te ogni lode, ogni gloria, ogni onore, ogni devozione; tu che sei l'Alfa e l'Omèga, il principio e la fine ( cf. Ap 1,8; Ap 22,13 ); tu che con la tua bontà e misericordia, con l'infusione della tua pietà, hai concesso a me indegno, di giungere alla conclusione tanto desiderata di questo mio lavoro. Ecco, fratelli carissimi, che io, il più piccolo di tutti voi, vostro fratello e servo, ho composto con certi criteri questo lavoro sui vangeli proposti nel corso dell'anno liturgico, a vostro conforto, ad edificazione dei fedeli e in espiazione dei miei peccati. Ora supplice vi scongiuro, e scongiurando vi supplico, che quando leggerete questo lavoro, presentiate il ricordo di me, vostro fratello, a Dio Figlio di Dio, che offrì se stesso a Dio Padre sul patibolo della croce. Chiedo anche che, se troverete in questo lavoro qualcosa di edificante, di consolante, di bene esposto e di disposto con ordine, ne rendiate ogni lode, ogni gloria e ogni onore allo stesso beato e benedetto Cristo Gesù, Figlio di Dio. Se invece vi troverete qualcosa di incompiuto, di insipido e di male esposto, lo imputiate, lo attribuiate alla mia pochezza, alla mia cecità e alla mia imperizia. E tutto ciò che in questo libro si troverà da cancellare e da correggere, lo affido alla lima della discrezione dei saggi dell'Ordine, perché lo spieghino e lo correggano. Sia lode al Padre invisibile, sia lode allo Spirito Santo, sia lode al Figlio Gesù Cristo, Signore del Cielo e della terra. Amen. Alfa e Omèga. Sia gloria, onore e venerazione, sia lode e benedizione al Principio che è senza fine. Amen. Sermoni Mariani e delle feste dei santi Prologo ai quatro sermoni per le feste della B. Vergine Maria "Risplende come astro mattutino fra le nubi, e come la luna nei giorni in cui è piena. È come sole sfolgorante, come arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come il fiore della rosa nei giorni di primavera, come i gigli lungo un corso d'acqua, come un germoglio d'albero di incenso nei giorni d'estate, come fuoco e incenso su un braciere, come vaso d'oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose, come olivo verdeggiante e pieno di frutti, e come cipresso svettante tra le nubi" ( Sir 50,6-11 ). Ecco le dodici pietre preziose poste sulla corona che Aronne portava in capo ( cf. Es 26,17-21.36-38; Sap 18,25 ). Ecco le dodici stelle che sono nella corona della Vergine gloriosa ( cf. Ap 12,1 ). In sua lode vogliamo commentare queste espressioni dell'Ecclesiastico, distribuendole in quattro sermoni e applicandole alle sue quattro festività: la Natività, l'Annunciazione, la Purificazione e l'Assunzione, per quanto la Madonna stessa ce lo concederà. Sermone della Natività di Maria: "Come astro mattutino fra le nubi e come la luna nei giorni in cui è piena". Sermone dell'Annunciazione: "Come sole sfolgorante e come arcobaleno splendente fra le nubi di gloria". La Natività del Signore: "Come il fiore della rosa nei giorni di primavera e come i gigli lungo un corso d'acqua". Sermone della Purificazione: "Come un germoglio d'albero di incenso nei giorni d'estate e come fuoco e incenso su un braciere". Sermone dell'Assunzione: "Come vaso d'oro massiccio, ornato di ogni specie di pietre preziose, come olivo verdeggiante e pieno di frutti e come cipresso svettante tra le nuvole". Natività della beata Vergine Maria Temi del sermone – "Come stella del mattino". – Sermone morale sulla penitenza: "Spunterà un germoglio dalla radice di Iesse". Esordio 1. La gloriosa Vergine Maria fu "come la stella del mattino fra le nubi" ( Sir 50,6 ). Dice l'Ecclesiastico: "Bellezza del cielo è la gloria delle stelle; gloria che illumina il mondo" ( Sir 43,10 ). In questa espressione sono poste in evidenza tre eventi, che rifulsero mirabilmente nella nascita della beata Vergine Maria. Anzitutto l'esultanza degli angeli, indicata dalle parole: "Bellezza del cielo". Si racconta che un sant'uomo, mentre perseverava in devota orazione, udì venire dal cielo la dolce melodia di un canto angelico. Passato un anno, la sentì di nuovo nello stesso giorno. Allora chiese al Signore che gli rivelasse il significato di questo evento. Gli fu risposto che in quel giorno era nata Maria e che in cielo gli angeli cantavano a Dio le lodi per la sua natività: ecco perché oggi si festeggia la nascita della Vergine gloriosa. In secondo luogo è messa in risalto la purezza della sua nascita con le parole: "la gloria delle stelle". Come "ogni stella si distingue dalle altre per il suo splendore" ( 1 Cor 15,41 ), così la nascita della beata Vergine si distingue da quella di tutti gli altri santi. In terzo luogo è ricordata la luce che investì tutto il mondo con le parole: "illumina il mondo". La nascita della Vergine gloriosa illuminò il mondo, che prima era coperto dalla caligine e dall'ombra della morte. Quindi giustamente afferma l'Ecclesiastico: "Come la stella del mattino in mezzo alle nubi"…, ecc. Maria, annunciatrice del salvatore e tutta perfetta in se stessa 2. La stella del mattino è chiamata lucifero, perché splende più di tutte le stelle, e in modo più esatto è detta iubar, splendore, astro. Lucifero, che precede il sole e annuncia il giorno, irrora le tenebre della notte con il fulgore della sua luce. Stella del mattino, o lucifero ( portatrice di luce ), è la Vergine Maria che, nata nell'oscurità della nube, dissolse la tenebrosa caligine e a coloro che stavano nelle tenebre, nel mattino della grazia annunciò il sole di giustizia. Infatti, riferendosi a lei, il Signore dice a Giobbe: "Sei tu che fai spuntare a suo tempo la stella del mattino?" ( Gb 38,32 ). Quando venne "il tempo di usare misericordia" ( Sal 102,14 ), "il tempo di costruire la casa del Signore" ( Ag 1,2 ), "il tempo favorevole e il giorno della salvezza" ( 2 Cor 6,2 ), allora il Signore fece sorgere la stella del mattino, cioè la Vergine Maria, perché fosse la luce dei popoli. E i popoli devono dire a lei ciò che il popolo di Betulia disse a Giuditta: "Il Signore ti ha benedetta con la sua potenza, perché per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici. Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra. Benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidata a colpire il capo dei nostri nemici. Oggi egli ha esaltato il tuo nome in modo che la tua lode non cesserà mai dalla bocca degli uomini ( Gdt 13,12-15 ). La beata Vergine Maria, nella sua nascita, fu dunque come la stella del mattino. Di lei dice ancora Isaia: "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici" ( Is 11,1 ). Osserva che la Vergine Maria è paragonata al germoglio, a motivo delle cinque proprietà che questo possiede: è lungo, diritto, solido, sottile e pieghevole. Così Maria fu lunga nella contemplazione, diritta per la sua perfetta giustizia, solida per la fermezza della mente, sottile ( sobria ) per la povertà e pieghevole per l'umiltà. Questo germoglio è uscito dalla radice di Iesse, che fu il padre di Davide ( cf. Mt 1,5 ): da questi discende Maria ( cf. Lc 1,27 ), "dalla quale è nato Gesù, chiamato il Cristo" ( Mt 1,16 ). Per questo motivo nella festa di oggi si legge il brano del vangelo che ricorda la genealogia di Cristo, figlio di Davide ( Mt 1,1 ). 33. "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse e un fiore salirà dalle sue radici" ( Is 11,1 ). Consideriamo il significato morale di questi tre elementi: la radice, il germoglio e il fiore. Nella radice è indicata l'umiltà del cuore; nel germoglio la completezza della confessione e l'impegno della riparazione; nel fiore la speranza della beatitudine eterna. Iesse si interpreta "isola" o "sacrificio", e indica il penitente, la cui mente dev'essere quasi un'isola. L'isola è chiamata così perché è posta in mezzo al mare ( lat. in salo ). La mente, l'anima del penitente è posta nel mare, cioè nell'amarezza, perché è battuta dai marosi delle tentazioni, e tuttavia resiste incrollabile, e offre a Dio un doveroso sacrificio di soave odore. La radice di Iesse è l'umiltà della contrizione, dalla quale spunta il germoglio della franca confessione e l'impegno di una congrua penitenza. E osserva bene che il fiore non nasce dalla sommità del germoglio, ma dalla stessa radice: "e un fiore salirà dalla sua radice", perché la speranza della beatitudine eterna non germoglia dalla sofferenza del corpo ma dall'umiltà dello spirito. Con tutto questo concorda anche il brano del vangelo, nel quale Matteo, descrivendo la genealogia di Cristo, mette in primo luogo Abramo, in secondo luogo Davide e al terzo la deportazione a Babilonia. In Abramo che disse: "Parlerò al mio Signore, io che sono polvere e cenere" ( Gen 18,27 ), è raffigurata l'umiltà del cuore; in Davide, il cui cuore fu retto con il Signore, – "Ho trovato Davide, uomo secondo il mio cuore" ( At 13,22 ) – è indicata la franchezza della confessione; nella deportazione a Babilonia è ricordata la pratica della penitenza e la sopportazione delle tribolazioni. Se ci saranno in te queste tre "genealogie", conseguirai anche la quarta, cioè quella di Gesù Cristo, che è nato dalla Vergine Maria, della quale oggi cantiamo: "In mezzo alle nubi, sei sorta come la stella del mattino". 4. E infine: "Come la luna che risplende nei giorni della sua pienezza". La Beata Vergine Maria è paragonata alla luna piena, perché è perfetta sotto ogni aspetto. Mentre la luna nel suo ciclo è talvota incompleta, quando è dimezzata e quando è falcata, la gloriosa Vergine Maria mai ebbe delle imperfezioni: né nella sua nascita, perché fu santificata ancora nel grembo materno e custodita dagli angeli; né durante i giorni della sua vita, perché mai peccò di superbia: sempre rifulse di pienezza di perfezione. Ed è detta luce perché dissolve le tenebre. Ti preghiamo dunque, o nostra Signora, perché, tu, che sei la stella del mattino, scacci con il tuo splendore la nuvola della suggestione diabolica, che copre la terra della nostra mente. Tu che sei la luna piena, riempi la nostra vacuità, dissolvi le tenebre dei nostri peccati, affinché meritiamo di giungere alla pienezza della vita eterna e alla luce della gloria infinita. Ce lo conceda colui che ti ha creata perché tu sia la nostra luce, colui che oggi ti ha fatta nascere per poter egli stesso nascere da te. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Annunciazione della Beata Vergine Maria Temi del sermone "Come sole sfolgorante". – Natura e castità dell'elefante. – Sermone contro la lussuria: "Distruggerò il nome di Babilonia". – Perché le fronde o le foglie cadono dall'albero, e i quattro colori che sono nell'arcobaleno. "Io sarò come rugiada". – La lana delle pecore e natura del burro e del formaggio. – Lo stesso argomento: "Ecco un grande vento". – Natura della rugiada e proprietà del giglio. "Come il fiore della rosa nei giorni di primavera". – Sermone contro i prelati della chiesa: "Troverete un bambino". – Perché nella festa della nascita del Signore si cantano tre messe; proprietà del giglio e suo simbolismo. Esordio 1. "Come sole sfolgorante, e come arcobaleno splendente fra le nubi di gloria", ecc. ( Sir 50,7-8 ). Dice l'Ecclesiastico: "Vaso meraviglioso è l'opera dell'Altissimo!" ( Sir 43,2 ). La vergine Maria è chiamata "vaso", perché è "talamo del Figlio di Dio, speciale dimora dello Spirito Santo, triclino ( banchetto ) della Santissima Trinità". Infatti dice ancora l'Ecclesiastico: "Colui che mi ha creata, ha riposato nella mia tenda" ( Sir 24,12 ). Questo vaso fu "opera meravigliosa dell'Eccelso", del Figlio di Dio, che l'ha voluta più bella di tutti i mortali, più santa di tutti i santi, e in lei ha voluto essere plasmato egli stesso: "Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" ( Gv 1,14 ). Di quest'opera meravigliosa, nel terzo libro dei Re si dice che "Salomone fece scolpire sulle porte del Tempio cherubini, palme e boccioli di fiori" ( 1 Re 6,32 ). La porta del cielo, la porta del paradiso è la vergine Maria, sulla quale il vero Salomone scolpì i cherubini, che rappresentano la vita angelica e la pienezza della carità; le palme, che indicano la vittoria sul nemico, il verdeggiare della perseveranza e la sublimità della contemplazione; i bassorilievi di boccioli di fiori, che sono le preziose cesellature raffiguranti l'umiltà e la verginità. Tutto questo fu scolpito nella beata Vergine Maria dalla mano della Sapienza. Giustamente quindi è detto: "Come sole sfolgorante, e come arcobaleno splendente fra le nubi di gloria". I. Virtù e prerogative della beata vergine maria 2. Osserva che la Vergine Maria fu sole sfolgorante nell'annunciazione dell'angelo, fu arcobaleno splendente nel concepimento del Figlio di Dio, fu rosa e giglio nella nascita di lui. Nel sole ci sono tre prerogative: splendore, candore e calore, che corrispondono alle tre parti del saluto dell'arcangelo Gabriele. La prima: Ave, piena di grazia; la seconda: Non temere; la terza: Lo Spirito Santo scenderà su di te. Quando dice: "Ave, piena di grazia! Il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne" ( Lc 1,28 ): ecco lo splendore del sole. E questo può riferirsi anche alle quattro virtù cardinali, ognuna delle quali rifulse in Maria in tre modi. Dalla temperanza le venne la riservatezza nel corpo, la modestia nel parlare, l'umiltà del cuore. Ebbe la prudenza quando tacque nel suo turbamento, quando comprese il significato di ciò che aveva udito, quando rispose a ciò che le veniva proposto. Ebbe la giustizia quando attribuì a ciascuno ciò che gli era dovuto. Si comportò con fermezza di cuore nel suo sposalizio, nella circoncisione del Figlio, nella purificazione stabilita dalla legge. Manifestò la sua compassione a chi soffriva, quando disse: "Non hanno più vino" ( Gv 2,3 ). Fu in comunione con i santi, quando perseverava nella preghiera con gli apostoli e le altre donne ( cf. At 1,14 ). Per la sua fortezza e grandezza d'animo si assunse l'obbligo della verginità, lo osservò e tenne fede a quell'altissimo impegno. San Bernardo afferma che "le dodici stelle poste sulla corona della donna" ( Ap 12,1 ), della quale parla l'Apocalisse, sono le dodici prerogative della Vergine: quattro del cielo, quattro della carne e quattro del cuore, che scesero su di lei come stelle del firmamento. Le prerogative del cielo furono: la generazione di Maria, il saluto dell'angelo, l'adombrazione dello Spirito Santo, l'ineffabile concepimento del Figlio di Dio. Le prerogative della carne: fu la prima di tutte le vergini, fu feconda senza corruzione, gravida senza disagio, partoriente senza dolore. Le prerogative del cuore furono: la pratica dell'umiltà, il culto del pudore, la magnanimità della fede e il martirio spirituale, per il quale una spada trafisse la sua anima ( cf. Lc 2,35 ). Alle prerogative del cielo vanno riferite le parole: "Il Signore è con te"; alle prerogative della carne, le parole: "Benedetta sei tu fra le donne"; alle prerogative del cuore, le parole: "Piena di grazia". 3. Quando dice: "Concepirai e darai alla luce un figlio, e lo chiamerai Gesù" ( Lc 1,31 ), ecco il candore del sole. E come avrebbe potuto concepire il "candore della luce eterna e lo specchio senza macchia", se non fosse stata lei stessa candida? Del candore della Madre, il Figlio dice nel Cantico dei Cantici: "Il tuo ventre è tutto avorio, tempestato di zaffiri" ( Ct 5,14 ). L'avorio, che è osso dell'elefante, è "candido e freddo", e in questo è indicata una duplice purezza: quella dell'anima nel candore, quella del corpo nella freddezza. Ambedue ornarono il talamo della Vergine gloriosa. Si legge nella Storia Naturale che l'elefante è il più domestico e il più obbediente di tutti gli animali selvatici; può essere agevolmente ammaestrato e apprende con facilità, e per questo gli viene insegnato ad adorare il re, e manifesta una buona sensibilità. Rifugge soprattutto dall'odore del topo il quale, come alcuni affermano, è prodotto dall'umidità della terra. Il topo ( lat. mus ) è terra, infatti la terra si chiama anche umo ( humus ). Sotto questo aspetto, l'elefante può anche essere figura della beata Vergine, che fu la più umile e obbediente delle creature e adorò il re ( il Figlio ) che aveva dato alla luce. Il topo è simbolo della lussuria, che nasce dall'umidità della terra, cioè dal piacere della gola. E in Maria non solo non ci fu lussuria, ma ne rifuggì anche il minimo indizio: infatti si turbò all'apparizione dell'angelo. Sul suo esempio, tutti coloro che vogliono vivere castamente in Cristo, non solo devono fuggire il topo della lussuria ma evitarne anche il più lontano sospetto. E non c'è da meravigliarsi che si debba fuggire l'impurità, quando l'elefante, che per la sua mole sembra quasi una montagna, fugge di fronte al topo. 4. Dice il Signore per bocca di Isaia: "Sterminerò il nome di Babilonia e il resto, la prole e la stirpe" ( Is 14,22 ). Il giusto, il nazireo ( consacrato ) del Signore, deve sterminare il nome di Babilonia, cioè ogni genere di lussuria. "Si allontanino dalla vostra bocca le cose vecchie" ( 1 Sam 2,3 ). "La mia bocca non parli delle opere degli uomini" ( Sal 17,4 ); e stèrmini anche tutte le altre cose, cioè le fantasie impure, che di solito ritornano alla mente anche dopo che il peccato è stato perdonato; la prole, cioè la vogliosa lascivia degli occhi, della quale dice ancora Isaia: "Dalla radice del serpente uscirà una vipera, e la sua stirpe inghiottirà l'essere alato" ( Is 14,29 ). "Dalla radice del serpente", cioè dalla suggestione diabolica e dal consenso della volontà uscirà una vipera, l'occhio lussurioso, "perché – afferma Agostino – l'occhio impudico è indice di un corpo impudico"; e la sua stirpe, cioè l'oscenità delle parole e la sfrontatezza del riso inghiottirà l'essere alato, cioè il giusto. Ahimè, quanti esseri alati, quanti giusti, purtroppo, sono stati ingoiati in questo modo funesto e per questi eccessi. Ecco perché ogni progenie, vale a dire ogni occasione di lussuria, dev'essere distrutta e sterminata, affinché il ventre, cioè la mente, possa essere candida come l'avorio. Giustamente quindi è detto: "Il tuo ventre è tutto avorio, tempestato di zaffiri" ( Ct 5,14 ). Lo zaffiro è una pietra preziosa di colore celeste. Il demonio non si avvicina ad una casa in cui c'è uno zaffiro. Nello zaffiro è raffigurata la contemplazione delle cose celesti. Alla mente immersa nella contemplazione, il diavolo non ha accesso. Però, non essendo possbile vivere sempre immersi nella contemplazione, è detto "tempestato di zaffiri", quasi per precisare che non dappertutto ci sono i zaffiri, come appunto non si può dedicarsi in continuazione alla vita contemplativa. Il ventre della Vergine gloriosa fu tutto avorio e tempestato di zaffiri, perché eccelleva nel corpo per il candore della verginità, e nell'anima per lo splendore della contemplazione. 5. Con le parole: "Lo Spirito Santo scenderà su di te" ( Lc 1,35 ), è indicato il calore del sole. Il calore è il cibo e il nutrimento di tutti gli esseri viventi: se il calore viene a mancare, sopravviene il declino e la morte. La morte è l'estinzione del calore naturale nel cuore, per il venir meno della linfa e il sopraggiungere di ciò che le è contrario. Osserva infatti che il motivo per il quale le foglie cadono dagli alberi è la carenza del nutrimento, cioè del calore. Quando in inverno il freddo avvolge dall'esterno gli alberi e le erbe, il calore, fuggendo da ciò che gli è contrario ( il gelo ), si concentra nelle radici: e quando nelle radici aumenta, attira a sé nel profondo tutta la linfa sottraendola ai rami e alle estremità superiori, per mitigare la sua intensità e impedire così che le parti inferiori si brucino. Perciò, venendo a mancare il nutrimento nelle parti alte, necessariamente le foglie cadono. Il calore è la grazia dello Spirito Santo. Se essa si ritira dal cuore dell'uomo, viene meno la linfa della compunzione e, di conseguenza, l'anima sventurata cade nella morte del peccato. Aggiungendosi poi il gelo dell'iniquità, il calore dello Spirito Santo fugge da ciò che gli è contrario, e così l'anima resta spoglia di ogni bene. Il sopravvento del vizio provoca la scomparsa della virtù. Leggiamo infatti nel libro della Sapienza: "Lo Spirito Santo che ammaestra rifugge dalla finzione, si tiene lontano dai pensieri insensati ed è cacciato al sopraggiungere dell'ingiustizia" ( Sap 1,5 ), cioè viene cacciato, con tutti i suoi beni, dall'iniquità che si impadronisce dell'anima. Invece quando arriva il calore, la terra si riscalda, fa germogliare le erbe e produce i frutti. Così, dopo la discesa dello Spirito Santo, la terra benedetta concepì e diede alla luce il Frutto benedetto che ha scacciato ogni maledizione. Giustamente quindi è detto: "Lo Spirito Santo scenderà su di te". Per questo Maria nell'Annunciazione dell'angelo rifulse veramente come il sole. 6. Maria fu poi arcobaleno splendente nel concepimento del Figlio di Dio. L'arcobaleno si forma con il sole che entra in una nuvola, nella quale ci sono quattro colori: il fuligginoso, l'azzurro, l'aureo e l'infuocato. In questo giorno il Figlio di Dio, sole di giustizia, entrò nella nube, cioè nel seno della Vergine gloriosa, e questa diventò quasi un arcobaleno, segno dell'alleanza, della pace e della riconciliazione, tra le nuvole della gloria, cioè tra Dio e i peccatori. Leggiamo infatti nella Genesi: "Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra" ( Gen 9,13 ). Ricòrdati che le nuvole erano due: l'ira di Dio e la colpa dell'uomo. Dio e l'uomo combattevano tra loro. Dio, con la spada della sua ira, ferì l'uomo e lo condannò alla morte; l'uomo con la spada della colpa, peccò mortalmente contro Dio. Ma dopo che il sole entrò nella Vergine, fu fatta la pace e la riconciliazione, perché lo stesso Dio e Figlio della Vergine, dando completa riparazione al Padre per la colpa dell'uomo, fermò l'ira del Padre affinché non colpisse l'uomo. Queste due nuvole sono chiamate "glorie", perché furono disperse per opera della Vergine gloriosa. Osserva che nell'arco di colore fuligginoso è indicata la povertà di Maria; in quello color azzurro la sua umiltà; in quello color oro la sua carità, e in quello infuocato la sua intatta verginità, la cui fiamma da nessuna spada può essere divisa o danneggiata. Di quest'arco dice l'Ecclesiastico: "Osserva l'arcobaleno e benedici colui che l'ha fatto: è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria" ( Sir 43,12-13 ). Contempla l'arcobaleno, considera cioè la bellezza, la santità, la dignità della beata Vergine Maria e benedici con il cuore, con la bocca e con le opere il suo Figlio, che così l'ha voluta. È veramente stupenda nello splendore della sua santità, sopra tutte le figlie di Dio. Ella avvolse il cielo, cioè circondò la divinità, con un cerchio di gloria, vale a dire con la sua gloriosa umanità. Orsù, dunque, nostra Signora, unica speranza! Illumina, ti supplichiamo, la nostra mente con lo splendore della tua grazia, purificala con il candore della tua purezza, riscaldala con il calore della tua presenza. Riconcilia tutti noi con il tuo Figlio, affinché possiamo giungere allo splendore della sua gloria. Ce lo conceda colui che oggi, all'annuncio dell'angelo, ha voluto prendere da te la sua carne gloriosa e restare chiuso per nove mesi nel tuo grembo. A lui onore e gloria per i secoli eterni. Amen. II. Il figlio di dio paragonato alla rugiada 7. "Sarò come rugiada per Israele: esso fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano. I suoi rami si allargheranno, avrà la bellezza dell'olivo e la fragranza del Libano" ( Os 14,6-7 ). "In quel giorno le montagne stilleranno dolcezza e per le colline scorreranno latte e miele" ( Gl 4,18 ). Il giorno ( in lat. dies, dal sanscrito dyan, luminosità ) indica il tempo della grazia, nel quale i monti, cioè i predicatori, stillano la dolcezza della predicazione; e i colli, cioè coloro che ascoltano i predicatori, abbondano del latte e del miele dell'incarnazione del Signore. Osserva che è detto: "i monti stillano", perché qualunque cosa predichino è come una stilla, una goccia, in confronto alla misericordia divina, che "non ci ha salvati per le nostre opere di giustizia" ( Tt 3,5 ), della nostra giustizia; "e i colli fanno fluire": gli ascoltatori, ricevuta la goccia della predicazione, devono sovrabbondare di fede nel Verbo Incarnato, cioè nel Figlio di Dio, che dice appunto con le parole di Osea: "Io sarò come rugiada per Israele". 8. Il Figlio di Dio è paragonato alla rugiada, a motivo delle tre proprietà di questo elemento: la rugiada discende al mattino, si posa con delicatezza, apporta refrigerio nella calura. Allo stesso modo il Figlio di Dio discese nella Vergine al mattino, cioè nel tempo della grazia. Leggiamo infatti nell'Esodo: "Al mattino apparve nel deserto una specie di rugiada minuta, come pestata nel mortaio ( intendi la manna ), che somigliava alla brina sparsa sul terreno: il suo sapore era come di fior di farina mescolato al miele" ( Es 16,13.14.31 ). Il deserto è figura della beata Vergine Maria, di cui dice Isaia: "Manda, Signore, l'agnello" ( non il leone ) "a dominare la terra" ( non a devastarla ), "dalla pietra del deserto", cioè dalla beata Vergine Maria, "al monte della figlia di Sion" ( Is 16,1 ), cioè della chiesa che è figlia di Sion, vale a dire della celeste Gerusalemme. E osserva che la beata Vergine è chiamata "pietra del deserto": "pietra" perché non può essere arata, sopra la quale il colubro ( il serpente ), cioè il diavolo, che coltiva le ombre ( colit umbras ), come dice Salomone, non poté trovare passaggio ( cf. Pr 30,18-19 ); "del deserto", perché non coltivata, non seminata da seme umano, ma resa feconda per opera dello Spirito Santo. Si dica dunque: "Apparve la rugiada", cioè il Figlio di Dio, "nel deserto", cioè nella beata Vergine. Egli fu come la manna, reso "piccolo" nel concepimento e nella nascita; e quasi "pestato nel mortaio" nella sua passione, flagellato con le verghe, colpito con gli schiaffi, oltraggiato con gli sputi; e "simile alla brina sopra la terra" nella predicazione degli apostoli: "Per tutta la terra si diffuse la loro voce …" ( Sal 19,5 ); e il suo "gusto" ci sarà dolce come quello del "fior di farina misto a miele", cioè della sua divinità unita all'umanità, nella beatitudine della patria celeste. Perciò il Figlio di Dio può affermare: "Io sarò come la rugiada", che nel mattino della grazia scende nella Vergine Maria. Ma sarò anche una rugiada che discende "delicatamente", come dice il profeta: "Scenderà come pioggia sull'erba, come acqua che irrora la terra" ( Sal 72,6 ). Osserva come sia diversa la caduta della pioggia da quella della grandine. La pioggia cade delicatamente per fecondare, la grandine cade con violenza per distruggere. Nella sua prima venuta, Cristo fu come la pioggia che discese nel vello, nel seno della Vergine; nella seconda venuta sarà come la grandine, che colpirà gli iniqui con la sentenza di morte. Per questo dice Davide: "Fuoco e grandine, neve e ghiaccio, vento di bufera che obbediscono alla sua parola" ( Sal 148,8 ). Sarà fuoco che brucia e non consuma, del quale è detto: Andate, maledetti, nel fuoco eterno ( cf. Mt 25,41 ). Sarà grandine che colpisce, della quale dice Geremia: "Tempesta che si abbatte sul capo dei malvagi" ( Ger 30,23 ). Sarà neve che inghiotte, come si legge in Giobbe: Su chi ha paura della brina, cioè dell'espiazione della penitenza, cadrà la neve della morte eterna ( cf. Gb 6,16 ); cadrà il ghiaccio che lo stritolerà; soffierà il vento della bufera che mai cesserà. Tutto questo formerà "la parte del calice, cioè del castigo, di coloro" ( Sal 11,7 ) che bevono dal calice d'oro di Babilonia, vale a dire del mondo, che è nelle mani della meretrice, cioè della concupiscenza della carne. Ma il Figlio di Dio, nella sua prima venuta, scenderà come pioggia sull'erba, come è detto nel libro dei Giudici: la rugiada discese sul vello di Gedeone ( cf. Gdc 6,37-38 ). E commenta il beato Bernardo: Il Figlio di Dio impregnò di sé tutto il "vello", cioè la beata Vergine Maria, e poi anche tutta la superficie arida, vale a dire tutto il mondo. 9. Venne dunque il Figlio per farsi una veste con la lana della pecorella, cioè dalla Vergine, chiamata pecorella per la sua innocenza. È lei la nostra Rachele, nome che significa appunto "pecora", che il vero Giacobbe trovò presso il pozzo dell'umiltà, come è scritto nella Genesi ( cf. Gen 29,10 ). La pecora può raffigurare anche Adamo, di cui è detto: "Andai errando come pecora smarrita" ( Sal 119,176 ). Leggiamo nella Storia Naturale che se si confeziona una veste con la lana di una pecora sbranata dal lupo, in quella veste si sviluppano i vermi, le tarme. Così dalla lana della nostra carne, che abbiamo preso dalla pecora, cioè dal nostro progenitore, sbranato da quel lupo che è il diavolo, scaturiscono i vermi degli istinti naturali, ed essa va in putrefazione. Ma Cristo, per purificarci dalla contaminazione della carne e dell'anima, assunse una lana incontaminata, come l'aveva la pecora ( Adamo ) prima di essere sbranata dal lupo. Del Cristo dice infatti Isaia: "Egli mangerà panna e miele" ( Is 7,15 ). Osserva che la pecora produce due alimenti: la panna e il formaggio. La panna è dolce e morbida, il formaggio è asciutto e solido. La panna raffigura l'innocenza della natura, come fu prima del peccato; il formaggio sta a significare la colpevolezza e le privazioni che subì dopo il peccato. "Maledetta – è detto – la terra, cioè la carne, per la tua opera, cioè a causa del tuo peccato; spine e cardi, cioè dolori grandi e piccoli, produrrà per te ( cf. Gen 3,17-18 ). Cristo invece non mangiò formaggio ma panna, perché assunse la nostra natura come l'aveva Adamo prima del peccato, non come l'ebbe dopo il peccato: assunse infatti non tanto l'involucro, quanto la sostanza dell'involucro, non il peccato, ma la pena del peccato. Cristo fu anche l'ape che si ferma sul fiore, cioè sulla beata Vergine, a Nazaret, nome che significa "fiore". Di quest'ape è detto nell'Ecclesiastico: "L'ape è piccola tra gli esseri alati, ma il suo prodotto ha il primato tra i dolci sapori" ( Sir 11,3 ). Infatti Cristo nella sua prima venuta ebbe il miele della misericordia; invece nella seconda colpirà con il pungiglione della giustizia. "Misericordia e giustizia ti voglio cantare, o Signore!" ( Sal 101,1 ), esclama il profeta. Adesso vedi chiaramente in quale modo Cristo discese con delicatezza, come la pioggia sull'erba. 10. Di questa delicatezza è detto nel terzo libro dei Re: Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu il fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il soffio ( il mormorio ) di un vento leggero: e lì c'era il Signore ( cf. 1 Re 19,11-12 ). Nel vangelo di oggi hai questi quattro momenti. Il vento grande e forte fu il saluto dell'angelo che prometteva grandi cose: promesse rivolte a una donna fortissima da Gabriele, il cui nome significa "fortezza di Dio". Questo saluto sconvolse i monti della superbia e spezzò le pietre, cioè la durezza della sapienza umana. Le quattro parti di cui si compone questo saluto possono essere paragonate alle quattro proprietà della pietra preziosa chiamata zaffiro. Sembra che lo zaffiro mostri in se stesso una stella: a questa proprietà si riferisce l'espressione: "Ave, piena di grazia" ( Lc 1,28 ). Lo zaffiro è di colore azzurro, e a questo si riferiscono le parole: "Il Signore è con te" ( Lc 1,28 ). Lo zaffiro coagula il sangue; e con questa proprietà concordano le parole: "Benedetta tu fra le donne" ( Lc 1,28 ), perché Maria fermò il sangue della prima maledizione. Lo zaffiro infine guarisce le ulcere della pelle, e a questa proprietà si riferiscono le parole: "Benedetto il frutto del tuo ventre" ( Lc 1,42 ), il quale frutto uccise il diavolo. Giustamente quindi è detto: "Ci fu un vento impetuoso", ecc., ma lì non c'era il Signore, non ci fu cioè l'incarnazione del Verbo. Dopo il vento del saluto ci fu il terremoto: "Ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto" ( Lc 1,29 ); e neanche lì ci fu il Signore, cioè l'incarnazione del Verbo. E dopo il terremoto, il fuoco, cioè l'intervento dello Spirito Santo e l'adombramento della potenza dell'Altissimo ( cf. Lc 1,35 ): ma neppure lì ci fu il Signore. E dopo il fuoco finalmente ci fu il mormorio di un vento leggero, vale a dire la risposta di Maria: "Ecco l'ancella del Signore!" ( Lc 1,38 ), e lì ci fu il Signore, cioè l'incarnazione del Figlio di Dio. Infatti quando disse: "Avvenga di me quello che hai detto" ( Lc 1,38 ), subito "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" ( Gv 1,14 ). 11. La rugiada apporta anche refrigerio. Così il Figlio di Dio effonde acqua fresca sul genere umano, oppresso dall'ardore della persecuzione diabolica. Di quest'acqua dice Salomone: "Come acqua fresca per una gola riarsa è una buona notizia da un paese lontano" ( Pr 25,25 ). Il buon messaggero, portatore di buone nuove, fu Gesù Cristo, che effuse con larghezza la fresca acqua della sua incarnazione nell'anima di Adamo e in quelle dei suoi posteri, riarse dalla sete nel fuoco della geenna, quando le estrasse dal pozzo senz'acqua rinfrescante, in virtù del sangue della sua alleanza ( cf. Zc 9,11 ). A ragione dunque il Figlio dice per bocca di Osea: "Sarò come rugiada" che scende con delicatezza al mattino e arreca refrigerio. Dice ancora la Scrittura: "Israele fiorirà come un giglio". Israele si interpreta "che vede Dio", e sta ad indicare la Vergine Maria, che vide Dio in quanto lo nutrì nel grembo, lo allattò al suo petto, lo portò in Egitto. Maria, irrorata della rugiada ( dello Spirito Santo ) fiorì come giglio, la cui radice è medicinale, lo stelo solido ed eretto verso l'alto, il fiore candido e i petali aperti. La radice della Vergine Maria fu l'umiltà, avendo sempre represso i moti dell'orgoglio; il suo stelo fu solido giacché rinunziò a tutte le cose temporali, e fu eretto verso l'alto per la contemplazione delle cose celesti; il suo fiore fu bianco per il candore della sua verginità. Maria fu un giglio con i petali aperti, mèmore della sua radice, quando disse: "Ecco l'ancella del Signore". E questo giglio fiorì e germogliò quando, restando intatto il fiore della verginità, partorì il Figlio di Dio Padre. "E come il giglio non danneggia il suo fiore spandendo il suo profumo, così la beata Vergine non violò il fiore della sua verginità quando partorì il Salvatore" ( Guerrico, ab. ? 1157 ). "Metterà radici come un albero del Libano e si espanderanno i suoi rami". La radice del giglio raffigura l'intenzione del cuore: se essa è semplice – come dice il Signore: "Se il tuo occhio", cioè l'intenzione del tuo cuore, "sarà semplice" –, vale a dire senza la doppiezza della frode, si espanderanno i suoi rami, perché cresceranno verso l'alto le sue opere, e così "tutto il tuo corpo", cioè le opere che ne conseguono, "sarà luminoso" ( Lc 11,34 ). La radice appunto, cioè l'intenzione della beata Vergine fu purissima e olezzante, e da essa procedettero i rami delle sue opere, diritti e rivolti verso l'alto. E osserva anche che la radice dell'intenzione viene detta "del Libano", perché dalla purezza dell'intenzione proviene l'incenso, cioè il profumo della buona fama. "Avrà la bellezza dell'ulivo", che è il simbolo della pace e della misericordia. La beata Vergine Maria, nostra mediatrice, ristabilì la pace tra Dio e il peccatore. Per questo si dice di lei nella Genesi: "Porrò il mio arco sulle nubi, ed esso sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra" ( Gen 9,13 ). L'arcobaleno ha due colori: il colore dell'acqua e il colore del fuoco. Nell'acqua, che nutre tutte le cose, è simboleggiata la fecondità di Maria; nel fuoco, la cui fiamma non può essere lesa dalla spada, è indicata la sua inviolata verginità. Questo è il segno dell'alleanza e della pace tra Dio e l'uomo peccatore. Ed è anche l'olivo della misericordia. E a questo proposito il beato Bernardo dice: "O uomo, tu hai un accesso sicuro a Dio, perché presso di lui hai la Madre davanti al Figlio e il Figlio davanti al Padre. La Madre mostra al Figlio il suo grembo e il suo seno, il Figlio mostra al Padre il suo costato e le sue ferite. Non ci sarà quindi alcuna ripulsa, là dove sono insieme raccolti tanti segni di amore". "La sua fragranza sarà come il Libano". Libano si interpreta "bianchezza", e indica il candore della vita innocente della beata Vergine Maria, il cui profumo, diffuso ovunque, ridona ai morti la vita, ai disperati il perdono, ai penitenti la grazia, ai giusti la gloria. Per i meriti e per l'intercessione di Maria, la rugiada dello Spirito Santo temperi gli ardori della nostra mente, cancelli i nostri peccati, infonda in noi la grazia, affinché meritiamo di giungere alla gloria immortale della vita eterna. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. III. La natività del signore 12. "Come il fiore della rosa nei giorni di primavera, come un giglio lungo un corso d'acqua" ( Sir 50,8 ). Dice l'Ecclesiastico: "Fruttificate come un pianta di rose su un torrente; come il Libano spandete un buon profumo, fate sbocciare fiori, spandete profumo come il giglio e fate fronde rigogliose" ( Sir 39,17-19 ). Le esortazioni contenute in questa citazione sono concretizzate in tre atti: l'abbondanza delle lacrime, l'insistenza della preghiera e l'innocenza della vita. Le rose sono le anime dei fedeli, arrossate dal sangue di Gesù Cristo, che devono essere piantate sulle rive di un torrente, cioè su un profluvio di lacrime, perché possano produrre frutti degni di penitenza. Devono avere, come il Libano, l'incenso della preghiera devota, che si diffonde come un soave profumo. Devono effondere, come il giglio, il profumo della buona reputazione con l'onestà di una vita intemerata, e profondersi nel ringraziare il Signore. Se le anime dei fedeli avranno tutto ciò, potranno partecipare degnamente a questa festività, cioè alla nascita del Signore, al parto della beata Vergine, della quale è detto: "Come il fiore delle rose nella stagione di primavera, ecc." 13. "Il parto della Vergine gloriosa è paragonato alla rosa e al giglio, perché come questi fiori, pur spandendo un profumo soavissimo, non si deteriorano, così Maria, dando alla luce il Figlio di Dio, restò intatta nella sua verginità. Quindi il Padre, quando la Vergine Maria partoriva il suo Figlio, poteva dire ciò che Isacco disse a Giacobbe: "Ecco il profumo del mio Figlio, come il profumo di un campo ubertoso, che Dio ha benedetto" ( Gen 27,27 ). La natività di Cristo fu come il profumo di un campo ripieno di fiori, perché lasciò intatto il fiore della verginità della Madre, quando da essa venne alla luce. E la beata Vergine stessa fu un campo pieno di rose e gigli, che il Signore benedisse; infatti di lei è detto: "Benedetta tu fra le donne" ( Lc 1,28 ). Osserva che Maria si turbò quando si sentì proclamare "benedetta fra le donne", essa che aveva sempre preferito sentirsi dire "benedetta fra le vergini": per questo "si domandava quale senso avesse quel saluto" ( Lc 1,29 ), che in un primo momento le sembrava sospetto. E quando nella promessa di un figlio tutto le fu chiaro, non poté più ignorare il pericolo che correva la sua verginità, e disse: "Come può avvenire questo, dal momento che io non conosco uomo?" ( Lc 1,34 ), cioè mi sono prefissa di non conoscerlo? Altri dicono che fosse turbata, perché sentiva dire di sé, ciò che assolutamente non le sembrava di essere. "Virtù davvero rara, che la tua santità così evidente, sia ignota solo a te stessa!" – esclama il beato Bernardo. Egli poi aggiunge: Tu magari in segreto ti deprezzi, perché ti pesi con la bilancia della verità; poi invece in pubblico, pensando di essere di ben altro valore, ti vendi a noi ad un prezzo superiore a quello che hai fatto a te stesso. Quindi del parto verginale di Maria diciamo: "Come il fiore della rosa nei giorni di primavera". Diciamo primavera ( in lat. ver ) perché verdeggia. Infatti in prima-vera la terra si veste di erbe, si colora di fiori variopinti, ritorna il clima mite, gli uccelli "suonano la cetra" e tutto sembra sorridere. Ti rendiamo grazie, Padre Santo, perché nel pieno dell'inverno, tra i più grandi freddi, ci hai largito un tempo primaverile. Infatti in questa nascita del Figlio tuo, Gesù benedetto, che si celebra in pieno inverno, nella stagione dei freddi più intensi, ci hai dato un tempo primaverile, ricolmo di ogni incanto. Oggi la Vergine, terra benedetta, ricolma della benedizione del Signore, ha partorito l'erba verdeggiante, il pascolo dei penitenti, cioè il figlio di Dio. Oggi la terra si colora con i fiori delle rose e i gigli delle convalli. Oggi gli angeli, accompagnandosi con la cetra, cantano: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli" ( Lc 2,14 ). Oggi viene ristabilita sulla terra la tranquillità e la pace. Che vuoi di più? Tutto sorride, tutto esulta. E perciò l'angelo dice ai pastori: "Ecco, vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo; oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia" ( Lc 2,10-12 ). 14. Osservate bene, carissimi, che l'angelo appare ai pastori delle pecore, perché, come dice Salomone, "con i semplici è la sua familiarità" ( Pr 3,32 ). Coloro che custodiscono nella mente quasi un gregge di pensieri semplici e innocenti, si sentono dire dall'angelo: "Questo per voi il segno", con il quale vi garantirete; "troverete un infante", ecco l'umiltà; "adagiato in una mangiatoia", non attaccato al petto della madre, ecco l'astinenza; "avvolto in fasce", ecco la povertà. Con questo segno il Padre ha contraddistinto il Figlio ( cf. Gv 6,27 ) e lo ha mandato nel mondo. Con questo segno voi vi garantirete: Troverete un "infante", cioè uno che non parla ( lat. infans, che non parla ). In verità fu uno che non parlò, perché davanti a coloro che lo tosarono, non solo, ma che lo tosarono e lo uccisero, egli restò come muto e non aprì la sua bocca ( cf. Is 53,7 ). Troverete dunque un infante. Sì, "infante", colui che ora tace, quasi fingendo di ignorare i peccati degli uomini; e poiché non manda il castigo, i peccatori credono ch'egli non veda. Per questo il Signore si lamenta per bocca di Isaia: "Hai mancato di fede e non ti sei ricordata di me e non hai riflettuto nel tuo cuore: perché io tacevo come se non vedessi, ti sei scordata di me. Io farò conoscere la tua ( falsa ) giustizia" ( Is 57,11 ) e ti retribuirò secondo le tue opere ( cf. Pr 24,29 ); delle quali opere aggiunge: "E le tue opere non ti saranno di alcun vantaggio" ( Is 57,12 ). Troverete un infante. Ahimè, ahimè! Non "chi non parla", ma chi abbaia, chi detrae, chi mormora, chi àdula io trovo, ovunque mi volga. E tu dici: "Troverete un infante"? Io trovo chi parla, chi leva la sua bocca fino al cielo e la sua lingua percorre la terra ( cf. Sal 73,9 ); trovo cioè chi nella sua maldicenza non risparmia né il giusto né il peccatore. Trovo chi parla, chi chiama bene il male e male il bene, chi cambia le tenebre in luce e la luce in tenebre, l'amaro in dolce e il dolce in amaro ( cf. Is 5,20 ). "Adagiato in una mangiatoia". Quasi tutti, come i puledri di asino, succhiano le mammelle da tergo, si abbandonano cioè ai piaceri della gola e della lussuria. Il Signore fu deposto in una mangiatoia, e costoro si attaccano alle mammelle "della grande prostituta, che con il vino della sua prostituzione ha ubriacato gli abitanti della terra ( cf. Ap 17,1-2 ), per finire poi appesi al cappio della geenna per l'eterna rovina della loro anima. "Lo troverete avvolto in panni". In panni, e non in pelli di animale, con le quali furono rivestiti i progenitori, cacciati dal paradiso. Coloro che si vestono di pelli sono nelle dimore dei demoni. Le pelli sono così chiamate da pellere, che vuol dire scacciare, togliere, da cui abbiamo "pellex", cioè concubina e meretrice. "Pellex" da "pellicio", adescare, perché la meretrice adesca gli uomini con la bellezza della sua pelle. Il verbo latino "pellicio" significa "attirare lusingando". I crapuloni e le meretrici si vestono di pelli, perché fanno vanto dell'apparenza esteriore. Che cosa dirò degli effeminati prelati del nostro tempo, che si agghindano come donne destinate alle nozze, si rivestono di pelli varie, e le cui intemperanze si consumano in lettighe variopinte, in bardature e sproni di cavalli che rosseggiano del sangue di Cristo? Ecco a chi viene affidata oggi la sposa di Cristo, il quale fu avvolto in panni e adagiato in una mangiatoia, mentre essi si rivestono di pelli e si abbandonano alla lussuria in letti di avorio. Elia e Giovanni [ il Battista ] portavano una cintura di pelle stretta ai fianchi. O pelli invecchiate in giorni di peccato ( cf. Dn 13,52 ), se volete vestirvi di pelli, indossate una cintura e non una tunica di pelle, e stringetela ai fianchi ( cf. Mt 3,4 ), per mortificare la pelle del vostro corpo. "Pelle per pelle, – leggiamo in Giobbe – e tutto ciò che l'uomo ha, è pronto a darlo per la sua vita" ( Gb 2,4 ). Mortificate la pelle del vostro corpo destinato alla morte, per riaverla glorificata nella risurrezione finale. O pastori della chiesa, questo sarà anche per voi il segno: "Troverete un bambino …". Contrassegnatevi anche voi col segno dell'umiltà e dell'astinenza di questo bambino e con il sigillo della sua aurea povertà, voi che vivete del suo patrimonio. 15. "Come il fiore della rosa nel tempo della primavera". Osserva che, come Dio ha creato il mondo in primavera, cioè in marzo, così nella natività del suo Figlio ha fatto un mondo nuovo, tutto rinnovando. Nel primo giorno Dio disse: "Sia la luce, e la luce fu" ( Gen 1,3 ). Oggi il Verbo del Padre, per mezzo del quale tutto è stato fatto, si è fatto carne ( cf. Gv 1,3.14 ). Questa Luce, che disse "sia la luce", oggi è qui. Perciò di essa si canta oggi nella Messa della Luce ( dell'aurora ): Oggi splenderà su di noi la luce, perché è nato il Signore ( cf. Is 9,2 ). Osserva che oggi si celebrano tre messe: la messa di mezzanotte, nella quale si canta "Il Signore mi ha detto: Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato" ( Sal 2,7 ), e questo ci ricorda la misteriosa generazione della divinità, che nessuno può descrivere; la messa della luce ( dell'aurora ), che ci ricorda la generazione dalla Madre; la messa dell'ora terza ( del giorno ), che ci ricorda ad un tempo la generazione del Padre e della Madre: in questa terza messa si canta "Ci è nato un Bambino", e questo si riferisce alla nascita dalla Madre; e si legge il vangelo di Giovanni "In principio era il Verbo" ( Gv 1,1 ), che si riferisce alla generazione dal Padre. Quindi la prima messa si canta nel cuore della notte, perché la generazione dal Padre è misteriosa anche per noi credenti. La seconda messa si canta di primo mattino, perché la generazione dalla Madre è stata sì visibile anche per noi, ma avvolta in una certa qual nebbia. Chi infatti può sciogliere i legacci dei suoi sandali, vale a dire penetrare il mistero della sua incarnazione? ( cf. Mc 1,7; Lc 3,16; Gv 1,27 ). La terza messa in fine si canta in pieno giorno, perché nel giorno dell'eternità, quando ogni oscurità sarà eliminata, sapremo perfettamente in quale modo Gesù Cristo sia stato generato dal Padre, e in quale modo dalla Madre. Allora infatti conosceremo colui che tutto conosce, perché lo vedremo faccia a faccia e saremo come è lui ( cf. 1 Gv 3,2 ). Giustamente quindi è detto: "Come rugiada nei giorni di primavera". 16. "Come i gigli lungo un corso d'acqua". Osserva che il giglio nasce da terra non coltivata, germoglia nelle valli, è profumato e candido; chiuso, mantiene il profumo, aperto lo diffonde; ha sei petali, ha sei stami dorati e nel centro il pistillo; ha la proprietà di guarire le ustioni. È chiamato giglio perché è quasi latteo ( lat. lilium, lacteum ), e raffigura la beata Vergine, candida per lo splendore della verginità, che è nata da genitori casti e umili: Gioacchino, il cui nome significa "Dio rialza", e Anna, che vuol dire "grazia". Oggi Maria ha partorito il Figlio di Dio come il giglio effonde il suo profumo. Questo giglio ha sei petali, ecc. Su questo leggi la spiegazione del brano evangelico "Mentre le folle facevano ressa intorno a Gesù" ( Lc 5,1 ) della domenica V dopo Pentecoste, II parte, dove si parla dei sei gradini del trono di Salomone. Gli stami dorati del giglio sono la povertà e l'umiltà, virtù che in Maria furono l'ornamento della sua verginità. Il pistillo al centro del giglio raffigura la sublimità del divino amore che era nel cuore della beata Vergine. È lei la medicina dei peccatori, che sono stati ustionati dal fuoco dei vizi. Di costoro dice Gioele: "Tutti i loro volti diverranno del colore della pentola" ( Gl 2,6 ). La pentola è un vaso che serve per cuocere, ed è così chiamata ( lat. olla ) perché in essa l'acqua, con il fuoco sotto, bolle e produce vapore. Per questo è detta anche "bolla", la quale si produce all'interno dell'acqua come per lo spirare del vento. La pentola è la mente del peccatore, nella quale sta l'acqua della concupiscenza, che produce le bolle dei pensieri perversi, quando sotto vi è posto il fuoco della suggestione diabolica. Da questa pentola procede il fumo del cattivo consenso che acceca gli occhi dell'anima: e così la mente del peccatore si copre di nero. Il volto è chiamato così perché da esso traspare la volontà dell'animo ( vultus, voluntas ), e sta ad indicare le opere, dalle quali si conosce l'uomo. Perciò i volti dei peccatori diverranno del colore della pentola, quando dalla nerezza della mente vengono contaminate le opere. La beata Vergine Maria, con il candore risanante della sua santità elimina questa nerezza, risana questa ustione e ridona la piena salute a coloro che sperano in lei. "Come i gigli lungo un corso d'acqua", quasi a dire: Come i gigli lungo un corso d'acqua permangono nella loro freschezza e bellezza e con il loro profumo, così la Vergine Maria, quando diede alla luce il Figlio, restò nella freschezza e nella bellezza della sua verginità. Ti preghiamo quindi, o nostra Signora, alma Madre di Dio: in questa festa della natività del tuo Figlio, che hai generato restando vergine, che hai avvolto in panni, che hai deposto nella mangiatoia, ottienici da lui il perdono, risana le ustioni della nostra anima, che ci siamo procurati con il fuoco del peccato; risanale con il balsamo della tua misericordia, per mezzo della quale meritiamo di giungere al gaudio dell'eterna festa. Ce lo conceda colui che oggi si è degnato di nascere da te, o Vergine gloriosa, e al quale è onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen. Purificazione della Beata Vergine Maria ( 1 ) Temi del sermone "Come incenso fragrante nei giorni dell'estate". – Sermone in lode della beata Vergine: "Benedetta tu fra le donne". – Costruzione della tenda [ del convegno ], e il cestello di Mosè: simbolismo di queste due cose. – Sermone in lode della beata Vergine: "A chi chiedeva acqua diede latte"; natura della colomba e della tortora; i tre elementi che compongono la candela e i quattro versetti del cantico "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo": significato di tutto questo. Esordio 1. "Come incenso fragrante nei giorni dell'estate; come fuoco splendente e incenso che brucia nel fuoco" ( Sir 50,8-9 ). Dice Cristo per bocca dell'Ecclesiastico: "Io come il Diorix derivante da un fiume e come un corso d'acqua sono uscito da un giardino" ( Sir 24,28 ). Diorix ( canale di derivazione ) si interpreta "medicina della generazione", e indica Gesù Cristo, che è la medicina del genere umano, corrotto in Adamo. Gesù Cristo, come un canale irriguo e come un corso d'acqua, uscì "dal giardino", vale a dire dal ventre verginale, perché, dal momento in cui assunse la carne dalla Vergine, divenne per noi, per mezzo dell'acqua del battesimo, come un fiume, per quanto riguarda la fede, e come canale irriguo per ciò che riguarda la passione in cui sparse il suo sangue, col quale risanò le nostre ferite; divenne corso d'acqua per quanto riguarda l'infusione della grazia. Per mezzo di lui infatti, come attraverso un corso d'acqua, il Padre infonde in noi la grazia. Per questo, alla fine di ogni preghiera diciamo: Per Gesù Cristo, nostro Signore. Dice la Genesi: "In principio il Signore Dio piantò un giardino di delizie … nel quale pose l'uomo perché lo coltivasse e lo custodisse" ( Gen 2,8.15 ). Ma l'uomo lo coltivò male e male lo custodì. Fu quindi necessario che il Signore Dio piantasse un altro giardino, di gran lunga migliore, cioè la beata Vergine Maria, al quale ritornassero gli esuli dal primo. E in questo nuovo giardino fu posto il secondo Adamo, che lo coltivò e lo custodì. Fece grandi cose, come ebbe a dire il "giardino" stesso: "Ha fatto in me grandi cose colui che è potente, e santo è il suo nome" ( Lc 1,49 ). Ciò che noi diciamo santo, i greci dicono agion, che letteralmente significa "privo di terra" ( a, senza, gè, terra ), giacché coloro che sono consacrati al suo ( di Dio ) nome, devono rivolgere le loro aspirazioni non alla terra ma al cielo. Lo custodì, perché lo mantenne nella sua integrità; lo coltivò, quando lo fecondò; lo conservò, quando non ne violò il fiore. In principio la terra, maledetta nell'opera di Adamo, germogliò spine e triboli dopo la fatica. La nostra terra, cioè la beata Vergine, produsse invece senza opera di uomo il frutto benedetto, che come oggi offrì a Dio Padre, nel tempio. E quindi a ragione diciamo: "Come incenso fragrante nei giorni dell'estate", ecc. 2. Incenso, in latino thus, deriva da tundo, pestare, perché i grani d'incenso, prima di essere bruciati, vengono pestati e ridotti in polvere; e per questo alcuni scrivono tus, senza acca. Altri sostengono che deriva dal greco theos ( Dio ) e quindi lo scrivono con l'acca: thus. La beata Vergine, con le parole dell'Ecclesiastico, dice: "Come olìbano non inciso riempii di profumo la mia abitazione" ( Sir 24,21 ). L'olìbano è una pianta dell'Arabia, pianta grandiosa, che produce un succo aromatico, e prende il suo nome da un monte dell'Arabia: infatti il monte dove si raccoglie l'incenso è chiamato Libano ( olìbano ). E l'incenso si raccoglie due volte all'anno, in autunno e in primavera. L'olìbano non inciso è figura della Vergine Maria, che mai fu incisa da alcun ferro di concupiscenza. Maria "vaporizza" con l'amore l'anima nella quale abita, vale a dire la riempie con il profumo delle virtù. Dalla sua emanazione, quell'anima spira il profumo dell'umiltà e della castità. La Vergine Maria, che per il candore della sua vita è chiamata Libano, che vuol dire bianchezza, emanò da se stessa l'incenso profumato, vale a dire l'umanità di Gesù Cristo, del cui profumo è stato riempito tutto il mondo. Nella duplice raccolta dell'incenso è raffigurata la duplice "oblazione" di Cristo. Prima lo offrì la Madre nel Tempio, "secondo la prescrizione di Mosè" ( Lc 2,22 ); poi Cristo offrì se stesso in sacrificio a Dio Padre per la riconciliazione del genere umano. Nella prima oblazione fu thus, incenso ( da theos, Dio ) cioè offerto a Dio; nella seconda fu tus, incenso ( da tundo, pesto ) perché per i nostri peccati è stato pestato. E allora fu "incenso fragrante nei giorni dell'estate", cioè nell'infuriare della persecuzione giudaica. Sulla prima oblazione, che oggi celebriamo, faremo alcune considerazioni, in lode della gloriosa Vergine Maria. I. La prima oblazione di Cristo. 3. Nel libro dei Giudici, dove si parla di Debora, leggiamo: "Sia benedetta tra le donne Giaele, la moglie di Eber il Kenita: sia benedetta nella sua tenda. Acqua egli chiese, latte essa diede, in una coppa da prìncipi offrì il burro. La mano sinistra stese al picchetto della tenda, e la destra a un martello da fabbro; percosse Sisara, cercando nella testa il punto dove colpirlo e ne trapassò profondamente la tempia" ( Gdc 5,24-26 ). E quello, unendo il sonno alla morte, "giacque immobile e morì" ( Gdc 5,27 ). Giaele s'interpreta "cerva", ed è figura della Vergine Maria. Leggi in proposito il sermone della III domenica di Quaresima, parte V, sul vangelo: "Alzando la voce una donna disse: Beato il ventre". Disse queste cose la moglie di Eber il Kenita. Eber significa "partecipe" e Kenita "possessione", ed è figura di Gesù Cristo, il quale, partecipe della nostra natura, dice con le parole di Salomone: "Il Signore mi possedette all'inizio delle sue vie" ( Pr 8,22 ). Le vie del Signore sono le sue opere, all'inizio delle quali possedette la sapienza, perché al principio del creato che stava per nascere, ebbe il Figlio, per ordinare con lui tutte le cose. Un'altra traduzione recita così: "Il Signore mi ha creato come principio delle sue vie nella sua opera". È ciò che si legge dell'incarnazione del Signore: Mi creò Dio, secondo la carne. La carne conosce Dio; la gloria indica il Padre; la creatura riconosce il Signore; l'amore conosce il Padre, cioè il principio, oppure nel principio delle sue vie, come egli stesso dice: "Io sono la via" ( Gv 14,6 ), che guida la chiesa alla vita. Nella sua opera, che era da redimere, fu creato da una Vergine. La sua carne dunque fu in funzione della sua opera; la sua divinità fu prima della sua opera. La vergine Maria fu quindi chiamata anche sua "sposa", perché egli riposò nel suo talamo ed ebbe da lei la carne. Sia dunque benedetta nella sua tenda. "Tutte le generazioni – ella disse – mi chiameranno beata!" ( Lc 1,48 ). Nella sua tenda è benedetta, perché in essa riposò colui che l'aveva creata. Nella sua lode, che sta al di sopra di ogni altra lode, ogni argomento si esaurisce; e nella sua lode ogni lingua balbetta perché la materia è inesauribile. E giacché la devozione vuole dire di lei qualcosa, per quanto poco sia, proponiamo alcune considerazioni sulla "tenda", come andando a tastoni. II. La Vergine Maria, tenda di Cristo. 4. "Sia benedetta Giaele nella sua tenda". Il Signore parlò a Mosè, dicendo: "Così farai la tenda del convegno: farai dieci cortine di bisso ( lino ) ritorto, di giacinto, di porpora e di cocco tinto due volte, e variamente ricamate. Farai undici teli di pelle di capra per coprire il tetto della tenda. Farai anche un'altra copertura di pelli di ariete tinte di rosso, e sopra questa, di nuovo un'altra copertura di pelli di giacinto. Poi farai delle assi di legno di setim ( acacia, robinia ), che collocherai in senso verticale" ( Es 26,1.7.14-15 ). La Storia Scolastica ( Comestor ), in riferimento a questo passo dice: "La tenda era la casa dedicata a Dio; era quadrangolare e oblunga, chiusa da tre pareti: a nord, a sud e a ovest. L'ingresso si apriva libero ad oriente, affinché al sorgere del sole fosse illuminato dai suoi raggi. La sua lunghezza era di trenta cubiti, la sua larghezza di dieci, e di dieci anche l'altezza. Nel fianco meridionale si alzavano venti tavole di legno di setim, ognuna lunga dieci cubiti, larga un cubito e mezzo e dello spessore di quattro dita. Erano unite tra loro ad incastro in modo che non ci fosse alcuna fessura né dislivello sulla parete; erano dorate sulle due facce, e ognuna era posta su due basi di argento perforate, e nei fori erano infilati i cardini d'oro. Con lo stesso sistema era costruita la parete settentrionale. Invece a occidente c'erano sette tavole, però in tutto simili alle altre ed erette sulle loro basi con lo stesso sistema. Sopra le tavole erette con questa precisione fu posto il tetto, formato dalle quattro coperture sopraddette, cioè dalle cortine, dai teli di lana di capra e di pelli tinte di rosso, e da quelle tinte di azzurro. La tenda è figura della Vergine Maria, nella quale Cristo si armò della corazza della giustizia e dell'elmo della salvezza, per trionfare sulle potenze invisibili. Sul significato di queste armi, vedi il commento al brano evangelico "Quando un uomo forte, bene armato …" nel sermone della domenica III di Quaresima, II parte. Maria è la casa dedicata a Dio, consacrata con l'unzione dello Spirito Santo, quadrangolare per le quattro principali virtù, oblunga per la finale perseveranza, chiusa con tre pareti di virtù contro il settentrione, il meridione e l'occidente. Nel settentrione è raffigurata la tentazione del diavolo, nel meridione la fallacia del mondo, nell'occidente la rovina del peccato. Fu chiusa a settentrione. Infatti leggiamo nel libro della Genesi: "Ella ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai il calcagno" ( Gen 3,15 ). La beata Vergine schiacciò la testa, cioè la radice della suggestione diabolica, quando emise il voto di verginità. Ma [ il diavolo ] insidiò il suo calcagno, quando alla fine fece catturare e crocifiggere dai Giudei il suo Figlio. Parimenti fu chiusa a meridione. Scrive Luca: "L'angelo, entrando da lei disse: Ti saluto, piena di grazia, il Signore è con te" ( Lc 1,28 ). Era dentro, era chiusa colei alla quale l'angelo entrò. E poiché era dentro, meritò di essere benedetta. Non quelli che sono fuori, infatti, sono ritenuti degni del saluto dell'angelo, né degni che ad essi si dica: Ave!; ma piuttosto, come dice Amos: "A tutti quelli che sono fuori, sarà detto: Vae! Guai, guai!" ( Am 5,16 ). Infatti non è gradito a Dio il saluto che è solo esteriore. Leggiamo in Matteo che il Signore rimprovera coloro che cercano di essere salutati nelle piazze ( cf. Mt 23,7 ). Infatti chi è fuori, nella piazza o in pubblico, non merita di essere salutato da Dio o da un angelo, che amano il nascondimento. Gesù, mandando in missione gli apostoli, dice: "Non salutate nessuno lungo la strada"; ma "in qualunque casa entriate, dite: Pace a questa casa!" ( Lc 10,4-5 ); comandò cioè di salutare non quelli che stavano sulla strada, e neppure quelli che lavoravano fuori nei campi, ma quelli che erano in casa. Quindi coloro che se ne stanno fuori, vengono privati del saluto divino. 5. Fu chiusa anche ad occidente. Nel libro dell'Esodo si dice che Mosè ( neonato ) restò nascosto per tre mesi. E quando non fu più possibile tenerlo nascosto, la madre prese un cestello di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi sistemò dentro il bambinello e lo depose in un folto di arbusti ( cariceto ) della riva del fiume ( cf. Es 2,2-3 ). Vediamo che cosa significhino Mosè e i tre mesi, che cosa il cestello di giunchi, il bitume e la pece, e che cosa raffiguri il fiume. Mosè è Gesù Cristo, che restò nascosto tre mesi, cioè per tre periodi: prima della creazione del mondo, dalla creazione fino a Mosè, e da Mosè fino all'annunciazione della beata Vergine Maria, la quale fu come il cestello di vimini, sigillata da ogni parte quasi con bitume e pece. Il cestello è fatto di vimini, è leggero e malsicuro. E i tre elementi con i quali è costruito simboleggiano le tre principali virtù della Vergine Maria. Nel vimine è indicata l'umiltà, nel bitume la verginità e nella pece la povertà. Il vimine deve il suo nome a vis ( forza ), perché ha una grande forza di attecchimento; è di tale natura, che se viene bagnato, ridiventa verde anche se era già secco; quindi tagliato e piantato in terra, mette subito le radici. Questa è l'umiltà, che ha sì gran forza di attecchimento, che anche se è disprezzata e gettata via come inaridita, tuttavia piantata nel terreno, al quale l'umile sempre è rivolto, mette radici ancor più profonde. Nella beata Vergine perciò, quasi in un cestello di vimini, fu nascosto Gesù Cristo, e fu esposto nell'acqua corrente, cioè in questo mondo: la figlia del re, cioè la santa chiesa, lo adottò come figlio ( Glossa ). Il cariceto è un luogo pieno di lunghe erbe chiamate càrice; è detto anche canneto, e può essere anche un luogo pieno di spine. La beata Vergine fu quasi recintata da questa triplice vegetazione, perché la suggestione diabolica, l'ipocrisia del mondo e l'attrattiva del peccato non potessero violarla. Di questa triplice protezione è detto nel Cantico dei Cantici: "Giardino chiuso tu sei, sorella mia, giardino chiuso, fonte sigillata" ( Ct 4,12 ). La beata Vergine viene detta sorella di Cristo a motivo della comunanza della carne. Ella fu "giardino chiuso" con il muro dell'umiltà contro settentrione; giardino chiuso con il muro della povertà contro meridione; "fonte sigillata" con il sigillo della verginità contro occidente. Queste sono le tavole, dorate all'interno e all'esterno, unite inseparabilmente, perfettamente livellate e collocate su basi d'argento, vale a dire sulla purezza delle intenzioni e sulla proclamazione della lode divina. 6. Parimenti, su questa triplice recinzione e su l'oriente, da dove la tenda viene illuminata, hai una concordanza in ciò che dice Ezechiele: "Mi portai alla porta esterna del santuario dalla parte di oriente, ed era chiusa. Il Signore mi disse: Questa porta rimarrà chiusa, non verrà aperta e non vi passerà uomo, giacché per essa è entrato il Signore, il Dio d'Israele, e sarà chiusa al principe. Il principe stesso siederà in essa per mangiare il pane davanti al Signore" ( Ez 44,1-3 ). La porta è così chiamata perché attraverso di essa si può portare o asportare qualcosa, ed è figura della beata Vergine, perché attraverso di lei portiamo fuori i tesori delle grazie. Questa fu la porta del santuario esterno, non dell'interno. Il santuario interno è la divinità, l'esterno l'umanità. "Il Padre diede la maestà, la Madre l'infermità" ( Agostino ). La via di questa porta fu l'umiltà, virtù alla quale, secondo il profeta, ognuno deve applicarsi. L'umiltà della Vergine si volse ad oriente, per essere illuminata dai suoi raggi. Questa porta per ben tre volte viene detta chiusa, perché la Beata Vergine, come è stato già spiegato, fu chiusa a settentrione, a meridione e ad occidente. Fu aperta nell'umiltà solo all'Oriente, cioè a Gesù Cristo che venne dal cielo. Per questo è detto: "Non vi passerà uomo", vale a dire "Giuseppe non la conoscerà"; e "sarà chiusa al principe", intendendo con ciò il diavolo, che è il principe di questo mondo, alle cui suggestioni ella fu chiusa, perché la sua anima non si aprì ad alcuna tentazione, come la sua carne ignorò contatto di uomo. Soltanto il vero Principe, cioè Cristo Gesù, prese in lei dimora, accettando l'umiliazione della carne, per mangiare il pane davanti al Signore, cioè per fare la volontà del Padre che l'aveva mandato ( cf. Gv 4,34 ). Alle tavole delle virtù così disposte, viene sovrapposto il tetto di cortine, di teli di lana di capra e di pelli tinte di rosso e di azzurro. "Solo nella Vergine Maria è compendiata la vita di tutti i santi; solo lei è capace, è in grado di praticare, di possedere tutte le virtù" ( Ambrogio ). Osserva che la chiesa di Cristo si divide in militante e trionfante. La chiesa militante ha le cortine e i teli di lana di capra; la chiesa trionfante ha le pelli tinte di rosso e di azzurro. Nelle cortine ricamate, tessute a vari colori, cioè lavorate ad ago con finezza e fantasia, sono raffigurati tutti i giusti della chiesa militante. Nel tessuto di lino sono raffigurati i buoni religiosi che custodiscono il candore della castità e praticano l'astinenza corporale. Nella seta sono raffigurati coloro che, abbandonate tutte le cose terrene, si sono consacrati unicamente alla dolcezza della contemplazione. Nella porpora sono raffigurati coloro che si crocifiggono nella memoria della passione del Signore e, quasi in estasi davanti al Crocifisso, lo contemplano con gli occhi della mente mentre pende dal patibolo, mentre effonde dal costato acqua e sangue e mentre, piegato il capo, esala lo spirito, e a questo spettacolo si profondono in lacrime inarrestabili. Nel panno scarlatto, tinto due volte, sono raffigurati coloro che ardono di amore verso Dio e verso il prossimo. Nei teli di lana di capra sono raffigurati i penitenti, che espiano nella cenere e nel cilicio le colpe commesse. Di questi ultimi leggi anche ciò che è scritto nel vangelo della Pasqua del Signore, verso la fine, nella IV parte. Parimenti, nelle pelli tinte di rosso sono indicati tutti i martiri, che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello ( cf. Ap 7,14 ); essi, trionfando sul mondo, sono arrivati alla chiesa trionfante cinti di alloro. Nelle pelli tinte di azzurro sono indicati tutti i confessori della fede, la cui aspirazione fu solo il cielo, e quindi sono passati dalla speranza alla visione. La Vergine Maria, mentre fu quaggiù nella chiesa militante, possedette le virtù di tutti i giusti. Infatti è detto nell'Ecclesiastico: "In me ogni grazia di via e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù" ( Sir 24,25 ). Ebbe anche un'immensa pietà per i penitenti. Per questo alle nozze di Cana disse: "Non hanno più vino" ( Gv 2,3 ), come per dire: Riversa, o Figlio, sui penitenti la grazia del tuo amore, perché sono privi del vino della compunzione. Ora certamente regna nella gloria, nella quale gode il premio di tutti i santi, perché è stata esaltata sopra tutti i cori degli angeli. Ecco "la tenda non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione" ( Eb 9,11 ), ma costruta e consacrata con la grazia dello Spirito Santo. Diciamo perciò: "Sia benedetta Giaele nella sua tenda!". III. Le varie oblazioni della Vergine 7. Leggiamo nel libro dei Giudici: "Acqua egli chiese, latte ella gli diede e in una coppa da prìncipi offrì burro" ( Gdc 5,25 ). Sisara si interpreta "esclusione dal gaudio", ed è figura del diavolo che, escluso dal gaudio della vita eterna, tenta in tutti i modi di escluderne anche i fedeli cristiani. A costui, che chiedeva l'acqua della concupiscenza, la nostra Giaele diede il latte. Fu per divino consiglio che il mistero dell'incarnazione del Signore restò nascosto al diavolo. Vedendo che la beata Vergine era sposata, che era incinta, che diede alla luce un figlio e che lo allattava, il diavolo pensò che anche lei fosse soggetta alla concupiscenza e al peccato, e quindi si accinse ad esigere da lei, quasi come prezzo, l'acqua della concupiscenza. Ma la Vergine, allattando il Figlio, trasse in inganno il diavolo, e in questo modo lo uccise con il picchetto della tenda e con il martello. Nel picchetto, che serve per fissare e chiudere la tenda, è raffigurata la verginità di Maria; nel martello, che ha la figura di un tau ( T ), è rappresentata la croce di Cristo. Giaele dunque, ossia la Vergine Maria, uccise il nemico, il diavolo, con la verginità del suo corpo e con la passione del suo Figlio inchiodato in croce. Per questo è detto nel libro di Giuditta: "Una donna ebrea, da sola, gettò la vergogna nella casa del re Nabucodonosor. Ecco infatti Oloferne che giace per terra, e la sua testa non è più sul suo busto ( Gdt 14,16 ). Adonai, Signore, Dio grande e mirabile, a te la lode e la gloria: a te che ci hai dato la salvezza per mano della tua Figlia e Madre, la gloriosa Vergine Maria! Nel passo citato sopra, facciamo attenzione alle parole "offrì burro in una coppa da prìncipi". Sono queste le parole che ci hanno offerto lo spunto per le considerazioni preliminari. Vediamo ora che cosa raffigurino la coppa, i prìncipi e il burro. Nella coppa è raffigurata l'umile condizione del povero, nei prìncipi gli apostoli, nel burro l'umanità di Cristo. Nella sua umile condizione di povertà – nella quale anche i "prìncipi" ( gli apostoli ) si sarebbero trovati, ricchi nella fede ma poveri in questo mondo – Maria offrì nel tempio il burro, vale a dire il Figlio che aveva generato, del quale dice Isaia: "Si nutrirà di miele e burro" ( Is 7,15 ). Nel miele è indicata la divinità, nel burro l'umanità del Salvatore. Si nutrì di miele e di burro, quando unì in se stesso la natura divina e quella umana, e per questo "imparò", vale a dire fece sì che anche noi imparassimo, "a rigettare il male e a scegliere il bene" ( Is 7,15 ). Nella sua povertà Maria offrì il Figlio, e con lui l'offerta dei poveri, cioè "un paio di tortore o due giovani colombi" ( Lc 2,24 ), come prescriveva la legge di Dio: "Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni" ( Lv 12,2 ). Ad eccezione però di colei che partorì rimanendo vergine. Né il Figlio né la Madre avevano bisogno di offerte per purificarsi; ma le fecero perché noi fossimo liberati dal timore della legge, cioè dalla prescrizione della legge che veniva osservata per paura. E continuava la legge: Quando i giorni della sua purificazione saranno compiuti, cioè dopo quaranta giorni, offrirà un agnello all'ingresso del tenda. Se non lo troverà o non avrà la possibilità di offrire un agnello, offrirà due tortore, oppure due giovani colombi ( cf. Lev 12,6.8 ). Questa era l'offerta dei poveri, che non avevano la possibilità di offrire un agnello, e questo è detto perché in tutto fosse manifesta l'umiltà e la povertà del Signore e della Madre sua. Questa offerta fanno al Signore coloro che sono veramente poveri. 8. Osserva che se la tortora perde il compagno, se ne sta poi senza per sempre. Se ne va solitaria, non beve acqua chiara, non sale su di un ramo verde. Inoltre la colomba è anche semplice ( cf. Mt 10,16 ). Ha il nido più rustico e povero di tutti gli altri uccelli; non ferisce alcuno con le unghie e con il becco; non vive di rapina; con il becco nutre i suoi piccoli con ciò di cui essa stessa si è nutrita; non si ciba di cadaveri; non attacca mai gli altri uccelli, neppure i più piccoli; si pasce solo di grano; riscalda sotto le ali, come suoi, i piccoli degli altri; dimora nei pressi dei fiumi per difendersi dall'avvoltoio; nidifica tra le pietre; quando minaccia tempesta si rifugia nel nido; si difende con le ali; vola in gruppo; il suo canto è come un gemito; è prolifica e nutre i gemelli. E osserva poi che quando la colomba nidifica e i piccoli crescono, il maschio va a beccare della terra salsa, mette nel becco ai piccoli ciò che ha beccato perché si abituino al cibo. E se la femmina, per la sofferenza del parto, tarda a tornare, il maschio la becca e la spinge con la forza dentro il nido. Anche i poveri nello spirito, cioè i veri penitenti, poiché peccando mortalmente hanno perduto il loro "compagno", cioè Gesù Cristo, vivono soli, nella solitudine dello spirito e del corpo, lontani dal tumulto delle cose temporali. Non bevono l'acqua chiara dei godimenti terreni ma quella torbida del dolore e del pianto. "L'anima mia – dice il Signore – è turbata. E che cosa dirò?" ( Gv 12,27 ). Non salgono sul ramo verdeggiante della gloria temporale, di cui dice Ezechiele: "Si portano il ramo alle narici" ( Ez 8,17 ). I lussuriosi si portano alle narici il ramo della gloria temporale per non sentire il fetore del peccato e il puzzo dell'inferno. Inoltre [ i veri penitenti ] sono semplici come le colombe. Il luogo dove dimorano e il letto stesso sul quale dormono è ruvido e povero. Non offendono alcuno, anzi perdonano chi li offende. Non vivono di rapina, ma distribuiscono le loro cose. Confortano e sostengono con la parola della predicazione quelli che sono loro affidati e partecipano con gioia agli altri la grazia che è stata loro data. Non si uniscono al cadavere, cioè al peccato mortale. Dice il verso: "Alcuni sono morti di spada, altri di morte naturale". Non scandalizzano né il grande né il piccolo. Si cibano di puro grano, cioè della predicazione della chiesa, e non di quella degli eretici che è immonda. Fatti tutto a tutti, promuovono tanto la salvezza degli estranei quanto quella dei vicini: amano tutti nel cuore di Gesù Cristo. Si fermano sui fiumi della sacra Scrittura per prevedere da lontano la tentazione del diavolo che trama per rapirli, e così difendersene. "Fanno il loro nido nella cavità della pietra, cioè nella ferita del costato di Cristo, e se minaccia la tempesta della tentazione carnale, corrono al costato di Cristo e vi si rifugiano, e pregano con il Profeta: "Siimi, o Signore, torre salda davanti all'avversario" ( Sal 61,4 ); e ancora: "Sii tu, o Dio, la mia protezione" ( Sal 71,3 ). Non si difendono con le unghie della vendetta, ma con le ali dell'umiltà e della pazienza. "Il sistema migliore di vincere – dice il filosofo – è la pazienza" ( P. Siro ); e ancora: "Il rifugio dalle sventure è la sapienza" ( Walther: Carmina ). In unione con la chiesa, con la comunità dei fedeli e insieme con essi, si innalzano alle cose celesti. Il loro canto è un gemito. La loro melodia sono le lacrime e i sospiri. Ripieni di buona volontà nutrono con il massimo scrupolo i "due gemelli", cioè l'amore di Dio e del prossimo. Osserva ancora che il penitente deve avere due virtù: la misericordia e la giustizia. La misericordia è, per così dire, la femmina che custodisce i piccoli; la giustizia è il maschio. La terra salsa è la carne di Cristo, piena di amarezza, dalla quale il penitente deve succhiare l'amarezza e la salsedine e metterle nella bocca dei piccoli, cioè delle sue opere, affinché assuefatte a tale cibo, vivano sempre nel dolore e nell'amarezza, crocifiggendo la carne con i suoi vizi e la sua concupiscenza ( cf. Gal 5,24 ). Non si dimentichi poi che la discrezione ( la prudenza ) è la madre di tutte le virtù e senza di essa non si deve offrire il sacrificio; quindi se la colomba, cioè la misericordia, tarda a ritornare ai suoi piccoli [ alle opere buone ] a motivo del parto, cioè del dolore, dei gemiti e del pentimento, la giustizia, in quanto maschio, deve dirigerla e guidarla con una certa energia affinché nutra i piccoli [ le opere buone ] e nutrendoli li custodisca. Il penitente quindi si dolga pure del suo peccato, e faccia penitenza, ma in modo da non sottrarre a se stesso il necessario, senza del quale non potrebbe vivere. Chi dunque offrirà simili tortore e colombe, il sommo sacerdote, Gesù Cristo, lo libererà da ogni flusso di sangue, cioè da ogni impurità di peccato. Ma ritorniamo ora agli argomenti dai quali ci siamo un po' discostati, concludendo con le parole: "Come incenso fragrante nei giorni dell'estate". 9. "Come fuoco splendente e incenso che brucia nel fuoco". Oggi i fedeli cristiani portano il fuoco splendente con la candela, la quale è formata di cera e di stoppino. Nella fiammella è simboleggiata la divinità, nella cera l'umanità, nello stoppino l'asprezza della passione del Signore. Come oggi, la beata Vergine portò e offrì nel tempio il Figlio di Dio e suo, e simbolicamente oggi i fedeli portano e offrono il fuoco, offrendo la candela. E in questi tre elementi è indicata la vera penitenza: nel fuoco l'ardore della contrizione, che sradica tutte le radici dei vizi; nella cera la confessione del peccato: come fonde la cera di fronte al fuoco ( cf. Sal 68,3 ), così per l'ardore del pentimento fluisce dalla bocca di chi si confessa l'accusa del suo peccato, mentre scorrono le lacrime; nello stoppino l'asprezza dell'espiazione e della riparazione. In questi tre atti c'è Gesù, cioè la salvezza dell'uomo; e chi li avrà offerti a Dio, potrà dire con il giusto Simeone: "Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele" ( Lc 2,29-30 ). Osserva che in questi quattro versetti vengono indicate le quattro beatitudini del penitente. La prima beatitudine consiste nel perdono totale dei peccati e nella tranquillità della coscienza: "Lascia che il tuo servo vada in pace". La seconda beatitudine consiste nella separazione dell'anima dal corpo, quando potrà vedere colui nel quale credette e che desiderò: "perché i miei occhi ha visto la tua salvezza". La terza beatitudine giungerà nell'esame dell'ultimo giudizio, quando sarà detto: Dategli del frutto delle sue mani e le sue stesse opere lo lodino alle porte dell'eternità ( cf. Pr 31,31 ): "preparata da te davanti a tutti i popoli" ( Lc 2,31 ). La quarta beatitudine sarà nello splendore della gloria eterna, in cui vedrà faccia a faccia e conoscerà come è conosciuto ( cf. 1 Cor 13,12 ): "luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele". Giustamente quindi è detto: "Come fuoco splendente e incenso che brucia nel fuoco". Gesù Cristo rifulse come fuoco ai pastori nella sua natività, ai Magi nella sua manifestazione ( Epifania ), a Simeone ed Anna che profetavano nella purificazione della Madre sua. Invece nella sua passione bruciò come incenso nel fuoco, e del suo profumo furono riempiti i cieli, la terra e gli inferi; gli angeli del cielo gioirono per la redenzione del genere umano; in terra i morti furono risuscitati, i prigionieri dell'inferno furono liberati. Ti preghiamo quindi, o nostra Signora, eletta Madre di Dio, di purificarci dal sangue dei nostri peccati, di condurci al fuoco splendente della contrizione, alla cera della confessione, e allo stoppino dell'espiazione, affinché possiamo giungere così alla gloria della Gerusalemme celeste. Ce lo conceda colui che oggi hai offerto nel tempio: a lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. Assunzione della beata Vergine Maria ( 1 ) Temi del sermone "Come vaso d'oro massiccio". – "Luogo della nostra santificazione", e "Bellezza dell'altissimo cielo è il firmamento". – "Cipresso svettante verso l'alto". Esordio - la dignità della vergine gloriosa 1. "Come un vaso d'oro massiccio, ornato di ogni specie di pietre preziose; come olivo che che sta gemmando e come cipresso svettante verso l'alto" ( Sir 50,10-11 ). Dice Geremia: "Soglio della gloria dell'altezza fin dal principio, luogo della nostra santificazione, aspettazione di Israele" ( Ger 17,12-13 ). Il soglio, come a dire seggio solido, è chiamato così dal verbo "sedersi". Soglio di gloria è la beata Maria, che in tutto fu solida e integra: in lei fu la gloria del Padre, cioè il Figlio sapiente, anzi la stessa Sapienza, Gesù Cristo, quando da lei assunse la carne. Leggiamo nel salmo: "Affinché la gloria abiti nella nostra terra" ( Sal 85,10 ). La gloria dell'altezza, cioè degli angeli, abitò in terra, cioè nella nostra carne. La Vergine Maria fu il soglio della gloria, cioè di Gesù Cristo che è la gloria dell'altezza, vale a dire degli angeli. Infatti dice l'Ecclesiastico: "Firmamento dell'altezza è la sua bellezza, bellezza del cielo nella visione della gloria" ( Sir 43,1 ). Gesù Cristo è il "firmamento" ( da firmus ), nel senso di sostegno, dell'altezza, cioè della sublimità angelica, che egli stesso ha confermato, mentre l'[ angelo ] apostata precipitava con i suoi seguaci. Leggiamo in Giobbe: "Tu forse hai fabbricato con lui i cieli, che sono saldissimi, quasi fusi", o fondati, "nel bronzo"? ( Gb 37,18 ). Come dicesse: Non è stata forse la Sapienza del Padre che ha fabbricato i cieli, cioè la natura angelica? Infatti, "In principio Dio creò il cielo" ( Gen 1,1 ): per "cielo" si intende ciò che nel cielo è contenuto. Quando gli angeli ribelli furono trascinati via con le catene dell'inferno ( cf. 2 Pt 2,4 ), gli angeli fedeli, che restarono uniti al sommo Bene, furono confermati nella stabilità come nel bronzo. Nella perennità del bronzo è raffigurata l'eterna stabilità degli angeli fedeli. Gesù Cristo, "firmamento" della sublimità angelica, è anche la loro bellezza. Infatti egli sazia della bellezza della sua umanità quelli che ha confermato con la potenza della sua divinità. C'è anche lo splendore del cielo, cioè di tutte le anime che abitano nei cieli; splendore che consiste nella visione della gloria. Mentre infatti contemplano faccia a faccia la gloria del Padre, risplendono essi stessi di gloria. Ecco dunque quanto grande è la dignità della Vergine gloriosa, che meritò di essere Madre di colui che è il "firmamento" e la bellezza degli angeli, e lo splendore di tutti i santi. 2. "Soglio di gloria dell'altezza fin dal principio", cioè dalla creazione del mondo, Maria fu predestinata a essere Madre di Dio con potenza, secondo lo spirito di santificazione ( cf. Rm 1,4 ). E continua: "Luogo della nostra santificazione, aspettazione di Israele". La Beata Vergine fu il luogo della nostra santificazione, cioè del Figlio di Dio che ci ha santificati. Di questo luogo, egli stesso dice in Isaia: "L'abete, il bosso e il pino verranno insieme ad ornare il luogo della mia santificazione; e glorificherò il luogo dove ho posto i miei piedi" ( Is 60,13 ). L'abete è così chiamato ( lat. abies da abeo, vado via ) perché più di tutti gli alberi si spinge in alto, e raffigura i contemplativi. Il bosso invece che non si spinge in alto e non produce frutto, ma ha un verde perenne, sta ad indicare i neocredenti, che si mantengono nella viva fede di un verde perenne. Il pino è un albero che deve il suo nome alla forma acuminata delle sue foglie: gli antichi infatti lo definitivano "acuto"; esso indica i penitenti che, consci dei loro peccati, con l'acutezza della contrizione pungono il loro cuore, per farne sgorgare il sangue delle lacrime. Tutti costoro, cioè i contemplativi, i fedeli e i penitenti, in questa solennità vengono ad "onorare" con la devozione, con la lode e la celebrazione la Vergine Maria, che fu il luogo della santificazione di Gesù Cristo, nella quale egli stesso si è santificato. Infatti dice Giovanni: "Per loro io santifico me stesso" ( Gv 17,19 ), di una santificazione creata, "affinché anch'essi siano santificati nella verità ( Gv 17,19 ), cioè in me, che in me stesso, Verbo, santifico me stesso uomo, vale a dire per mezzo di me, Verbo, riempio me stesso di tutti i beni. "E santificherò il luogo dei miei piedi". I piedi del Signore raffigurano la sua umanità; di essi Mosè dice: "Quelli che si avvicinano ai suoi piedi riceveranno la sua dottrina" ( Dt 33,3 ). Nessuno può avvicinarsi ai piedi del Signore, se prima, come è detto nell'Esodo, non si è tolto i calzari, cioè le opere morte, dai piedi ( cf. Es 3,5 ), vale a dire dagli affetti della mente. Avvicìnati dunque a piedi nudi e riceverai il suo insegnamento. Dice infatti Isaia: "A chi comunicherà egli la scienza e a chi darà l'intelligenza delle cose udite? A quelli che sono divezzati dal latte e staccati dalle mammelle" ( Is 28,9 ). Chi si allontana dal latte della concupiscenza del mondo e si stacca dalle mammelle della gola e della lussuria, sarà degno di essere ammaestrato nella scienza divina in questa vita, e di sentirsi dire nella vita futura: "Venite, benedetti del Padre mio!" ( Mt 25,34 ). Il luogo dei piedi del Signore fu la Vergine Maria, dalla quale egli ricevette l'umanità; e oggi ha glorificato quel "luogo" perché ha esaltato Maria al di sopra dei cori degli angeli. Per questo ti è chiaro che la beata Vergine fu assunta in cielo anche con il corpo, che fu il luogo dei piedi del Signore. Leggiamo nel salmo: "Álzati, Signore, e vieni nel luogo del tuo riposo, tu e l'arca della tua santificazione" ( Sal 132,8 ). Il Signore si alzò quando salì alla destra del Padre. Si alzò anche l'arca della sua santificazione quando, in questo giorno, la Vergine Madre fu assunta all'etero talamo, alla gloria celeste. Sta scritto nella Genesi che l'arca si fermò sopra i monti dell'Armenia ( cf. Gen 8,4 ). Armenia s'interpreta "monte staccato", e raffigura la natura angelica che è detta monte in relazione agli angeli che restarono fedeli, e staccato in riferimento a quelli che precipitarono nell'inferno. L'arca del vero Noè, che ci ha fatto riposare dalle nostre fatiche, nella terra maledetta dal Signore ( cf. Gen 5,29 ), si fermò in questo giorno sopra i monti dell'Armenia, vale a dire sopra i cori degli angeli. A lode della beata Vergine, che è l'aspettazione di Israele, cioè del popolo cristiano, e per il maggior decoro di così grande solennità, illustrerò la citazione riportata all'inizio: "Come vaso di oro massiccio, ornato di ogni specie di pietre preziose; come olivo che sta gemmando e come cipresso svettante verso l'alto" ( Sir 50,10-11 ). Santità e gloria della beata vergine maria 3. Osserva queste tre entità: il vaso, l'olivo, il cipresso. La beata Vergine fu un "vaso" per l'umiltà, "d'oro" per la povertà, "massiccio" per la verginità, "ornato di ogni specie di pietre preziose" per i privilegi e i doni ricevuti. La concavità del vaso lo rende atto a ricevere ciò che vi si versa, e quindi raffigura l'umiltà che accoglie la grazia delle celesti infusioni. L'orgoglio invece impedisce tali infusioni. Il Signore, nell'Esodo, comandò che nell'altare fosse praticata una cavità, per riporvi le ceneri del sacrificio ( cf. Es 27,4 ). Nell'incàvo dell'umiltà si deposita la cenere, cioè il ricordo della nostra caducità. Per questo Geremia dice del penitente: "Porrà la sua bocca nella sepoltura" ( Lam 3,29 ), parlerà cioè della sepoltura che seguirà la sua morte. E leggiamo ancora nella Genesi che Abramo seppellì Sara in una caverna doppia, che guardava verso Mambre ( cf. Gen 23,19 ). La doppia caverna raffigura l'umiltà del cuore e quella del corpo, nella quale il giusto deve seppellire la sua anima, fuori dal tumulto delle cose temporali, e questa umiltà deve guardare verso Mambre, che significa "chiarezza", e indica lo splendore della vita eterna e non quello della gloria mondana. Al primo guardò l'umiltà della beata Vergine, e quindi meritò di essere guardata ( cf. Lc 1,48 ). E poiché l'umiltà si custodisce e si conserva con la povertà, è detta vaso d'oro. Giustamente la povertà è detta "d'oro", perché rende ricchi e splendenti coloro che la praticano. Dov'è la vera povertà, vi è ciò che è sufficiente. Dove c'è l'abbondanza c'è anche l'indigenza. Per questo dice il Filosofo: "Succede raramente che l'abbondanza non produca qualche danno" ( Walther, Carmina ). E ancora: "Non reputo povero colui al quale basta ciò che ha, per quanto poco sia" ( Seneca ). E Bernardo scrive: "In cielo c'era grande abbondanza di tutte le cose: soltanto la povertà non si trovava. Essa abbondava invece sulla terra e l'uomo non conosceva il suo valore. Venne dunque il Figlio di Dio a cercarla per renderla preziosa con il suo apprezzamento". Di quest'oro [ della povertà ] leggiamo nella Genesi che "nella terra di Hevilath c'è l'oro, e l'oro di quel paese è purissimo ( Gen 2,11-12 ). Hevilath si interpreta "partoriente" e indica la beata Vergine che, dando alla luce il Figlio di Dio, lo avvolse nelle fasce dell'aurea povertà. O splendido oro della povertà! Chi non ti possiede, anche se ha tutto il resto, non ha nulla! I beni temporali gonfiano, e gonfiando svuotano. Nella povertà c'è la gioia, nelle ricchezze c'è la tristezza e il lamento. Dice infatti Salomone: "È meglio un boccone di pane secco con la gioia, che un vitello ingrassato con la discordia, o una casa piena di vittime ( Pr 17,1 ), cioè di ricchezze rapinate ai poveri con la violenza. E ancora: "La mente tranquilla è come un perenne banchetto. Il poco con il timore del Signore è meglio di grandi tesori che non saziano" ( Pr 15,15-16 ); e "Meglio abitare in un deserto – cioè nella povertà –, che con una donna litigiosa e irascibile" ( Pr 21,19 ), cioè nell'abbondanza delle cose materiali. E infine: "È meglio sedere in un angolo del terrazzo – cioè nell'umiltà della povertà – che avere una moglie litigiosa e la casa in comune con altri" ( Pr 21,9 ). E poiché l'umiltà e la povertà della beata Vergine Maria furono ornate con l'illibatezza, si aggiunge: "Vaso d'oro massiccio". La beata Vergine fu "massiccia" per la verginità, e quindi poté contenere la sapienza. Invece "il cuore dello stolto", come dice Salomone, è come un vaso incrinato che non può contenere la sapienza ( cf. Sir 21,17 ). Questo vaso è stato oggi adornato di ogni specie di pietre preziose, cioè con ogni privilegio di doni celesti. Ricevette le ricompense di tutti i santi, colei che generò il Creatore e il Redentore di tutti. Su questo vaso, ornato di ogni pietra preziosa, concorda ciò che leggiamo nel libro di Ester, dove si racconta che "dovendo costei entrare alla presenza del re, non cercò ornamenti muliebri: l'eunuco Egai, custode delle vergini, le fece indossare l'abbigliamento che egli stesso scelse. Ella era molto avvenente e di incredibile bellezza, e appariva amabile e graziosa agli occhi di tutti. Fu dunque introdotta nella stanza del re Assuero. E il re la amò più di tutte le altre donne e pose sul suo capo il diadema del regno" ( Est 2,15-17 ). Ester significa "nascosta", Egai "solenne", Assuero "beatitudine". Ester è figura della beata Vergine Maria, che restò nascosta e riparata da ogni parte, e l'angelo stesso la trovò nel nascondimento. Egai, il custode delle vergini, è figura di Cristo. Conviene veramente che alle vergini sia assegnato un tale custode, che è solenne e casto: solenne, e festoso, per non rattristare i pusillanimi; casto per non offendere l'illibatezza delle vergini, ma per custodirla e difenderla. Ed è bene che queste due qualità siano unite, perché di solito avviene che l'affetto si guasti con l'eccessiva allegria ( familiarità ), oppure che il casto sentimento si accompagni ad una esagerata severità. Cristo ebbe in sommo grado queste due qualità ed è quindi il perfetto custode delle vergini. Come Egai, Cristo "corse festoso incontro alle donne, dicendo: Salute a voi!" ( Mt 28,9 ). Ma fece questo solo dopo la risurrezione, quando era già con il corpo immortale. Prima infatti fu così riservato che mai si legge abbia salutato donne. Anche gli apostoli, dice Giovanni, si meravigliarono che stesse parlando con una donna ( cf. Gv 4,27 ). Cristo adornò la nostra Ester, cioè la Vergine Maria, tanto più riccamente in quanto per nulla essa cercò ornamenti femminili; e non volle avere né se stessa né alcun altro come "ornatore", ma si affidò totalmente alla volontà del "Custode", dal quale fu adornata in modo così sublime, che oggi viene esaltata al di sopra degli angeli. Questa nostra Ester fu molto avvenente quando fu salutata dall'angelo; fu di incredibile bellezza quando fu adombrata dallo Spirito Santo, fu graziosa e amabile agli occhi di tutti quando concepì il Figlio di Dio. Dopo aver concepito il Figlio di Dio, il suo volto divenne così splendente per il fulgore della grazia, che neppure Giuseppe poteva fissare lo sguardo su di lei. E ciò non deve far meraviglia. Se gli israeliti, come dice san Paolo, non potevano guardare in faccia Mosè, a motivo dello splendore pure effimero del suo volto ( cf. 2 Cor 3,7 ); e se l'Esodo dice che "Aronne e gli israeliti, vedendo il volto di Mosè raggiante di luce, dopo aver conversato con il Signore, ebbero timore di avvicinarsi a lui" ( Es 34,29-30 ): tanto meno Giuseppe osava avvicinarsi e fissare lo sguardo sul volto della Vergine gloriosa, reso fulgente dai raggi del vero Sole che portava in grembo. Il vero Sole era come coperto da una nube, ma sprigionava dei raggi di aureo fulgore attraverso gli occhi e il volto della Madre sua. Questo volto è adorno di tutte le grazie, ed è stupendo agli occhi degli angeli: essi desiderano fissarvi lo sguardo ( cf. 1 Pt 1,12 ), perché brilla come il sole quando risplende in tutto il suo fulgore ( cf. Ap 1,16 ). E la beata Vergine è graziosa e amabile a tutto l'universo, perché è stata trovata degna di portare il Salvatore di tutti. Questa nostra gloriosa Ester è condotta oggi per mano degli angeli alla presenza del re Assuero, cioè alla dimora celeste nella quale, sopra un trono di stelle, siede il Re dei re, la Beatitudine degli angeli, Cristo Gesù, che ha amato la Vergine gloriosa più di tutte le donne, perché da lei ha preso umana carne, ed ella più di tutte le donne ha trovato davanti a lui grazia e misericordia. O incomparabile dignità di Maria, o ineffabile sublimità di grazia, o imperscrutabile abisso di misericordia! Quando mai ad angelo o a uomo fu o sarà data tanta grazia e tanta misericordia, quanta ne fu data alla beata Vergine, che Dio Padre ha voluto fosse la Madre del suo Figlio, uguale a se stesso e generato prima di tutti i secoli? Sarebbe considerata una grazia grandissima e una dignità sublime, se una povera donna qualunque potesse avere un figlio dall'imperatore. Veramente superiore ad ogni grazia fu quella di Maria, che ebbe il Figlio con l'Eterno Padre, e quindi oggi ha meritato di essere coronata in cielo. Perciò aggiunge: "E le pose sul capo il diadema regale". E nel Cantico dei Cantici leggiamo: "Uscite, figlie di Sion, e ammirate il re Salomone con il diadema con il quale l'ha incoronato la madre sua, nel giorno del suo sposalizio" ( Ct 3,11 ). La beata Vergine Maria ha incoronato il Figlio di Dio con il diadema dell'umana carne nel giorno del suo sposalizio, cioè del concepimento del Figlio, per il quale la natura divina fu unita, come uno sposo, alla natura umana nel talamo della stessa Vergine; e perciò il Figlio ha incoronato oggi la Madre sua con il diadema della gloria celeste. Uscite dunque e ammirate la madre di Salomone, con il diadema con il quale l'ha incoronata il suo Figlio, nel giorno della sua Assunzione. Giustamente perciò diciamo: "Come un vaso di oro massiccio, ornato di ogni specie di pietra preziosa". 4. "Come ulivo che sta gemmando". L'ulivo è la pianta, l'oliva è il frutto, l'olio è il succo. L'ulivo produce dapprima un fiore profumato, dal quale si forma l'oliva, che prima è verde, poi rossa, e quindi arriva a maturazione. La beata Anna [ madre di Maria ] fu quasi la pianta di ulivo, dalla quale germogliò il candido fiore dal profumo incomparabile, cioè la Vergine Maria, che fu verde nel concepimento e nella natività del Figlio di Dio. Si dice verde ( viridis ) in quanto conserva la forza ( vim ). La beata Vergine nel concepimento e nella nascita del Salvatore restò verde, conservò la forza, il valore della verginità: restò vergine prima del parto e nel parto; fu rossa nella passione del Figlio, quando la spada trapassò la sua anima ( cf. Lc 2,35 ); pervenne a maturazione nella odierna solennità, gemmando, cioè sbocciando nella letizia, nella beatitudine della gloria celeste. Perciò, partecipando alla sua letizia, cantiamo nell'introito della messa di oggi: "Rallegriamoci tutti nel Signore …" In questa messa si legge il brano del vangelo che incomincia: "Gesù entrò in un villaggio …" ( Lc 10,38 ). Villaggio, in latino castellum, o castrum, fortificazione, suona quasi come casto, vale a dire che in esso viene spenta la lussuria. Il nemico, assaltando in continuità la fortificazione dall'esterno, impedisce agli abitanti di abbandonarsi al riposo, di darsi cioè alla lussuria. Il persistere della lotta contro la fortificazione stronca lo stimolo della libidine. Osserva che la fortificazione consta di una cerchia di mura e di una torre posta al centro. La fortificazione è la Vergine Maria che rifulse della castità più perfetta, e quindi in lei entrò il Signore. La muraglia di difesa, intorno alla torre posta al centro, fu la sua verginità. La torre a difesa della muraglia fu l'umiltà. La torre è chiamata così perché è ( in lat. ) teres, cioè diritta e alta. L'umiltà della Vergine Maria fu diritta e alta: diritta, perché guardò solo a colui che a sua volta guardò alla sua umiltà ( cf. Lc 1,48 ); alta, perché quando lei proferì le parole dell'umiltà: "Ecco, la serva del Signore" ( Lc 1,38 ), fu eletta Regina del cielo. La Vergine Maria fu anche Marta e Maria. Fu Marta, quando avvolse in fasce Gesu bambino, quando lo adagiò nel presepio, quando lo allattò al suo seno ripieno di cielo, quando si rifugiò con lui in Egitto e quando ritornò in patria; fu Maria, mentre "custodiva – come dice Luca – tutte queste parole, meditandole nel suo cuore" ( Lc 2,19 ). 5. "Come cipresso svettante verso l'alto". La beata Vergine Maria, come un cipresso si spinge oggi più in alto di tutti gli angeli. A questo proposito leggiamo in Ezechiele: "Sopra il firmamento che sovrastava le teste dei [ quattro ] esseri viventi apparve qualcosa come una pietra di zaffiro in forma di trono, e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane" ( Ez 1,26 ). Nei quattro esseri viventi sono raffigurati tutti i santi, ornati delle quattro virtù, edotti nella dottrina dei quattro vangeli. Nel firmamento sono indicate le schiere angeliche, confermate dalla potenza dell'Onnipotente. Nel trono è indicata la Vergine Maria, nella quale il Signore si umiliò quando assunse da lei umana carne. Il Figlio dell'uomo è Gesù Cristo, Figlio di Dio e dell'uomo. Ecco allora che nella gloria celeste, che sovrasta la testa dei quattro esseri viventi, cioè di tutti i santi, c'è il firmamento, vale a dire gli angeli; e al di sopra degli angeli il trono, cioè la beata Vergine; e sopra il trono il Figlio dell'uomo, Gesù Cristo. Sul tema del "trono" vedi il sermone della V domenica dopo Pentecoste sul vangelo: "Mentre le folle facevano ressa intorno a Gesù …". Per la pietra di zaffiro, vedi poi il sermone dell' Annunciazione, parte II: "Io come rugiada". Ti preghiamo, o nostra Signora, inclita Madre di Dio, esaltata al di sopra dei cori degli angeli, di riempire il vaso del nostro cuore con la grazia celeste; di farci splendere dell'oro della sapienza; di sostenerci con la potenza della tua intercessione; di ornarci con le pietre preziose delle tue virtù; di effondere su di noi, o oliva benedetta, l'olio della tua misericordia, con il quale coprire la moltitudine dei nostri peccati, ed essere così trovati degni di venir innalzati alle altezze della gloria celeste e vivere felici in eterno con i beati comprensori. Ce lo conceda Gesù Cristo, tuo Figlio, che oggi ti ha esaltata al di sopra dei cori degli angeli, ti ha incoronata con il diadema del regno, e ti ha posta sul trono dell'eterno splendore. A lui sia onore e gloria per i secoli eterni. E tutta la chiesa risponda: Amen. Alleluia! Purificazione della beata Vergine Maria ( 2 ) 1. "Quando venne il tempo della purificazione di Maria secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore …" ecc. ( Lc 2,22 ). In questo vangelo consideriamo tre eventi: - la presentazione di Gesù al tempio, - il compimento delle attese del giusto Simeone, - la sua benedizione profetica. I. La presentazione di Gesù Cristo 2. "Quando venne il tempo della purificazione di Maria", ecc. Su questa prima parte del vangelo si possono fare tre applicazioni morali e considerare: la purificazione dell'anima, l'oblazione della stessa, e da ultimo il suo ingresso nel tempio del cielo. Ma prima di tutto sentiamo la Scrittura: "Il Signore parlò a Mosè ( Lev 12,1-2 ): Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni", ad eccezione di colei che partorisce restando vergine. Quindi né il Figlio né la Madre avevano bisogno di essere purificati con sacrifici, ma lo fecero solo perché noi fossimo liberati dal timore della legge, cioè dalla osservanza della legge, alla quale si ottemperava solo per paura. Era stabilito che all'ottavo giorno ( dalla nascita ) il bambino fosse circonciso, e che trentatré giorni dopo la circoncisione fosse portato al tempio e che per lui fossero offerti dei sacrifici, cioè un agnello di un anno. Ma chi non aveva la possibilità di avere un agnello, offriva due tortore, oppure due piccoli colombi. Inoltre, Giuseppe [ Flavio ] scrive: Il primogenito veniva riscattato con cinque sicli. La Vergine Maria, essendo poverella, fece l'offerta dei poveri per il figlio povero, perché in tutto si manifestasse chiaramente l'umiltà del Signore. Là dove è detto: "Ogni maschio primogenito", ecc. ( Lc 2,23 ), la legge va intesa secondo quanto è detto nel libro dell'Esodo: "Tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore ( Es 13,12 ). Perciò i primogeniti dei figli di Levi venivano offerti al Signore [ e non venivano riscattati ], ed erano addetti in permanenza al suo servizio. I primogeniti degli altri venivano offerti e riscattati. I primogeniti del bestiame, adatti ad essere immolati, costituivano le offerte destinate ai sacerdoti. Dei primi nati degli animali immondi, non offerti, alcuni venivano riscattati, come per es. il primo nato dell'asino che veniva sostituito con l'offerta di una pecora; altri non erano neppure riscattati, ma venivano uccisi, come per es. il primo nato del cane. 3. "Quando venne il tempo della purificazione di Maria". Maria, nome che significa "illuminata", o "mare amaro", oppure anche "signora", raffigura l'anima del giusto, illuminata nel battesimo; è mare amaro per la contrizione del cuore e le afflizioni del corpo, e sarà signora nel Regno, quando sarà unita all'eterno Sovrano. Ma nel frattempo, mentre è nell'esilio, ha bisogno di purificazione, perché si macchia di molte impurità. Infatti dice l'Ecclesiastico: "Mòndati offrendo le spalle ( delle vittime ), e della tua negligenza purìficati con i pochi" ( Sir 7,33-34 ). Purificare significa lasciare il suolo pulito, dopo aver rimosso ogni immondezza. Purìficati, in anticipo, cioè prima di venir giudicato, offrendo le spalle, cioè con le opere di misericordia; e della negligenza nei riguardi dei comandamenti purìficati con "i pochi": sono pochi infatti coloro che si preoccupano di purificarsi da tali negligenze. Si legge nella Storia Naturale che le colombe rimuovono e gettano fuori dal nido lo sterco dei loro piccoli e il nido lo tengono pulito; e quando i piccoli crescono insegnano loro a fare altrettanto. Così anche i giusti purificano le loro impurità e quelle dei loro sudditi, e insegnano loro a fare altrettanto. Leggiamo infatti in Geremia: "Insegnate alle vostre figlie il lamento, l'una all'altra il canto di lutto; perché la morte è entrata per le nostre finestre, si è introdotta nelle nostre case" ( Ger 9,20-21 ). È come se dicesse: Il peccato mortale entra nella anima attraverso i sensi del corpo, ma viene rigettato per mezzo della medicina, ossia con il lamento della penitenza. Quando uno si sente appesantito da cibi malsani, per liberarsi prende la purga. E dice in merito l'Ecclesiastico: "Il Signore ha creato medicamenti dalla terra e l'uomo assennato non li disprezza" ( Sir 38,4 ). La terra è la carne nostra; i medicamenti raffigurano la penitenza. Dalla carne del serpente chiamato tiro, si ricava la teriaca ( contravveleno ), e dalla nostra carne viene la medicina dell'anima, cioè la penitenza. E l'uomo prudente, quando si sente oppresso dalla pestilenza del peccato, non si rifiuta mai di prendere quella medicina ( la penitenza ), per quanto sia amara, perché attraverso l'assunzione della bevanda amara si arriva alla gioia della guarigione. È una grande stoltezza perdere la salute e rischiare la morte, rifiutando un po' di amarezza. Leggiamo nel libro dei Proverbi: "Robaccia, robaccia!, ripete chi compra; ma mentre se ne va, allora se ne vanta" ( Pr 20,14 ). Anche l'ammalato ripete: "Questa bevanda è troppo disgustosa da bere" ( Is 24,9 ); ma quando la malattia se n'è andata, allora se ne glorierà. E così fa anche il peccatore che dice: La penitenza è amara; ma quando l'anima sarà purificata dalla colpa, allora ne porterà vanto nella gloria celeste. 4. "Quando venne il tempo della purificazione di Maria". L'anima così purificata, così detersa, deve offrire "un paio di tortore, oppure due giovani colombi" ( Lc 2,24 ). Nelle due tortore sono raffigurate due specie di castità; nei due giovani colombi due specie di compunzione ( pentimento ). Li tratteremo entrambi. La tortora, a motivo del suo canto, viene chiamata uccello pudìco. Se rimane senza il suo compagno, non si unisce ad altri, ma se ne vaga soletta e gemente. Ama la solitudine. D'inverno scende nelle convalli e si rifugia, quasi spoglia di penne, nelle cavità degli alberi; d'estate invece risale in montagna e lì si cerca una dimora. Allo stesso modo, il vero penitente, purificato con la mortificazione della mente e del corpo, non tollera più alcuna convivenza con il peccato mortale, perché, come dice Isaia, "Troppo corto sarà il letto per distendervisi, troppo stretta la coperta per avvolgervisi" ( Is 28,20 ). È come se dicesse: La coscienza del giusto è così stretta per il timore di Dio, che il diavolo non vi trova posto per il riposo, perché i santi, come dice Giobbe, "che imprecano al giorno", cioè alla prosperità mondana, "sono pronti ad evocare il Leviatan" ( Gb 3,8 ); e la coperta della grazia divina, benché sia molto grande, sembra al giusto sempre corta e stretta, sì da non poter coprire due persone, cioè lo sposo e l'adultero, vale a dire Cristo e il peccato mortale. Inoltre il giusto, mentre vive in questo corpo, è in esilio lontano dal Signore ( cf. 2 Cor 5,6 ), è privato cioè del suo diletto; e perciò vaga solitario, non si confonde con la turba turbata ( agitata ), ma cammina gemendo e dice: "Signore, davanti a te ogni mio desiderio, e il mio gemito a te non è nascosto" ( Sal 38,10 ); ama la solitudine della mente e del corpo, e quindi dice: "Ecco, errando fuggii lontano e abitai nel deserto" ( Sal 55,8 ). Durante l'inverno della misera condizione presente, privo delle penne delle cose temporali, si accontenta delle cose umili; ma quando giungerà l'estate dell'eterno splendore, allora se ne volerà alle altezze della patria celeste. La colomba ha come canto il gemito, perché tutto il suo interno è pieno di fiele, e quindi sembra che si lamenti per l'eccesso di amarezza. Alcuni tuttavia sostengono che la colomba è priva del fiele: infatti non lo ha nello stesso posto degli altri uccelli. Non ferisce nessuno; non si ciba di cose morte; nutre i piccoli degli altri; sceglie sempre il grano puro; si ferma sopra le acque correnti per difendersi dall'avvoltoio; fa il nido nelle fenditure della roccia. Così il penitente prorompe in gemiti di dolore, perché è tutto pieno dell'amarezza della contrizione. Infatti dice: "Pìgolo come una rondine, gemo come una colomba" ( Is 38,14 ). Leggiamo nella storia naturale che se a un rondinino vengono cavati gli occhi, gli si riformano. Il penitente, avendo perduto l'occhio dell'amore divino, si lamenta e implora di ricuperarlo. Egli, nell'amarezza della sua anima, ripensa agli anni della sua vita ( cf. Is 38,15 ), non rende male per male; non vive delle cose morte della rapina, anzi dà il suo agli altri; si sforza di strappare i peccatori al diavolo e li nutre con il cibo di vita eterna; sceglie solo il grano puro della fede cattolica; sosta sulle acque correnti delle lacrime per difendersi dagli inganni del diavolo; si rifugia nelle piaghe di Cristo, nelle quali costruisce il nido della speranza e ripone i suoi piccoli, cioè le sue opere buone. La Glossa fa qui un'applicazione diversa: "Chi non dispone di un agnello [ per il riscatto ], cioè delle ricchezze di una vita innocente, ricorra alle lacrime della compunzione, che sono raffigurate nei gemiti della tortora e della colomba. Ci sono due specie di compunzione: quella causata dalla paura dei castighi minacciati per i peccati, e quella che sentiamo quando, ardendo di desiderio dei beni celesti, gemiamo perché ci vengono dilazionati. E quindi ci è comandato di offrire due tortore o due piccoli colombi: uno in olocausto, quando siamo infiammati di amore per i beni celesti; l'altro per il peccato, quando piangiamo per le colpe commesse. Parimenti "i primogeniti" raffigurano il buon inizio della nostra attività, che portiamo per così dire nel cuore e che dobbiamo attribuire alla grazia di Dio. Invece le opere cattive, siamo esortati ad espiarle con i frutti della penitenza. Infine, i cinque sicli, con i quali riscattiamo il nostro primogenito, consistono nel dolerci del nostro passato, nell'esporlo chiaramente nella confessione, nel partecipare alle sofferenze del prossimo, nel temere di tutte le cose del mondo, e nel perseverare sino alla fine. Chi sarà purificato in questo modo, chi sarà offerto con tali sacrifici e riscattato con questo prezzo, senza dubbio sarà accolto per mano degli angeli nel tempio del cielo. II. Il compimento delle attese del giusto Simeone 5. "A Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone" ( Lc 2,25 ). Simeone si interpreta "che ascolta l'afflizione" ( cf. Gen 29,33 ), e sta ad indicare il penitente che, sia che mangi, sia che beva, sia che faccia qualunque altra cosa, sempre sente quella voce terribile che dice: "Risorgete, o morti, e venite al giudizio!", e dice con Giobbe: "Io ti sentivo con l'udito dell'orecchio, ma ora ti vedo con i miei occhi. Perciò mi ricredo e faccio penitenza su polvere e cenere" ( Gb 42,5-6 ). Osserva che non è detto "con l'orecchio", ma "con l'udito dell'orecchio". Lo stolto, come l'asino, sente solo il suono della parola di Dio; invece il saggio ne percepisce la forza e la conserva nel cuore. Si legge nella storia naturale che se le orecchie dei cervi sono rizzate, essi hanno un udito finissimo; se invece sono penzoloni, non sentono niente. Coloro che sono del mondo, rivolgono gli orecchi al mondo e quindi non sono in grado di ascoltare le cose di Dio. "Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio" ( Gv 8,47 ). Invece i giusti, essendo da Dio, rivolgono l'udito verso l'alto per sentire l'afflizione. "L'afflizione è un dolore silenzioso" ( Isidoro ). "Con l'udito dell'orecchio ti ho sentito" che predicavi: "Fate penitenza!" ( Mt 4,17 ). "Ma ora ti vedo con i miei occhi" pendere dalla croce. E anche: "Ti ho sentito" affermare nel giudizio: "Ebbi fame, e mi avete dato da mangiare …" ( Mt 25,35 ); "ora il mio occhio ti vede" seduto, in aspetto terribile, sul trono della tua maestà, "e quindi mi ricredo", mi accuso nella confessione "e faccio penitenza" nell'umiliazione della mente e nell'afflizione del corpo. Il giusto Simeone è a Gerusalemme, perché la sua patria è nei cieli. Egli era un "uomo giusto e timorato, che aspettava il conforto di Israele, e lo Spirito Santo era in lui" ( Lc 2,25-26 ). È detto "giusto" perché rispettava i diritti altrui e viveva secondo la legge. Il timore servile consiste nell'astenersi dal male per paura del castigo, e non per il piacere della giustizia. L'amore scaccia il timore, quando l'iniquità non attira, neppure se le viene assicurata l'impunità. Il timore casto invece è quello che ha l'anima di perdere la grazia stessa: quella grazia che ha fatto sì che essa non trovi più piacere nel peccare; è il timore che la grazia l'abbandoni, anche se non sarà punita con nessun castigo. L'amore non scaccia mai questo timore, perché esso dura per sempre ( cf. Sal 19,10 ). Coloro che sono ancora pellegrini devono avere il timore più grande; minore sarà quello dei proficienti, di coloro cioè che sono vicini alla mèta; nullo, quello di coloro che vi sono arrivati. Il penitente dunque è giusto verso se stesso, timorato nei riguardi di Dio, e nel timore filiale aspetta non tanto la sua consolazione, quanto quella del prossimo. E così la grazia dello Spirito Santo è in lui e dalla sua ispirazione riceve la promessa sicura, che non vedrà l'eterna morte ma contemplerà Cristo faccia a faccia. "Mosso dunque dallo Spirito, Simeone si recò nel tempio" ( Lc 2,27 ). Tempio significa "tetto ampio": il tetto protegge, e in quanto ampio accoglie le moltitudini. Il tempio raffigura l'amore di Dio e del prossimo: l'amore di Dio protegge, l'amore del prossimo accoglie. In tale tempio nessuno può entrare se non in spirito: non nella carne, perché è lo spirito che vivifica, "e lo Spirito è Dio" ( Gv 4,24 ); la carne invece non giova a nulla ( cf. Gv 6,64 ). 6. E continua Luca: "E mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù, per adempiere nei suoi riguardi la legge …" ( Lc 2,27 ). Osserva che dice "il bambino Gesù" ( puerum Iesum ) e non "Gesù bambino" ( Iesum puerum ). Commenta la Glossa: Poiché la puerizia incomincia dopo i sette anni dell'infanzia, Gesù viene chiamato spesso puer ( servo ) non tanto per l'età quanto per il servizio. Infatti dice il profeta: "Ecco il mio servo" ( Is 42,1; Mt 12,18 ); perché "il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire" ( Mt 20,28 ). Per noi quindi fu innanzitutto servo, che a noi ha servito, secondo quanto dice Isaia: "Mi hai fatto servire nei tuoi peccati, mi hai stancato con le tue iniquità" ( Is 43,24 ). Per trentatré anni ci ha servito fedelmente; poi ha sofferto tanto da effondere sudore di sangue, e finalmente per nostro amore ha affrontato la morte. O carissimi, quale ricompensa potremo dare a un servo così fedele? "E che cosa mai potrà essere adeguato ai suoi servizi?" ( Tb 12,2 ). Certo potremo dirgli come Tobia a Raffaele: "Anche se io mi consegnassi a te come schiavo, non potrei ripagare degnamente i tuoi benefici" ( Tb 9,2 ). E, infelici noi, quale ricompensa gli abbiamo dato? Ce lo dice egli stesso: "Mi rendevano male per bene, una desolazione per la mia anima" ( Sal 35,12 ), perché non abbiamo permesso che il sangue della sua passione facesse frutto in noi. Per questo [ Gesù ] ha dato la sua anima, per conquistare la nostra; ma noi lo priviamo di questo frutto [ della sua passione ], quando con il peccato mortale diamo l'anima nostra al diavolo. Giustamente quindi dice "il servo Gesù" ( puerum Iesum ), perché prima ci ha serviti e poi ci ha salvati. E nessuno mai sarà Gesù, cioè salvo, se prima non è stato puer, cioè servo. III. La benedizione di Simeone 7. "Simeone lo prese tra le sue braccia" ( Lc 2,28 ). O grande umiltà del Salvatore! Colui che è non contenuto dallo spazio, è sorretto dalle braccia di un vegliardo. Il vecchio uomo prende il bambino, insegnandoci a spogliarci dell'uomo vecchio, che si corrompe, e a indossare quello che è stato creato secondo Dio ( cf. Col 3,9-10 ). Porta Cristo tra le braccia, colui che accoglie la parola di Dio non soltanto con la bocca ma con le opere della carità, come faceva Giobbe, quando diceva: "Lacero la mia carne con i miei denti e porto nelle mie mani la mia vita" ( Gb 13,14 ). I denti, così chiamati perché in certo modo dividono ( dividenti ), sono i rimproveri e le accuse della confessione, con le quali il giusto lacera le sue carni, cioè i suoi peccati carnali, e in questo modo porta la sua anima con le mani delle sue opere, pronto a restituirla al suo Creatore, in qualunque momento gliela domandi; e allora con Simeone benedirà Dio: "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola" ( Lc 2,29 ). Il servo che ha servito a lungo e che a lungo ha faticato, viene dal Signore mandato in pace secondo la parola della pace. Anche Stefano "si addormentò nel Signore" ( At 7,60 ). Questa infatti è la parola del Signore: Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, e vi farò riposare ( cf. Mt 11,28 ). Perciò secondo la tua parola, lascia ora andare in pace il tuo servo. Ecco il puer e Gesù, ecco il servo e la salvezza, perché è mandato in pace. Ora lasciami andare, perché finora ho faticato, fino ad ora ho aspettato, ma ora, cioè alla fine della mia misera condizione presente, lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace. A proposito leggiamo in Giobbe: "Chi lasciò libero l'ònagro, l'asino selvatico, e chi ha sciolto i suoi legami? Ad esso ho dato per casa la solitudine, per dimora la terra salmastra" ( Gb 39,5-6 ). L'asino selvatico è il penitente, al quale Dio nello stato presente di miseria dà la casa nella solitudine della mente e una dimora da battaglia, da dove combatte ed è combattuto nell'amarezza del cuore. Di queste due cose dice Geremia: Spinto dalla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi riempito di amarezza ( cf. Ger 15,17 ). Colui al quale Dio dà tali cose in questa vita, in morte lo manda libero dalla colpa e gli scioglie le catene del castigo. "Ora lascia, dunque, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola". 8. "Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza" ( Lc 2,30 ). Osserva che Dio si vede in tre modi: in questa vita si vede con la fede, e si vede con la contemplazione; nella patria si vedrà faccia a faccia. Abbiamo quaggiù tre elementi: l'aria, l'acqua, la terra. Ci dice la storia naturale che gli uccelli, che volano nell'aria, hanno bisogno di una vista acuta, perché così, anche da grande altezza possono cercare e vedere il loro cibo. Gli occhi dei pesci invece sono umidi ( bagnati ), perché è necessario che abbiano una visuale larga a motivo dello spessore delle acque. Invece "i volatili" che non volano, che restano sempre a terra, come la gallina e simili, non hanno bisogno di vista molto acuta. Gli uccelli dell'aria sono figura delle schiere angeliche in cielo, che nelle altezze della patria celeste con vista acuta e penetrante contemplano Dio, loro cibo, "nel quale – è detto – gli angeli desiderano fissare lo sguardo" ( 1 Pt 1,12 ). I pesci nelle acque sono in contemplativi in pianto. Gli occhi bagnati sono le contemplazioni dell'anima devota: essi hanno una vista ampia, a motivo dello spessore delle acque, cioè della stessa contemplazione; essa infatti è così inaccessibile che non può essere penetrata se il contemplativo non è dotato di una vasta visuale di devozione. Solo allora i suoi occhi vedono la salvezza di Dio. I volatili che restano a terra raffigurano coloro che fanno vita attiva; essi, come le galline, nutrono i loro piccoli. Costoro non hanno una vista molto acuta: pur tuttavia anch'essi vedono la salvezza di Dio. "Che hai preparato davanti a tutti i popoli" ( Lc 2,31 ). Concorda Isaia dove dice: "Il Signore ha preparato il suo santo braccio davanti agli occhi di tutte le genti" ( Is 52,10 ). Il braccio del Padre è il Figlio, che è pronto ad abbracciare il figlio pròdigo che ritorna a lui. Dice Luca: "Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" ( Lc 15,20 ). Nella prima venuta, il Padre presentò il Figlio a tutti i popoli, perché credessero in lui e lo amassero; nella seconda venuta lo presenterà perché ogni popolo lo veda ( cf. Ap 1,7 ), ed egli renda a ciascuno secondo le sue opere ( cf. Mt 16,27; Rm 2,6 ). "Luce" è il Salvatore stesso, per mezzo della grazia, nella vita presente, "per illuminare le genti" ( Lc 2,32 ). Per questo il Padre, per bocca di Isaia, dice: "Ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi" ( Is 42,6-7 ); e Giobbe: "Strappa i segreti alle tenebre, porta alla luce l'ombra della morte" ( Gb 12,22 ). Questo bambino che è luce nella vita presente, sarà in futuro la gloria del suo popolo, Israele ( Lc 2,32 ), cioè di coloro che vedono Dio. Si degni di concedercelo colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone allegorico 9. "L'ape è piccola tra gli esseri alati, ma il suo prodotto detiene il primato tra tutti i dolci sapori". È una sentenza dell'Ecclesiastico ( Sir 11,3 ). La storia naturale dice che l'ape genera senza amplesso, perché è insita in essa la facoltà di generare. L'ape di buona razza è piccola, rotonda, solida e compatta. L'ape è più linda degli altri volatili, e perciò il cattivo odore la infastidisce, mentre quello buono l'attrae. Non fugge alcun animale, e quando vola non cerca fiori diversi, e non passa da un fiore all'altro saltandone qualcuno, ma secondo il suo bisogno fa la raccolta da un fiore e poi ritorna all'alveare. Il suo cibo è il miele, perché vive di ciò che produce. Fa la casa nella quale possa abitare il re ( la regina ) delle api. E sulle pareti dell'alveare incomincia a costruire dall'alto, e non cessa mai di lavorare, scendendo a poco a poco finché arriva fino alla parte più bassa. Così la Vergine Maria, nostra Signora, generò il Figlio di Dio senza carnale congiungimento, perché lo Spirito Santo scese su di lei e la potenza dell'Altissimo stese su di lei la sua ombra ( cf. Lc 1,35 ). Questa buona ape fu piccola per l'umiltà, rotonda per la contemplazione della gloria celeste che non ha principio né fine, solida per la carità – colei che per nove mesi portò in grembo l'Amore non poteva essere senza amore –, compatta per la povertà, più pura di tutti per la verginità. Perciò il fetido odore della lussuria, non si dovrebbe neanche dirlo, le fa ribrezzo, mentre la delizia il soave profumo della purezza e della castità. Quindi, chi desidera piacere alla beata Vergine Maria fugga la lussuria e pratichi la purezza. Non rifugge da alcun animale, cioè da nessun peccatore, anzi accoglie tutti coloro che si rivolgono a lei, e per questo è chiamata Madre della misericordia: misericordia ai miseri, speranza ai disperati. Dice lo sposo del Cantico dei Cantici: "Io sono il fiore del campo, il giglio delle convalli" ( Ct 2,1 ). La Vergine Maria scelse, tralasciati tutti gli altri, questo fiore, a lui si unì e da lui ebbe tutto ciò di cui abbisognava. E Nazaret, dove concepì, si interpreta "fiore", e quello fu il luogo che scelse fra tutti. Infatti il fiore che germoglia dalla radice di Iesse ama la patria che produce fiori. Il nutrimento della Vergine Maria è il Figlio suo, miele degli angeli, dolcezza di tutti i santi. Viveva di colui che nutriva, e colui al quale lei offriva il latte, dava a lei la vita. Questa buona ape preparò la casa, cioè la sua anima, con l'umiltà, il suo corpo con la verginità, affinché in quella casa potesse dimorare il Re degli angeli. Osserva che l'ape incomincia a costruire dall'alto. Anche Maria incominciò a costruire non dal basso, cioè davanti agli uomini, ma dall'alto, al cospetto della divina Maestà; e a poco a poco, con discrezione e ordine, giunse ad essere conosciuta dagli uomini: e così colei che già era eletta al cospetto di Dio, divenne mirabile anche davanti a tutti gli uomini. 10. "Piccola tra gli esseri alati è l'ape". Pur rifulgendo nella Vergine Maria moltissime virtù e tutte in sommo grado, l'umiltà fu di tutte la più grande. Perciò, quasi dimentica delle altre, manifesta prima di tutto l'umiltà, quando dice: "Ha guardato all'umiltà della sua serva" ( Lc 1,48 ); per questo è detto: piccola tra gli esseri alati. Gli esseri alati, cioè i suoi meriti, volano fino al più alto dei cieli. Infatti è detto di lei: "Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti", hanno cioè praticato le virtù, "ma tu le ha superate tutte" ( Pr 31,29 ), perché più di tutte sei volata in alto. E pur essendo ricolma della ricchezza di tante virtù ed esaltata per l'abbondanza di tanti meriti, fu piccola, cioè umile, la nostra ape, che come oggi, nel tempio, offrì a Dio Padre il favo, cioè il Verbo incarnato, colui che è Dio e uomo. Nel favo c'è il miele e la cera, in Gesù bambino la divinità e l'umanità. La storia naturale ci dice che il miele buono viene dalla cera nuova, e che il miele buono è simile all'oro. La cera nuova è la carne di Cristo, presa dalla carne purissima della Vergine gloriosa: in essa c'è il miele della divinità, indicata dall'oro. Infatti sta scritto: "Il capo dell'amato è oro purissimo" ( Ct 5,11 ). "Capo di Cristo è Dio" ( 1 Cor 11,3 ). E quindi noi oggi portiamo in processione le candele, accese al nuovo fuoco, quasi ripetendo quella processione che come oggi fecero Maria e Giuseppe, portando al tempio Gesù bambino, e Simeone e Anna profetando e cantando lodi. Di questa processione dice il salmo: "Misericordia e verità si incontrarono, giustizia e pace si baciarono" ( Sal 85,11 ). La misericordia della nostra salvezza è nel Redentore; la verità della promessa è in Simeone, al quale lo Spirito Santo aveva promesso che non avrebbe visto la morte prima di vedere Cristo Signore ( cf. Lc 2,26 ); la giustizia ( la santità ) è in Maria e Giuseppe; la pace nella profetessa Anna, la quale non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere ( Lc 2,37 ). Ecco quindi che oggi la misericordia andò al tempio e la verità le andò incontro, perché Simeone accolse Gesù bambino, e lì la giustizia e la pace si sono baciate. Nel bacio si devono notare l'unità e la concordia: ciò che Maria e Giuseppe credevano, anche Anna lo professò, e così furono uniti in un solo spirito. Osserva inoltre che nella candela ci sono tre elementi: la cera, lo stoppino e la fiamma. La cera è la carne di Gesù Cristo, lo stoppino è la sua passione, la fiamma di fuoco è la potenza della sua divinità. "Adorna la tua dimora, o Sion, e accogli Cristo, il tuo Re" ( Liturgia della Purificazione ), perché come oggi lo raffiguri nella candela, così tu lo possa portare anche nell'anima tua. Nella cera è raffigurata la purezza dello spirito, nello stoppino l'infermità della carne, nella fiamma l'ardore della carità. Chi porta la candela con questi sentimenti, rivive degnamente l'evento. Perciò gloria e onore all'Ape vergine, che oggi ha offerto a Dio Padre il Favo. Di lui si dice inoltre: "Il suo prodotto detiene il primato per la sua dolcezza". Il prodotto dell'ape simboleggia il Figlio della Vergine. Sta scritto: "Benedetto il frutto del tuo ventre" ( Lc 1,42 ), e "Il suo frutto è dolce al mio palato" ( Ct 2,3 ). Questo frutto detiene l'inizio della dolcezza, ma ne detiene anche il centro e la fine, perché fu dolce nel grembo, dolce nel presepio, dolce nel tempio, dolce in Egitto, dolce nel battesimo, dolce nel deserto, dolce nella parola, dolce nel miracolo, dolce in sella all'asinello, dolce nella flagellazione, dolce sulla croce, dolce nel sepolcro, dolce negli inferi, e infinitamente dolce sarà nella gloria del cielo. O dolce Gesù, che cosa è più dolce di te? Dolce è il tuo ricordo, più del miele e di tutte le altre dolcezze. Il tuo è nome di dolcezza, nome di salvezza. Che cosa significa Gesù, se non Salvatore? O buon Gesù, proprio per te stesso sii a noi Gesù, affinché tu che ci hai dato l'inizio della dolcezza, cioè la fede, ci dia anche la speranza e la carità, affinché vivendo e morendo in esse, meritiamo di arrivare fino a te. Per le preghiere della Madre tua, concedici questo tu, che sei benedetto nei secoli. Amen. V. Sermone morale 11. "Tra i volatili piccola è l'ape". Il nome ape deriva da a privativo, che significa senza, e pes, piede, per il fatto che sembra nasca senza piedi. Oppure le api si chiamano così perché si allacciano tra di loro con i piedi. Dice la storia naturale che l'ape piccola è più laboriosa, e ha quattro ali sottili, il suo colore è scuro, ed è come bruciata. Le api ornate [ più belle ] appartengono al numero di quelle che non fanno niente: stanno da sole in disparte, cercano la solitudine e non fanno nulla di buono. Le api operaie raccolgono i fiori del salice, strofinano con essi la superficie dell'alveare, e lo fanno unicamente per eliminare gli animali nocivi; e se l'ingresso all'alveare è largo, lo restringono. Durante l'inverno stanno bene in un posto caldo, in estate preferiscono un luogo fresco. E sentono l'arrivo dell'inverno e della pioggia, e ciò si desume dal fatto che in queste circostanze non vanno fuori e non si allontanano, ma volano solo tra gli alveari. E gli apicultori capiscono da questo quando sta per arrivare la pioggia. Osserva inoltre che tre cose soprattutto nuocciono alle api: il vento, il fumo e gli insetti. Quando si alza un forte vento, le api-custodi chiudono le aperture degli alveari, perché il vento non entri. Chi vuole togliere il miele alle api, le affumica, perché dal fumo vengono stordite. In fine, vengono danneggiate dagli insetti e altri animaletti: se le api sono robuste li ammazzano e li allontanano dall'alveare; le altre api, quelle deboli, per i danni che subiscono da tali insetti, vengono frenate nella loro attività. Consideriamo questi fatti singolarmente. L'ape è figura del giusto, i cui piedi sono i sentimenti di amore, infusi in lui non dalla natura ma dalla grazia, giacché per natura siamo tutti figli dell'ira ( cf. Ef 2,3 ). Da questi sentimenti sono legati vicendevolmente i giusti, e quindi l'Apostolo può dire: "Gareggiate nello stimarvi a vicenda" ( Rm 12,10 ). E nell'Apocalisse è scritto che "i piedi dell'angelo erano come colonne di fuoco" ( Ap 10,1 ). Così i sentimenti del giusto, del cristiano, devono essere colonna che sostiene la fragilità degli altri, fuoco per infiammarli dell'amore di Dio. L'ape piccola, cioè il giusto umile, è in grando di compiere opere più grandi. Nel primo libro dei Re, leggiamo che Davide dice: "Io, tuo servo, ho abbattuto il leone e l'orso" ( 1 Sam 17,36 ). Chi si proclama servo si dimostra umile. Nel leone è raffigurata la superbia, nell'orso la lussuria. Quanta fatica sia distruggere in se stessi questi due vizi, lo sa chi l'ha provato. E osserva che è nominato prima il leone, perché se prima non è estirpata dal cuore la superbia, non può esser vinta la lussuria della carne. Le quattro ali del giusto sono il disprezzo di sé, il rifiuto del mondo, lo zelo per il prossimo e il desiderio del Regno; oppure sono anche le quattro virtù principali [ cardinali ], con le quali il giusto si eleva dalla terra e penetra nelle profondità dei cieli. Il suo colore è scuro, come bruciato; a questo proposito leggiamo nelle Lamentazioni: "Il loro volto si è fatto più nero del carbone, e nelle piazze non vengono più riconosciuti" ( Lam 4,8 ). Il carbone spento è il povero di Cristo: il suo volto si è annerito per la fame e la sete, la fatica e il sudore, e quindi nella piazza del mondo, che è la gloria umana, non è più riconosciuto. Le api ornate sono i religiosi vani e gli ipocriti, che si gloriano di un'onestà esteriore e dell'osservanza delle loro tradizioni, vivono in disparte, cercano la singolarità, e quindi nulla fanno di buono, perché vogliono piacere agli uomini. Poi ci sono le api operaie, che strofinano gli alveari con i fiori del salice. Nel salice è raffigurata l'amarezza dell'astinenza, delle veglie e delle lacrime, con le quali i penitenti affliggono il loro corpo e quasi lo ungono, per proteggerlo dagli animali nocivi, cioè dalla lussuria e da tutto ciò che induce al male. Le persone carnali si cospargono di miele, cioè dei piaceri temporali, e perciò vengono assaliti da sciami di mosche, che sono i cattivi pensieri e le tentazioni, mentre questi insetti rifuggono dai giusti perché essi sono cosparsi di amarezza. "La nostra carne non ha avuto sollievo alcuno" ( 2 Cor 7,5 ), afferma l'Apostolo. E se le aperture dell'alveare, cioè i sensi del corpo, sono larghe e aperte per la lascivia e la curiosità, le restringono e le riducono. "Chiusa la porta – cioè i sensi –, entra nella stanza della coscienza e lì prega il Padre tuo" ( Mt 6,6 ). In inverno, cioè nel tempo dell'avversità, è adatto ai giusti un luogo caldo, vale a dire un animo energico, affinché le avversità non li abbattano; nell'estate invece, cioè nel tempo della prosperità, è più adatto loro un luogo fresco, cioè un animo costante e risoluto, affinché la prosperità non li gonfi e li porti alla rovina. Infatti il calore dissolve, mentre il freddo indurisce e consolida. Sentono l'arrivo dell'inverno e della pioggia, vale a dire prevedono le tentazioni. In Giobbe così è detto del cavallo, cioè del giusto: "Da lontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi e il fragore della mischia" ( Gb 39,25 ). I capi sono le tentazioni subdole, che sotto l'apparenza della virtù hanno l'aria di esortare alla ragionevolezza; l'esercito è l'appetito carnale, che come un lupo ulula sfrontatamente. Ma il giusto, con l'olfatto della discrezione, li fiuta entrambi da lontano e da entrambi si guarda attentamente. Tutto questo sta a indicare che il giusto, quando si accorge che sta per scatenarsi la tentazione, non esce ( da se stesso ) attraverso i sensi del corpo, ma si raccoglie dentro di sé, e lì si innalza nel volo della contemplazione. Infatti leggiamo nella Sapienza: "Rientrato nella mia casa – cioè nella coscienza – riposerò con la sapienza" ( Sap 8,16 ). La sapienza deriva il suo nome da sapore, quello che viene gustato nella contemplazione. E osserva ancora che tre cose soprattutto nuocciono al giusto: il vento della superbia: quando soffia, il giusto, che è custode di se stesso, deve chiudere le aperture degli alveari, cioè dei sensi del corpo, per non esserne danneggiato. Giobbe: "Un vento impetuoso si scatenò da oltre il deserto, investì i quattro lati della casa, che rovinò su se stessa e uccise i suoi figli" ( Gb 1,19 ). Giobbe, che vuol dire "dolente", è il penitente; i suoi figli sono le sue opere; la casa è la coscienza; i quattro lati sono le quattro virtù cardinali; il deserto è la malizia del diavolo; la superbia che irrompe impetuosa da questo deserto scuote la coscienza, la quale viene sradicata dalla sua stabilità, e crolla; crollando distrugge le opere della penitenza, perché prima della rovina il cuore si insuperbisce, e la superbia ha in se stessa la sua rovina ( cf. Pr 18,12 ). C'è poi il fumo dell'avarizia, che acceca gli occhi dei sapienti. Quando i demoni vogliono togliere a uno le dolcezze dello spirito, gli soffiano contro il fumo della concupiscenza. È detto infatti nel libro dei Giudici che Abimelech – nome che significa "mio padre, re" –, e tutto il suo popolo tagliarono i rami degli alberi, ne fecero un immenso mucchio, vi appiccarono il fuoco e incendiarono il presidio con tutti gli uomini e le donne che vi erano dentro, e così avvenne che per il fumo e il fuoco restarono uccise circa mille persone ( cf. Gdc 9,48-49 ). L'albero è il mondo, i suoi rami le ricchezze e i piaceri. Il diavolo, che è il padre e "il re di tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ), con tutta la turba dei demoni, taglia dal mondo le ricchezze e i piaceri, vi mette sotto il fuoco dell'avarizia, e ahimè, uccide migliaia di uomini e di donne col fumo della concupiscenza. In fine i piccoli animali, cioè le lusinghe della carne e i pensieri impuri, sono dannosi al giusto; egli, se è forte e costante li uccide e li allontana da sé; ma se è debole ed effeminato, anche le sue opere saranno deboli e rese effeminate dai pensieri impuri e dalle lusinghe della carne. Esposte queste cose sulle qualità delle api, ritorniamo al nostro argomento. 12. "Tra le creature alate piccola è l'ape". Le creature alate sono i santi. Di essi dice Matteo: "Guardate gli uccelli del cielo", che si levano cioè verso il cielo della contemplazione, "essi non seminano" la vanità, "né mietono" la tempesta – di tale seme infatti tale è il frutto –, "e perciò non ammassano" la dannazione "nei granai" dell'inferno ( Mt 6,26 ). Tra questi volatili c'è la piccola ape, cioè l'umile penitente che si reputa indegno di tanto consesso ( la compagnia dei santi ) e perciò si fa piccolo; per questo si avvera di lui ciò che segue: "Il suo frutto detiene l'inizio della dolcezza". In proposito il salmo dice: "Sarà come un albero piantato lungo i corsi d'acqua" ( Sal 1,3 ). L'albero è il penitente, che è piantato lungo i corsi d'acqua, cioè nell'abbondanza delle lacrime e delle grazie; la sua radice è l'umiltà; il tronco che dalla radice procede è l'obbedienza; i rami sono le opere di carità che si estendono sia all'amico che al nemico; le foglie sono le parole di vita eterna; i frutti sono la gloria celeste, che ha il principio, il centro e una fine senza fine. L'inizio è la soavità della contemplazione, che il penitente in qualche misura assapora; il centro è il riposo dell'anima dopo la morte del corpo; la fine senza fine è la duplice stola di gloria nella beatitudine eterna. Si degni di concederci tutto questo colui che è benedetto nei secoli. Amen. Annunciazione della beata Vergine Maria ( 2 ) 1. In quel tempo: "L'angelo Gabriele fu mandato da Dio …" ( Lc 1,26 ). In questo brano evangelico consideriamo tre momenti: - l'invio di Gabriele alla Vergine, - l'annuncio del concepimento del Signore, - l'intervento dello Spirito Santo. I. L'invio di Gabriele alla Vergine 2. "Fu inviato l'angelo Gabriele". Gabriele s'interpreta "Dio, mio conforto", e a questo proposito leggiamo in Isaia: "Dite agli smarriti di cuore: Coraggio, non temete! ecco, Dio stesso verrà e vi salverà" ( Is 35,4 ). Siamo soliti confortare, soprattutto, tre categorie di persone: il malato, l'afflitto, il pauroso. Il genere umano si trovava in tutte e tre queste situazioni: era malato da oltre cinquemila anni e non trovava alcun rimedio; era afflitto perché privato delle delizie del paradiso terrestre; viveva nella paura del diavolo, che con una mano lo colpiva e con l'altra lo trascinava all'inferno. Ma grazie a Dio, fu mandato finalmente il conforto che risanò il malato, consolò l'afflitto, rese intrepido il pauroso. Fu inviato dunque l'angelo Gabriele, il fausto messaggero da una lontana terra, fresca acqua all'anima assetata. Ecco il ristoro all'anima assetata, ormai allo stremo per l'arsura e che sta venendo meno per il languore: fresca acqua, acqua della sapienza che porta la salvezza. E dove viene mandato? "In una città della Galilea" ( Lc 1,26 ). Galilea si interpreta "ruota", e anche "emigrazione". Chi si trova in difficoltà per queste due cose, ha bisogno di conforto. La ruota si chiama così perché rotola, ( lat. ruit ) corre. Il genere umano correva di peccato in peccato e alla fine emigrava nell'inferno. Dice Geremia: "Giuda è emigrato per la miseria e la dura schiavitù; ha dimorato tra le genti ( i pagani ) senza trovare riposo; tutti i suoi persecutori l'hanno raggiunto tra le angosce" ( Lam 1,3 ). Dalla schiavitù del peccato avveniva il passaggio alla dannazione dell'inferno. In così grande angoscia era veramente necessario il conforto, che rivolgesse verso la vita quella ruota che correva alla morte, e così avvenisse il passaggio alla gloria. "Vi precederà – dice il vangelo – in Galilea: lì lo vedrete" ( Mt 28,7 ). "La città si chiamava Nazaret" ( Lc 1,26 ), che vuol dire "fiore", oppure anche "unzione", ossia "consacrazione", perché lì c'era il fiore della verginità, l'unzione della grazia settiforme [ per i sette doni dello Spirito ], lì la consacrazione della Vergine gloriosa. 3. L'angelo è inviato "a una Vergine" ( Lc 1,27 ). Un riferimento a questo lo troviamo nella Genesi: "Rebecca era una splendida fanciulla, era vergine, bellissima, e nessun uomo le si era unito" ( Gen 24,15-16 ). Rebecca, nome che significa "molto ha ricevuto", è la beata Vergine Maria, che veramente ha ricevuto molto, perché ha concepito il Figlio di Dio. E della bellezza della Madre, il Figlio stesso dice: "Tu sei bella, amica mia, soave e leggiadra come Gerusalemme" ( Ct 6,3 ). Bella per l'umiltà, amica per la carità, soave per la contemplazione, leggiadra per la verginità, come la Gerusalemme celeste, dove abita Dio: e la Vergine è la sua abitazione. "Chi mi ha ha creata – è detto – riposò nella mia tenda" ( Sir 24,12 ), cioè nel mio grembo. "La vergine era promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe" ( Lc 1,27 ). Ecco il commento di san Beda: "Volle nascere [ il Figlio di Dio ] da una donna sposata, affinché per mezzo di Giuseppe fosse conosciuta la sua discendenza, e anche perché non venisse lapidata come adultera, e perché la fanciulla avesse il sostegno di un uomo che fosse anche il testimone della sua integrità, e infine perché il diavolo non potesse scoprire il mistero". L'antico Giuseppe, figlio di Giacobbe, fu salvatore, perché salvò dalla fame l'Egitto. Questo Giuseppe salvò la beata Vergine dall'infamia. Il Signore preferì che qualcuno dubitasse della sua origine, piuttosto che dell'illibatezza della Madre. Sapeva infatti che la riputazione, in fatto buoni costumi, è molto facile a perdersi. "Era della casa di Davide" ( Lc 1,27 ). Questo va riferito non soltanto a Giuseppe ma anche alla Vergine: ambedue erano discendenti di Davide. C'era il comando di Dio: "Tutti gli uomini sposeranno donne della loro tribù e della loro parentela; e tutte le donne sposeranno uomini della stessa tribù" ( Nm 36,7-8 ). "E il nome della vergine era Maria" ( Lc 1,27 ). Nome dolce, nome delizioso, nome che conforta il peccatore, nome che infonde la beata speranza. Chi è Maria se non la stella del mare, cioè la via luminosa che guida al porto coloro che sono ancora in balìa dei flutti dell'amarezza? Nome amato dagli angeli, terribile per i demoni, salutare per i peccatori, soave per i giusti. 4. "E l'angelo entrò da lei" ( Lc 1,28 ). Colei alla quale l'angelo entrò, era nell'interno, era occupata nella lettura o nella contemplazione, era sola, e custodiva la sua solitudine. Dice Osea in proposito: "La condurrò in un luogo solitario e parlerò al suo cuore" ( Os 2,14 ). "Le disse: Ave!" ( Lc 1,28 ), cioè senza "guai!" ( a privativo, vae!, guai ), senza il triplice "guai!" dell'Apocalisse: "Guai, guai, guai agli abitanti della terra!" ( Ap 8,13 ). Maria infatti fu immune dalla concupiscenza della carne, dalla concupiscenza degli occhi e dalla superbia della vita ( cf. 1 Gv 2,16 ), perché fu casta, fu povera e fu umile. "Piena di grazia" ( Lc 1,28 ) perché, prima fra tutte le donne, offrì a Dio il dono sublime della verginità, e perciò fu degna di godere della visione dell'angelo e del suo colloquio, e diede al mondo l'autore di tutta la grazia. "Piena di grazia", perché "il profumo dei tuoi unguenti supera tutti gli aromi. Un favo stillante sono le tue labbra" ( Ct 4,10-11 ), sulle quali è diffusa la grazia ( cf. Sal 45,3 ). "Il Signore è con te" ( Lc 1,28 ): Egli per il tuo amore alla castità, cosa assolutamente nuova, ti ha innalzata alla sublimità del cielo, e poi, per mezzo della natura umana da lui assunta, ti ha consacrata con la pienezza della divinità. "Il Signore è con te". "Un grappolo di uve di Cipro è per me il mio diletto" ( Ct 1,13 ), e quindi piena del vino della grazia. "Benedetta tu fra le donne" ( Lc 1,28 ). Concordano le parole che leggiamo nel libro dei Giudici: "Benedetta fra le donne Giaele", – nome che si interpreta "colei che aspetta Dio" – "sia benedetta fra le donne della tenda" ( Gdc 5,24 ). Veramente benedetta colei che aspettò colui che è la benedizione di tutti, e aspettando lo accolse. Veramente benedetta colei che non fu né sterile, né violata; feconda senza rossore, gravida senza gravezza, puerpera senza dolore; colei che, unica tra tutte le donne, fu vergine e madre, e generò Dio. 5. "Sentendo quelle parole ella rimase turbata" ( Lc 1,29 ). Leggiamo nel vangelo di Giovanni: "Un angelo di tanto in tanto scendeva nella piscina e l'acqua si agitava" ( Gv 5,4 ). L'agitazione dell'acqua raffigura il turbamento di Maria alla visione dell'angelo e al suo insolito saluto. "Si domandava che senso avesse un tale saluto" ( Lc 1,29 ). Maria è turbata per pudore, e nella sua prudenza si meraviglia a quella inusitata formula di benedizione. "Chi si fida con troppa facilità è di animo leggero" ( Sir 19,4 ). È meravigliosa questa unione di pudore e di prudenza, affinché il pudore non risulti affettato e la prudenza indiscreta. Ma l'angelo disse: "Non temere, Maria!" ( Lc 1,30 ). Come uno che ha familiarità con lei, la chiama per nome. Le ordina di non temere, "perché hai trovato grazia presso Dio" ( Lc 1,30 ). Leggiamo nel libro di Ester: "Quando il Re Assuero vide la regina Ester in piedi davanti a lui, piacque ella ai suoi occhi e stese verso di lei, in segno di clemenza, lo scettro d'oro che teneva in mano. Ed ella, avanzando, baciò la sommità dello scettro" ( Est 5,2 ). Assuero, nome che significa "beatitudine", raffigura Dio, beatitudine degli angeli, ai cui occhi piacque la nostra Regina Ester, nome che vuol dire "preparata nel tempo", cioè per il tempo della nostra salvezza. Lo scettro d'oro è la grazia celeste che Dio infuse in lei, quando la riempì di grazia più di tutte le altre donne; e lei, che di sì grande grazia non fu certo ingrata, si avvicinò con l'umiltà, e baciò con la carità. II. L'annuncio del concepimento del Signore 6. "Ecco concepirai e partorirai un figlio" ( Lc 1,31 ). Dice il beato Bernardo: "I miracoli sono due, ma sono tra loro mirabilmente congiunti: Dio che diventa Figlio, la Vergine che diventa Madre. A Madre Vergine non convenne altro Figlio; a Dio Figlio non convenne altro parto". Osserva poi che Cristo è concepito a Nazaret, nasce a Betlemme, viene crocifisso a Gerusalemme, in un luogo piuttosto alto. Cristo dunque è concepito nell'umiltà, nasce nella carità, che è la casa del pane, viene crocifisso in elevazione. 7. "E lo chiamerai Gesù" ( Lc 1,31 ). Fa' attenzione a questo fatto: di cinque personaggi si legge nella Scrittura che sono stati chiamati per nome da Dio, ancora prima di essere concepiti nel grembo materno. Il primo fu Isacco: "Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco" ( Gen 17,19 ). Il secondo fu Sansone: "Disse l'angelo alla moglie di Manoach: Concepirai e partorirai un figlio … egli sarà Nazireo di Dio" ( Gdc 13,3-5 ). Il terzo fu Giosia: "Ecco, nascerà un figlio nella casa di Davide, di nome Giosia" ( 1 Re 13,2 ). Il quarto e il quinto furono Giovanni Battista e Gesù Cristo. In questi cinque "personaggi" sono indicate le cinque categorie degli eletti. In Isacco, che vuol dire "sorriso", sono indicati i caritatevoli, che hanno sempre il sorriso nell'animo. Leggiamo infatti in Giobbe: "Se sorridevo loro, non osavano crederlo, e la luce del mio volto non cadeva per terra" ( Gb 29,24 ). Il volto dell'anima è la ragione, la cui luce è la grazia. Di essa è detto: "È segnata sopra di noi la luce del tuo volto, Signore" ( Sal 4,7 ). Il caritatevole serve con il sorriso della devozione, e i detrattori non gli credono, anzi lo calunniano; ma non per questo la sua luce deve "cadere in terra"; al contrario continua ad operare nella luce della ragione e nel gaudio della mente. Così in Sansone, nome che significa "il loro sole", sono indicati i predicatori della parola di Dio: essi, con la parola e con l'esempio, devono essere il sole per coloro ai quali predicano. "Voi siete la luce del mondo" ( Mt 5,14 ), è detto nel vangelo. Il sole è la fonte del calore e della luce; il calore e la luce sono la vita e la dottrina, le quali, a guisa di fiumi sgorgano, come da fonte, da coloro che predicano, per arrivare a quelli che ascoltano. La vita deve essere fervida, la dottrina luminosa. In Giosia, che significa "dov'è l'incenso" o anche "dov'è il sacrificio", sono indicati i veri religiosi, nei quali c'è l'incenso della preghiera devota e il sacrificio della mortificazione corporale. Essi dicono: "Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato: tale sia oggi il nostro sacrificio, perché sia gradito al tuo cospetto" ( Dn 3,39-40 ). Nel Battista sono designati tutti i penitenti e i buoni laici, che si purificano e si santificano nel Giordano, cioè nel fiume del giudizio, vale a dire nelle lacrime e nella confessione, nell'elargire elemosine e nel compiere le altre opere di misericordia. In fine, in Gesù Salvatore sono raffigurati i degni prelati della chiesa, dei quali il profeta Abdia dice: "Saliranno vittoriosi sul monte Sion, per giudicare il monte di Esaù, e il regno sarà del Signore" ( Abd 1,21 ). Il monte di Sion è l'elevatezza della vita santa, alla quale devono salire i prelati: solo così potranno giudicare, o anche condannare il monte di Esaù, vale a dire la superbia dei carnali, e così in se stessi e di se stessi faranno al Signore un regno. Amen. III. L'intervento dello Spirito Santo 8. Domanda Maria: "Come può avvenire questo, dato che io non conosco uomo?" ( Lc 1,34 ). È chiaro che colei che domanda come avverrà una cosa, crede che quella cosa sarà fatta. Domanda come potrà avvenire ciò, dato che aveva promesso di non conoscere uomo, a meno che Dio non avesse disposto diversamente. E commenta Ambrogio: "Quando Sara sorrise alla promessa di Dio e quando Maria disse: Come potrà avvenire questo?, perché non sono ambedue diventate mute, come avvenne a Zaccaria? Ma Sara e Maria non dubitano che avvenga ciò che viene promesso: domandano solo come avverrà. Zaccaria invece nega di sapere, nega di credere, e domanda qualche altro segno che aumenti la sua fede. E quindi riceve il segno del silenzio, perché i segni sono dati non ai fedeli ma agli infedeli. "E rispondendo l'angelo disse: Lo Spirito Santo scenderà su di te" ( Lc 1,35 ). Giacché prima aveva detto "piena di grazia", e qui dice "scenderà", dà a capire che come da un vaso già pieno, se vi si aggiunge qualcosa, ciò che vi è aggiunto trabocca, così alcune gocce della sua grazia sarebbero traboccate su di noi. Lo Spirito Santo, discendendo sulla Vergine e nella sua anima, la rese inaccessibile ad ogni bruttura di vizio, perché fosse degna del parto celeste, e con la sua azione, dalla carne della Vergine, creò nel suo grembo il corpo del Redentore. "Su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo" ( Lc 1,35 ). In queste parole sono indicate le due nature del Salvatore, perché l'ombra è prodotta dalla luce e da un corpo che vi si frappone. La Vergine non poteva contenere la pienezza della divinità: ma la potenza dell'Altissimo la coprì della sua ombra, quando l'incorporea luce della divinità assunse in lei il corpo dell'umanità e così fosse in grado di "portare" Dio. "Colui che nascerà da te sarà dunque santo, e sarà chiamato Figlio di Dio" ( Lc 1,35 ). Gesù nasce santo: colui che dovrà vincere la condizione della natura corrotta non è concepito da unione o congiungimento carnale. Noi, soggetti alla condizione della natura corrotta, possiamo venir santificati dalla grazia. Fu conveniente che colei che al di là di ogni legge concepì restando vergine, generasse il Figlio di Dio al di sopra di ogni legge e umana consuetudine. "Ed ecco Elisabetta", ecc. ( Lc 1,36 ). Affinché la Vergine non dubitasse di poter partorire, le fu portato l'esempio di una donna sterile e anziana che avrebbe partorito, per riconoscere così che tutto è possibile a Dio, anche ciò che sembra contrario all'ordine della natura. 9. "Allora Maria rispose: Ecco la serva del Signore" ( Lc 1,38 ). Non si insuperbisce per l'eccezionalità del privilegio, ma memore in tutto della sua condizione e della degnazione divina, si professa la serva del Signore, lei che è scelta ad essergli Madre, e con grande deferenza fa voti che la promessa dell'angelo si avveri. "Avvenga di me secondo la tua parola" ( Lc 1,38 ). E in quel momento, dalla Vergine fu concepito Cristo, uomo perfetto nell'anima e nella carne, tuttavia in modo tale che con lo sguardo non si potevano distinguere le forme del corpo e delle membra. Si crede che sia stato concepito il 25 marzo e, passati trentatré anni, sia morto lo stesso giorno, colui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone morale 10. "L'angelo Gabriele fu mandato, ecc." Abbiamo sentito in che modo la Vergine Maria concepì il Figlio di Dio Padre; sentiamo ora brevemente in quale modo l'anima concepisce lo spirito della salvezza. Nella Vergine Maria vediamo raffigurata l'anima fedele: vergine per l'integrità della fede; dice infatti l'Apostolo: "Vi ho promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" ( 2 Cor 11,2 ); Maria, cioè stella del mare, per la professione della stessa fede. "Con il cuore si crede per ottenere la giustizia", ecco la vergine; "con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza" ( Rm 10,10 ), ecco la stella che dall'amarezza del mondo guida al porto dell'eterna salvezza. Questa vergine abita a Nazaret di Galilea, vale a dire "nel fiore della trasmigrazione". Il fiore è la speranza del frutto. L'anima fedele infatti spera di trasmigrare, di passare dalla fede alla visione, dall'ombra alla verità, dalla promessa alla realtà, dal fiore al frutto, dal visibile all'invisibile. Dicono i pastori: "Andiamo fino a Betlemme" ( Lc 2,15 ), perché lì troveremo buoni pascoli, il pane degli angeli, il Verbo incarnato. E in Isaia leggiamo: "Gioia degli ònagri, pascolo delle greggi" ( Is 32,14 ). Negli ònagri sono raffigurati i giusti, il cui gaudio saranno i pascoli delle greggi, vale a dire lo splendore e la beatitudine degli angeli, perché insieme con gli angeli si pasceranno, godranno cioè della visione del Verbo incarnato. A questa vergine viene inviato l'angelo Gabriele, il cui nome si interpreta "Dio mi ha confortato"; in lui è indicata l'infusione della grazia divina, senza il cui conforto l'anima viene meno. Infatti Giuditta prega: "Dammi forza, Signore, Dio d'Israele, in quest'ora. E con il pugnale colpì due volte al collo Oloferne e gli staccò la testa" ( Gdt 13,9-10 ). Oloferne s'interpreta "indebolisce il vitello ingrassato": in esso è raffigurato il peccatore che, impinguato con il grasso delle cose temporali, viene dal diavolo spogliato delle virtù, e così si indebolisce e si ammala. La testa di Oloferne è la superbia del diavolo. Dice la Genesi: "Essa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno" ( Gen 3,15 ): nel calcagno è indicata la fine della vita. La Vergine Maria stritolò la superbia del diavolo con l'umiltà, ma questi la insidiò, per così dire, al calcagno nella passione del Figlio suo. Chi vuole strappare da se stesso la superbia del diavolo, deve colpire due volte. La duplice percossa è il ricordo della nostra nascita e il pensiero della nostra morte. Chi medita assiduamente su questi due momenti della sua vita, strappa da sé la superbia del diavolo, ma prima è necessario che implori il sostegno della grazia divina. "Agite virilmente, e il vostro cuore sarà confortato!" ( Sal 31,25 ). 11. "Entrato l'angelo da lei". Qui è posta in evidenza la solitudine dell'anima, che rimane sola con se stessa, leggendo nel libro della propria miseria e ricercando la dolcezza divina; per questo merita di sentirsi dire: Ave! Il nome di Eva, che s'interpreta "guai!" o "sventura", se viene letto al contrario diventa Ave. L'anima che si trova nel peccato mortale è Eva, ossia guai e sventura; ma se si converte alla penitenza, si sente dire Ave, vale a dire senza guai ( a, senza, vae!, guai! ). "Piena di grazia". Chi versa ancora qualcosa in un vaso pieno, perde ciò che ci versa. Così anche nell'anima, se è piena di grazia, non vi può entrare la sozzura del peccato. La grazia riempie ogni spazio e non lascia vuoto alcun angolo, nel quale possa restare o entrare ciò che le è contrario. Chi compra tutto, vuole tutto possedere; e l'anima è così grande che nessuno può riempirla, se non Dio solo, il quale, come dice Giovanni, "è infinitamente più grande del nostro cuore e conosce tutte le cose" ( 1 Gv 3,20 ). Un vaso ben pieno trabocca da ogni parte. Dalla pienezza dell'anima ricevono tutti i sensi perché, come dice Isaia, "sarà sabato dal sabato" ( Is 66,23 ), vale a dire dalla pace interiore verrà la pace dei sensi e delle membra. "Il Signore è con te". Al contrario, leggiamo nell'Esodo: "Non verrò con te, perché tu sei un popolo di dura cervice" ( Es 33,3 ), cioè disobbediente e superbo. È come se dicesse: Verrei con te, se tu fossi umile. Perciò all'umile promette: "Tu sei mio servo: se dovrai attraversare le acque sarò con te e i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare" ( Is 43,12 ). Nelle acque è raffigurata la suggestione diabolica; nei fiumi la gola e la lussuria; nel fuoco il denaro e l'abbondanza delle cose materiali; nella fiamma la vanagloria. Il servo, cioè l'umile, con il quale sta il Signore, passa illeso attraverso le suggestioni del diavolo, perché né la gola né la lussuria lo coprono. Chi ha la testa totalmente coperta non può né vedere, né odorare, né parlare e neppure udire distintamente; così chi è totalmente coperto dalla gola e dalla lussuria, viene privato della facoltà di contemplare, di discernere, di riconoscere il suo peccato e di obbedire. L'umile, anche se cammina attraverso il fuoco delle cose temporali, non resta bruciato né dall'avarizia né dalla vanagloria. 12. "Tu sei benedetta fra le donne". Si legge nella storia naturale che le donne sentono la compassione più intensamente dell'uomo, più presto versano lacrime, e hanno una memoria più tenace ( Aristotele ). In queste tre qualità è indicata la pietà verso il prossimo, la devozione delle lacrime, il ricordo della passione del Signore. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: "Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l'amore ( Ct 8,6 ): il tuo amore, per il quale sei morto. Benedette quelle anime che hanno queste tre qualità; tra esse è benedetta con il privilegio di una speciale benedizione l'anima fedele e umile, ricca di opere di carità. E in merito a questa benedizione, continua: "Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù". Leggiamo ancora nella storia naturale che le donne gravide hanno dei dolori, perdono l'appetito e la loro vista si annebbia; altre donne, divenute incinte, aborriscono il vino, perché bevendolo perdono le forze. Questo avviene anche nell'anima, quando, sotto l'azione dello Spirito Santo, concepisce lo spirito della salvezza ( cf. Is 26,18 ): incomincia a pentirsi del suo peccato, sente ripugnanza delle cose temporali, dispiace a se stessa – questo è il significato dell'annebbiamento della vista –, lei che era solita ammirarsi con compiacenza, e aborrisce il vino della lussuria. Da questi segni potrai giudicare se l'anima ha concepito lo spirito della salvezza, che in seguito partorirà, quando produrrà frutto nella luce delle opere buone; e a questo frutto metterà nome salvezza ( Gesù ), perché tutto ciò che fa, lo fa in vista della salvezza. È l'intenzione – è stato detto – che qualifica l'opera. Infatti l'anima fedele agisce per piacere a Dio, per ottenere il perdono dei peccati, per edificare il prossimo, e per conseguire la salvezza eterna. Si degni di concedere anche a noi la salvezza, colui che è benedetto nei secoli. Amen. V. Sermone allegorico 13. "Ci fu un vento ( lat. spiritus ) grande e forte, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. E dopo il terremoto ci fu il fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il soffio di un vento leggero" ( 1 Re 19,11-12 ), e lì c'era il Signore. In queste parole del terzo libro dei Re troviamo un riferimento ai quattro eventi della festa odierna: il saluto dell'angelo, il turbamento di Maria, l'intervento dello Spirito Santo, l'incarnazione del Figlio di Dio. 14. Il saluto dell'angelo: "Ave, piena di grazia", è indicato dalle parole: "Un vento ( spirito ) impetuoso e gagliardo". Questo saluto è detto "spirito" perché è un saluto spirituale, mandato per mezzo di uno spirito angelico; "grande", perché fa grandi promesse; "forte", perché proviene dall'onnipotente Re della gloria, per mezzo del forte Gabriele. Queste tre parole corrispondono anche alle tre parti del saluto dell'angelo. "Ave, piena di grazia", ecco lo spirito. Qui non c'è nulla dalla terra, nulla dalla carne, ma tutto è dallo spirito, perché viene dalla grazia. La prima donna, Eva, è terra dalla terra, carne dalla carne, osso da osso; a lei è detto: "Guai ( Vae, Eva ), moltiplicherò le tue sofferenze e partorirai nel dolore ( Gen 3,16 ). Invece a Maria, la cui vita era già nei cieli ( cf. Fil 3,20 ), viene detto: Ave, piena di grazia! E osserva che l'angelo non disse: Ave, Maria!, ma: Ave, piena di grazia! Noi invece diciamo: Ave, Maria!, cioè "stella del mare", perché siamo ancora in mezzo al mare, siamo sbattuti dai flutti, sommersi dalla tempesta, e perciò gridiamo: Stella del mare!, per arrivare con il suo aiuto al porto della salvezza. È lei che salva dalla tempesta coloro che la invocano, che mostra la via, che guida al porto. Invece gli angeli non hanno bisogno di essere salvati dal naufragio, perché sono già al sicuro nella patria: lo splendore di Dio li illumina e la loro lampada è l'Agnello ( cf. Ap 21,23 ). E quindi l'angelo non dice: Ave, Maria! Noi miseri, invece, gettati in mare, lontani dalla sguardo degli occhi di Dio, sbattuti a ogni istante dalle tempeste, posti ai confini della morte, imploriamo a ogni istante: Ave, Maria! "Il Signore è con te", ecco il grande. Veramente grande, perché per nove mesi portò e nutrì nel suo grembo colui che i cieli e la terra non possono contenere ( cf. 1 Re 8,27 ). "Benedetta sei tu fra le donne", ecco il forte. Leggiamo nel libro dei Giudici: "Sia benedetta fra le donne Giaele, che stese la mano sinistra al picchetto e la destra al martello da fabbro, e colpì Sisara al capo" ( Gdc 5,24.26 ). E ancora nel libro di Giuditta: "Una donna ebrea da sola ha gettato la vergogna nella casa del re Nabucodonosor. Ecco che Oloferne giace per terra e la sua testa non è più attaccata al tronco" ( Gdt 14,16 ). "Ozia, capo del popolo, disse a Giuditta: Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo, più di tutte le donne che sono sulla terra". Il picchetto, con il quale si chiude l'ingresso della tenda, è la verginità di Maria. "Questa porta rimarrà chiusa: non verrà aperta, nessun uomo vi passerà" ( Ez 44,2 ). Il martello, che ha la forma della lettera ti ( T ), è la croce della passione del Signore. Sisara, nome che significa "esclusione dalla gioia", è il diavolo che continuamente si sforza di escludere gli uomini dall'eterna felicità. Egli fu ucciso dalla verginità di Maria e dalla passione del Figlio suo; restò all'oscuro del loro segreto e per la loro potenza fu privato dei suoi poteri. Ben a ragione quindi: Sei benedetta fra tutte e sopra tutte le donne, tu che hai portato lo sgomento nella casa del diavolo, che hai troncato la testa del tiranno e ci hai riportato la pace. E continua: "da spaccare i monti", cioè la superbia, e "spezzare le rocce", vale a dire la cattiveria e la malizia dei demoni. "Il Signore, nella sua potenza ti ha benedetta" – o benedetta fra gli angeli –, e per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici", ha stroncato la loro arroganza e distrutto la loro protervia. "Non nel vento c'è il Signore", perché durante questo saluto dell'angelo non avvenne l'incarnazione del Verbo. Infatti Maria dapprima domanda in che modo, domandando viene edotta, quando ha compreso dà il suo assenso, e dando il suo assenso concepisce. Si deve procedere ordinatamente, e salire gradatamente. 15. Il turbamento della beata Vergine: "E dopo il vento il terremoto ( lat. commotio )". "A quelle parole – dice Luca – ella rimase turbata", forse perché si sentì dire "benedetta fra le donne", lei che già era benedetta tra gli angeli. Leggiamo nel libro di Giuditta: "Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu sei la letizia di Israele, lo splendido onore del nostro popolo, perché hai agito virilmente e il tuo cuore è stato intrepido, perché hai amato e praticato la castità" ( Gdt 15,10 ). Forse rimase turbata anche perché sentiva affermare di se stessa, ciò che non sentiva di essere. Scrive Gregorio: "È caratteristica degli eletti avere di sé un concetto molto più modesto di quello che hanno gli altri nei loro riguardi. Perfezione della virtù è non vedere la propria virtù e nascondere a propri occhi ciò che agli occhi altrui è evidente. Maria ci ha dato l'esempio, affinché anche noi ci turbiamo quando siamo lodati, e stimiamo noi stessi meno di quanto siamo o di quanto sentiamo dire dagli altri. Leggiamo nella storia naturale che le conchiglie, che producono le perle con la rugiada che scende dal cielo, se sfolgora improvvisamente un bagliore, sono prese da grande spavento e sùbito si rinchiudono, perché temono che il loro prodotto venga macchiato. Così anche la Vergine Maria, che dalla rugiada del cielo – "stillate rugiada dall'alto, o cieli" ( Is 45,8 ) – concepì la "perla preziosa" degli angeli, lei che si turbò per l'improvviso bagliore dell'apparizione angelica. Per questo cantiamo nella liturgia dell'Avvento: "Si turbò la Vergine per la luce improvvisa" ( Breviario Romano, antico ufficio ). Così anche noi, se con la rugiada della grazia vogliamo concepire la perla di una vita santa, al bagliore della lode umana dobbiamo subito temere, dobbiamo abbassarci e umiliarci e, per non distrarci, chiuderci nel raccoglimento, per non correre il rischio di perdere, per causa dell'approvazione degli uomini, il bene che abbiamo fatto. "Non nel terremoto c'è il Signore", vale a dire non nel turbamento di Maria avvenne l'incarnazione del Verbo. 16. L'intervento dello Spirito Santo. "E dopo il terremoto ci fu il fuoco". "Lo Spirito Santo scenderà su di te". Fuoco che non brucia, ma che illumina. Osserva che il fuoco vince tutti gli ostacoli; non può essere contenuto, e trasforma in rinforzo della sua azione le cose nelle quali si accende; si trasmette a tutto ciò che in qualche modo gli si avvicina; è rinnovatore e non perde vigore quando si propaga. Allo stesso modo lo Spirito Santo, uguale al Padre e al Figlio, supera tutti gli ostacoli. "Lo Spirito del Signore – leggiamo – si librava sulle acque" ( Gen 1,2 ), come la mente dell'artefice si libra sull'opera che sta eseguendo. La sua potenza non si può contenere, "e non sai di dove viene e dove va" ( Gv 3,8 ). Infiamma di sé le anime nelle quali si accende e le rende capaci di infiammare gli altri. Si dà a tutti, e quelli che gli si avvicinano sentono il suo calore. È rinnovatore, e per questo diciamo: "Manda il tuo Spirito: tutto sarà ricreato, e rinnoverai la faccia della terra" ( Sal 104,30 ). Solleva in alto la mente; per quanto diffonda ed espanda la sua grazia, rimane sempre immutabile in se stesso. Questo fuoco discese sulla Vergine e la riempì del carisma della grazia. Ma neppure in questo fuoco avvenne l'incarnazione del Verbo, perché aspettava l'assenso della Vergine. Nessuno infatti può concepire Dio nella sua mente se non con l'assenso della mente stessa. Tutto ciò che c'è nell'anima senza il consenso, non può giustificare l'uomo. 17. E finalmente avviene l'incarnazione del Figlio di Dio. "E dopo il fuoco ci fu un soffio, il mormorio di un vento leggero", e lì c'era il Signore. "Ecco la serva del Signore" – questo è il mormorio –, "avvenga di me quello che hai detto". E in quel momento "il Verbo si fece carne" ( Gv 1,14 ). Osserva che il mormorio si fa con le labbra un po' strette. La Vergine Maria "restrinse", diminuì se stessa: la Regina degli angeli si dichiarò serva, e così oggi il Signore guardò all'umiltà della sua serva ( cf. Lc 1,48 ). E questo concorda con ciò che leggiamo nel libro di Giuditta: "Il gran sacerdote Ioakim andò da Gerusalemme a Betulia, per vedere Giuditta" ( Gdt 15,9 ). Ioakim, nome che si interpreta "la sua preparazione", raffigura Gesù Cristo che disse: "Vado a prepararvi un posto" ( Gv 14,2 ), e che "con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario" ( Eb 9,12 ). Egli oggi, dalla Gerusalemme celeste andò a Betulia, nome che significa "casa che partorisce il Signore", cioè dalla beata Vergine Maria, che lo partorì; egli stesso in persona volle vederla, volle in lei abitare e da lei prendere la sua carne. A lui onore e gloria nei secoli eterni. Amen. VI. Sermone morale 18. "Ecco un vento grande e forte". Qui si devono considerare quattro eventi: l'ira del giudice venturo, la sentenza contro i dannati, la geenna di fuoco, la gloria dei beati. L'ira del giudice venturo. Leggiamo in Isaia: "Spirito del giudizio per colui che siede sul trono" ( Is 28,6 ); e "In quel giorno il Signore con la sua spada inflessibile, grande e forte farà vendetta del Leviatan, serpente forte e tortuoso, e ucciderà il drago che sta nel mare" ( Is 27,1 ). La spada raffigura il Figlio, che il Padre brandirà nel giudizio. Una spada brandita fa due cose: produce lampi di splendore e tremolii d'ombra. Così Cristo nel giudizio mostrerà ai giusti la gloria della divinità, e agli ingiusti la forma assunta di uomo, affinché vedano "colui che hanno trafitto" ( Gv 19,37; Ap 1,7 ). Questa spada è inflessibile, perché non si piegherà né per preghiere né a nessun prezzo; grande, perché arriverà a tutti; forte, perché tutto distruggerà. Ecco dunque che nel giorno del giudizio il Padre, nella persona del Figlio, sbaraglierà il Leviatan, cioè il diavolo e i suoi seguaci, colui che è detto serpente per l'astuzia, rigido, cioè inflessibile, per la superbia, tortuoso per l'invidia, drago per le rapine. Così sono anche i suoi seguaci, con i quali il diavolo vive in una familiarità amara, nell'amarezza del peccato. Allora quel vento "spaccherà i monti", cioè i superbi e i potenti di questo mondo, "e frantumerà le pietre", cioè i cuori induriti. 19. La sentenza contro i dannati. "E dopo il vento, il terremoto". Dice Isaia: "Con grande fragore sarà spezzata la terra", cioè il superbo; "con grandi fenditure si spaccherà la terra", cioè l'avaro; "con grandi cataclismi sarà sconvolta la terra", cioè l'iracondo; "come un ubriaco traballerà fortemente la terra", cioè l'ingordo e il lussurioso ( cf. Is 24,19-20 ). Giorno e notte il Signore grida: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati" ( Mt 11,28 ), ma essi non vogliono andare; in quel giorno si sentiranno dire: "Via da me, maledetti!" ( Mt 25,41 ). Quale sarà lo sconvolgimento, lo strepito, il tumulto, il dolore e i gemiti, lo stridore e il pianto, quando quella belva, il diavolo, sarà precipitato nell'inferno insieme con tutti gli empi! 20. La geenna di fuoco. "E dopo il terremoto, il fuoco". "Ecco, il Signore verrà con il fuoco, e le sue quadrighe saranno come il turbine. Riverserà indignato la sua ira, la sua minaccia con fiamme di fuoco: con il fuoco infatti il Signore farà giustizia" ( Is 66,15-16 ). E ancora: "Metterà fuoco e vermi nelle loro carni, saranno bruciati e tormentati in eterno" ( Gdt 16,21 ). 21. La gloria dei beati. "E dopo il fuoco, il soffio, il mormorio di un vento leggero": "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno" ( Mt 25,34 ). Allora il Signore sarà dolce e soave, degno di lode e amabile, pietoso e benigno. Non sarà così però nello spirito di indignazione, nello sconvolgimento della dannazione, nella geenna del fuoco, bensì nel soffio del vento leggero, cioè dell'ineffabile sua misericordia. Dice in proposito Zaccaria: "Con un sibilo li chiamerò a raccolta, perché li ho riscattati" ( Zc 10,8 ). Allora, come dice Isidoro, i santi conosceranno perfettamente quale bene ha loro procurato la grazia, e quale sarebbe stata la loro sorte se la misericordia divina non li avesse scelti gratuitamente, e come sia vero ciò che si canta nel salmo: "Misericordia e giustizia canterò a te, o Signore!" ( Sal 101,1 ). Questo dobbiamo credere con assoluta certezza: nessuno si salverà se non per la misericordia che non gli è dovuta; nessuno si dannerà se non per una condanna che gli è dovuta. Guardiamoci dunque, o carissimi, dal vento della superbia, dal turbamento dell'avarizia e dell'ira, dal fuoco della gola e della lussuria, tutte cose nelle quali non c'è il Signore. Umiliamoci nel soffio, nel mormorio della nostra confessione e della nostra accusa, nella brezza leggera della mansuetudine e della pace, perché qui c'è il Signore. Così nel giorno del giudizio meriteremo di sentirci dire: "Venite, benedetti!" Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. Sermoni festivi I vari codici che riportano gli scritti di sant'Antonio, presentano questi sermoni con le parole: "Sermoni per le varie solennità che si celebrano lungo il corso dell'anno liturgico, e per le feste di alcuni santi, dal Natale del Signore fino alla festa dei santi apostoli Pietro e Paolo". Si tratta di venti sermoni che l'edizione critica in lingua latina raggruppa nel terzo volume. In questa edizione in lingua italiana si è preferito, per la comodità dei lettori, di inserirne alcuni nel loro tempo liturgico, secondo la disposizione del nostro tempo. Sono i sermoni di Natale, di santo Stefano protomartire, di san Giovanni evangelista, dei santi Innocenti, della Circoncisione del Signore, dell'Epifania, dell'Inizio del digiuno ( mercoledì delle Sacre Ceneri ), della Cena del Signore ( Giovedì Santo ), del giorno di Pasqua, delle Rogazioni, della solennità dell'Ascensione e di quella di Pentecoste. Per le due solennità mariane, Purificazione e Annunciazione della beata Vergine Maria, il Santo ha composto un duplice sermone. In questa edizione li abbiamo uniti agli altri quattro, portando così a sei il totale dei Sermoni Mariani. In questa parte del volume sono riportati gli ultimi sei sermoni: la Conversione di san Paolo, la Cattedra di san Pietro, la festa dei santi apostoli Filippo e Giacomo, l'Invenzione della Santa Croce, la Natività di san Giovanni Battista e la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo. Conversione di san Paolo 1. In quel tempo Simon Pietro disse a Gesù "Ecco che noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" ( Mt 19,27 ). In questo vangelo si devono considerare due fatti: - l'eccelsa dignità degli apostoli nel giudizio finale, - la ricompensa di coloro che lasciano le cose transitorie.3 I. L'eccelsa dignità degli aspostoli nel giudizio finale 2 "Ecco che noi abbiamo lasciato tutto". Pietro, "agile corridore, che fa la sua corsa" ( Ger 2,23 ), dice: "Ecco che noi abbiamo lasciato tutto". Pietro, ti sei comportato saggiamente: non potevi certo, carico di pesi, tener dietro a colui che corre. Poco prima aveva sentito il Signore che affermava: "In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli" ( Mt 19,23 ); e quindi per entrarvi con facilità lasciò tutto. Che cosa si intende per "tutto"? Le cose esteriori e quelle interiori, cioè le cose possedute e anche la volontà di possedere, in modo tale che non ci è rimasto assolutamente nulla ( alla lett. nessuna reliquia, dal lat. relinquere, lasciare ). Dice il Signore per bocca di Isaia: "Distruggerò anche il nome di Babilonia, ogni sua reliquia ( resto ), germe e stirpe" ( Is 14,22 ). Il nome di Babilonia sta a indicare i termini che esprimono la proprietà, come mio e tuo. Cristo ha distrutto negli apostoli non soltanto questo nome, ma anche le reliquie della proprietà; e non solo queste, ma anche il germe, cioè la tentazione di avere, e la stirpe, cioè la volontà di possedere. Beati i religiosi nei quali queste cose vengono distrutte, perché a buon diritto anch'essi potranno dire: "Ecco che noi abbiamo lasciato tutto". Guardate gli apostoli che volano. Dice Isaia: "Chi sono costoro che volano come le nubi, e come le colombe alle loro colombaie"? ( lat. ad fenestras, alle finestre ) ( Is 60,8 ). Le nubi sono leggere. Gli apostoli, deposto il peso del mondo, volano leggeri, sulle ali dell'amore, dietro a Gesù. Dice Giobbe: "Conosci tu forse le grandi vie delle nubi e la scienza perfetta?" ( Gb 37,16 ). Grande via è il lasciare tutto: via stretta durante il pellegrinaggio di questa vita, ma larga e grande nel momento della ricompensa. Scienza perfetta è amare Gesù e camminare dietro a lui. Questa fu la via e questa fu la scienza degli apostoli, che come colombe volarono alle loro finestre. "Finestre" è come dire "che portano fuori" ( lat. ferentes extra ). Gli apostoli e gli uomini apostolici, semplici e innocenti come colombe, se ne volarono lontano dalle cose terrene in modo da custodire le finestre dei sensi, per non uscire attraverso di esse a quelle cose esteriori che avevano abbandonato. Per queste finestre è uscita quella colomba senza cuore, che si lasciò sedurre. Racconta la Genesi che Dina, figlia di Giacobbe, uscì a vedere le fanciulle di quella regione. La vide Sichem, che la rapì e violò la sua verginità ( cf. Gen 34,1-2 ). Così l'anima sventurata viene portata all'esterno attraverso i sensi del corpo per vedere le bellezze mondane; e mentre va errando qua e là, con il suo consenso viene rapita dal diavolo, e il risultato è la sua rovina. Quale diversità di volo! Gli apostoli dalle cose terrene volano a quelle celesti; costei dalle cose celesti scende a quelle terrene; questa vola verso il diavolo, quelli verso Cristo. 3. "E ti abbiamo seguìto" ( Mt 19,27 ). Per te abbiamo lasciato tutto, siamo diventati poveri. Ma poiché tu sei ricco, ti abbiamo seguito perché tu renda ricchi anche noi. Sono più miserabili di tutti gli uomini quei religiosi che lasciano tutto, e tuttavia non seguono Cristo. Essi ne hanno un doppio danno: sono privati di ogni consolazione esteriore, e non hanno neppure quella interiore; mentre i mondani, anche se mancano di quelle interiori, hanno almeno le consolazioni esteriori. "Abbiamo seguito te", noi creature abbiamo seguito il Creatore, noi figli il padre, noi bambini la madre, noi affamati il pane, noi sitibondi la sorgente, noi malati il medico, noi stanchi il sostegno, noi esuli il paradiso. "Ti abbiamo seguito": Noi corriamo alla fragranza dei tuoi profumi ( cf. Ct 1,3 ), perché "il profumo dei tuoi unguenti supera tutti gli aromi ( Ct 4,10 ). Si legge nella Storia Naturale che la pantera è un fiera di meravigliosa bellezza e che il suo odore è talmente inebriante da superare ogni altro profumo. Perciò, quando gli altri animali ne fiutano la presenza, subito le si avvicinano e la seguono, perché si sentono rinvigoriti in modo straordinario dalla sua vista e dal suo odore ( Aristotele e Plinio ). Quanto grande sia l'amabilità e la bellezza del Signore nostro Gesù Cristo, lo sperimentano i beati nella patria, ma anche i giusti lo pregustano in qualche misura in questa vita. E quando gli apostoli costatarono la sua amabilità, lasciato tutto, lo seguirono. "Noi ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne otterremo?" ( Mt 19,27 ). Dice Giobbe: "Come coloro che cercano un tesoro, e si rallegrano grandemente quando trovano un sepolcro" ( Gb 3,21-22 ). Il tesoro nel sepolcro è figura di Dio nel corpo assunto dalla Vergine. O apostoli, avete già trovato il tesoro, ormai lo possedete interamente. E che cosa cercate di più? "Che cosa ne otterremo?". E che cosa cosa volete avere ancora? Conservate ciò che avete trovato, perché egli è tutto ciò che cercate. In lui – dice Baruc – c'è la sapienza, la prudenza, la fortezza, l'intelligenza, la longevità e il nutrimento, la luce degli occhi e la pace ( cf. Bar 3,12.14 ). C'è la sapienza che tutto crea; la prudenza con cui governa le cose create, la fortezza con la quale tiene a freno il diavolo, l'intelligenza con la quale tutto penetra, la longevità che rende eterni i salvati, il nutrimento con il quale li sazia, la luce che illumina, la pace che conforta e rassicura. 4. "E Gesù disse loro: In verità vi dico: Voi che mi avete seguito" ( Mt 19,28 ). Il Signore non dice: "Voi che avete lasciato tutto", ma: "Voi che mi avete seguito": ciò che è proprio degli apostoli e dei perfetti. Sono molti quelli che lasciano tutto, ma che tuttavia non seguono Cristo, perché, per così dire, trattengono se stessi. Se vuoi seguire e conseguire, è necessario che tu lasci te stesso. Chi segue un altro nella via, non guarda a se stesso, ma all'altro che ha costituito guida del suo cammino. Lasciare se stesso significa non confidare in sé in nessun caso, ritenersi inutile anche quando si è fatto tutto ciò che è stato comandato ( cf. Lc 17,10 ), disprezzare se stesso come un cane morto o una pulce ( cf. 1 Sam 24,15 ), nel proprio cuore non anteporsi a nessuno, reputarsi peggiore di tutti i più grandi peccatori, considerare tutte le proprie opere buone come un panno di donna immonda ( cf. Is 64,6 ), mettere se stesso davanti a sé e piangersi come morto, umiliarsi profondamente in ogni occasione e abbandonarsi totalmente a Dio. Sentiamo che cosa è promesso a coloro che così si comportano. "Nella nuova creazione" ( lat. in regeneratione ) – la prima rigenerazione avviene nell'anima per mezzo del battesimo; la seconda avverrà nel corpo il giorno del giudizio, quando i morti risorgeranno incorrotti ( cf. 1 Cor 15,52 ) –, "quando il Figlio dell'uomo", cioè Gesù che nella condizione di servo fu sottoposto a giudizio qui in terra, "sarà seduto", eserciterà il suo potere di giudice "sul trono della sua gloria", che è la chiesa, dove sarà manifestata la sua onnipotenza, "sederete anche voi su dodici troni" ( Mt 19,28 ). Se soltanto i dodici apostoli, seduti sui dodici troni, saranno giudici con Cristo nel giorno del giudizio, dove sederà Paolo, "vaso di elezione" ( At 9,15 ), che oggi da lupo è stato trasformato in agnello, che ha faticato più di tutti ( cf. 1 Cor 15,10 ), che fu rapito fino al terzo cielo, dove fu messo a parte di segreti che all'uomo non è lecito rivelare? ( cf. 2 Cor 12,2.4 ). Dove sederà, io mi chiedo, un sì grande uomo, se nel tribunale ci sono per i giudici soltanto dodici troni, dal momento ch'egli afferma: "Non sapete che noi giudicheremo gli angeli?" ( 1 Cor 6,3 ), si intende gli angeli cattivi. Per questo, è necessario sapere che il numero dodici è usato per indicare la pienezza del potere, e che nelle dodici tribù d'Israele sono indicati tutti coloro che dovranno essere sottoposti a giudizio. Ecco dunque che i poveri, insieme con Gesù povero, figlio della Vergine poverella, giudicheranno con giustizia tutto il mondo ( cf. Sal 9,9; Sal 96,13 ). Dice anche Giobbe: "Dio non salva gli empi, e lascerà il giudizio ai poveri" ( Gb 36,6 ). Dice "ai poveri" e non ai ricchi, "la cui gloria costituirà la loro confusione" ( Fil 3,19 ). Infatti saranno confusi, quando vedranno seduti in giudizio con Cristo, e con Cristo giudicare, coloro che un tempo, in questo mondo, avevano deriso e schernito ( cf. Sap 5,3 ). II. Ricompensa di coloro che lasciano i beni terreni 5. La ricompensa di coloro che lasciano i beni terreni è indicata nelle parole: "Chiunque avrà lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, [ o moglie ( Lc 18,29 ) ], o figli, o campi, ecc." ( Mt 19,29 ), avrà cioè posto il mio amore al di sopra di tutti gli affetti terreni. 6. Senso morale. La casa simboleggia l'abitudine cattiva, i fratelli i sensi del corpo, le sorelle i pensieri oziosi della mente, il padre il diavolo, la madre la sensualità, la moglie la vanità del mondo, i figli le opere, il campo le preoccupazioni terrene. Seguendo il procedimento della generazione umana, determiniamo anche quella del peccatore, che da figlio di Dio diventa figlio del diavolo. Dalla suggestione del diavolo e dalla concupiscenza della sensualità, come da due semi, viene generato il peccatore. Infatti è detto in Ezechiele: "Tuo padre è Amorreo, tua madre Cetea" ( Ez 16,3 ). Amorreo s'interpreta "che rende amaro" ( amaricans ). Di quale amarezza sia il diavolo, lo sanno coloro che sono stati contaminati dalla sua dolcezza, che è come il verme ( cf. Is 66,24 ). Nessuno può sentire bene l'amarezza di una cosa, se prima non ha bevuto qualcosa di dolce. Dice Abacuc: "Guai a colui che dà da bere al suo amico, versandogli il fiele e ubriacandolo, per vedere la sua nudità. Sarà ricolmo di ignominia, non di gloria" ( Ab 2,15-16 ). Il diavolo, per ingannare più facilmente e perché il peccatore beva più tranquillo, offre dapprima il miele del piacere, per poi inoculargli l'amarezza della morte mentre il miele viene avidamente sorbito; e così il peccatore, amico del diavolo, viene subito spogliato della grazia di Dio, e nella vita futura, in cambio della gloria del mondo, sarà coperto dell'ignominia dell'inferno. Cetea s'interpreta "schiacciata". E questa è la concupiscenza della carne, che dev'essere schiacciata sotto il giogo dell'umiltà; infatti dice l'Ecclesiastico: "Il giogo e la fune piegano il collo duro, e la fatica continua doma lo schiavo. Per lo schiavo cattivo tortura e catene; fallo faticare perché non stia in ozio, poiché l'ozio insegna molte cattiverie" ( Sir 33,27-29 ). Lo schiavo raffigura la sensualità, la cui protervia si piega con il giogo dell'umiltà, la cui lascivia si frena con il tormento dell'astinenza e la catena dell'obbedienza. Ecco il padre e la madre del peccatore, i cui fratelli sono gli illeciti appetiti dei sensi. Questi sono i fratelli di Giuseppe, che lo calarono in una vecchia cisterna ( cf. Gen 37,20 ). Giuseppe raffigura lo spirito dell'uomo; la vecchia cisterna è il peccato mortale o anche l'inferno. Questi fratelli, come dice Giovanni, vogliono che lo spirito partecipi a questa festa ( cf. Gv 7,8 ), cioè alla gloria delle cose temporali. Di essi dice Giobbe: "I miei fratelli mi sono passati avanti, come il torrente che scorre rapido verso le valli" ( Gb 6,15 ). Verso le valli scendono le immondizie. I sensi della carne corrono vorticosamente verso le valli della gola e della lussuria, senza curarsi della rovina dello spirito. Ci sono poi le "sorelle", così chiamate da seme, perché esse sole con i fratelli fanno parte della stretta parentela. Le sorelle del peccatore sono i pensieri lascivi della mente, che nascono dal seme della suggestione diabolica. Di essi dice Ezechiele: "Ci furono due donne, figlie della stessa madre, che si prostituirono in Egitto. I nomi loro: quello della maggiore Oolla e quello della minore Ooliba" ( Ez 23,2-4 ). Due sono, in modo particolare, i pensieri dei quali per lo più si rende colpevole la mente del peccatore: la bramosia del denaro e il piacere della lussuria, che sono come due sorelle prostitute. E infine la "moglie" del peccatore è la vanità del mondo. E questa è Gezabel, moglie di Acab, della quale leggiamo nel terzo libro dei Re: "Istigato da Gezabel, sua moglie, Acab commise molti abomini, adorando gli idoli" ( 1 Re 21,25-26 ). Gezabel s'interpreta "flusso di sangue", o "sangue che fluisce" o anche "letamaio". E questa è la vanità del mondo, dalla quale scorre il sangue di tutti i peccati, e che nel momento della morte sarà cambiata in letamaio. Si legge infatti nel primo libro dei Maccabei: "La gloria del peccatore è sterco e vermi. Oggi è esaltato, domani non si trova più, perché si è cambiato in terra, e il suo disegno fallirà" ( 1 Mac 2,62-63 ). Questa moglie non permette che il suo uomo se ne stia in pace, ma lo istìga ad adorare gli idoli, cioè a commettere ogni sorta di peccato, e perciò si rende ripugnante a Dio. 7. Dopo che il diavolo ha dato moglie al suo figlio, vuole che da essa generi dei figli, nipoti del diavolo stesso: in essi sono raffigurate le opere vane, inutili, le opere delle tenebre, degne della morte eterna. Dice in proposito Neemia: "Vidi che i Giudei prendevano in moglie donne moabite, e i loro figli parlavano la lingua di Azoto e non sapevano parlare giudaico" cioè ebraico ( Ne 13,23-24 ). Moab s'interpreta "dal padre", Azoto "incendio" o "fuoco". Così anche oggi molti cristiani e religiosi prendono mogli, cioè seguono le vanità del mondo, generate dal diavolo, e da esse generano figli, vale a dire opere che non sanno parlare giudaico, non sanno cioè lodare Dio, ma parlano solo la lingua di Azoto, coltivano cioè l'incendio della gola e della lussuria e il fuoco dell'avarizia. Ecco "la generazione iniqua e perversa" ( Dt 32,5 ), alla quale il diavolo fornisce la casa delle cattive abitudini. Questa è la casa e la fornace di ferro dell'Egitto di cui dice l'Esodo: "Ricordatevi di questo giorno nel quale siete usciti dall'Egitto e dalla casa della schiavitù" ( Es 13,3 ). Il giorno è il sole che splende sulla terra; il sole è la grazia di Dio la quale, mentre illumina la mente, libera dalla schiavitù delle cattive abitudini. Il peccatore già liberato deve ricordarsi di "questo giorno" e renderne sempre grazie a Dio. Il diavolo dà anche i campi delle preoccupazioni terrene. Campo si dice in lat. ager, perché in esso si lavora, lat. àgitur. Dice la Genesi: "Caino disse ad Abele, suo fratello: Andiamo fuori. Quando furono nel campo, Caino si avventò su Abele e lo uccise" ( Gen 4,8 ). Caino s'interpreta "possesso", Abele "pianto". Nel campo delle preoccupazioni terrene, il possesso delle ricchezze uccide il pianto della penitenza. Questo è l'Akeldamà, vale a dire il campo del sangue ( At 1,19 ). Matteo però dice campi ( Mt 19,29 ), e non campo, proprio per il grande numero delle preoccupazioni materiali. Coloro, dunque, che avranno lasciato tutte queste cose, in questo mondo riceveranno il centuplo, cioè i beni spirituali i quali, paragonati ai beni materiali, e soprattutto per il loro valore intrinseco, sono come il numero cento paragonato a un numeretto. Dice Marco: "Riceverà cento volte tanto nella vita presente, con persecuzioni", cioè in questa vita piena di persecuzioni, "e nell'aldilà la vita eterna" ( Mc 10,30 ). Al possesso di questa vita ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen. III. Sermone allegorico 8. Giuseppe comandò che sulla bocca del sacco del fratello più giovane, Beniamino, fosse posta la sua coppa d'argento ( cf. Gen 44,1-2 ). Troviamo un riferimento a queste parole nel libro dei Proverbi: "Argento pregiato è la lingua del giusto" ( Pr 10,20 ). Beniamino fu dapprima chiamato Ben-oni, cioè "figlio del mio dolore", e solo in seguito Beniamino, vale a dire "figlio della destra" ( cf. Gen 35,18 ). Egli è figura del beato Paolo il quale, scrivendo ai Filippesi, dice di se stesso: "Io, circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto all'osservanza della legge; quanto a zelo, persecutore della chiesa di Dio" ( Fil 3,5-6 ). Ecco Benoni. Prima fu infatti figlio del dolore, e solo dopo figlio della destra. Dicono gli Atti: "Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore …" ( At 9,1 ). Saulo s'interpreta "tentazione". Dove c'è tentazione c'è dolore. Senti la tentazione e il dolore: "Saulo intanto imperversava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione" ( At 8,3 ). Il Capo della chiesa era in cielo, i piedi camminavano sulla terra, e Saulo li calpestava, li opprimeva. Per questo il Capo dal cielo gridava: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" ( At 9,4; At 22,7 ). Saulo tentava, e il Capo soffriva e gridava: Tentazione, tentazione, perché mi perseguiti? E che cosa ne ricaverai? Ecco, ne ricaverai che per una sola persecuzione sarai battuto cinque volte con le verghe, ricevendo ogni volta quaranta colpi meno uno ( cf. 2 Cor 11,24 ). Subirai anche tu le tentazioni "nei numerosi viaggi, con pericoli di fiumi e pericoli di briganti" ( 2 Cor 11,26 ). Sei figlio del dolore, e dolore dovrai sostenere perché tre volte sarai flagellato, una volta lapidato e tre volte farai naufragio ( cf. 2 Cor 11,25 ). Abbiamo sentito di Benoni, sentiamo anche di Beniamino, e come il figlio del dolore sia stato oggi cambiato nel figlio della destra: quella Destra che oggi ha abbattuto il lupo e l'ha fatto rialzare agnello. Racconta Luca: "E mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo. Cadde in terra e udì una voce che gli diceva" in ebraico: "Saulo, Saulo! …", ecc. ( At 9,3-4 ). Destra suona, in latino, quasi come dans extra "che dà fuori". La destra dell'Onnipotente "diede fuori" un tale colpo sul duro collo del rinoceronte, che lo fece cadere a terra. "Lo avvolse" in pieno giorno "una luce dal cielo" che superava lo splendore del sole. O pietoso e benigno intervento della Destra! Tu colpisci con il flagello della luce, rimproveri con voce accorata: "Perché mi perseguiti?" ( At 9,4 ). Oggi si è avverato ciò che era scritto: "La destra del Signore ha fatto meraviglie!" ( Sal 118,16 ). La destra del Signore, abbattendo il persecutore Saulo lo ha esaltato, poiché del lupo ha fatto un agnello, del persecutore della chiesa un suo predicatore. 9. "La destra del Signore ha operato meraviglie", quando sulla bocca del sacco ha riposto la sua coppa d'argento. "Va', Anania, poiché costui è per me un vaso di elezione, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d'Israele" ( At 9,15 ). La coppa d'argento è figura della sapienza luminosa ed eloquente, che Giuseppe, cioè Cristo, pose come speciale prerogativa nel cuore e nella bocca del più giovane Beniamino, cioè del beato Paolo. Beniamino era il più piccolo e l'ultimo tra i suoi fratelli; e Paolo, nella prima lettera ai Corinzi dice: "Ultimo fra tutti, il Signore apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il "minimo", l'infimo degli apostoli e non sono neppure degno di essere chiamato apostolo", ecc. ( 1 Cor 15,8-9 ). Minimo è un termine che viene da mònade ( l'unità ), perché non c'è numero più piccolo dell'unità. O umiltà del minimo! Egli non si gloria, non si esalta per il dono della sapienza e dell'eloquenza, non per la grandezza delle rivelazioni e dei miracoli, non degli arcani segreti che ha udito, ma piange su se stesso per la persecuzione che ha scatenato contro la chiesa. "Io non sono neppure degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio" ( 1 Cor 15,9 ). Guai a noi miseri, che nascondiamo ai nostri occhi i nostri numerosi peccati per non vederli; e se una sola cosa buona abbiamo fatto, che è quasi niente, ce la mettiamo davanti agli occhi e la ostentiamo agli altri. Dovremmo fare invece come fanno i "ribaldi" che, quando vogliono guadagnare qualcosa, nascondono le vesti buone, se ne hanno, e ostentano la loro nudità e la loro miseria ai ricchi di questo mondo. Così anche noi, se abbiamo fatto del bene, teniamolo nascosto, e mostriamo invece le miserie della nostra debolezza per ricevere dal Signore il dono della sua grazia. Rendiamo grazie a Gesù Nazareno che oggi, da un persecutore, ci ha dato un mirabile dottore, con la cui dottrina ci illumina. Sia egli benedetto nei secoli dei secoli. Amen. IV. Sermone morale 10. Giuseppe comandò che alla bocca del sacco di Beniamino fosse posta la sua coppa d'argento. Vediamo quale significato morale abbiano Beniamino, il suo sacco, la bocca del sacco e la coppa d'argento. Beniamino è figura del peccatore, che dapprima è figlio del dolore: "Ho sempre dinanzi a me il mio dolore" ( Sal 38,18 ). Fa' attenzione che dice: dinanzi a me. Raccontano che lo struzzo tiene le sue uova davanti a sé, le guarda fissamente e di continuo e fissandole le riscalda, e così le uova si schiudono e nascono i pulcini. Così il peccatore deve tenere sempre dinanzi alla mente le sue opere, esaminarle spesso e attentamente con dolore, per far germogliare da esse il frutto della penitenza. Chi mette se stesso davanti a sé, non trova in se stesso altro che dolore. Invece i miseri peccatori fanno come le scimmie, delle quali dice la Storia Naturale che quando c'è la luna piena saltano allegramente, e quando la luna è cornuta ( calante o crescente ) allora sono malinconiche; reggono sul davanti i piccoli che amano, sul dorso invece quelli che non amano. Il capriccio della fortuna cambia come l'aspetto della luna: cresce e cala, e non può mai restare la stessa. Quando la fortuna del mondo è come la luna piena, allora i carnali esultano. Leggiamo nel libro di Giobbe: "Si divertono con giochi, cantano al suono di timpani e cetre, e danzano al suono degli strumenti. Passano nei godimenti i loro giorni, ma poi in un punto ( in un istante ) sprofondano nell'inferno" ( Gb 21,11-13 ). Punto deriva da pungere. Nell'ora della morte i mondani saranno punti dal diavolo talmente forte, che dal letto, nel quale stanno sdraiati, saranno costretti a fare un salto fin giù all'inferno. Quando infatti la fortuna presenta loro "i corni" delle avversità, cadono nella tristezza, perché le avversità deprimono, mentre la prosperità esalta. Costoro portano nel petto i figli, cioè la gloria del mondo, i piaceri della gola e la lussuria della carne, cose che amano; invece la sofferenza, la penitenza e le miserie di questa vita le tengono dietro le spalle, dove nulla vedono. Ma sentiamo che cosa fa Benoni. "Il mio dolore è sempre dinanzi a me". Poiché ama il dolore, lo tiene sempre dinanzi a sé, e in esso si esamina come in uno specchio e scopre le sue macchie. Dice Geremia: "Fatti un punto di osservazione, mettiti nell'amarezza e dirigi il tuo cuore sulla via retta" ( Ger 31,21 ). Una cosa deriva dall'altra: Chi mette davanti a sé lo specchio della sua vita, si mette nell'amarezza, e necessariamente orienta il suo cuore sulla via delle buone opere. Colui che in questo modo sarà Benoni, diventerà Beniamino, cioè figlio della destra. 11. Fa' attenzione, perché la destra è figura di due cose: della grazia nella vita presente, e della gloria in quella futura. Della destra della grazia si dice nell'Apocalisse: "E teneva nella sua destra sette stelle" ( Ap 1,16 ). Queste sette stelle sono presentate nella lettura della messa, quando si legge di Saulo: All'improvviso lo avvolse una luce dal cielo, cadde a terra, si alzò ed entrò in città, ricuperò la vista, ricevette il battesimo, prese cibo, e predicò Gesù ( cf. At 9,3-20 passim ). Nel primo evento è indicata la grazia che previene, nel secondo la considerazione della fragilità, nel terzo il riconoscimento della propria iniquità, nel quarto la purificazione della coscienza, nel quinto l'effusione delle lacrime, nel sesto la dolcezza della contemplazione, nel settimo l'annuncio della Parola o anche il rendimento di grazie. Consideriamoli ad uno ad uno. Quando il peccatore si avvia verso Damasco, nome che s'interpreta "bevanda di sangue", tende cioè ad assimilare la nefandezza del peccato, all'improvviso, poiché non sa da dove viene e dove va, "lo avvolge una luce dal cielo", della quale Giobbe dice: Indicami in quale via abita la luce, e dove hanno dimora le tenebre, perché tu le conduca ai loro luoghi ( cf. Gb 38,18-20 ). La luce è la grazia; la dimora delle tenebre è la mente cieca del peccatore; il luogo del peccato è la fine, il termine. Quando la mente del peccatore viene illuminata dalla grazia, si pone fine al peccato. "Cadde a terra". Dice il salmo: "Al suo cospetto cadranno tutti coloro che discendono nella terra" ( Sal 22,30 ). Come dicesse: Al cospetto di Dio si umilia colui che considera la sua fragilità. "Entra in città". Dice il salmo: "Tutto il giorno entravo pieno di tristezza" ( Sal 38,7 ). All'esterno lotte, all'interno colpe e timori ( cf. 2 Cor 7,5 ). Se uno, quando è fuori casa, riceve un'offesa, e poi rientrando trovasse la casa sudicia e in disordine, forse che non ne sarebbe profondamente addolorato e rattristato? Non c'è dubbio. Così il penitente, considerando l'immondezza esteriore del mondo e riconoscendo anche quella interiore della sua coscienza, si aggira tutto il giorno ricolmo di tristezza. Fa' attenzione che dice "tutto il giorno". Prima che un raggio di sole entri nella casa, non è visibile al suo interno la polvere sospesa nell'aria; ma se vi entra un raggio di sole, l'aria si mostra subito piena di polvere. Il raggio di sole è la conoscenza che mostra all'uomo le colpe della sua coscienza, e mette in evidenza con grande chiarezza ciò che prima era nascosto. E poiché uno deve rientrare in se stesso non ogni tanto ma continuamente, e rattristarsi del suo stato, dice appunto "tutto il giorno". Chi vuol conoscere la sua miseria in modo completo, deve entrare in se stesso e rattristarsi non per metà giornata, ma tutto il giorno. E poiché da questa tristezza si arriva all'emendazione della coscienza, ecco il quarto punto: "Ricuperò la vista". "Improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame ( At 9,18 ). Abbiamo un riferimento a questo nel libro di Tobia: "Incominciò ad uscire dai suoi occhi una materia bianca simile alla membrana dell'uovo. Tobi, prendendola, la tolse dagli occhi di suo padre, e questi ricuperò la vista" ( Tb 11,14-15 ). Le squame sono figura dell'impurità della mente, e la membrana dell'uovo simboleggia la vanagloria. Dice Geremia: "Le sue vergini sono rugose" ( Lam 1,4 ), cioè scabbiose. La scabbia nell'uomo è paragonabile alle squame del pesce o del serpente. Come dicesse: Anche se sono vergini nel corpo, sono scabbiose a motivo dell'immondo eccitamento della fantasia. La membrana dell'uovo, che è sottile e candida, raffigura la vanagloria, che è molto sottile, cioè astuta, perché quando sembra che qualcosa venga fatto per devozione, vien fatto invece per brama di lode mondana; è candida perché si compiace solo dell'apparenza esteriore. "Candido" è un termine che insinua l'idea di una bianchezza artificiale ( candeggiato ), mentre con il termine "bianco" si indica la bianchezza naturale. Queste due colpe, l'impurità della mente e la vanagloria, accecano gli uomini, ma quando, con la grazia di Dio, vengono rimosse, la coscienza viene purificata e si ricupera la vista. "Ricevette il battesimo". Si legge nel ibro di Giuditta che questa "usciva di notte nella valle sotto Betulia, e si lavava ( lat. baptizabat se ) ad una sorgente d'acqua" ( Gdt 12,7 ). Giuditta si interpreta "che confessa", Betulia "casa che partorisce il Signore", notte "tempo silenzioso", valle "umiltà", sorgente "lacrime". Chi si confessa, cioè il penitente, esce dal tumulto interiore ed esteriore, esce di notte ( alla lettera ), oppure nel silenzio, nella valle sotto Betulia, nell'umiltà della coscienza, con la quale partorisce il Signore, per sé nella contrizione, per gli altri con la predicazione, e lì si battezza, si lava, nella compunzione delle lacrime. "Prese cibo". Dice l'Ecclesiastico: "Lo nutrirà con pane di vita e di intelligenza" ( Sir 15,3 ). Considera che c'è una duplice dolcezza nella contemplazione: la prima è nel sentimento e appartiene alla vita, la seconda è nell'intelletto e appartiene al sapere. Questa seconda avviene con l'elevazione della mente, mentre la prima si verifica in una specie di alienazione della mente. L'elevazione della mente si ha quando l'acutezza dell'intelligenza, illuminata da Dio, trascende i traguardi delle umane capacità, senza però arrivare all'alienazione della mente, così che ciò che vede è al di sopra di se stessa, tuttavia non si allontana del tutto dalle cose abituali. L'alienazione della mente si ha quando la memoria [ il ricordo ] delle cose presenti abbandona la mente e, trasfigurata dall'intervento divino, passa in un certo stato d'animo straordinario e inaccessibile all'umana capacità. Chi è ristorato con tale cibo è in grado, ben rinfrancato, "di predicare Gesù", oppure anche rendergli grazie. Infatti, dice il salmo: "I poveri mangeranno e saranno saziati e canteranno lodi al Signore" ( Sal 22,27 ). I poveri, cioè gli umili, prima mangeranno con l'intelligenza, e quindi saranno saziati nell'affetto, nel sentimento, e così canteranno lodi al Signore. Queste sono dunque le sette stelle che stanno nella destra di Cristo, il cui figlio è ora Beniamino, poiché prima è stato Benoni. 12. Beniamino è detto "più giovane", perché era il minore, l'ultimo di tutti i fratelli: in questo è indicata l'umiltà del penitente. La stessa cosa è detta anche di Davide: "Rimane ancora il più piccolo, che ora sta pascolando le pecore" ( 1 Sam 16,11 ). Soltanto l'umiltà della coscienza pascola le pecore dell'innocenza. Nella bocca del sacco di questo Beniamino, l'antico Giuseppe comandò che fosse posta la sua coppa d'argento. La coppa d'argento simboleggia l'aperta ed esplicita confessione dei peccati, che il penitente deve riempire con il vino della compunzione ed offrire a Cristo. Dice infatti Neemia: "Alzai la coppa del vino e l'offrii al re. Mi sentivo quasi languire e venir meno alla sua presenza" ( Ne 2,1 ). E la sposa del Cantico dei Cantici: "Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme", cioè potenze celesti, "se incontrate il mio diletto, ditegli che io languisco di amore" ( Ct 5,8 ). Chi languisce di amore per Cristo, gli offre il vino della compunzione. E osserva che dice "alzai". L'ipocrita non alza, non aumenta la compunzione, ma la reprime, perché lui sparge lacrime solo per la vanagloria. Questa coppa d'argento è posta sulla bocca, e non sul fondo del sacco. Il sacco è ispido e ruvido, ed è figura del cuore contrito, di cui nel libro di Giona si dice che il re di Ninive "si vestì di sacco e si mise a sedere sulla cenere" ( Gn 3,6 ). Ninive s'interpreta "appariscente". E questa è la vanità del mondo, che è come il fango coperto di neve; il suo re è il penitente, perché egli la disprezza: vestito di sacco, siede sulla cenere perché, nella contrizione del cuore, medita sulla sua fine, quando sarà ridotto in cenere. Egli non nasconde nel fondo, ma porta alla bocca la coppa d'argento della sua confessione, sempre pronto all'accusa di se stesso. E osserva che dice "la sua coppa". La grazia della confessione non devi attribuirla a te stesso ma a Cristo, dal quale viene quanto c'è in te di bene. A lui dunque sia gloria e onore. Egli da un Benoni trae un Beniamino, da un figlio del dolore trae nella vita presente un figlio della grazia, e ne fa nella vita futura un figlio della gloria, quando, insieme con coloro che stanno alla destra, meriterà di sentire: Venite, benedetti del Padre mio, e ricevete il regno! ( cf. Mt 25,34 ). Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Cattedra di san Pietro 1. In quel tempo: "Gesù arrivò dalle parti di Cesarea di Filippo" ( Mt 16,13 ). In questo vangelo si devono considerare tre momenti: - l'interrogazione di Gesù Cristo, - la professione di fede di Pietro, - il conferimento del potere di legare e di sciogliere. I. L'interrogazione di Gesù Cristo 2. In questa prima parte sono posti in evidenza due insegnamenti morali: la vita santa e la buona fama. Prima però vediamo la storia, ossia l'allegoria. Cesarea di Filippo è situata nel territorio dove nasce il Giordano, ai piedi del Libano, e ha due sorgenti, lo Ior e il Dan, che unite insieme formano il nome del Giordano ( Iordan ). Giunse dunque Gesù "e interrogò i suoi discepoli". Mentre si appresta a verificare la fede dei discepoli, il Signore si informa sulle opinioni della gente, perché la fede degli apostoli non sembri frutto delle credenze della gente, ma sia fondata sulla conoscenza della verità. "Gli uomini, chi dicono che sia il Figlio dell'uomo?" ( Mt 16,13 ). Giustamente sono chiamati uomini coloro che, come succede di solito al mondo, hanno opinioni diverse sul Signore. "Chi dicono che sia il Figlio dell'uomo?". Il Signore non dice "io", per non dare l'impressione di parlare con arroganza: egli dichiara apertamente l'umiliazione della sua umanità. "Essi risposero: Alcuni dicono [ che tu sei ] Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti" ( Mt 16,14 ). L'idea che Gesù fosse Giovanni il Battista, nasceva forse dal fatto che quest'ultimo, quando era ancora nel grembo della madre, aveva avvertito la presenza del Signore ( cf. Lc 1,41.44 ); che fosse Elia, perché questi era stato rapito in cielo ( cf. 2 Re 2,11 ), e perché si credeva che sarebbe ritornato sulla terra ( cf. Mt 17,10-11 ); che fosse Geremia, perché era stato santificato nel grembo materno ( cf. Ger 1,5 ). 3. "Giunse Gesù dalle parti di Cesarea", nome che s'interpreta "proprietà del principe" o "proprietà principale"; "di Filippo", nome che s'interpreta "bocca della lampada". Giunse Gesù; vieni anche tu, o cristiano, dalle parti di Cesarea. Si dice principe, perché per primo si impadronisce ( primus capit ) di un luogo o di una dignità: è lo spirito dell'uomo, la cui proprietà è il corpo, e nel quale lo spirito deve tenere il primo posto e il più alto potere. Dice Isaia: "Il principe penserà sempre a cose degne di un principe e starà a capo dei suoi condottieri" ( Is 32,8 ). Fa' attenzione alle due parole: penserà e starà. Ecco il potere e il posto che il primo deve tenere. Quali sono le cose degne di un principe, alle quali devi pensare, o principe, "o spirito dell'uomo", se non ritornare a te stesso, rientrare nel tuo cuore e lì riflettere: che cosa sei, che cosa sei stato, che cosa saresti dovuto essere, che cosa potrai essere? Che cosa sei stato per tua natura, e che cosa sei ora per causa della colpa, che cosa saresti dovuto essere con il tuo impegno, e che cosa ancora potrai essere con la grazia di Dio. I condottieri sono gli affetti, i sentimenti e i pensieri, a capo dei quali deve stare il principe, per poterli dominare e dirigere, per far loro evitare l'illecita concupiscenza e le inutili distrazioni. "Giunse dalle parti …". Nelle "parti" sono indicati i sensi del corpo, nei quali viene o entra lo spirito dell'uomo, quando dice a questo: va', ed esso va; e dice a quello: vieni, ed esso viene; e al suo servo, cioè al corpo: fa' questo, e il corpo lo fa ( cf. Mt 8,9 ). E osserva che questo principe, al quale appartiene la proprietà, viene chiamato "bocca della lampada". Nella lampada ci sono quattro componenti: il vetro lucente, l'olio che brucia, lo stoppino, e la fiamma. Nel vetro è simboleggiata la purezza della coscienza; nell'olio la partecipazione alle necessità dei fratelli; nello stoppino l'acerbità della contrizione; nella fiamma l'ardore dell'amore divino. Fortunato quello spirito, fortunato quel cristiano che è la bocca di questa lampada, in modo che quando parla, parli mosso dalla purezza della coscienza, dalla compassione, dalla contrizione e dall'amore di Dio. E osserva ancora che Cesarea, cioè la nostra carne, dev'essere situata ai piedi [ alle radici ] del Libano, là dove nasce il Giordano. Il monte Libano, nome che s'interpreta "candore", simboleggia l'eccellenza della castità, la cui radice è l'umiltà, e dalla quale scaturiscono due sorgenti: Ior, che significa "fiume", e Dan, che vuol dire "giudizio": uniti insieme formato il Giordano, cioè il fiume del giudizio, vale a dire la compunzione delle lacrime, nelle quali l'umiltà giudica se stessa e condanna ciò che ha fatto di male. Ecco quanto grande è il valore dell'umiltà, dalla quale si innalza il monte della castità e scaturisce il fiume della compunzione. Colui che in questo modo giunge dalle parti di Cesarea di Filippo, può a buon diritto interrogare i suoi discepoli, dicendo: "Gli uomini chi dicono che sia il Figlio dell'uomo? 4. Il termine discepolo, deriva dal fatto che impara ( lat. discit ) la disciplina. Colui che è buono in se stesso, ha e deve aver la sua famiglia bene disciplinata e onesta, per poter dire con Davide: "I miei occhi sono rivolti ai fedeli della terra, perché siedano con me" ( Sal 101,6 ). Ognuno gradisce la compagnia di coloro che sono simili a lui. E poiché è cinico e spregiudicato uno che non tiene conto del suo onore, ecco che domanda e vuole essere informato su ciò che gli uomini dicono di lui, anche per correggere ciò che eventualmente non va bene. E poiché dalla stima di santità della vita e dalla buona fama proviene di solito l'autoesaltazione, ecco che si dichiara figlio dell'uomo. Dice Giobbe: "L'uomo è putridume, e il figlio dell'uomo verme" ( Gb 25,6 ). Come dicesse: Da putridume proviene putridume. Perciò il Signore, quando rivelava ad Ezechiele cose grandiose, lo chiamava figlio dell'uomo perché non andasse in superbia ( cf. Ez passim ). Colui che si ritiene un verme, non si insuperbisce certo di se stesso. Ecco perciò che domanda: Che cosa dicono gli uomini di me, verme e putridume? Voglia il cielo che gli venga risposto: "Alcuni ( dicono che tu sia ) Giovanni il Battista". Giovanni l'Evangelista e Giovanni il Battista: compito del primo è annunciare, del secondo battezzare, lavare. La prima cosa è buona, la seconda è più sicura, perché, per quanto riguarda la verità, c'è più sicurezza nell'ascoltarla che nel predicarla. Parimenti, l'evangelizzatore è uno che prega solo con la parola, mentre il battezzatore è colui che nel silenzio e nella devozione della mente fa di sé a se stesso un battistero ( una fonte ) di lacrime: questa è di gran lunga cosa migliore di quella. In costui si avvera ciò che è detto del Battista: "Non berrà né vino né altra bevanda inebriante" ( Lc 1,15 ). Il vino raffigura la vanagloria e le altre bevande inebrianti la fatua allegria: tutto ciò non beve colui che non cerca le lodi degli uomini. "Altri dicono che tu sia Elia". Si legge nel quarto libro dei Re che Elia "era peloso e che si cingeva le reni ( i fianchi ) con una cintura di cuoio" ( 2 Re 1,8 ). Ecco la veste di chi fa penitenza, di chi disprezza il mondo e castiga la sua carne. Elia s'interpreta "robusto dominatore". Infatti si legge di lui che prese i profeti di Baal, li trascinò fino al torrente Cison, ove li trucidò ( cf. 1 Re 18,40 ). Baal s'interpreta "divoratore", Cison "uomo che vomita dolore". Elia è figura del penitente, che si lascia coprire di pelo a disprezzo della gloria del mondo, che si cinge le reni per combattere la lussuria della carne. Egli, come un forte dominatore, afferra i profeti del ventre che tutto divora. Il ventre ha dei profeti che predicano all'uomo: Perché digiuni così? Perché ti tormenti in questo modo? Andrai incontro a malattie; ti ridurrai a tale debolezza che non potrai più aiutare né te stesso né gli altri! Di questi profeti dice Geremia: "I tuoi profeti hanno avuto a tuo riguardo visioni false" ( Lam 2,14 ). Invece il penitente li afferra con la contrizione e li trascina a una lacrimosa confessione, dove vomita tutto il dolore della tentazione e del peccato, e così li stermina. "Altri dicono che tu sia Geremia", al quale il Signore disse: "Ecco, io oggi ti costituisco … per sradicare" ciò che è illecitamente piantato, "per demolire" ciò che è mal costruito, "per disperdere" ciò che è ingiustamente ammassato, "perché tu dissipi" la siepe "e edifichi" la casa, "e pianti un giardino" ( Ger 1,10 ). La concupiscenza della carne pianta illecitamente, poiché dice il Deuteronomio: Non pianterai alcun boschetto accanto all'altare del tuo Dio ( cf. Dt 16,21 ); e l'Apostolo: Noi abbiamo un altare, del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio del tabernacolo ( cf. Eb 13,10 ), cioè del corpo. Si legge nel terzo libro dei Re: "Acab parlò a Nabot dicendo: Dammi la tua vigna perché ne vorrei fare un orto di verdure" ( 1 Re 21,2 ). Acab raffigura il diavolo, Nabot il giusto; la vigna è la compunzione, l'orto di verdure è la concupiscenza della gola e della lussuria. Il diavolo vuole togliere al giusto la compunzione della mente e piantare la concupiscenza della carne. Anche la superbia costruisce male: "Chi si costruisce la casa troppo alta, cerca la rovina" ( Pr 17,16 ). L'avarizia accumula con l'ingiustizia, con l'imbroglio: "Guai a chi accumula i frutti dell'avarizia, dannosa alla sua casa, per farsi in alto il suo nido e credere così di sfuggire alla stretta ( de manu ) della sventura" ( Ab 2,9 ). L'avaro accumula allo scopo di costruirsi molto in alto il suo nido, elevare cioè la sua condizione e quella dei suoi. Ma quando crede di essere al sicuro, il diavolo gli tende la trappola e prende il padre con i suoi piccoli, cioè l'avaro con i suoi figli, e tutti li porta alla morte. Così pure l'ostinazione costruisce una siepe: "I tuoi piccoli sono come le tenere locuste che si rifugiano tra le siepi nel giorno del gelo" ( Na 3,17 ). Le locuste raffigurano gli usurai, che insegnano anche ai loro figli a praticare l'usura e a saltare, per così dire, di usura in usura. Questi, nel gelo della loro cattiveria, si rifugiano nelle siepi della loro ostinazione, perché non vogliono né restituire le cose altrui né ritornare alla penitenza. È veramente Geremia, cioè grande davanti al Signore, colui che estirpa queste quattro ingiustizie non solo da se stesso ma anche dagli altri, e costruisce la casa dell'umiltà nella quale possa riposare Dio, e pianta l'orto della carità nel quale Dio possa pascersi. Della casa dell'umiltà parla il Signore, quando dice: "Zaccheo, affrettati a scendere, perché oggi io devo fermarmi in casa tua" ( Lc 19,5 ). Nella casa di colui che discende, cioè di colui che si umilia nella sua coscienza, dimora la grazia dell'Onnipotente. Del giardino della carità dice la sposa del Cantico dei Cantici: "Il mio diletto venga nel suo giardino e mangi i frutti delle sue piante" ( Ct 5,1 ). Dice che il giardino e i suoi frutti appartengono al suo diletto, perché tutto ciò che vi è piantato e vi cresce, proviene solo dalla grazia di Cristo. I frutti sono le opere di carità, delle quali Cristo si nutre ogni volta che vengono fatte per il prossimo. "Avevo fame, e mi avete dato da mangiare" ( Mt 25,35 ). "Dicono che tu sia uno dei profeti". Compito dei profeti è predire le cose future. È un buon profeta colui che predice a se stesso la fine della sua vita, la venuta del giudice e il premio del regno celeste. Beato colui che viene onorato di questa reputazione, colui al quale è tributata tale testimonianza di vita, da essere ritenuto Giovanni il Battista per la sua devozione, Elia per la mortificazione della carne, Geremia per la distruzione dei vizi e l'incremento delle virtù, uno dei profeti per la retta chiaroveggenza delle cose future. II. La professione di fede di Pietro 5. "Gesù disse loro: "Voi invece chi dite che io sia?" ( Mt 16,15 ). Come dicesse: Quelli sono uomini, e hanno opinioni umane; voi invece, che siete dèi ( cf. Sal 82,6 ), chi dite che io sia? "Rispose Pietro", uno per tutti, perché tutti sapevano una cosa sola: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" ( Mt 16,16 ). In questa professione di fede, Pietro ha abbracciato la natura umana e quella divina. Cristo infatti è chiamato così da crisma, e significa unto, consacrato, perché in quanto uomo è unto e consacrato da Dio Padre con lo Spirito Santo. "O Dio figlio, ti ha consacrato Dio, Padre tuo" ( Sal 45,8 ). E Isaia: "Questo dice il Signore al suo consacrato, Ciro" ( Is 45,1 ). Ciro s'interpreta "erede", cioè figlio. Di chi? "Del Dio vivente". Osserva che il crisma si confeziona con il balsamo. Dice la Storia Naturale che il luogo dove cresce la pianta del balsamo si chiama "occhio del sole", e la pianta è detta "vite", perché con la vite ha delle somiglianze; la sua linfa elimina la cateratta dell'occhio e calma i brividi della febbre. Quando si estrae il suo liquido, la pianta viene incisa solo nella corteccia, e da essa scaturiscono delle gocce di squisita fragranza. La generazione di Cristo è duplice: la prima è la generazione della divinità, la seconda è quella dell'umanità, ed entrambe sono l'occhio del sole. Della generazione della divinità dice Isaia: "La sua generazione chi la descriverà?" ( Is 53,8 ). E Giobbe: "Da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? È nascosta agli occhi di ogni vivente ed è nascosta anche agli uccelli del cielo" ( Gb 28,20-21 ), cioè agli stessi angeli è ignota la generazione di Cristo dal Padre. Dice infatti l'Ecclesiastico: "A chi mai fu rivelata la radice della sapienza?" ( Sir 1,6 ), vale a dire l'origine del Figlio di Dio? E quindi, ciò che è al di sopra dell'intelligenza e della conoscenza degli angeli, quale uomo potrà descriverlo? Dice Isidoro: È chiaro che solo il Padre sa come ha generato il Figlio, e solo il Figlio sa come è stato generato dal Padre. Cristo infatti rifulse dal Padre come luce da luce, come parola dalla bocca, come sapienza dal cuore. Ecco dunque che la generazione della divinità è detta "occhio del sole", perché illumina tutta la chiesa trionfante, la celeste Gerusalemme. Dice l'Apocalisse: "La luce di Dio la illumina, e la sua lampada è l'Agnello" ( Ap 21,23 ). La generazione dell'umanità è detta occhio del sole, perché con la fede nella sua incarnazione illumina tutta la chiesa militante. Leggiamo in Zaccaria: "Il Signore è l'occhio dell'uomo e di tutte le tribù d'Israele" ( Zc 9,1 ). Israele s'interpreta "uomo che vede Dio". Quanto credi, tanto vedi. "Era la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo" ( Gv 1,9 ), non perché illumini ogni uomo, ma perché nessuno può essere illuminato se non da lui. Ogni uomo che nasce in questo mondo, viene illuminato in ordine alla vita eterna unicamente per mezzo della fede in Cristo, il quale dice: "Io sono la vera vite" ( Gv 15,1 ). 6. La vite è così chiamata in quanto ha la forza ( lat. vis ) di metter radice rapidamente, o anche perché le viti si allacciano tra loro. Dice la Storia Naturale che la vite abbonda di rami, con i quali si lega ai rami di un'altra pianta attorcigliandosi ad essi. Ed è una proprietà esclusiva della vite, tra tutte le altre piante, che in un nodo del suo ramo si forma da una parte la foglia e dall'altra il grappolo pieno di uva; ed è pure caratteristica della vite che i cavoli, piantati in vicinanza della sua radice, la fanno inaridire. La vite simboleggia la fede in Cristo, che ha la virtù di radicarsi velocemente nel cuore dell'uomo. Radicati e fondati – dice l'Apostolo – in Cristo Gesù ( cf. Ef 3,17 ). Essa allarga i rami della carità e lega a sé anche altri; da una parte ha la foglia della predicazione e dall'altra il grappolo dell'opera buona, pieno del mosto dell'amore. I cavoli, cioè le preoccupazioni temporali e le lusinghe della carne, inaridiscono la linfa, il sentimento della fede. Inoltre la pianta del balsamo viene incisa solo nella corteccia. La corteccia è figura dell'umanità di Cristo, dalla cui ferita scaturì una linfa di meravigliosa fragranza, cioè il suo sangue prezioso, che elimina dall'occhio del cuore la cateratta del dubbio e dell'infedeltà, e libera dai brividi delle febbri, cioè delle tentazioni, perché il ricordo del Crocifisso crocifigge i vizi. "Tu dunque sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!". "Gesù, rispondendo, disse a Pietro", e in lui ha risposto a tutti: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, Bar Iona, ecc." ( Mt 16,17 ). Bar significa "figlio", e Giona s'interpreta "colomba". Giustamente Pietro è chiamato "figlio della colomba", perché seguiva il Signore con devota semplicità, oppure anche perché era ricolmo di grazia spirituale. Pietro dunque è chiamato figlio dello Spirito Santo, il quale si era mostrato in forma di colomba a colui che egli aveva proclamato Figlio del Dio vivente; e al figlio della colomba il Padre rivela il mistero di fede, che non potevano rivelare né la carne né il sangue, cioè gli uomini gonfi della sapienza della carne che non sono figli della colomba e quindi sono alieni dalla sapienza dello Spirito. Di questi dice Abdia: "Disperderò i sapienti dall'Idumea e la prudenza dal monte di Esaù" ( Abd 1,8 ). Ecco la carne e il sangue. Idumea s'interpreta "sanguinosa", Esaù "cumulo di pietre". Tutta la sapienza e la prudenza di questo mondo consistono nel nutrire la carne, e accumulare un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, con le quali i sapienti e i prudenti del mondo saranno lapidati nel giorno del giudizio. III. Il conferimento del potere di legare e di sciogliere 7. "E io ti dico che tu sei Pietro" ( Mt 16,18 ). Da notare che Pietro ebbe tre nomi: Simone, che s'interpreta "obbediente"; Pietro, "che riconosce", e Cefa, "capo" ( testa ). Fu Simone nel momento della chiamata di Cristo: "Seguitemi. Ed essi, abbandonate le reti, lo seguirono" ( Mt 4,19-20 ); fu Pietro nella professione di fede fatta oggi, con la quale riconobbe Cristo Figlio del Dio vivente, e quindi meritò di sentirsi dire: "Tu sei Pietro". Non dico: sarai chiamato Pietro, ma tu sei Pietro, da me pietra, in modo però che io ritengo per me la dignità del fondamento, perché "nessuno può porre un fondamento diverso da quello che vi è stato posto, che è Cristo" ( 1 Cor 3,11 ), sul quale è edificata la chiesa. "E sopra questa pietra edificherò la mia chiesa" ( Mt 16,18 ), e quindi non deve temere se cadrà la pioggia, cioè la persecuzione diabolica, se strariperanno i fiumi, cioè la perfidia degli eretici, se soffieranno i venti, cioè la rabbia del mondo, e si abbatteranno su questa casa, perché è fondata sopra una pietra solida e stabile ( cf. Mt 7,25 ). Si legge nel libro dei Numeri: "Sicura è la tua abitazione, purché tu metta il tuo nido sulla roccia e tu sia tolto dalla stirpe di Cain" ( Nm 24,21-22 ), nome che s'interpreta "astuto" o "caldo" ( lat. callidus o calidus ), ed è figura del diavolo che con la sua astuzia brucia con la fiamma dei vizi l'anima dei peccatori, i quali avranno come carnefice nella pena colui che ascoltarono come istigatore nella colpa. "Edificherò la mia chiesa". Osserva che è chiamata chiesa quella trionfante, quella militante, e anche l'anima fedele. Cristo edifica la prima con gli spiriti beati, la seconda con i fedeli, e la terza con le virtù: perciò Cristo è chiamato anche "muratore", come si legge in Amos: "Ed ecco, il Signore stava sopra un muro liscio, e tra le mani aveva la cazzuola da muratore" ( Am 7,7 ). La cazzuola si chiama in lat. trulla, da trudo, spingere, fissare, perché serve a fissare tra loro le pietre con la calce, con la quale poi le pareti vengono anche rese liscie. Quindi il muro liscio è quello che è levigato sulla sua superficie. Nella cazzuola è simboleggia la potenza di Dio, con la quale egli edifica il muro della sua triplice chiesa e lo lèviga perché nulla ci sia di disordinato, di ruvido, di ineguale, ma tutto si faccia in modo lineare ed agevole. Dice infatti l'Apostolo: "Tutto si faccia nella carità" ( 1 Cor 16,14 ), che è il cemento delle altre virtù. E considera ancora che il Signore sta sopra il muro della chiesa per tre scopi: per edificarla, per combattere da essa e per per mezzo di essa gli avversari, e per proteggerla. E quindi "le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" ( Mt 16,18 ). Le porte degli inferi sono i peccati, le minacce e le lusinghe, che non hanno la possibilità di prevalere, cioè di separare la chiesa dalla fede e dalla carità che sono in Cristo Gesù. Infatti chi accoglie con amore, nell'intimo del cuore, la fede in Cristo, supera facilmente tutto ciò che lo assale dall'esterno. In altro senso: la porta è così chiamata perché serve a portar fuori qualcosa; inferi, è detto perché le anime vi vengono portate giù ( lat. inferuntur ). Porte degli inferi sono chiamati i sensi del corpo, attraverso i quali l'anima peccatrice viene come portata fuori a cercare e a desiderare le cose inferiori, i beni terreni. Dice Isaia: "Ecco che il Signore ti farà portar via" – cioè permetterà che … –, "come viene portato via un gallo dal pollaio" ( Is 22,17 ). Come l'astuta volpe afferra per la gola un cappone e lo trascina nella sua tana, così l'insidiosa e subdola concupiscenza della carne, attraverso i sensi del corpo trascina l'anima a queste cose inferiori. Però, se è edificata e fondata sull'amore di Cristo, contro di essa nulla potrà mai prevalere. 8. "E a te darò le chiavi del regno dei cieli" ( Mt 16,19 ). Ecco "Cefa", posto a capo degli apostoli e della chiesa. È detto che oggi Cristo interrogò gli apostoli, e che Pietro, a nome di tutti, professò la fede della chiesa universale. E oggi il Signore gli conferì il potere di legare e di sciogliere, e perciò questo giorno è chiamato "Cattedra di san Pietro". Chi primo fra tutti professò la sua fede, primo fra tutti ebbe il potere delle chiavi. Le chiavi simboleggiano l'autorità e la capacità di giudicare, e in virtù di esse accogliere nel regno coloro che ne sono degni, ed escluderne gli indegni. Infatti continua: "E tutto ciò che legherai …", vale a dire: quando giudicherai degno delle pene eterne chi resta ostinato nei peccati, o quando assolverai il vero e umile penitente, così sarà fatto anche in cielo. Commenta Girolamo: "E tutto ciò che legherai". Hanno la stessa potestà giudiziaria anche gli altri apostoli; ad essi infatti il Signore, dopo la sua risurrezione, disse: "Ricevete lo Spirito Santo: coloro ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi; coloro ai quali non li rimetterete, resteranno non rimessi" ( Gv 20,23 ); e ce l'ha anche tutta la chiesa nei suoi presbiteri e nei suoi vescovi. Ma Pietro la ricevette in modo particolare, perché tutti comprendano che chiunque si separerà dall'unità della fede e dalla sua comunione, non potrà né essere assolto dai peccati né entrare in cielo. Alcuni, che non hanno ben compreso queste parole, si rivestono in parte della presunzione dei farisei e presumono di poter condannare gli innocenti e assolvere i colpevoli, quando invece davanti a Dio non si ricerca tanto la sentenza del sacerdote, quanto di salvare la vita dei colpevoli. Per questo nel Levitico viene comandato ai lebbrosi di mostrarsi ai sacerdoti ( cf. Lv 14,2 ); non sono i sacerdoti che li fanno lebbrosi o meno, ma solo controllano e constatano chi è mondo o immondo: così è anche in questo caso. Per le preghiere del beato Pietro, il Signore ci sciolga dalle catene dei nostri peccati e ci apra le porte del regno dei cieli: lui che è benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone allegorico 9. "Davide, seduto in trono ( cattedra ), fra i tre è principe sapientissimo, e come il piccolissimo tarlo che rode il legno" ( 2 Sam 23,8 ). Davide, nome che s'interpreta "di mano forte", è figura di Simon Pietro, al quale Cristo impose il nome di Pietro, desumendolo da sé stesso, pietra fondamentale. E Pietro fu di mano forte, quando aprì le sue mani e lasciò tutto. L'avaro ha la mano debole, perché è chiusa, serrata e arida. Dice Matteo: "Ed ecco un uomo che aveva una mano inaridita" ( Mt 12,10 ). Il Signore gli disse: "Apri la tua mano! Egli l'aprì e la mano fu risanata" ( Mt 12,13 ). Commenta la Glossa: Per conseguire la guarigione, nulla è più utile della larghezza ( generosità ) delle elemosine: invano infatti alza le mani verso Dio chi implora perdono per i suoi peccati, se poi non le apre ai poveri secondo le sue possibilità. Pietro dunque, seduto sulla cattedra, è sapientissimo. Dicono gli Atti: "Vedendo la franchezza e il coraggio di Pietro e di Giovanni, e considerando che erano illetterati e privi di cultura, si meravigliavano venendo a sapere che erano stati con Gesù" ( At 4,13 ). Non faccia meraviglia il fatto che Pietro, pur essendo senza istruzione, venga detto sapientissimo; egli era stato con Gesù, Sapienza del Padre, e lo amò più degli altri; e alla scuola di Gesù, Pietro non aveva appreso la sapienza del mondo ma quella del cielo. "Chi che cammina con la Sapienza ( lett. con i sapienti ) diventa sapiente" ( Pr 13,20 ). Pietro non era quel letterato di cui parla Isaia: "Dov'è il letterato? Dov'è colui che valuta le parole della legge? Dov'è il maestro dei piccoli?" ( Is 33,18 ). E l'Apostolo: "Tu insegni agli altri e non insegni a te stesso. Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge stessa" ( Rm 2,21.23 ). Pietro era ignorante nelle cose terrene, ma sapientissimo in quelle del cielo, del quale oggi ha ricevuto le chiavi; e sedette sulla cattedra, ricevette cioè il potere giudiziario di legare e di sciogliere. Sedette anche sulla cattedra materiale, di Antiochia e di Roma, e su questa cattedra è oggi presentato al popolo. "Principe tra i tre". Nei tre, fra i quali siede sulla cattedra il principe degli apostoli, è indicata la sua triplice costanza nella fede. La prima volta professò la sua fede nell'episodio odierno: "Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente". La seconda volta nella sua predicazione, quando disse: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" ( At 5,29 ). La terza volta lo fece con il suo martirio. "È come il piccolissimo tarlo che rode il legno". Il tarlo è un vermetto: niente è più molle di un verme, quando lo si tocca; niente è più forte di un verme quando punge o colpisce. Così fu il beato Pietro. Nulla fu più tenero di lui, cioè più paziente, quando veniva flagellato, quando veniva crocifisso. Lo aveva insegnato ai discepoli nella sua prima Lettera: "Siate modesti, umili, non rendete male per male", ecc. ( 1 Pt 3,8-9 ). Ma quando colpiva, nessuno era più forte di lui. Disse infatti ad Anania: "Perché mai Satana ha indotto il tuo cuore a mentire allo Spirito Santo e a rubare sul prezzo del campo? Non hai mentito a un uomo, ma a Dio … All'udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò" ( At 5,3-5 ). E a Simon Mago: "Il tuo denaro vada con te in perdizione!" ( At 8,20 ). Ci liberi dalla perdizione, dal'eterna rovina, colui che ha dato a Pietro il potere di legare e di sciogliere. Amen. V. Sermone morale 10. "Davide, seduto sul trono ( sulla cattedra )". Abbiamo un certo riferimento a questo nell'Ecclesiastico: "Il re, assiso sul trono, dissipa con il suo sguardo ogni male" ( Pr 20,8 ). Davide, cioè il giusto o il penitente, è di mano forte. Dice la Genesi di Ismaele: "Questi sarà un uomo fiero: la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui; egli pianterà le sue tende di fronte a quelle di tutti i suoi fratelli" ( Gen 16,12 ). Dove noi abbiamo l'aggettivo "fiero", il testo ebraico ha il sostantivo "fara", che è l'ònagro, ossia l'asino selvatico. Nell'ònagro ( in agro: nel campo ) è indicato il penitente, che nel campo della penitenza porta il peso del giorno e del caldo ( cf. Mt 20,12 ); le sue mani, cioè le sue opere, sono contro tutti i demoni; e le mani di tutti i demoni sono contro di lui. "Il nemico che combatte valorosamente, rende anche te valoroso combattente" ( Ovidio ). E di fronte alle tende dei fratelli, cioè contro gli istinti sensuali del corpo, pianterà, cioè fisserà saldamente le tende della penitenza, sempre pronto a resistere. E da dove gli viene sì grande fortezza? Certamente dalla "cattedra". "Assiso sulla cattedra, è sapientissimo". La sapienza è la conoscenza delle cose che esistono e che sono immutabili nella loro sostanza. Il termine sapiente deriva da sapore, perché come il gusto serve a distinguere il sapore dei cibi, così il sapiente è in grado di discernere le cose fatue da quelle pregevoli, il male dal bene. Quindi il penitente, o il giusto, è sapiente nel piangere i peccati passati, più sapiente nel prevenire i pericoli di peccare, sapientissimo nel gustare i beni eterni. Egli è assiso sulla cattedra. La cattedra, seggio sopraelevato del giudice, simboleggia la ragione; è detta anche soglio, che suona quasi come solido: colui che vi siede disperde con il suo sguardo ogni male del diavolo, della carne e del mondo. La ragione è lo sguardo dello spirito, con il quale il vero viene visto in se stesso e non attraverso il corpo; oppure è la stessa visione del vero, non per mezzo del corpo; oppure è il vero stesso che viene contemplato. Altro senso. La cattedra simboleggia il pensiero della morte: la mente vi si ferma e si umilia. Uno non può governare rettamente la sua nave, se non ha l'accortezza di insediarsi nella parte finale della nave stessa. La nave, che è stretta dove incomincia e dove finisce, cioè alle due estremità, ed è larga al centro, raffigura la vita dell'uomo, che è molto stretta al suo inizio e alla sua fine perché misera e amara, ed è larga al suo centro perché volubile e piena di pericoli. Nessuno può dirigerla rettamente se non si sforza di umiliarsi nel pensiero della morte. E fa' attenzione che dice "sapientissimo". Il timoniere che siede a poppa, cioè nella parte posteriore della nave, è e dev'essere il più esperto di tutti, perché vede tutti, previene tutte le eventualità, incita i pigri, sostiene quelli che faticano, nel tempo di burrasca promette un miglioramento, anzi la bonaccia, e rincuora tutti con la speranza di un porto sicuro. Allo stesso modo chi si umilia nel pensiero della morte, regola al meglio tutta la sua vita, e si guarda intorno: sa scuotersi dalla pigrizia, resistere nella fatica, nelle avversità confidare nella misericordia del Signore e guidare rettamente la sua vita al porto della vita eterna. 11. Quindi "è principe sapientissimo fra i tre": in questi "tre" sono indicate la contrizione, la confessione e la soddisfazione, cioè l'opera riparatoria. Allude a questi tre atti il primo libro dei Re, dove Samuele dice a Saul: "Quando arriverai alla quercia del Tabor, ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo a Dio in Betel: uno porterà tre capretti, il secondo tre forme di pane, il terzo un'anfora di vino" ( 1 Sam 10,3 ). Vediamo quale sia il significato della quercia, dei tre uomini, di Betel, dei tre capretti, delle tre forme di pane e dell'anfora di vino. La quercia è così chiamata perché gli antichi cercavano ( lat. quercus, quaerere ) in essa il cibo, cioè le ghiande, delle quali una volta gli uomini si cibavano ( Isidoro ). Tabor s'interpreta "luce che viene". La quercia simboleggia la penitenza, nella quale gli antichi padri cercavano il cibo dell'anima, cioè la luce della grazia divina che scende sui penitenti. Dalla penitenza viene la luce celeste che fa vedere all'uomo se stesso e le sue opere, ciò che prima non vedeva. "Quando dunque arriverai" alla penitenza, "ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo", che cioè ti stanno facendo salire, "a Dio in Betel", nome che significa "casa dio Dio", cioè la Gerusalemme celeste. La contrizione porta tre capretti, nei quali è indicato il triplice fetore del peccato, fetore della coscienza, della persona e della riputazione. Il penitente deve affliggersi nella contrizione, perché ha rovinato la sua coscienza con il consenso, la sua persona con l'opera e la sua riputazione con il cattivo esempio. Parimenti la confessione porta tre forme di pane, nelle quali sono indicate tre specie di lacrime: "Le lacrime furono il mio pane giorno e notte" ( Sal 42,4 ). Giustamente le lacrime possono essere dette "forme ( lat. tortae ) di pane, perché provengono ( per così dire ) dalla torsione del cuore. E sono dette lacrime da "lacerazione" della mente ( lacrimae, laceratio mentis ). Il pane è così chiamato perché si serve ( lat. ponitur ) insieme con ogni altro cibo, o anche perché ogni essere animato lo cerca ( lat. petit ), o lo gradisce. Noi dobbiamo unire la compunzione a ogni altro nutrimento dell'anima nostra, perché ogni nostra opera sarebbe insipida senza la compunzione e la devozione; e la chiediamo e dobbiamo chiederla a Dio ogni giorno, perché ogni giorno ne abbiamo bisogno: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" ( Lc 11,3 ). Quindi il peccatore, nella confessione, deve piangere perché ha macchiato la stola dell'innocenza battesimale, perché ha meritato la geenna ( l'inferno ), e perché ha perduto la vita eterna. Infine la soddisfazione porta un'anfora di vino, nella quale è simboleggiata la gioia del penitente nel fare la penitenza impostagli per il suo peccato: penitenza che non deve essere fatta né con timidezza o paura, né con indolenza: "Dio infatti ama chi dona con gioia" ( 2 Cor 9,7 ). Il digiuno e l'elemosina devono essere fatti con gioia, e la preghiera con fiducia nella misericordia divina. La soddisfazione consiste appunto in queste tre opere ( digiuno, elemosina e preghiera ). Beato quel penitente che sarà principe, cioè padrone, di se stesso, che sarà assiso sulla cattedra della ragione e che si umilia nel pensiero della morte: egli sarà sapientissimo con queste tre pratiche. 12. "È come il tarlo, quel debolissimo vermetto". Osserva che il verme fa tre cose: è sempre in movimento, alza il capo per vedere dove meglio aggrapparsi, si accorcia per poi allungarsi di più. Così il giusto: è sempre al lavoro. Dice Girolamo: Fa' sempre qualcosa, affinché il diavolo ti trovi sempre occupato, "perché l'ozio insegna molte cattiverie" ( Sir 33,29 ). "Ci si domanda come mai Egisto è diventato adultero. Il motivo è evidente: stava in ozio" ( Ovidio ). Insegna la Storia Naturale che l'inerzia accresce nel corpo i fluidi superflui: lo stesso avviene anche nell'anima. Invece la fatica consuma i fluidi superflui: infatti è da questi che si produce il sudore e la traspirazione. Dice anche che qualunque specie di pianta, se non viene curata, inselvatichisce. Inoltre alza il capo, cioè la mente, per esaminare con occhio critico l'andamento della sua attività, in modo da orientarsi meglio verso Dio. "Il saggio ha gli occhi in fronte" ( Qo 2,14 ), ha cioè nella mente la luce del discernimento, "e le tue pupille precedano i tuoi passi" ( Pr 4,25 ). E infine con l'umiltà si accorcia, per poi allungarsi e arrivare fino alla vita eterna. Si degni di concedercela colui che è benedetto nei secoli. Amen. VI. Sermone allegorico 13. "Davide siede sulla cattedra". Davide, che s'interpreta "di bell'aspetto", è figura di Cristo che in croce, con le mani inchiodate, sconfisse le potenze dell'aria ( cf. 1 Pt 1,12 ); gli angeli bramano fissare lo sguardo nella bellezza del suo volto perché, come è detto nell'Apocalisse: "il suo volto è come il sole quando splende in tutta la sua forza" ( Ap 1,16 ). Egli "siede", cioè si è umiliato, "sulla cattedra", vale a dire sulla croce, "sapientissimo" perché è la Sapienza del Padre, per mezzo della quale il Padre ha creato tutte le cose. Troviamo parole simili nel terzo libro dei Re: "Salomone era il più sapiente di tutti gli uomini … parlò di piante, dal cedro del Libano all'issopo che sbuca dalla parete". Salomone è figura di Cristo, il più sapiente di tutti, perché egli è la Sapienza, della quale dice l'Ecclesiastico: "Chi mai ha compreso la sapienza di Dio, la quale è prima di tutte le cose? Prima di ogni cosa fu creata la sapienza. Sorgente della sapienza è il Verbo", cioè il Figlio, "di Dio nell'alto dei cieli" ( Sir 1,3-5 ), dal quale, come l'acqua dalla sorgente, scaturisce ogni sapienza. Egli, "seduto sul legno" della croce, "parlò del cedro del Libano", cioè della grandezza della divinità, "e dell'issopo", vale a dire dell'umiliazione della sua umanità, "che sbucò dalla parete", cioè dalla beata Vergine, cui accenna Isaia quando dice: "Ezechia voltò il suo viso contro la parete … e proruppe in un grande pianto" ( Is 38,2-3 ). A Davide era stata fatta la promessa che dalla sua discendenza sarebbe nato Cristo; ma il re Ezechia, poiché si vedeva morire senza eredi, credette che la promessa riguardante Cristo fosse annullata. Per questo proruppe in un grande pianto e voltò il viso contro la parete, rivolse cioè lo sguardo della mente alla beata Vergine; desiderava sopra ogni cosa che lei nascesse dalla sua discendenza, perché poi da lei nascesse Cristo. La somma sapienza di Cristo si rivelò sulla croce, quando prese all'amo della divinità il diavolo che si era avventato sull'esca dell'umanità; infatti dice Giobbe: "La sua sapienza abbatté il superbo" ( Gb 26,12 ). 14. Siede dunque "sulla cattedra il principe fra tre". In questo modo s'intende ch'egli ( Gesù ) è uno dei tre: ai lati Disma e Gesta, e in mezzo la potenza divina. Dice Giovanni: "Crocifissero con lui altri due, uno da una parte e uno dall'altra, e Gesù nel mezzo" ( Gv 19,18 ). Ecco come siede, ecco come si è umiliato il principe degli angeli: come fosse anche lui un ladrone, viene crocifisso tra due ladroni. Quindi, alludendo alla sua umiliazione è detto ancora: "Egli è come il tarlo, il piccolissimo verme". Osserva che il verme fa tre cose: si trascina con la bocca; quando viene bruciato il legno dove si trova, stride fortemente; niente è di esso più molle, quando lo si tocca. Così Cristo si trascinò alla croce con la sua propria bocca, quando rimproverò ai Giudei la loro malizia. La verità genera l'odio, e perciò dovette subire il supplizio. Parimenti è detto di lui: Lo scarabeo grida dalla croce ( Ambrogio ). Lo scarabeo è un piccolo insetto, che vola, e che ha gli occhi sulla sommità del capo. Anche Cristo, piccolo nella sua umiliazione, vola con la potenza della sua divinità: "Volò, volò sulle ali dei venti" ( Sal 17,11 ), vale a dire sopra le potenze degli angeli e dei santi: "Il Capo di Cristo è Dio" ( 1 Cor 11,3 ); ha gli occhi sulla sommità del capo, perché in virtù della sua divinità tutto vede: ai suoi occhi nessuna creatura è invisibile ( cf. Eb 4,13 ). Egli, quando sul legno della croce bruciava nella passione, gridò fortemente: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" ( Lc 23,46 ). Inoltre nessuno fu più paziente di lui e più umile quando venne flagellato, coronato di spine, colpito con gli schiaffi; nessuno sarà più forte di lui quando nel giudizio, con sentenza irrevocabile, precipiterà nell'inferno il diavolo con tutti i suoi seguaci. Ci liberi da questa sentenza di eterna morte colui che è benedetto nei secoli. Amen. VII. Sermone morale 15. "Davide, assiso sulla cattedra fra i tre". Davide, che s'interpreta "misericordioso", raffigura i prelati della chiesa, che vengono eletti al preciso scopo di essere misericordiosi verso gli altri con triplice misericordia. Infatti a Pietro fu detto per tre volte: "Pasci!" ( cf. Gv 21,15-17 ), e neppure una volta gli fu detto "tosa!". Pasci con la parola della predicazione, con il sostegno della fervida preghiera e anche con i proventi del beneficio temporale. Il prelato siede sulla cattedra della dignità ecclesiastica, e voglia il cielo ch'egli sia sapiente di quella sapienza della quale parla Giacomo: "La sapienza che viene dall'alto, che è anzitutto pura, poi pacifica, modesta, persuasiva, favorevole ai buoni, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità di giudizio" ( Gc 3,17 ). Ecco i sette gradini che il prelato deve salire per sedere in cattedra. Di sette gradini – dice Ezechiele – è la sua salita ( cf. Ez 40,22 ). La vita del prelato dev'essere "condita" ( insaporita ) con la sapienza che viene dall'alto, per essere anzitutto pura, della purezza della mente per quanto riguarda lui stesso, pacifica nei riguardi dei sudditi, perché è stato posto sulla cattedra proprio per riconciliarli con Dio e tra di loro; dev'essere modesta per l'onestà dei costumi; persuasiva, cioè abile nel persuadere; favorevole ai buoni sia con i sentimenti e che con i fatti; piena di misericordia. Ecco Davide misericordioso verso i poveri, ai quali appartiene tutto ciò che possiede, fatta eccezione di ciò che gli è necessario per vivere: diversamente, nella sua casa ci sarebbe la rapina ( cf. Is 3,14 ), e quindi dovrebbe essere condannato come un rapinatore. Oppure: una sapienza piena di misericordia per la compassione dell'animo, e piena di buoni frutti nel compimento delle opere. Dev'essere senza parzialità nei giudizi, cioè senza preferenze di persone. Inoltre, infligga anche a se stesso la penitenza, nella misura con cui la infligge agli altri, perché "doppio peso e doppia misura sono tutte cose abominevoli al cospetto di Dio" ( Pr 20,10 ), "e la misura scarsa è piena dell'ira di Dio" ( Mic 6,10 ). "Principe fra tre". Sono la vita, la scienza e l'eloquenza le tre prerogative che soprattutto devono adornare il prelato: vita intemerata, scienza autentica, eloquenza facile e persuasiva. Ma ahimè! Oggi la vita è immonda, la scienza è cieca, e l'eloquenza è muta. "È come il tarlo del legno, piccolissimo verme". Dice la Glossa: Davide nelle afflizioni, in casa e nei riguardi dei sudditi fu più mite degli altri; ma sul trono e contro i nemici nessuno fu più avveduto di lui. E questo Davide viene encomiato per tre qualità: per la sapienza, per l'umiltà e per la fortezza. Tale dev'essere anche il prelato che vuol reggere con giustizia il popolo che gli è affidato. Si degni di concederglielo colui che è benedetto nei secoli. Amen. Festa dei Santi apostoli Filippo e Giacomo 1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: "Non sia turbato il vostro cuore" ( Gv 14,1 ). In questo vangelo sono degni di particolare considerazione, tra gli altri, tre argomenti: - l'eternità della dimora celeste, - la verità della fede, - l'uguaglianza tra il Padre e il Figlio. I. L'eternità della dimora celeste 2. "Non sia turbato il vostro cuore". Dice la Storia Naturale che il cuore è la sorgente e l'origine del sangue, e che è il primo organo che riceve il sangue; e che è anche la sorgente degli impulsi che riguardano le cose piacevoli e quelle spiacevoli e dannose; e in genere i moti dei sensi da esso partono e ad esso ritornano, e la sua azione influisce su tutte le membra del corpo. "Non si turbi dunque il vostro cuore", perché se si turba il cuore, si turbano anche tutte le altre membra. Considera che i cuori si diversificano tra loro sia nella grandezza che nella piccolezza, nella delicatezza come nella durezza; infatti il cuore degli animali privi di sentimento è duro, mentre il cuore degli animali forniti di sentimento è tenero. Inoltre un animale che ha il cuore grande è timido, mentre quello che ha un cuore piuttosto piccolo è coraggioso. E i guai che capitano all'animale per la sua timidezza, a null'altro sono da attribuirsi se non al poco calore che hanno nel cuore, insufficiente a riempirlo tutto, perché il poco calore in un cuore grande si disperde, e quindi il sangue diventa piuttosto freddo. Cuori grandi si riscontrano nelle lepri, nei cervi, negli asini, nei topi e in altri animali in cui si manifesta la timidezza. E come un piccolo fuoco scalda meno in una casa grande che in una casa piccola, così fa il calore in questi animali. Cuore grande vuol dire cuore superbo; cuore piccolo vuol dire cuore umile; cuore tenero è il cuore misericordioso e compassionevole, e lo hanno coloro che partecipano alle sofferenze, alle necessità e alla miseria degli altri; cuore duro è il cuore avaro, e lo hanno coloro che sono privi di sentimento. Il cuore grande, cioè il cuore superbo, è timido, perché in esso il calore dell'amore di Dio e del prossimo è troppo poco, anzi si è raffreddato, e quindi sùbito si turba perché sùbito ha paura. Perché dunque il vostro cuore non si turbi, sia umile, e allora in esso sarà grande il calore dell'amore e grande l'energia per compiere le opere buone. Osserva ancora che solo il cuore, tra tutti gli organi interni, non dev'essere soggetto a sofferenze o gravi infermità. E questo è giusto perché, se si deteriora il principio, a nulla giovano tutte le altre membra, o gli altri organi. Le altre membra ricevono la forza dal cuore, ma il cuore non ne riceve da esse. "Non si turbi dunque il vostro cuore e non abbia timore" ( Gv 14,27 ). Tra le varie cose che turbano maggiormente il cuore c'è la perdita una cosa cara. Cristo aveva predetto agli apostoli la sua passione; essi, che lo amavano in sommo grado, temevano di perderlo e quindi potevano essere presi dal turbamento. Ecco perciò che il Signore li conforta dicendo: "Non si turbi il vostro cuore e non abbia timore" a motivo della morte della mia carne, perché io sono Dio e la risusciterò. E aggiunge: "Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" ( Gv 14,1 ), perché io sono Dio. Osserva che Gesù disse "abbiate fede in Dio", e non "credete Dio" o "credete a Dio". Anche "i demoni credono che Dio esiste, e tremano" ( Gc 2,19 ). Crede a Dio colui che si limita a credere alle sue parole, ma non fa nulla di bene; invece crede in Dio colui che lo ama con tutto il cuore e fa di tutto per unirsi alle sue membra. 3. "Credete in Dio". Ecco il commento di Agostino: Affinché non temessero per la sua morte, reputandola la morte di un semplice uomo, e quindi ne restassero turbati, li conforta affermando di essere anche Dio. E perché di nuovo non si spaventassero pensando di essere da lui abbandonati alla rovina, vengono rassicurati che, dopo le prove, sarebbero stati sempre vicini a Dio, insieme con Cristo. Quindi continuò: "Nella casa del Padre mio vi sono molti posti" ( Gv 14,2 ). Ecco la melagrana, nella quale tutti i grani sono entro un'unica corteccia, ma dove tuttavia ogni grano ha la propria celletta. Nella gloria eterna ci sarà una sola casa, un solo denaro ( una sola ricompensa ), un'unica dimensione di vita; ma ognuno avrà per così dire la sua cella, perché anche nell'eternità le "dignità" e gli onori saranno diversi: perché altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle ( cf. 1 Cor 15,41 ). Tuttavia, nonostante la differenza di splendore, uguale sarà in tutti la felicità, perché io godrò tanto della tua felicità quanto della mia, e tu godrai della mia felicità quanto della tua. Facciamo un esempio. Eccoci qui insieme: io ho in mano una rosa. La rosa è mia, però anche tu ti diletti della sua bellezza e godi del suo profumo, proprio come me. Così sarà anche nella vita eterna: la mia gloria sarà il tuo conforto e la tua felicità, e viceversa. E in quella luce, tanto sarà lo splendore dei corpi che io potrò ammirarmi nel tuo volto come in uno specchio, e tu ammirare il tuo volto nel mio: e da questo scaturirà un amore ineffabile. Perciò dice Agostino: Quale sarà l'amore quando ognuno di noi vedrà il suo volto in quello dell'altro come oggi vediamo ognuno il volto dell'altro? In quella luce tutto sarà chiaro e palese, niente sarà nascosto per nessuno, niente sarà oscuro. Dice l'Apocalisse: "La città di Gerusalemme sarà di oro purissimo, simile a terso cristallo" ( Ap 21,18 ). La Gerusalemme celeste è detta di oro purissimo a motivo dello splendore dei corpi glorificati, che sarà come lo splendore del più limpido cristallo; poiché come attraverso un cristallo perfetto tutto ciò che sta all'interno si vede perfettamente anche dall'esterno, così in quella visione di pace tutti i segreti dei cuori saranno palesi ad ognuno reciprocamente, e quindi arderanno anche d'inestinguibile ed ineffabile fiamma di reciproco amore. Al presente non ci amiamo a vicenda veramente come si dovrebbe, perché ci nascondiamo nelle tenebre, e nel segreto del cuore siamo divisi gli uni dagli altri: per questo si è raffreddato l'amore ed è dilagata l'iniquità ( cf. Mt 24,12 ). "Se no ve l'avrei detto" ( Gv 14,2 ). Il significato dell'espressione è questo: Se non ci fossero molti posti nella casa del Padre mio, io ve l'avrei detto, cioè non ve l'avrei nascosto, anzi vi avrei detto chiaramente che non ci sono. Sappiate invece, sottintende, "che vado proprio per preparavi il posto" ( Gv 14,2 ). Il padre prepara il posto al figlio, l'uccello prepara il nido ai suoi piccoli. Così Cristo ci ha preparato il posto e la pace della vita eterna, e prima ancora ci ha preparato la strada per la quale arrivarci. Sia egli benedetto nei secoli. Amen. II. La verità della fede 4. "Io sono la via" ( Gv 14,6 ), senza possibilità di sbagliare per coloro che la cercano. Dice Isaia: "Sarà chiamata via santa; per essa non passerà l'impuro; e per voi questa sarà la via diritta, così che neppure gli stolti si smarriranno percorrendola" ( Is 35,8 ). Chi vuole essere sapiente, si faccia prima stolto per essere sapiente ( cf. 1 Cor 3,18 ). Lo stolto-sapiente non sbaglia percorrendo la via di Cristo, il cui insegnamento fu di disprezzare le cose temporali e apprezzare e gustare quelle celesti. A questo proposito nel libro dei Numeri si racconta che Mosè mandò dei messaggeri al re di Edom per dirgli: "Ti preghiamo, permettici di passare per le tue terre. Non attraverseremo né campi, né vigne, e non berremo l'acqua dei tuoi pozzi, ma passeremo per la pubblica via senza deviare né a destra né a sinistra, finché avremo oltrepassati i tuoi confini: cammineremo sulla via frequentata" ( Nm 20,17-19 ). I figli d'Israele sono figura dei giusti, i quali passano per le terre di Edom, nome che s'interpreta "insanguinato"; passano cioè per il mondo, insanguinato dai peccati. Non vi dimorano stabilmente perché "guai a coloro che dimorano sulla terra" ( Ap 8,13 ), ma sono solo viaggiatori e pellegrini. Di essi dice Giobbe: "Interrogate uno qualunque dei viaggiatori e saprete che essi sanno queste cose: che nel giorno della rovina sarà preservato il malvagio e sarà condotto fino al giorno dell'ira" ( Gb 21,29-30 ). I giusti non camminano per i campi maledetti delle preoccupazioni terrene, nei quali Caino uccise Abele, cioè "il possesso dei beni uccise il pianto" della penitenza; né vanno per le vigne della concupiscenza carnale e della lussuria: "Il loro vino – è detto – proviene dalle vigne di Sodoma" ( Dt 32,32 ). Non bevono l'acqua del pozzo della Samaritana, cioè della cupidigia mondana, della quale chi beve avrà sete di nuovo ( cf. Gv 4,13 ). Ma camminano sulla via pubblica, nella via frequentata, battuta, quella via che dice: "Io sono la via". Via pubblica nella parola, battuta nella flagellazione; pubblica nella predicazione degli apostoli, battuta nella persecuzione; pubblica perché a disposizione di tutti, battuta perché calpestata da quasi tutti i piedi. Infatti il saraceno ( musulmano ) la nega, il giudeo la bestemmia, l'eretico la profana, il falso cristiano la disonora vivendo disonestamente. Soltanto il giusto vi cammina con fedeltà e umiltà, non deviando né alla destra della prosperità per esaltarsi, né alla sinistra delle avversità per scoraggiarsi: cammina diritto fino al confine della morte per entrare quindi nella terra promessa. 5. "Io sono la verità" ( Gv 14,6 ), senza falsità per coloro che la trovano. È detto in proposito: "La verità è scaturita dalla terra" ( Sal 85,12 ). Cristo è verità, nata dalla terra vergine; la verità della fede stessa nasce dalla madre chiesa. La Verità però precedette, affinché la chiesa seguisse: "Spuntò nelle tenebre una luce per i retti di cuore" ( Sal 112,4 ). Si riferisce alla verità quanto è scritto nel terzo libro di Esdra: "Tre giovani, guardie del corpo del re Dario, scrissero queste cose: Il primo, che il vino è forte; il secondo che è più forte il re; il terzo – cioè Zorobabele – che ancora più forti sono le donne. Ma su tutte le cose vince la verità" ( 3 Esd 3,4.10-12 ). "La verità è più grande e più forte di tutte le cose. Tutta la terra invoca la verità e il cielo la benedice. Iniquo è il re, inique le donne, iniqui tutti i figli degli uomini e inique tutte le loro opere: in essi non c'è la verità e nella loro iniquità periranno. Ma la verità resta e si afferma in eterno, e vive e persiste nei secoli dei secoli. E presso di lei non c'è preferenza di persone, né si fanno differenze, ma fa ciò che è giusto nei riguardi di tutti, giusti e malfattori, e tutti beneficiano delle sue opere. E nel suo giudizio non c'è nulla di ingiusto, ma solo fortezza e regno e potestà e maestà in tutte le epoche. Benedetto il Dio della verità. Amen" ( 3 Esd 4,35-40 ). Forte è il vino della cupidigia terrena: ubriachi di esso, i mondani cadono di peccato in peccato. Più forte è la superbia del diavolo, che "è il re di tutti i figli della superbia" ( Gb 41,25 ). Più forte ancora è la tentazione della carne e della lussuria. Ma la verità di Cristo è di tutto la più forte, e vince tutte queste forze del male. 6. "Io sono la vita" ( Gv 14,6 ), senza morte per coloro che che perseverano. "Io vivo, e anche voi vivrete" ( Gv 14,19 ). Infatti dice Isaia: "Come i giorni dell'albero saranno i giorni del mio popolo" ( Is 65,22 ). L'albero, nel grembo verginale della terra, piantato lungo il corso delle acque ( cf. Sal 1,3 ), cioè sovrabbondante di carismi, è Gesù Cristo, i cui giorni sono eterni "perché il suo regno non avrà fine" ( Lc 1,33 ); e i giorni del suo popolo eletto, che sarà salvato, sono eterni perché non ci sarà più la morte; ed egli, il loro Dio, "non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi" ( Mc 12,27 ). "Io sono la via" con il mio esempio, "sono la verità" nelle mie promesse, "sono la vita" nel premio eterno. Via che non sbaglia, verità che non inganna, vita che non verrà mai meno. 7. "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" ( Gv 14,6 ). Infatti dice ancora: "Io sono la via: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo" ( Gv 10,9 ). C'era in Gerusalemme una porta, chiamata "cruna dell'ago", per la quale non potevano entrare i cammelli, perché era molto bassa. Questa porta è Cristo umile, per la quale non può entrare il superbo o l'avaro con il suo carico sulla schiena, perché chi vuole entrare per questa porta deve prima abbassarsi, deporre il suo carico di beni terreni per non sbattere contro la porta. E chi entrerà per essa sarà salvo, purché sia perseverante; ed entrerà nella chiesa per vivere mediante la fede, e uscirà da questa vita per vivere in quella eterna, dove troverà i pascoli dell'eterna felicità. Amen. III. Uguaglianza del padre e del figlio 8. "Dice Filippo a Gesù: Signore, mostraci il Padre …", ( Gv 14,8 ), ecc. Oggi si celebra la festa dei beati Filippo e Giacomo, che ora vivono con Cristo nella celeste abitazione. Quando vivevano quaggiù hanno seguito Cristo, hanno annunciato la sua verità agli infedeli, e oggi, attraverso quella porta che è lo stesso Cristo, sono entrati ai pascoli dell'eterna felicità. "Signore, – disse Filippo – mostraci il Padre e ci basta" ( Gv 14,8 ). Poiché aveva detto che nessuno poteva andare al Padre se non per mezzo di lui, che è una cosa sola, inseparabile con il Padre, perché non domandassero chi era il Padre, afferma che conoscendo lui conoscevano anche il Padre, che ancora non avevano conosciuto. Quindi li rimprovera dicendo: "Se aveste conosciuto me, avreste conosciuto anche il Padre; fin d'ora lo conoscete e lo avete veduto" ( Gv 14,7 ), allo stesso modo che di due persone perfettamente uguali si dice: Se hai visto questa, hai visto anche quella. Avevano visto il Figlio, che era assolutamente uguale al Padre, e quindi dovevano credere che anche il Padre era proprio come lui, e non crederlo diverso. "Già fin d'ora lo conoscete" avendo conosciuto me, "e lo avete veduto" con il cuore, poiché avete veduto me che sono a lui perfettamente uguale. 9. Ma c'erano altri che, come Filippo, pur riconoscendo questi come Figlio e quello come Padre, non credevano che il Figlio fosse del tutto uguale al Padre, bensì credevano il Padre superiore al Figlio, e così non conoscevano né il Padre né il Figlio. Filippo, essendo appunto di questa opinione, dice: "Mostraci il Padre, e ci basta", perché così, vedendolo, saremo soddisfatti e felici. Leggiamo qualcosa di simile nell'Esodo, quando Mosè dice al Signore: "Mostrami la tua gloria. Il Signore gli rispose: "Io ti mostrerò ogni bene" ( Es 33,18-19 ). È la stessa cosa che rispose Gesù: "Filippo, chi vede me, vede anche il Padre" ( Gv 14,9 ), e così vede ogni Bene, quel Bene al quale attinge bontà chiunque è buono, e che diffonde la sua bontà su tutto ciò che esiste. Tutto ciò che c'è in cielo, come negli angeli, e tutto ciò che c'è in terra e sotto terra, ciò che vi è nell'aria e nell'acqua, e tutto ciò che è dotato di ragione e di intelligenza, ciò che si muove, vive ed esiste, proviene da lui, sommo Bene, causa e sorgente di tutto il bene. A lui dunque onore e gloria per i secoli eterni. Amen. IV. Sermone allegorico 10. "Questi sono i due figli dello splendore dell'olio", cioè consacrati, "che stanno al fianco del Signore di tutta la terra" ( Zc 4,14 ). Di questo abbiamo un riscontro anche nella Genesi: Giuseppe prese i suoi due figli Manasse e Efraim e li condusse dal padre suo Giacobbe. Il quale disse: Chi sono costoro? Sono i miei figli, donatimi da Dio in questo luogo. Portameli vicino – soggiunse – perché li benedica. E li benedisse dicendo: Dio ti renda come Efraim e come Manasse ( cf. Gen 48,1.8-9.20 ). Dio renda anche noi come Filippo e come Giacomo, che Dio Padre donò al figlio suo Gesù Cristo in terra d'Egitto, cioè in questo mondo, nella terra della sua peregrinazione e della sua povertà. Filippo s'interpreta "bocca della lampada", e Efraim "fruttifero". Questi due concetti concordano perfettamente. Infatti Filippo fece portare copiosi frutti di opere buone a tutti coloro che aveva illuminato con la parola della predicazione e con la luce della fede. Si legge, nel racconto della sua vita, che per vent'anni annunciò appassionatamente il vangelo ai pagani della Siria, dove fece crollare una statua di Marte, sotto la quale c'era un ferocissimo drago, ch'egli mise in fuga. Restituì la salute a molti infermi, risuscitò morti, e convertì alla fede molte migliaia di persone e le battezzò. Giacomo s'interpreta "soppianta chi ha fretta" ( cf. Gen 25,25 ), e Manasse "smemorato". E anche questi due nomi concordano perfettamente. Giacomo infatti, dimentico del passato e delle cose di questo mondo, soppiantò, cioè tenne sotto la pianta dei piedi la carne, la quale ha sempre fretta di avere ciò che brama. Dicono che abbia praticato un'astinenza molto rigida: non fece uso di bagno o di vesti di lino, né di carne o di vino; a motivo della sua particolare santità fu eletto dagli apostoli vescovo di Gerusalemme, e gli fu attribuito il titolo di giusto. È chiamato "fratello del Signore" e di volto gli fu molto somigliante. Quando il Signore morì sulla croce, fece voto di non mangiare più nulla finché non fosse risorto, e perciò si dice che il Signore gli apparve il giorno stesso della risurrezione. Afferma infatti l'Apostolo: "Apparve a più di cinquecento fratelli radunati insieme; inoltre apparve a Giacomo" ( 1 Cor 15,6-7 ). Giacomo, mentre a Gerusalemme predicava Gesù Cristo ad una grande folla di popolo, fu precipitato dai Giudei dal pinnacolo del tempio, e quindi fu percosso sulla testa con un bastone da lavandaio, finché il suo sangue e il cervello si sparsero per terra: così oggi è ritornato al Signore. "Questi dunque sono i due caprioli gemelli, che pascolano tra i gigli" ( Ct 4,5 ), cioè tra gli splendori dell'eterna felicità; "figli dello splendore dell'olio", cioè della grazia dello Spirito Santo, con il quale furono consacrati il giorno della Pentecoste. Leggiamo nel Deuteronomio: "Benedetto Aser nei suoi figli, sia caro ai suoi fratelli e bagni nell'olio il suo piede. Ferro e bronzo siano il suoi calzari" ( Dt 33,24-25 ). Aser, che s'interpreta "ricchezze", è figura di Cristo, che non solo è ricco ma è la ricchezza stessa, perché a tutti dona largamente senza mai diminuire in se stesso; che è benedetto, mirabile e glorioso in questi due figli; che fu sommamente caro ai suoi fratelli, – "Andate e annunciate ai miei fratelli" ( Mt 28,10 ), – che egli tanto amò e dai quali fu altrettanto amato. Egli nel giorno della Pentecoste bagnò nell'olio dello Spirito Santo i suoi piedi, cioè gli stessi apostoli, che lo avrebbero portato in tutto il mondo, come i piedi portano il corpo, e questo perché sopportassero meglio la grande fatica. Infatti il piede stanco, ungendolo, viene reso capace di nuove fatiche. I calzari del suo piede furono di ferro, nel quale è simboleggiato il potere di compiere miracoli, e di bronzo, che raffigura la grande efficacia della parola. I calzari che gli apostoli indossarono per camminare con sicurezza sopra serpenti e scorpioni, cioè sopra i demoni ( cf. Lc 10,19 ) e tra gli uomini traditori, furono la loro dottrina e il loro insegnamento; avevano due qualità: il potere di compiere miracoli, con i quali penetravano nei cuori, e l'efficacia della predicazione, con la quale istruivano gli infedeli. "Essi stanno a fianco del Signore di tutta la terra". "Stare a fianco" vuol dire qui "obbedire" o "servire". Questi due apostoli obbedirono a Gesù Cristo, Signore di tutta la terra, nel momento della loro chiamata o elezione; obbedirono osservando i suoi precetti; lo servirono e servirono ( offrirono ) a lui anche se stessi, in olocausto di soave odore; ed ora stanno in cielo al suo fianco, lodandolo e benedicendolo insieme con gli angeli. A lui la lode e la benedizione per i secoli eterni. Amen. V. Sermone morale 11. "Questi sono i due figli". Leggiamo nella Genesi: "Voi – disse Giacobbe – sapete che due figli mi ha procreato mia moglie" Rachele ( Gen 44,27 ), i due figli uterini Giuseppe e Beniamino. Essi sono figura dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Giacobbe è figura del giusto; Rachele, nome che s'interpreta "pecora" e "che vede Dio", è figura dell'anima del giusto, che vede per mezzo della fede, ed è paragonato alla pecora per l'umiltà e la semplicità. Questi due figli genera Giacobbe per indicare che il giusto ama Dio sopra tutte le cose e il prossimo come se stesso. L'amore di Dio è simboleggiato in Giuseppe, l'amore del prossimo in Beniamino. Consideriamo i fatti ad uno ad uno. Giuseppe, che s'interpreta "crescita", è l'amore di Dio: quanto più amerai Dio, tanto maggiore crescita ne avrai da lui e in lui. Dice infatti il salmo: "L'uomo si avvicinerà ad un cuore sublime e Dio sarà esaltato" ( Sal 64,7-8 ). Il cuore sublime è il cuore di chi ama, di chi aspira a Dio, di chi lo contempla, di chi disprezza le cose inferiori. Tu arrivi un tale cuore se cammini con i passi della devozione. Dio viene esaltato non in sé, ma in te. La sua esaltazione dipende dell'intensità del tuo amore, dalla elevazione della tua mente. Innalza dunque te stesso, per arrivare a toccare o anche a possedere, per quanto è possibile, colui che è al di sopra di te, perché egli è stato proclamato "Eccelso" ( cf. Is 2,22 ). Ma Giuseppe dove aumentò, dove ebbe la crescita? Senti dove. Dice la Genesi: "Dio mi fece crescere nella terra della mia povertà" ( Gen 41,52 ). Questo è anche ciò che dice il Signore: "Beati i poveri nello spirito, perché di essi è il regno dei cieli" ( Mt 5,3 ). Ecco quanto cresce, colui che riceve in proprietà il regno dei cieli. Oh, quanti vivrebbero anche oggi per lungo tempo in strettissima povertà, se sapessero con assoluta certezza di poter avere in sorte il regno di Francia o di Spagna! E invece oggi non c'è più nessuno che voglia vivere nella vera povertà di Cristo per poter poi conseguire il regno dei cieli: il regno dei cieli, l'amore di Dio, del quale non esiste dignità o proprietà più sublime. Sta scritto nei Proverbi: "Il suo possesso è preferibile a quello dell'argento, e i suoi frutti – il gusto della contemplazione – a quello dell'oro raffinato e purissimo. È più prezioso di tutte le ricchezze, e tutte le cose più desiderabili non sono in grado di reggere il paragone con esso" ( Pr 3,14-15 ). Quindi nella terra della povertà, dell'umiltà, dell'abbassamento cresce l'amore verso la maestà di Dio. Come diceva il Battista: "È necessario che io diminuisca e che lui cresca" ( Gv 3,30 ). Quando nell'uomo diminuisce l'amor proprio, aumenta in lui l'amore di Dio. 12. Analogamente, Beniamino – che s'interpreta "figlio della destra", chiamato prima Ben-oni, "figlio del dolore" ( cf. Gen 35,18 ) –, è figura dell'amore del prossimo, le cui sofferenze devono essere anche tue. Anche l'altro che si chiamava Ben-oni ( l'apostolo Paolo ) diceva: "Chi è infermo, senza che lo sia anch'io?" ( 2 Cor 11,29 ), ecc. E di nuovo scrivendo ai Romani: "Ho nel cuore una grande tristezza e una continua sofferenza per i miei fratelli" ( Rm 9,2-3 ). Se tu mi ami, soffri del mio dolore. Infatti il dolore del tuo cuore è il segno dell'amore che hai per me. La madre soffre per il figlio ammalato, perché lo ama; se non lo amasse non soffrirebbe. Ahimè, quanto poco, o nulla, soffriamo per il dolore del prossimo! E quale ne è la causa? Certamente perché non lo amiamo. E quindi dobbiamo dolerci di non sentire dolore: solo il dolore potrà esse il rimedio del dolore ( Catone ). Perciò l'amore del prossimo sia anzitutto figlio del dolore, per poter diventare figlio della destra di Dio, con il quale godremo eternamente. Infatti se con lui soffriremo, con lui anche regneremo ( cf. Rm 8,17 ). 13. "Questi dunque sono i due figli", e chi li ha "sarà beato e godrà di ogni bene" ( Sal 128,2 ). Sventurato invece chi non li ha, perché dovrà piangere e, insieme con Giacobbe, dire: "Mi avete ridotto ad essere senza figli. Giuseppe non c'è più, e ora mi portate via anche Beniamino. E su di me cadono tutte queste sventure" ( Gen 42,36 ). "Io sarò come uno rimasto privo di figli" ( Gen 43,14 ). Dice la Storia Naturale che l'aquila depone tre uova, ma poi ne getta fuori dal nido uno, perché fa troppa fatica e si indebolisce a mantenere tre piccoli. Le tre uova raffigurano i tre amori: di Dio, del prossimo e del mondo. L'aquila, cioè il giusto, deve gettare via dal nido della propria coscienza l'amore del mondo, per essere in grado di curare bene gli altri due, perché, se vuole curare anche il terzo, si affaticherà con le preoccupazioni materiali, si indebolirà la forza della sua mente e così diventerà incapace di tutto. 14. "Questi sono dunque i due figli". Di chi sono figli? "Dello splendore dell'olio". Ecco "Rachele, bella di volto e avvenente di aspetto" ( Gen 29,17 ). Ecco lo splendore dell'olio, cioè la luminosità dell'anima, la gioia della coscienza che, come l'olio, galleggia al di sopra di ogni liquido, vale a dire al di sopra di ogni gioia temporale. Il Signore ordinò a Mosè: "Comanda ai figli d'Israele che ti portino olio di olive, purissimo e limpido per alimnentare in continuazione le lampade, fuori del velo della tenda della testimonianza" ( Lv 24,2-3 ). I figli d'Israele sono i giusti e i contemplativi che portano l'olio, cioè la gioia della coscienza, purissima nei riguardi di se stessi, e limpida nei riguardi del prossimo; e l'olio non è prodotto dalle noci, cioè dalle frivolezze del mondo o della carne, ma dalle olive, cioè dalle opere di misericordia. E con questo olio alimentano, cioè formano e governano "in continuazione le lampade", vale a dire i sensi del loro corpo, "che sono fuori del velo della tenda della testimonianza", di cui dice l'Apostolo: "La nostra gloria è questa: la testimonianza della nostra coscienza" ( 2 Cor 1,12 ). Il velo simboleggia il segreto della mente che dobbiamo porre tra noi e il prossimo, il quale non può vedere oltre i velo: è sufficiente che possa vedere le lampade bene alimentate, affinché dalle stesse sia illuminato il sommo sacerdote Gesù, al quale ogni cuore è aperto, e che entra ed esce dal velo, perché egli penetra nei cuori e nei loro segreti. "I due figli che sono al fianco del Signore di tutta la terra". L'amore di Dio è al suo fianco con l'umiltà e la devozione della mente; l'amore del prossimo con la compassione e con il conforto. Si degni di darci questi due figli dell'amore Cristo Gesù, che è benedetto nei secoli. Amen. Invenzione della Santa Croce 1. In quel tempo: "C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo" ( Gv 3,1 ). In questo vangelo dobbiamo considerare tre momenti: - la rigenerazione del battesimo, - l'ascensione di Cristo, - la sua passione. I. La rigenerazione del battesimo 2. "C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo". Egli, essendo credente, diceva che Cristo veniva da Dio a motivo dei miracoli che aveva visto; ma non era ancora rinato, e perciò andò da Gesù di notte, e non di giorno, perché non era ancora stato illuminato dalla luce celeste. Oppure, andò di notte forse perché, essendo maestro in Israele, si vergognava di dover imparare qualcosa di fronte a tutti; o semplicemente per paura dei Giudei. Egli, poiché nella sua saggezza aveva osservato degli evidenti miracoli, volle meglio approfondire i misteri della fede e così meritò di essere istruito sulla "seconda generazione" e sull'ingresso al regno dei cieli, sulla divinità di Cristo e sulla sua duplice nascita, sulla passione, sulla risurrezione e sull'ascensione e su molte altre cose. Considera che Nicodemo, il cui nome s'interpreta efflusso, "fuoruscita", espressione, di terrenità ( rispetto umano ), è figura di coloro che credono perfettamente, ma tuttavia non hanno ancora la luce delle opere perfette: temendo l'assalto dei pensieri e delle opere della carne, come anche quello degli infedeli Giudei, fruiscono del colloquio con Cristo solo con la fede, non avendo il coraggio delle opere buone. In pratica è ciò che dice la Storia Naturale: il gufo ha la vista debole durante il giorno, mentre di notte vede distintamente e allora si sente più forte e vola con maggior sicurezza; invece durante il giorno gli altri uccelli gli volano all'intorno e tentano di spennarlo; ed è per questo che gli uccellatori riescono a catturare per suo mezzo molti altri uccelli. Il gufo ( lat. bubo ) deve il suo nome al suono del richiamo che emette, e simboleggia il cristiano che di questo nome ( cristiano ) ha solo il suono della parola – cristiano infatti viene da Cristo –, ma non ha la sostanza di questo nome, cioè l'umiltà e la carità di Cristo; e quindi viene chiamato vaso vuoto, benché segnato. Questo cristiano non vede di giorno, perché non ha la luce delle opere buone; invece vede molto bene di notte "perché i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono molto più scaltri dei figli della luce" ( Lc 16,8 ). "Sono esperti nel fare il male" – dice Geremia –, ma non sanno compiere il bene" ( Ger 4,22 ). Questo gufo ha paura di volare di giorno, di comparire cioè di fronte ai giusti che vivono alla luce del sole, perché questi non lo accarezzano, ma lo spennano, vale a dire lo criticano, lo rimproverano, lo correggono. Ma ahimè! Quante volte, per mezzo di questo gufo, i demoni traggono in inganno i giusti. Un prelato, per esempio, ha un parrocchiano usuraio, o schiavo di qualche altro grave vizio; costui, per paura di essere svergognato o scomunicato, fa al prelato dei donativi e gli promette altri favori: il prelato che li prende, è preso a sua volta. "Lo zufolo emette il suo dolce suono, e intanto l'uccellatore cattura gli uccelli" ( Catone ). 3. [ Alle varie domande di Nicodemo ] Gesù rispose: "In verità, in verità ti dico: Se uno non rinasce da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel Regno di Dio" ( Gv 3,3 ). Nell'Antico Testamento si giurava con le parole: "Vive il Signore!" ( cf. 1 Sam 26,10 ). Nel Nuovo si dice: "In verità, io dico". E mentre gli altri evangelisti lo scrivono una volta sola, Giovanni lo ripete due volte, secondo ciò che disse Gesù: "Sia il vostro parlare sì, sì" ( Mt 5,37 ), come dicesse: Dico la verità con il cuore e con la bocca. Commenta la Glossa: La seconda nascita, della quale Gesù parla, è spirituale, e viene da Dio e dalla chiesa, per la vita. Ma Nicodemo conosce solo la nascita della carne, che viene da Adamo e da Eva, per la morte. Ma come la nascita della carne – lo dice Nicodemo – non si può ripetere, così quella spirituale, da chiunque sia fatta, non si può rifare. Dal seme del vero Abramo infatti, cioè da Gesù Cristo, sono nati sia i figli della libera che quelli della schiava. "Da acqua e da Spirito Santo". Abbiamo tre entità: il fuoco, la pentola e il cibo. Il fuoco avvolge la pentola e nella pentola sta il cibo. Il fuoco in realtà non tocca il cibo, però lo scalda, lo purifica e lo cuoce. Il fuoco simboleggia lo Spirito Santo; il corpo dell'uomo è paragonabile alla pentola; l'anima è come il cibo. Perciò, come il cibo viene cotto dal calore del fuoco per mezzo della pentola, così il battesimo con l'acqua, infiammato con il fuoco dello Spirito Santo, mentre bagna esteriormente il corpo, purifica interiormente l'anima da ogni peccato. Nel fiume Giordano lo Spirito discese su Cristo battezzato; tutti i giorni nel fonte battesimale lo Spirito discende su ogni battezzato, e con la sua potenza, di un figlio dell'ira fa un figlio della grazia. Perciò Cristo, per sé e per tutti i battezzati nel suo nome, sentì la voce che diceva: "Questo è il mio Figlio diletto" ( Mt 3,17 ). 4. Senso morale. Il Battesimo da acqua e da Spirito Santo raffigura la penitenza, che nasce dallo spirito di contrizione ( pentimento ) e dall'acqua di una confessione bagnata di lacrime, affinché colui che con il peccato mortale ha perduto l'innocenza e la grazia del primo battesimo, possa ricuperarla in virtù di questo secondo battesimo. La penitenza è la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio. Di questo battesimo ( di penitenza ) parlò Eliseo, quando a Nahaman Siro, ricco ma lebbroso, comandò: "Va' e làvati sette volte nel Giordano: la tua carne guarirà e tu sarai mondato dalla lebbra" ( 2 Re 5,10 ). Naaman s'interpreta "splendido", Siro "sublime" e Giordano "fiume del giudizio". Il peccatore che, esteriormente, può anche essere splendido, sublime in alto perché superbo e ricco in basso, è però lebbroso nel suo interno, cioè nell'anima; e se vuole che la sua anima ricuperi la salute, deve accostarsi al fiume del giudizio, cioè ad una confessione bagnata dalle lacrime, con la quale egli deve giudicarsi, e condannare ciò che ha fatto di male: e questo per sette volte. Dice in proposito l'Apostolo: "Ecco infatti quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; ma anche difesa, e indignazione, e timore, e desiderio, ed emulazione, e vendetta" ( 2 Cor 7,11 ). "Tristezza secondo Dio". Triste, che suona quasi come "trito" ( contrito ): la tristezza è la contrizione del cuore nella confessione. Questa tristezza produce nel peccatore l'impegno della soddisfazione, cioè della riparazione. Dice infatti Michea: "Spasima e datti da fare, figlia di Sion, come una partoriente" ( Mic 4,10 ). E "Marta si dava da fare, ed era tutta presa dai vari servizi" ( Lc 10,40 ). "Ma produce anche difesa", cioè accusa di se stesso. Infatti si difende efficacemente davanti al giudice della corte celeste, colui che umilmente si accusa davanti al giudice della chiesa, come faceva Giobbe: "Io non perdonerò alla mia bocca; parlerò nella tristezza del mio spirito" ( Gb 7,11 ). Perdona alla sua bocca colui che nella confessione cerca di attenuare o di scusare il suo peccato; e non parla nella tristezza del cuore colui che si confessa laconicamente e quasi scherzando. "E anche indignazione" contro se stesso, non contro il destino o contro il prossimo. Così faceva Giobbe: "Con i miei denti io lacero le mie carni e porto la mia anima nelle mie mani. Anche se mi ucciderà, spererò in lui; tuttavia voglio difendere davanti a lui la mia condotta: solo lui è il mio salvatore" ( Gb 13,14-16 ). È veramente segno di grande indignazione, quando uno si lacera le carni con i denti. Si lacera le carni con i denti colui che detesta i suoi peccati carnali, esecrandoli dal profondo. Questi porta l'anima nelle sue mani, pronto a renderla a Dio in qualunque momento gliela domandi. O anche: L'anima è la vita del corpo; dov'è l'anima, ivi è la vita; la vita nelle mani è la carità, che è l'anima della fede nelle opere. Colui che porta così l'anima, anche se Dio lo castiga, anche se lo colpisce con la tentazione, con la persecuzione, tuttavia continua a sperare in lui, sapendo che egli accoglie ogni figlio che castiga; e quanto più si umilia, tanto più detesta la sua condotta e le sue opere dicendo: "Non ho mai avuto quanto meritavo!" ( Gb 33,27 ). "E anche timore", per non cadere in questi peccati e altri simili. "State attenti, fratelli, di procedere con cautela" ( Ef 5,15 ). Si legge nella Storia Naturale che il camaleonte, nome che s'interpreta "leone della terra", è molto scarno, perché ha poco sangue. È molto pauroso, e proprio per la paura il suo colore cambia e prende tanti colori diversi, perché la sua paura aumenta a motivo della scarsità di sangue e della diminuzione del calore. Queste cose si avverano quasi alla lettera nel penitente umile e contrito. Egli può essere detto leone della terra, cioè della sua carne, perché come un leone l'assoggetta e la calpesta: e quindi è gracile e ha poco sangue a motivo della severa astinenza che pratica. È detto di lui che è molto pauroso perché, avendo sperimentato il pericolo, sospetta che sotto ogni esca si nasconda l'amo; oppure ha paura perché non vede in se stesso tanto sangue di contrizione, o non vede abbondare il calore del divino amore sì da potersi esporre al pericolo della tentazione o affrontare luoghi sospetti. Scongiuro colui che non ha queste due cose ( contrizione e amore divino ) di aver paura dei luoghi sospetti ( occasioni pericolose ), e con paura fuggirli. "E anche il desiderio". "Ho desiderato grandemente di mangiare questa pasqua con voi" ( Lc 22,15 ). Deve sempre desiderare di salire, di giorno in giorno, ad una perfezione maggiore, e finalmente di passare da questo mondo al Padre. "E anche emulazione", cioè imitazione e ardente desiderio di crescere nella vita dello spirito: "Aspirate ai carismi più grandi" ( 1 Cor 12,31 ). Emulare, in lat. aemulari, può voler dire invidiare e anche imitare. Se si prende con il senso di invidiare, è composto da ex e immolare, cioè sacrificare; se invece si prende nel senso di imitare, è composto da extra, fuori e mòlere, macinare. Chi desidera imitare le virtù altrui, è necessario che si màcini dentro se stesso, cioè che nella sua coscienza sottoponga a severo esame la sua vita e, dopo averla esaminata, la mostri agli altri con l'esempio, per essere imitato. Oppure, è detto emulatore colui che estrae dal sacco di un altro il grano delle virtù e lo mette sotto la mola del suo cuore: dopo averlo finemente macinato e ridotto, per così dire, in farina, ne fa il pane che egli mangia per primo e quindi distribuisce anche agli altri. "E anche vendetta" ( rivendicazione, punizione ). Leggiamo in Luca: "Una vedova implorava il giudice: "Rivendica il mio diritto contro il mio avversario. Ma il giudice per lungo tempo non volle ascoltarla" ( Lc 18,3-4 ). La vedova è figura dell'anima la quale, unita dapprima allo Spirito Santo per mezzo del battesimo, è rimasta vedova del suo Sposo a causa del peccato mortale. Costei, stanca del peccato, implora il giudice, il quale deve giudicare se stesso: Rivendica i miei diritti contro l'avversario, cioè contro questo mio corpo. E poiché il peccatore non teme Dio, perché davanti ai suoi occhi non c'è timor di Dio ( cf. Sal 36,2 ), né ha rispetto per gli uomini, perché è sfrontato come una prostituta e non si vergogna di nulla ( cf. Ger 3,3 ), così per molto tempo si rifiuta di far valere i diritti della vedova, cioè di fare penitenza, perché da lungo tempo invischiato in molti peccati. Ma finalmente, per i rimorsi e i latrati della coscienza, interviene a favore della vedova, e al tribunale della coscienza giudica se stesso e condanna l'avversario, cioè il suo corpo; rinchiude quindi il condannato nel carcere della penitenza, fino a che non avrà fatto completa giustizia nei riguardi della vedova, vale a dire dell'anima. Amen. II. L'ascensione di Cristo 5. "Nessuno è mai salito al cielo, se non il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo" ( Gv 3,13 ). Poiché ci siamo proposti di parlare più diffusamente dell'Ascensione in un altro sermone ( vedi il sermone dell' Ascensione ) ne tratteremo qui piuttosto brevemente. Il cielo rappresenta la sublimità della divinità. Dice Lucifero: Salirò fino al cielo, porrò la mia sede nelle parti più remote del settentrione, e sarò uguale all'Altissimo ( cf. Is 14,13-14 ). Lucifero aveva la sua sede nell'empireo e non c'era quindi cielo più alto al quale potesse salire: perciò dicendo "cielo" intendeva la sublimità della divinità: ad essa desiderava salire per essere uguale all'Altissimo. Anche nel passo evangelico possiamo benissimo intendere "cielo" in questo senso. Nessuno, cioè nessun uomo, per quanto santo, anche santificato nel grembo materno, salì mai alla sublimità della divinità, per essere ( uguale a ) Dio, se non colui che discese dal cielo, cioè dalla sublimità della divinità, per essere uomo, cioè figlio dell'uomo – egli che è in cielo ( cf. Gv 3,13 ) –, restando Dio. Infatti Cristo non discese dal cielo in modo da non essere più nel cielo, perché non si fece uomo in modo tale da cessare di essere Dio, ma "fu ricco e povero insieme" ( Sal 48,3 ), Dio e uomo ad un tempo: generato da Dio prima del tempo, uomo da uomo nel tempo. Anche nel salmo troviamo quasi le stesse parole: "Egli esce dalla sommità dei cieli", ecc. ( Sal 19,7 ). Considera che altro è salire, e altro è essere portato in alto. Colui che sale, sale per virtù propria; invece chi è portato in alto, sale per opera di un altro. Cristo salì al cielo per virtù propria; tutti gli altri vi vengono portati per opera degli angeli. Per questo leggiamo che Enoch fu trasportato in Paradiso ( cf. Sir 44,16 ) e che Elia fu rapito su un carro di fuoco ( cf. Sir 48,9 ). E nella chiesa si canta: Verrà l'arcangelo Michele con una grande moltitudine di angeli, per condurre le anime nel paradiso della felicità ( cf. antico Ufficio di san Michele, arc. ). 6. Senso morale. Il cielo rappresenta la sublimità della contemplazione, oppure anche l'eccellenza, l'elevatezza di una vita santa. Leggiamo nel Deuteronomio: "La terra di cui stai per entrare in possesso non è come la terra di Egitto dalla quale sei uscito, e dove spargevi la tua semente come in un orto bene irrigato; ma è una terra sia montuosa che pianeggiante, la quale attende le piogge che vengono dal cielo: terra che il Signore Dio tuo ha sempre custodito, e alla quale i suoi occhi sono rivolti dal principio alla fine dell'anno" ( Dt 11,10.12 ). La terra di Egitto raffigura il mondo, o la carne, le cui acque sono le ricchezze e i piaceri con i quali viene irrigata come un orto, nel quale sono indicate la pompa del mondo e la lussuria della carne, di cui Isaia dice: "Quando diventerai come una quercia dalla quale si staccano le foglie, e come un orto senza acqua" ( Is 1,30 ). Nell'ora della morte le foglie delle ricchezze cadranno, l'acqua dei piaceri si inaridirà, e allora l'infelice peccatore resterà nudo e arido. Non è così invece la terra della penitenza, della quale, colui che esce dalla terra d'Egitto, deve entrare in possesso. La penitenza è montuosa, perché vi si arriva con fatica, e pianeggiante, perché larga e spaziosa man mano che vi si penetra. All'inizio ogni religione è montuosa, perché la salita è difficile, soprattutto per chi ancora non è esercitato; ma poi diventa pianeggiante, perché si allarga con l'andar del tempo. Questa terra non ha l'acqua dell'Egitto, ma attende dal cielo, cioè dalla sublimità della contemplazione o della vita santa, le piogge della devozione, della consolazione e della compunzione bagnata dalle lacrime, con le quali il Signore la visita e la irriga. E fa' attenzione che dice "attende"; e in questo è indicata la grande brama del penitente, o del religioso, che deve sempre attendere la consolazione o dalla contemplazione, o dalla predicazione, o anche dalla familiarità e dall'amicizia con il giusto. A questa terra "sono rivolti gli occhi del Signore", cioè lo sguardo della grazia divina, dall'inizio della conversione fino alla corruzione finale. E in questo cielo c'è il figlio dell'uomo, cioè "il verme", l'umile che si reputa un verme e figlio di verme, del quale dice Giobbe: "L'uomo è corruzione e il figlio dell'uomo è un verme" ( Gb 25,6 ), cioè corruzione da corruzione. L'umile si reputa corruzione, e quindi dice con Davide: "Chi perseguiti, o re d'Israele, chi perseguiti? Un cane morto e una pulce?" ( 1 Sam 24,15 ). Solo costui, e nessun altro, è nel cielo sopra descritto per la purezza dello spirito, discende dal cielo con la compassione verso il prossimo, e sale al cielo con l'elevazione della mente. E nessun altro, nessun superbo vi salirà: "Dio infatti resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia" ( Gc 4,6; 1 Pt 5,5 ). Amen. III. La passione di Cristo 7. "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto" ( Gv 3,14 ). Ecco che cosa leggiamo nel libro dei Numeri: "Il Signore mandò fra il popolo dei serpenti velenosi", perché il popolo aveva mormorato contro il Signore. E il Signore disse a Mosè: "Fabbrica un serpente di bronzo e mettilo come un segno: chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita" ( Nm 21,6-8 ). Il serpente di bronzo è figura di Cristo, Dio e uomo: il bronzo che, nonostante il passare del tempo, non si consuma, simboleggia la sua divinità, e il serpente la sua umanità, la quale fu innalzata sul legno della croce, come segno della nostra salvezza. Alziamo dunque i nostri occhi e guardiamo all'autore della nostra salvezza, Gesù Cristo ( cf. Eb 12,2 ). Consideriamo il Signore nostro, appeso alla croce, confitto con i chiodi. Ma ahimè! "La tua vita sarà come sospesa davanti a te … e non crederai alla tua vita?" ( Dt 28,66 ). Non dice "vita vivente", ma "vita sospesa". E cos'è mai più caro all'uomo della vita? La vita del corpo è l'anima; la vita dell'anima è Cristo. Ecco dunque, la tua vita è sospesa: perché non soffri, perché non soffri insieme con essa? Se è la tua vita, come è in realtà, come puoi ancora trattenerti, e non essere invece "pronto con Pietro e con Tommaso ad andare in carcere e a subire la morte insieme con lui? ( cf. Lc 22,33 ). Egli è sospeso davanti a te per invitarti a soffrire insieme con lui, come è scritto nelle Lamentazioni: "O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio dolore" ( Lam 1,12 ). Veramente non c'è un dolore simile al suo. Infatti quelli che ha redento con tanto dolore, li vede anche perdersi con tanta facilità. La sua passione fu sufficiente alla redenzione di tutti: ed ecco invece che quasi tutti tendono alla dannazione. E quale dolore potrà essere come questo? A questo dolore nessuno presta attenzione, anzi neppure lo si conosce. E perciò anche noi dobbiamo temere grandemente che, come in principio disse: "Mi pento di aver creato l'uomo" ( Gen 6,7 ), così non abbia a dire anche al presente: Mi pento di averlo redento. Se uno avesse faticato duramente per tutto l'anno nel suo campo o nella sua vigna, e poi non ne ricavasse alcun frutto, forse che non ne avrebbe dispiacere? Non si rammaricherebbe forse di aver tanto faticato? Dio stesso dice per bocca di Isaia: "Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Perché, mentre mi aspettavo che facesse uva buona, essa ha fatto uva selvatica?" ( Is 5,4 ). Ecco il dolore! "Io mi aspettavo che pronunciasse contro di sé una condanna", che si desse cioè alla penitenza, "ed ecco invece iniquità; aspettavo giustizia" verso il prossimo, " ed ecco invece le grida" degli oppressi ( Is 5,7 ). Ecco quale frutto offri al tuo coltivatore, vigna maledetta, vigna degna di essere estirpata e bruciata nel fuoco! E non solo si comportano iniquamente davanti a Dio, ma gridano all'esterno contro il prossimo, peccano cioè anche in pubblico. Inoltre "la tua vita è sospesa davanti a te", affinché tu, come in uno specchio, esamini e scruti in essa te stesso. Lì potrai constatare che le tue ferite sono state veramente mortali e che nessun medicamento avrebbe potuto guarirle se non il sangue del Figlio di Dio. Se osserverai attentamente, lì potrai scoprire quanto grande è la tua dignità e quanto sei prezioso, se per te è stato pagato un prezzo che è al di sopra di ogni valutazione. Mai un uomo può scoprire la sua dignità, meglio che allo specchio della croce, il quale mostra te a te stesso, come tu debba abbassare il tuo orgoglio, mortificare la lascivia della tua carne, pregare il Padre per coloro che ti perseguitano e affidare alle sue mani il tuo spirito. Ma avviene anche a noi ciò che dice Giacomo: "Se uno è solo ascoltatore della parola e non esecutore, può essere paragonato ad un uomo che osserva il suo volto nello specchio: appena si è osservato se ne va, e subito dimentica com'era" ( Gc 1,23-24 ), in che stato si è veduto. Così anche noi guardiamo il Crocifisso, nel quale osserviamo l'immagine della nostra redenzione: forse questa considerazione produrrà in noi una certa sofferenza, anche se molto piccola. Ma subito, quando ne distogliamo lo sguardo, ce ne allontaniamo anche con il cuore e ritorniamo al riso. Ma se sentissimo il morso di serpenti di fuoco, cioè le tentazioni dei demoni, e vedessimo le piaghe dei nostri peccati, allora fisseremmo subito i nostri occhi sul "serpente di bronzo" per poter restare in vita. Ma tu "non credi alla tua Vita" che dice: "affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna" ( Gv 3,15 ). Vedere e credere è la stessa cosa, perché quanto credi, tanto vedi. Perciò con viva fede credi alla tua Vita, per vivere con lui che è Vita, nei secoli eterni. Amen. IV. Sermone allegorico 8. "La pianta produsse il suo frutto, il fico e la vite diedero il loro vigore" ( Gl 2,22 ). Di questa pianta dice la Sapienza: "Quando l'acqua sommerse la terra, la Sapienza di nuovo la salvò, guidando il giusto per mezzo di uno spregevole legno" ( Sap 10,4 ). Lo "spregevole legno" è la croce, perché "Maledetto chiunque pende dal legno" ( Gal 3,13; cf. Dt 21,23 ); legno sul quale Cristo, Sapienza del Padre, fu disprezzato e schernito: "Ecco, tu che distruggi il tempio, e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso!" ( Mt 27,40 ); e "Se è il re d'Israele, scenda adesso dalla croce" ( Mt 27,42 ). Su questo legno e per mezzo di questo legno Cristo ha salvato il mondo, che in antico l'acqua del diluvio aveva cancellato e distrutto. Si legge nella Storia dei Greci che quando Adamo si ammalò, mando il figlio Set a cercargli una certa medicina. Set, arrivato nelle vicinanze del paradiso terrestre, fece presente all'angelo che lo guardava attraverso la porta, la malattia del padre. L'angelo staccò un ramo dall'albero del quale Adamo, contro il comando di Dio, aveva mangiato il frutto, e lo diede a Set dicendogli: "Quando questo ramo farà frutto, tuo padre guarirà". Sembra che il prefazio della messa di oggi si richiami proprio a questo, quando dice: "Donde sorgeva la morte, di là risorgesse la vita". Però Set, quando fu di ritorno, trovò Adamo, suo padre, già morto e sepolto: allora piantò il ramo vicino alla sua testa, e il ramo crebbe e diventò un albero maestoso. Si racconta che dopo molto tempo, la regina Saba vide quell'albero "nella casa del bosco" ( cf. 1 Re 7,2 ), cioè nella reggia di Salomone. Essa durante il ritorno alle sue terre scrisse a Salomone – ciò che non aveva avuto il coraggio di dirgli in persona – di aver visto nella casa del bosco un grande albero, al quale doveva essere impiccato un tale, per la cui morte i giudei sarebbero andati in rovina loro e mandato in rovina anche le loro terre e il loro popolo. Salomone, impressionato e pieno di paura, tagliò quell'albero e lo seppellì nelle viscere, nel profondo della terra, proprio nel luogo dove poi fu scavata la piscina detta Probatica ( cf. Gv 5,2 ). Avvicinandosi il tempo della venuta di Cristo, il tronco, quasi preannunciandone la presenza, affiorò sull'acqua, e da quel momento l'acqua della piscina incominciò ad agitarsi alla discesa dell'angelo ( cf. Gv 5,2-4 ). Nel giorno della Parasceve [ venerdì santo ] i Giudei cercavano un tronco sul quale inchiodare il Salvatore: e finalmente lo trovarono nella piscina, lo trasportarono fino al Calvario e su di esso inchiodarono Cristo. Così quel "legno portò il suo frutto", in virtù del quale Adamo ricuperò salute e salvezza. Questo tronco, dopo la morte di Cristo, fu di nuovo sepolto nelle viscere della terra. Dopo lungo tempo, fu ritrovato dalla beata Elena, madre di Costantino: per questo la festa di oggi si chiama "Invenzione ( ritrovamento ) della santa Croce". Ecco dunque che "l'albero ha dato finalmente il suo frutto" Dice la Sposa del Cantico dei Cantici: "Mi siedo all'ombra di colui che tanto desideravo, e il suo frutto è dolce al mio palato" ( Ct 2,3 ). E Geremia: "Il respiro della nostra bocca, l'unto del Signore, è stato preso per i nostri peccati; a lui abbiamo detto: Alla tua ombra vivremo fra le nazioni" ( Lam 4,20 ). L'ardore del sole, cioè la suggestione del diavolo o la tentazione della carne, che affliggono l'uomo, devono rifugiarsi subito all'ombra del prezioso albero e lì sedere, lì umiliarsi, perché solo lì c'è refrigerio e speciale rimedio contro la tentazione. Il diavolo, che per causa della croce ha perduto il suo potere sul genere umano, ha il terrore di avvicinarsi alla croce. Dice il Profeta: "Ho aperto la mia bocca e trassi a me lo spirito" ( Sal 119,131 ) [ il fiato ]. Chi apre la bocca nella confessione, riceve lo spirito della grazia, che è la vita dell'anima. "Cristo, Signore nostro, che è lo spirito", il respiro della nostra bocca, perché "in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" ( At 17,28 ), in lui crediamo con il cuore e lui confessiamo con la nostra bocca, è stato preso, legato e crocifisso per i nostri peccati. Ecco lo spirito e il frutto dolce al nostro palato. E se è così dolce nella confessione del suo nome e nel gaudio della contemplazione, come sarà nel godimento della sua maestà? E se è così dolce in questa misera vita, come credi sarà nella gloria? E se in mezzo alle nazioni, cioè tra le varie tentazioni, viviamo all'ombra della sua passione, in quale gloria vivremo nella luce della sua verità? 9. "Il fico e la vite produssero il loro vigore". Ecco quali vantaggi ci sono venuti dal legno della croce: il fico, cioè la dolcezza della risurrezione del Signore, e il vino della grazia, dei sette doni dello Spirito. Ecco le grandi ricchezze e le grandi delizie! Da quel legno venne il fico, da quel legno il vino nuovo, riposto negli otri nuovi ( cf. Lc 5,38 ). E noi ci troviamo al centro di queste grandi ricchezze, perché questa festa della Croce è situata tra la Pasqua e la Pentecoste. Noi, che siamo stati redenti per mezzo del legno della croce, stendiamo le mani ad ambedue questi frutti e saziamocene, perché essi ci infondono il loro vigore. Quasi nessun frutto è più dolce del fico; e cosa c'è di più soave della luminosità, agilità, trasparenza e immortalità, del corpo glorificato? Questa dolcezza dà all'uomo il vigore contro la falsa dolcezza del mondo e della carne. E il vino dello Spirito Santo, che allieta il cuore dell'uomo ( cf. Sal 104,15 ) infonde vigore affinché l'uomo gioisca nelle tribolazioni e in esse non venga meno. Si degni di infonderci questo vigore colui che è benedetto nei secoli. Amen. V. Sermone morale 10. "L'albero ha prodotto il suo frutto". Consideriamo il significato morale di queste tre piante: l'albero, il fico e la vigna. Si deve ricordare che nel paradiso terrestre c'erano tre alberi, ossia tre specie di alberi: la prima specie era quella con la quale Adamo si nutriva; la seconda era quella della vita; la terza quella della conoscenza del bene e del male. Dice infatti la Genesi: "Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi deliziosi alla vista e buoni da mangiare; in mezzo al paradiso l'albero della vita, e l'albero della conoscenza del bene e del male" ( Gen 2,9 ). Nella prima specie di piante è simboleggiata l'onestà della vita, nella seconda la purezza della coscienza, nella terza la finezza del discernimento. L'onestà della vita è bella e gradevole, perché nulla di ignobile ammette nell'operare, nulla di indecoroso nel parlare, nulla di sconveniente nel gestire e nel muoversi: così con i tratti della sua bellezza ricrea la vista del prossimo e delizia il palato della sua mente. Troviamo nel Cantico dei Cantici: "Tu sei bella, amica mia, e amabile, leggiadra come Gerusalemme" ( Ct 6,3 ), nome che s'interpreta "pacifica" e sta ad indicare appunto la vita onesta, che porta la pace e la tranquillità a tutte le membra. Allo stesso modo, l'albero della vita raffigura la purezza della coscienza. Leggiamo nei Proverbi: "È albero di vita per coloro che ad essa si attengono, ed è beato colui che ad essa si stringe" ( Pr 3,18 ). Ecco il paradiso, la cui etimologia signifca "sito vicino a Dio". E che cosa c'è di più vicino a Dio della coscienza pura? della sposa vicina al suo sposo? Dice Giobbe: "Mettimi vicino a te, e poi chiunque combatta pure contro di me" ( Gb 17,3 ). Parimenti, l'albero della conoscenza del bene e del male raffigura il discernimento. È questa la vera scienza, la sola che sa sapere, la sola che rende sapienti, che rende capaci di discernere tra puro e impuro ( cf. Lv 10,10 ), tra lebbra e non lebbra, tra vile e prezioso, tra luminoso e tenebroso, tra virtù e vizio. Il discernimento ( la discrezione ) consiste nell'osservare e soppesare tutte le cose e nel capire a che cosa esse tendano. Quindi dalle tre piante suddette, l'albero, il fico e la vigna, si può capire il significato dell'espressione: "L'albero produsse il suo frutto". L'albero della vita onesta produce il frutto dell'edificazione nel prossimo. L'albero della pura coscienza produce il frutto della contemplazione in Dio. L'albero del discernimento produce in te il frutto della bontà in te stesso. 11. Il fico deriva il suo nome da "fecondità": infatti è più fertile delle altre piante perché dà frutto due o tre volte in un anno, e mentre un frutto matura, un altro ne nasce. Il fico rappresenta la carità fraterna, la più feconda tra tutte le virtù, perché corregge chi sbaglia, perdona a chi offende, sazia chi ha fame; mentre pratica qualche opera di misericordia, pensa già ad un'altra da portare ad esecuzione. E la vigna, nella quale è indicata la compunzione, accompagnata dalle lacrime. Leggiamo nella Genesi: "Giuda legherà alla vigna il suo asinello, e alla vite la sua asina. Laverà nel vino la sua veste e nel sangue dell'uva il suo mantello" ( Gen 49,11 ). L'asina è simbolo della carne, l'asinello lo stimolo della carne. Giuda, cioè il penitente, perché la carne e i suoi stimoli non travalichino e non eccedano, li lega alla vigna o alla vite, cioè alla compunzione della mente, nella quale lava la sua veste, vale a dire purifica la sua coscienza, e anche il mantello, cioè l'attività esteriore. "Ci hai dato da bere il vino della compunzione" ( Sal 60,5 ). A proposito della vigna e del fico, leggiamo nel primo libro dei Maccabei: "Simone riportò la pace nel paese e Israele gioì di grande letizia. Ognuno sedeva sotto la sua vite e sotto il suo fico, e nessuno incuteva loro timore" ( 1 Mac 14,11-12 ). Simone, che significa "obbediente", o anche "che prova tristezza", è figura di Cristo il quale, obbediente al Padre, provò la tristezza della morte. "L'anima mia è triste fino alla morte" ( Mt 26,38 ). Mentre Cristo porta la pace sulla terra, cioè nella nostra carne, rintuzzando gli attacchi del diavolo e le rivolte della carne, Israele, cioè il nostro spirito, gioisce di una grande letizia, e così ognuno sta tranquillo sotto la vigna della compunzione interiore e il fico della carità fraterna. Ecco dunque che queste due piante infondono il loro vigore nel prossimo e in te stesso. Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli. Amen. Natività di san Giovanni Battista 1. "Per Elisabetta si compì il tempo del parto ed essa diede alla luce un figlio" ( Lc 1,57 ). In questo vangelo dobbiamo considerare due eventi: - la nascita del Precursore - l'imposizione del nome. I. Nascita del precursore 2. "Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio". La beata Vergine Maria restò tre mesi nella casa di Zaccaria, assistendo Elisabetta, sua parente, fino a che avvenne il parto. E si legge nel Libro dei Giusti che la beata Vergine Maria sollevò da terra Giovanni, appena nato. "Si compì il tempo". La sacra Scrittura usa di solito la parola "compimento" soltanto per la nascita, o per la morte o per le opere dei buoni, indicando così che la loro vita ha il compimento, la pienezza della perfezione. Per esempio: "Si compirono per Maria i giorni del parto" ( Lc 2,6 ); "Abramo morì, pieno di giorni" ( Gen 25,8 ). Al contrario, i giorni dell'empio sono inutili e vuoti. Per Elisabetta, dunque, si compì il tempo del parto. Zaccaria, come racconta Luca, era entrato nel tempio per offrire l'incenso; gli apparve Gabriele che gli disse: Elisabetta tua moglie ti partorirà un figlio ( cf. Lc 1,9-13 ). Questo gli fu annunziato nel mese di settembre, quando si celebrava la solennità chiamata giorno dell'espiazione o della propiziazione, e come oggi la promessa si avverò. Vedremo che cosa significhi in senso morale Zaccaria, che s'interpreta "ricordo del Signore" o "che ricorda il Signore"; che cosa significhi Elisabetta, che s'interpreta "la settima del mio Dio". 3. Elisabetta è figura dell'anima fedele che giustamente è detta "la settima del mio Dio" a motivo dei "tre settenari" che la riguardano in modo tutto speciale, vale a dire i sette doni ( dello Spirito Santo ), le sette domande ( del Padre nostro ) e le sette beatitudini. Con il primo settenario l'anima viene giustificata, con il secondo viene fatta progredire dal bene al meglio, con il terzo viene resa perfetta. O anche è detta "settima", ossia sabato, cioè riposo, perché nell'anima Dio riposa, in quanto essa si astiene da ogni lavoro servile. "L'anima del giusto è sede della sapienza" ( Gregorio ). Nella pace, cioè nell'anima pacifica, è la sua dimora ( cf. Sal 77,3 ). Di questo sabato, dice Isaia: "Sarai chiamata sabato di delizie e giorno santo e glorioso del Signore" ( Is 58,13 ). Giorno delicatus, deliciis pastus, nutrito di delizie. E le delizie sono appunto i tre settenari sopra indicati, nei quali l'anima si nutre per essere un sabato di delizie, cioè nutrito di santità di vita e di plauso della coscienza. Elisabetta concepisce da Zaccaria. Dice il salmo: "Mi sono ricordato di Dio e fui pieno di gaudio; mi immersi nella meditazione e venne meno il mio spirito" ( Sal 77,4 ). La donna concepisce nel piacere, e così anche l'anima nel ricordo del Signore concepisce con grande diletto. Infatti il salmo dice: "Nella via della tua testimonianza", cioè dei tuoi dolori, della tua passione, "ho trovato diletto, come nei più grandi i tesori" ( Sal 119,14 ). La corona di spine, la croce, i chiodi, la lancia e tutti gli atroci tormenti di Cristo formano la delizia del giusto: in essi egli trova più consolazione e diletto che in tutte le ricchezze di questo mondo; e perciò dice: "Mi sono ricordato di Dio e ne ho avuto grande gaudio". E questo gaudio produce due effetti: la pratica delle opere di carità, e il venir meno nello spirito della fiducia in se stesso; oppure anche i due effetti di cui parla il salmo: "Venne meno la mia carne e il mio cuore", cioè la tentazione della carne e la superbia del cuore, e così "Dio del mio cuore e mia parte è Dio per l'eternità" ( Sal 73,26 ) per concepire da lui e partorire il figlio della vita eterna. Considera che Elisabetta concepì nel settimo mese, cioè in settembre, e partorì nel mese di giugno. Così l'anima concepisce nel settimo giorno, il sabato, cioè nel riposo, con la devozione della mente; e in giugno, chiamato in ebraico siban, – che s'interpreta "santità del dono" – partorisce il figlio, cioè l'opera buona. Infatti il dono della grazia che ha concepito nella mente, lo dà alla luce nella santità delle opere. 4. "Si compì dunque per Elisabetta il tempo del parto, e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei" ( Lc 1,57-58 ). La Glossa commenta: Il parto dei santi, vale a dire la loro nascita, comporta una grande gioia per molti, perché essi sono una ricchezza per la comunità: i santi nascono per il bene di tutti. La giustizia ( la santità ) infatti è una virtù sociale, vantaggiosa per tutta la comunità: e quindi nella nascita di un giusto viene quasi anticipata una prova della vita futura e viene indicata la grazia della virtù che seguirà, prefigurata nella letizia dei vicini. Senso morale: i vicini sono figura degli angeli, parenti del giusto, i quali si rallegrano con l'anima che dà alla luce opere buone. Infatti Gabriele dice: "Molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti" ( Lc 1,14-15 ). Sono proprio molti quelli che si rallegrano, perché si rallegra Cristo, si rallegra l'angelo e si rallegra il prossimo. Si rallegra Cristo; dice infatti Luca: "E trovata la pecora, se la carica sulle spalle tutto contento" ( Lc 15,5 ). E la Glossa: Le spalle di Cristo sono le braccia della croce. Lì ha caricato i miei peccati, su quel patibolo ha riposato. Si rallegra l'angelo: "Io vi dico: c'è grande gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte" ( Lc 15,10 ). E la Glossa: Gli angeli, esseri intelligenti, si rallegrano che l'uomo sia riconciliato anche con loro; e questo ci stimola all'onestà, ci stimola a fare ciò che è gradito a quegli spiriti, dei quali dobbiamo desiderare la protezione e temere l'offesa. Si rallegra il prossimo, a quanto dice l'Apostolo nella seconda lettera ai Corinzi: "Godo della vostra tristezza, perché essa vi ha portati alla penitenza" ( 2 Cor 7,9 ). "Egli sarà grande". Osserva che il termine lat. magnus ( grande ) si riferisce all'animo, mentre se si dice grandis ( grande ) ci si riferisce al corpo. Se la tua opera è piccola ai tuoi occhi, sarà grande davanti al Signore. Egli deve crescere, io invece diminuire ( cf. Gv 3,30 ). Quando tu ti fai piccolo con l'umiltà, cresce in te la grazia con la fortezza dell'animo. "Davanti al Signore", non davanti agli uomini, che ingannano e sono ingannati, che chiamano male il bene e bene il male. L'uomo è ciò che è davanti a Dio, e niente di più. Se vuoi che la tua opera buona sia consacrata Dio, guàrdati dal bere il vino della vanagloria o altra bevanda inebriante che produce un'allegria sconveniente. Dice il Signore ad Aronne: "Non bevete vino o altra bevanda inebriante, né tu né i tuoi figli, quando dovete entrare nella tenda del convegno, perché non moriate" ( Lev 10,9 ); e "Quando l'uomo o la donna faranno voto di santificarsi e vorranno consacrarsi al Signore, si asterranno dal vino e da tutto ciò che può ubriacare" ( Nm 6,23 ). Chi desidera che la sua opera sia consacrata al Signore e venga accettata nella tenda della celeste Gerusalemme, si guardi dall'ebbrezza della vanagloria e da ogni indecorosa allegria. Amen. II. L'imposizione del nome 5. "E avvenne che all'ottavo giorno andarono a circoncidere il bambino" ( Lc 1,59 ). Il primo giorno indica la conoscenza della propria fragilità; il secondo il ricordo della propria iniquità; il terzo l'amarezza della contrizione per i propri peccati; il quarto l'effusione delle lacrime; il quinto l'accusa di se stessi nella confessione; il sesto la supplica al Signore; il settimo l'elemosina al prossimo; l'ottavo l'espiazione dell'astinenza imposta a se stessi. In questo ottavo giorno viene circonciso il bambino, perché la pratica dell'astinenza circoncide realmente il cuore dal colpevole consenso, e il corpo dall'illecito piacere dei sensi. Infatti si dice astenersi, cioè tenersi lontano. Sta lontano colui che non acconsente a illeciti piaceri né del cuore né del corpo. Leggiamo nella Genesi che gli angeli dissero a Lot: "Non fermarti in questa regione, né all'intorno, ma mettiti in salvo sul monte, se non vuoi perire insieme con tutti gli altri" ( Gen 19,17 ). "In questa regione" vuol dire il cuore e il corpo: non ci si deve fermare assolutamente né con gli atti, né con il consenso, indicato dalle parole "né all'intorno"; ma dobbiamo salvarci lontano, sul monte della pratica celeste, per non andare in rovina insieme con gli altri che vi restano dentro o se ne stanno all'intorno. "E volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria" ( Lc 1,59 ). Dice la glossa: Quelli che chiamano il bambino con il nome del padre, raffigurano coloro che, mentre il Signore proclama i nuovi doni della grazia, vorrebbero invece ch'egli predicasse ancora i soliti proclami dell'antico sacerdozio. Vogliono imporgli il nome del padre perché vogliono praticare la giustizia che viene dalla Legge, piuttosto che accogliere la grazia che viene dalla fede. La stessa cosa fanno oggi quei cattivi parenti e vicini che al figlio di un usuraio "vogliono imporre il nome del padre", vogliono cioè insegnargli a praticare la disonestà, la rapina e l'usura, proprio come suo padre. Ma sentiamo che cosa risponde la madre: "Niente affatto: si chiamerà Giovanni!" ( Lc 1,60 ). Con lo Spirito di profezia viene a conoscenza di ciò che non aveva saputo dal marito: colei che aveva profetizzato Cristo non poteva ignorare il [ nome del ] precursore, che l'angelo aveva rivelato a Zaccaria ( cf. Lc 1,13 ). Giovanni s'interpreta "grazia di Dio" perché fu il precursore della grazia, oppure anche "inizio del battesimo", con il quale la grazia viene infusa. L'anima fedele vuole che la sua opera si chiami "grazia", perché è la grazia che la compie, ed è per mezzo della grazia che desidera conservarla, dicendo con l'Apostolo: "Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana" ( 1 Cor 15,10 ). Perciò Giovanni s'interpreta anche "colui nel quale è la grazia", per due motivi: perché la conservi, e perché da essa sia conservato, e così la grazia non sarà vana, cioè non sarà inoperosa. Il vaso, mentre conserva il vino, viene anche dal vino conservato, il vino cioè impedisce che il vaso marcisca. Osserva i precetti e i precetti conserveranno te ( cf. Pr 7,2 ), cioè vivrai. Leggiamo infatti nell'Apocalisse: "Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch'io ti salverò nell'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra" ( Ap 3,10 ). Chi osserva la Parola con pazienza, con costanza, viene a sua volta conservato, perché nell'ora della tentazione non proferisca parole di insulto, ossia non acconsenta al peccato. O anche: l'ora della tentazione simboleggia il momento della morte, nel quale il diavolo mette in opera tutti i mezzi per tentare l'uomo e pervertire i suoi sentimenti, perché è in quel momento che lo conquista o lo perde definitivamente; e in quel momento lo tenta soprattutto per fargli perdere la fede e indurlo alla disperazione, perché non creda o non riceva i sacramenti della chiesa, e non speri più nella misericordia divina. Ma beato colui che in quel momento "sarà conservato" 6. "Le dissero: Non c'è nessuno nella tua parentela che si chiami con questo nome" ( Lc 1,61 ). La parentela depravata e perversa raffigura gli appetiti carnali e gli impulsi irragionevoli dell'animo, tra i quali non ce n'è alcuno che si chiami "grazia": si chiamano piuttosto concupiscenza e ostentazione. Né i demoni, né gli uomini perversi vogliono che l'opera nostra si chiami "grazia": vogliono che si chiami piuttosto superbia, lussuria e avarizia. Leggiamo nel libro di Rut: "Dicono le donne", cioè i fiacchi e gli effeminati: "Quella è proprio Noemi! Ma essa rispondeva: Non chiamatemi Noemi, cioè bella; chiamatemi piuttosto Mara, cioè amara, perché l'Onnipotente mi ha ricolma di grande amarezza" ( Rt 1,19-20 ). La chiamano bella, qualità che riguarda solo lo splendore della carnagione, e non amara, che è la qualità della penitenza, che consiste nell'amarezza del cuore, con la quale la grazia dell'Onnipotente riempie l'anima perché non si apra ad alcun piacere di amara dolcezza ( fellita, amara come il fiele ). "Allora domandarono con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse" ( Lc 1,62 ). Dice qui la glossa: "Quelli che con cenni interrogano il padre sul nome del bambino, raffigurano coloro che pretendono di assicurarsi la grazia della fede con la sola testimonianza della Legge. Poiché l'incredulità ( alle parole dell'angelo ) aveva tolto a Zaccaria la parola e l'udito, egli viene interrogato a cenni. Gabriele gli aveva detto: "Sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno" ( Lc 1,20 ). Egli allora "chiese una tavoletta", o la canna per scrivere ( lat. pugillaris, che si può tenere in pugno ), e scrisse: Giovanni è il suo nome" ( Lc 1,63 ), come per dire: Non siamo noi che imponiamo questo nome, perché lo ha già ricevuto da Dio. Ha il suo nome, che noi conosciamo, ma che non abbiamo scelto noi. "E tutti furono meravigliati" dell'accordo che c'era tra padre e madre. Si racconta nel libro di Daniele che da Dio fu mandato il dito della mano che scrisse sulla parete: Mene, Tekel, Peres. Parole che s'interpretano: Computò, pesò, divise ( cf. Dn 5,24-28 ). La mano è così chiamata perché è come l'aiuto, la difesa ( lat. munus ) di tutto il corpo: essa infatti somministra il cibo alla bocca e presta tutti i servizi necessari. Nella mano è raffigurata la grazia dello Spirito Santo, che viene data come aiuto e difesa ai fedeli, i quali ne vengono sostentati e resi capaci di operare il bene. Questa mano scrive nel cuore dell'uomo quelle tre parole, perché egli còmputi, enumeri tutti i suoi peccati nella confessione, e poi li soppesi, li confronti con le opere penitenziali di riparazione, affinché una congrua penitenza corrisponda alla gravità della colpa; e da quest'ultima si divida, si separi assolutamente e così persèveri nella penitenza sino alla fine. Ecco la scrittura ( il proclama ) della grazia! E chi lo mette in pratica, "Giovanni è il suo nome". La grazia dello Spirito Santo impone e scrive il nome della grazia, affinché ogni nostra opera buona sia gradita e piena di grazia, e sia attribuita alla grazia di colui dal quale questo nome è stato donato. A lui sia sempre onore e gloria per i secoli eterni. Amen. III. Sermone allegorico 7. "Neftali è un cervo slanciato, che fa bellissimi discorsi" ( Gen 49,21 ). Neftali s'interpreta "allargamento", o anche "mi allargò", ed è figura del beato Giovanni, che il Signore allargò con molte grazie, cioè rese ricco di grazia. Infatti gli dice: "Prima di formarti nel grembo materno, io ti conoscevo" ( Ger 1,5 ). E Gabriele: "Zaccaria, non temere, perché la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio che chiamerai Giovanni" ( Lc 1,13 ). E "prima che tu uscissi dal grembo, io ti ho santificato" ( Ger 1,5 ). Infatti: "Elisabetta fu piena di Spirito Santo" ( Lc 1,41 ), "e il bambino sussultò di gioia nel mio grembo" ( Lc 1,44 ). "E ti ho stabilito profeta tra le nazioni" ( Ger 1,5 ). Infatti: "Chi siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, più che un profeta" ( Mt 11,9 ). Giovanni è detto "cervo slanciato", cioè agile e veloce, che scavalca luoghi spinosi e scoscesi, perché incrementa la corsa con i salti. Così il beato Giovanni scavalcò rapidamente le ricchezze del mondo, raffigurate nelle spine, e i piaceri della carne, paragonati alle scabrosità del suolo. Infatti di lui si canta: "Fin dai più teneri anni – cioè a dodici anni – sei fuggito dalle folle degli uomini, e hai raggiunto le grotte del deserto" ( Breviario Romano, Inno al mattutino ). Luca racconta: "Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito", crebbe nella grazia dello Spirito Santo, "e visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele" ( Lc 1,80 ). E Matteo: "Giovanni portava una veste di peli di cammello e una cintura di pelle intorno ai fianchi; locuste e miele selvatico erano il suo cibo" ( Mt 3,4 ). E la Glossa commenta: "La rozzezza della veste e del cibo di Giovanni viene lodata; viene invece riprovata la pratica del ricco "che era vestito di porpora e bisso, e banchettava ogni giorno lautamente" ( Lc 16,19 ). Se il beato Giovanni, santificato nel grembo materno, del quale, a testimonianza del Signore, uno più grande non sorse tra i nati di donna ( cf. Mt 11,11 ), si tormentò con vesti così rozze e con cibo così vile, cosa possiamo dire noi miseri peccatori, concepiti nei peccati, pieni di vizi, che detestiamo ogni asprezza e cerchiamo delicatezze e comodità? Il Signore, come dice Isaia, "ci chiama al lamento e al pianto, a rasarci il capo e a vestirci di sacco. Ecco invece che si gode e si sta allegri; si sgozzano buoi e si scannano greggi, si mangia carne e si beve vino" ( Is 22,12-13 ). Nel lamento è indicata la contrizione del cuore, nel pianto l'effusione delle lacrime, nella rasatura del capo la rinuncia alle cose terrene e nella veste di sacco la mortificazione del corpo. A tutto questo ci invita il beato Giovanni con l'esempio della sua vita e con la parola della sua predicazione; per questo è detto: 8. "Fa bellissimi discorsi". Disse infatti: "Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino" ( Mt 3,2 ); e di nuovo: "Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri" ( Lc 3,4 ). Questi sono i discorsi bellissimi, perché la penitenza abbellisce l'anima; infatti è detto nel quarto libro dei Re che "il lebbroso Naaman scese nel Giordano e vi si lavò sette volte come gli aveva ordinato Eliseo, e la sua carne ridiventò come quella di un bimbo, e fu mondato dalla lebbra" ( 2 Re 5,14 ). Così il peccatore, contaminato dalla lebbra del peccato, deve discendere, cioè umiliarsi, e lavarsi nel Giordano, cioè nel fiume del giudizio, della condanna di sé, con la penitenza bagnata dalle lacrime; lavarsi sette volte, vale a dire durante tutta la sua vita, che si svolge per così dire nel giro di sette giorni; o anche perché al peccatore si impone di solito una penitenza di sette anni – secondo la parola di Eliseo –, ossia di Giovanni Battista, che gridava: "Fate penitenza!". In questo modo l'anima del peccatore ritroverà la purezza dell'innocenza battesimale, che ha ricevuto da bambino, appunto nel battesimo. Osserva poi che il beato Giovanni è detto "voce". La voce è aria. La voce rende manifeste le intenzioni, la volontà dell'animo. Giovanni nulla ebbe di terreno, cioè di terrenità, ma fu, per così dire, tutto aereo, perché viveva nella familiarità delle cose celesti ( cf. Fil 3,20 ). Oppure, è detto voce perché era molto gracile a motivo della sua rigorosa astinenza; egli annunciava la volontà di Cristo, il quale gridava nel deserto, cioè dal patibolo della croce: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito" ( Lc 23,46 ). O anche: come la voce precede la parola, così egli precedette il Verbo ( la Parola ) di Dio. Dice Giobbe: "Forse che tu fai spuntare a suo tempo Lucifero?" ( Gb 38,32 ). Come lucifero, la stella del mattino, annuncia il giorno, così il beato Giovanni ci ha annunciato Gesù Cristo, che è "il giorno" della vita eterna: "Colui che verrà dopo di me, è stato fatto prima di me" ( Gv 1,15 ), cioè è superiore a me per dignità. Sia egli benedetto nei secoli. Amen. IV. Sermone morale 9. "Neftali è un cervo slanciato". Leggiamo nel Deuteronomio: "Neftali godrà di grande abbondanza, sarà colmato di benedizioni dal Signore, possederà il mare e il meridione" ( Dt 33,23 ). Neftali, che s'interpreta "convertito" o "esteso", è figura del penitente che, convertito dalla sua via di iniquità, si estende, si allarga alle opere buone. Leggiamo nella Genesi che il Signore disse a Giacobbe: "Ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno" ( Gen 28,14 ). Nell'occidente sono simboleggiate le cose caduche di questo mondo, nell'oriente lo splendore eterno, nel settentrione, o aquilone, la suggestione diabolica e nel mezzogiorno la carità fraterna. Il penitente si estende a occidente, cioè alla cose caduche, per calpestarle; ad oriente, all'eterno splendore, per conquistarlo; a settentrione, alla suggestione diabolica per resisterle; a mezzogiorno, cioè alla carità fraterna, per amarla e praticarla. Fa' attenzione che mette per primo l'occidente e poi l'oriente, perché se uno prima di tutto non stende il suo piede per calpestare i beni temporali, non può certo stendere la sua mano per conquistare i beni celesti. Tramontino prima le cose del tempo, perché sorgano quelle dell'eternità. Questo Neftali gode dell'abbondanza della grazia in questa vita: "Le valli abbonderanno di frumento" ( Sal 65,14 ), cioè gli spiriti umili abbonderanno dei doni della grazia; e sarà ricolmo della benedizione della gloria nella patria: "Venite, benedetti del Padre mio!" ( Mt 25,34 ). Però nel frattempo, mentre è in questo mondo, deve prima possedere il mare, cioè l'amarezza della penitenza, e il mezzogiorno, quando il sole splende e riscalda, cioè la luce della sapienza per ciò che riguarda la contemplazione di Dio, e il calore per ciò che riguarda l'amore del prossimo. Quindi veramente "Neftali è un cervo slanciato". 10. Si legge nella Storia Naturale che il cervo impara a correre esercitandosi, e si abitua a scavalcare cespugli spinosi e larghe fosse. Quando avverte i latrati dei cani, dirige il suo cammino con il vento a favore per allontanare il suo odore; ha un udito finissimo quando tiene gli orecchi rizzati, ma se li abbassa non sente più nulla. Quando si sente male, mangia ramoscelli di olivo e così guarisce. Se viene colpito da indebolimento della vista, aspirando con le narici estrae dal nascondiglio della caverna un serpente, lo divora, e quando avverte il bruciore del suo veleno, corre ad una sorgente, e bevendo e tuffandosi in essa guarisce gli occhi e si libera di tutti gli umori superflui. Così il penitente, o anche il giusto, con la pratica della devozione e delle opere buone, migliora la sua condotta, per correre, senza stancarsi, nella giusta direzione, verso il premio della suprema chiamata. L'Apostolo dice a Timoteo: "Esèrcitati nella pietà" ( 1 Tm 4,7 ). Si legge sempre nella Storia Naturale che le api volano un po' per l'aria come per fare esercizio, poi rientrano negli alveari e si cibano. Ecco la pietà. Le api sono figura del giusto che si esercita nell'aria, cioè nella contemplazione delle cose celesti. "L'uccello nasce per il volo" ( Gb 5,7 ). "Volerò e mi riposerò" ( Sal 55,7 ). Dopo questo esercizio rientrano negli alveari, cioè nella propria coscienza, e lì si cibano nel gaudio e nella dolcezza dello spirito. Inoltre il penitente si abitua a saltare, perché l'abitudine è una seconda natura; si abitua a saltare i cespugli spinosi, cioè a disprezzare le ricchezze di questo mondo, e le larghe fosse, vale a dire i piaceri del corpo, e per questo è detto cervo slanciato. Nessuno diventa perfetto in un istante, e quindi ci dobbiamo abituare un po' alla volta a disprezzare le ricchezze e i piaceri. Un'abitudine si elimina con un'altra abitudine; e il filosofo dice: Scompariranno i vizi, se si prenderà l'abitudine di abbandonarli per qualche tempo. E ancora: La via più breve per giungere alla ricchezza è proprio il disprezzo della ricchezza. E infine: Sono un essere superiore e destinato a cose troppo grandi, perché io possa rimanere schiavo del mio corpo ( Seneca ). Così quando il penitente avverte il latrato dei cani, cioè le suggestioni dei demoni, orienta le sue opere nella la direzione del vento. E questo significa che in tutte le sue opere deve farsi guidare interiormente ed esternamente dall'umiltà. Nel vento favorevole è simboleggiata l'umiltà, in quello contrario la superbia. Avevano il vento contrario, e quindi facevano molta fatica a remare ( cf. Mc 6,48 ). Il vento favorevole è detto in lat. secundus, e suona quasi come secus pedes, presso i piedi. Maria, l'umile penitente, si pose dietro, presso i piedi del Signore e incominciò a bagnarglieli con le sue lacrime ( cf. Lc 7,38 ). Oppure anche secundus, favorevole, viene da seguire, perché il penitente prende la sua croce e segue il Crocifisso. Colui dunque che dirige la sua vita in questo modo, con il vento a favore, il diavolo non potrà mai sorprenderlo con la sua astuzia e la sua malizia. "Con le orecchie rizzate ha un udito finissimo". Il salmo: "All'udirmi, subito mi obbedivano" ( Sal 18,45 ). E Isaia: "Al mattino, al mattino rende attento il mio orecchio perché io lo ascolti come maestro. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio; e io non contraddico e non mi sono tirato indietro" ( Is 50,4-5 ). Nell'orecchio – in lat. auris, da haurio, bevo, perché l'orecchio beve i suoni – è simboleggiata l'obbedienza, la quale se è attenta con l'umiltà e aperta con la disponibilità, berrà il suono, perché sentirà il maestro, cioè Cristo, o il superiore; non contraddirà le sue parole né si tirerà indietro davanti alla sua volontà. E fa' attenzione che per ben due volte dice "al mattino", per indicare che l'obbedienza dev'essere pronta e ilare. "Al mattino – dice la sposa – alziamoci per andare alle vigne" ( Ct 7,12 ), cioè alle opere dell'obbedienza. Così pure il cervo, cioè il penitente, quando si accorge che sta per ammalarsi, che si sente indebolire e opprimere dalle tentazioni, mangia dei ramoscelli di olivo. L'olivo raffigura l'umanità di Cristo, dalla quale nel torchio della croce sgorgò come olio il suo sangue, con il quale risanò le piaghe del ferito. I ramoscelli di questo olivo sono i chiodi e la lancia, i flagelli e la corona di spine, e tutti gli altri strumenti della sua passione: se il penitente se ne nutre per mezzo della fede e della devozione, riceve nuovo vigore contro le tentazioni. Dice infatti Isaia: "Tu sei stato fortezza al povero, sostegno al bisognoso nella sua tribolazione, speranza nella tempesta e riparo d'ombra nella calura" ( Is 25,4 ). Il vero penitente è povero nello spirito e bisognoso di tante cose: per lui Cristo, "obbediente fino alla morte" ( Fil 2,8 ), è fortezza contro la prosperità del mondo perché non lo esalti; è fortezza contro le avversità del mondo perché non lo deprimano; è speranza nella tempesta della suggestione diabolica perché non lo travolga; è riparo d'ombra nell'ardore della concupiscenza carnale perché non lo incenerisca. Ancora, come il cervo anela alle sorgenti di acqua ( cf. Sal 42,2 ), così il peccatore pentito anela alla sorgente della confessione. Quando avverte che la sua anima è colpita dalla cecità, perché è priva della grazia, con l'aspirazione della narici, vale a dire con la contrizione, strappa ed estrae dall'oscura caverna della sua coscienza il serpente del peccato mortale. Si legge nel secondo libro dei Re: "Dalle sue narici saliva il fumo della sua ira" ( 2 Sam 22,9; Sal 18,9 ). Le narici del penitente simboleggiano l'acuta sensibilità che deve avere nel captare il profumo del paradiso e il fetore dell'inferno, e nello scoprire le astuzie del diavolo. Da queste narici deve salire il fumo, cioè il pentimento accompagnato dalle lacrime, e lo sdegno contro di sé, per imporsi la penitenza. In questo modo divora il serpente strappato dalla sua coscienza, perché nell'amarezza della sua anima ripensa attentamente e con ansia al peccato mortale e alle sue circostanze, e così si affretta alla sorgente della confessione dove, abbeverato dell'acqua delle lacrime e tuffato con l'umiltà nella fonte stessa della riconciliazione, depone finalmente tutto il superfluo e tutto ciò che nuoce alla sua anima, e così ringiovanisce. 11. "E fa discorsi bellissimi". Discorso si dice il lat. eloquium, discorso sciolto. Dice Luca: "Gli apostoli incominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi" ( At 2,4 ), cioè di parlare con scioltezza. Discorsi bellissimi sono le parole della confessione, che il peccatore convertito deve proferire con scioltezza, non involutamente, e non con apatia e noncuranza. Dice infatti Marco: "Si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente" ( Mc 7,35 ). E fa' attenzione che la confessione è detta bellissima, perché rende bella l'anima che era lebbrosa: "Confessione e bellezza al suo cospetto" ( Sal 96,6 ). Questa è l'acqua del Giordano che monda la lebbra di Naaman, la sorgente della salvezza che elimina dal cervo la cecità e gli umori superflui, l'efficacia della confessione che rende bella l'anima, perché piaccia al suo sposo e possa giungere al suo amplesso. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen. Festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo 1. In quel tempo: "Il Signore disse a Simone Pietro: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?" ( Gv 21,15 ). In questo vangelo si devono considerare tre fatti: - la triplice dichiarazione di amore al Signore dell'apostolo Pietro, - il triplice affidamento che gli viene fatto della chiesa, - il martirio di Pietro. I. La triplice dichiarazione di amore al Signore, fatta dal beato Pietro 2. "Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?" Dice la Glossa: Gesù domanda quello che già sa: se Pietro lo ama di più. Pietro dichiara quello che sa di se stesso, cioè solo che lo ama, perché non sa in che misura lo amino gli altri, e quindi non dice se lo ama più degli altri. Ecco che così insegnò a non sentenziare temerariamente su fatti nascosti, e in quanto a sé, memore della sua precedente triplice negazione, risponde con maggiore cautela e prudenza. E osserva che Gesù interroga Pietro non una sola volta, ma una seconda e una terza volta; e la terza volta sente finalmente di essere amato da Pietro. Alla triplice negazione si contrappone una triplice dichiarazione di amore, affinché la lingua non resti schiava più del timore che dell'amore. La prima volta, come racconta Matteo, "negò davanti a tutti ( di conoscere Gesù ) dicendo: Non capisco che cosa tu voglia dire" ( Mt 26,70 ). La seconda volta "negò con giuramento: Non conosco quell'uomo" ( Mt 26,72 ). La terza volta "incominciò a imprecare e a giurare che non conosceva quell'uomo" ( Mt 26,74 ). Qui, la prima e la seconda volta dichiarò: "Tu sai che io ti amo" ( Gv 21,15-16 ). La terza volta rispose: "Signore, tu sai tutto: tu sai che io ti amo" ( Gv 21,17 ). Commentando il vangelo di Luca, la Glossa dice: A mezzanotte nega, al canto del gallo si pente, e dopo la risurrezione dichiara per tre volte di amare colui che, prima della luce, per tre volte aveva rinnegato: l'errore commesso nelle tenebre dell'oblio, lo riparò con il ricordo della luce sperata, e alla presenza della stessa vera luce raddrizzò perfettamente ciò che era caduto. 3. Ricordati che tre sono le parti del corpo dalle quali procede la morte o la vita: il cuore, la lingua e la mano. Dal cuore viene il consenso al bene o al male; dalla lingua il passo successivo della parola; dalla mano l'esecuzione dell'opera. Se con queste tre parti del corpo abbiamo rinnegato il Signore, poiché i contrari si curano con i contrari, con le stesse confessiamo il Signore, rinnoviamogli la nostra fede. Rinnega con il cuore colui che non crede, o che acconsente al peccato mortale. Per questo Stefano diceva: "Hanno rinnegato Mosè, dicendo: Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi?" ( At 7,35 ). Mosè, nome che s'interpreta "acquatico", raffigura la fede che si nutre nelle acque del battesimo, o anche la grazia della compunzione. La fede, che è la prima delle virtù, è come il capo; la grazia della compunzione è come il giudice: con essa il peccatore giudica se stesso e condanna il male che ha fatto. Invece coloro che non credono, o che nel loro cuore acconsentono al peccato mortale negano, rifiutano questo Mosè e non vogliono che venga costituito loro capo e giudice. Allo stesso modo rinnega Cristo con la lingua colui che distrugge la verità con la menzogna, o calunnia e denigra il prossimo. Dice infatti Pietro: "Voi di fronte a Pilato avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino" ( At 3,13-14 ). Pilato, nome che s'interpreta "bocca del martellatore", raffigura la menzogna e la calunnia, alla cui presenza [ come avvenne davanti a Pilato ] negano Cristo coloro che rinnegano la sua verità con la menzogna, e con il martello della loro bocca calunniatrice colpiscono e distruggono l'amore verso il prossimo. La detrazione consiste nel trasformare in male il bene fatto dagli altri, o nello sminuirlo. Quelli che fanno ciò chiedono che venga loro graziato un assassino, cioè il brigante Barabba, vale a dire il diavolo, e che Cristo venga crocifisso. Parimenti rinnega con la mano, colui che di fatto agisce al contrario di ciò che dice. "Rinnegano Dio con i fatti" ( Tt 1,16 ), dice l'Apostolo. Coloro che in questo modo rinnegano Cristo tre volte nelle tenebre dei peccati, al canto del gallo, cioè alla predicazione della Parola di Dio, si pentano, per essere poi capaci, nella luce della penitenza, di dichiarare per tre volte insieme col beato Pietro: "Amo, amo, amo!". Amo con il cuore per mezzo della fede e della devozione; amo con la lingua con la professione della verità e con l'edificazione del prossimo; amo con la mano con la purezza delle opere. Amen. II. Il triplice affidamento della chiesa al beato Pietro 4. "Pasci i miei agnelli" ( Gv 21,15-16 ). Fa' attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: "pasci", e neppure una volta "tosa" o "mungi". Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, "pasci i miei agnelli" in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l'amore verso Dio si prova con l'amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui "il re di Sodoma", cioè il diavolo, "dice: Dammi le anime, tutto il resto prendilo per te" ( Gen 14,21 ), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: "Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandonaa il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato" ( Zc 11,17 ). Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella chiesa un simulacro di pastore: come Dagon, posto presso l'Arca del Signore ( cf. 1 Sam 5,2 ): era un idolo, un simulacro: aveva cioè l'apparenza di un dio, ma non la realtà. Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c'è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? "Cos'ha a che fare la paglia con il grano?" ( Ger 23,28 ). "Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?" ( 2 Cor 6,15 ). Tutto il braccio di quest'idolo s'inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge ( cf. Gv 10,12 ), e il predone, cioè l'eretico, lo rapisce. Invece il buon pastore, che ha dato la vita per il suo gregge ( cf. Gv 10,15 ), di esso sempre sollecito, avendolo comprato a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: "Pasci i miei agnelli". Pascili con la parola della sacra predicazione, con l'aiuto della preghiera fervorosa e con l'esempio della santa vita. 5. E fa' attenzione: per due volte gli raccomanda gli agnelli, che sono più delicati e deboli, e una volta sola le pecore. E qui è dato di capire che coloro che nella chiesa sono più delicati e più deboli devono essere assistiti e sostenuti con maggiori attenzioni, sia spirituali che materiali. Dice l'Apostolo: "Confortate i pusillanimi e sostenete i deboli" ( 1 Ts 5,14 ). Dice infatti la Genesi: "Dio prese Adamo", cioè il prelato, "e lo pose nel giardino delle delizie", vale a dire nella chiesa, "perché lo coltivasse" con le opere di misericordia verso i suoi fedeli "e lo custodisse" ( Gen 2,15 ) con la predicazione della parola, e insieme con i fedeli meritasse di raggiungere il premio del regno. Amen. III. Il martirio del beato Pietro 6. "In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi" ( Gv 21,18 ). Colui che gli aveva predetto la sua triplice negazione, gli predice ora anche il suo martirio. Pietro, fortificato dalla risurrezione di Cristo, era in grado di fare ciò che temerariamente aveva promesso quando era ancora debole nella sua fede [ di essere pronto cioè a morire con lui ]. Ormai non ha più paura di perdere questa vita, poiché con la risurrezione del Signore ha di fronte agli occhi il modello, l'ideale di un'altra vita. "Ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani" ( Gv 21,18 ), cioè sarai crocifisso; e spiega anche come avverrà: "e un altro", cioè Nerone, "ti cingerà" con le catene, "e ti porterà dove tu non vuoi" ( Gv 21,18 ), cioè alla morte. Quell'avversione alla morte Pietro la provò contro la sua volontà, ma poi per sua volontà ne fu liberato, perché non volle lasciarsene vincere ma volle vincerla con la forza della volontà, e così si liberò di quel senso di angoscia, a motivo del quale nessuno mai vorrebbe morire; senso che è talmente radicato nella natura umana, che neanche la vecchiaia riuscì ad eliminare in Pietro. Anche Gesù, del resto, disse: "Passi da me questo calice" ( Mt 26,39 ). Ma per quanto grande sia l'avversione alla morte, essa viene vinta dalla forza dell'amore: se non ci fosse l'avversione alla morte o questa avversione fosse debole e leggera, non sarebbe così grande la gloria del martirio. "Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio" ( Gv 21,19 ); con quella morte Pietro mostrò in quale misura Dio debba essere onorato ed amato. 7. Senso morale. "Quando eri più giovane". Leggiamo nel libro dei Proverbi: "La prostituta, accalappiato un giovane, lo bacia e lo accarezza con atteggiamento provocante, dicendogli: Vieni, ubriachiamoci d'amore, abbandoniamoci ai sospirati amplessi. E quello subito le va dietro come un bue condotto al macello e come un caprone libidinoso" ( Pr 7,10.13.18.22 ). La prostituta è figura del mondo e della carne, che accalappiano il giovane, cioè lo spirito, per mezzo del piacere, lo baciano per mezzo del consenso, lo accarezzano passando a vie di fatto. "Vieni, ubriachiamoci di amore", cioè con la gola e la lussuria, "abbandoniamoci ai sospirati amplessi" per mezzo dell'abitudine perversa. E poiché non è ancora vecchio, ma giovane, cioè leggero e incostante come un giovenco o "un caprone libidinoso", segue gli istinti della carne e vi si sottomette. "Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi". Ci sono delle parole simili in Geremia: "Giovenca snella e bellissima è l'Egitto, ma dall'aqulone ( dal settentrione ) verrà il suo domatore" ( Ger 46,20; e Osea: "Come una giovenca in calore ha deviato Israele" ( Os 4,16 ); e "Efraim, vitella ammaestrata a far volentieri la battitura del grano; ed ecco io monterò sopra il suo bel collo: salirò sopra Efraim" ( Os 10,11 ). O libertà schiava, legarsi con la catena della propria volontà, e andare dovunque spinge il proprio istinto! La vitella, così chiamata da "verde età" ( lat. vitula da viridi aetate ), raffigura l'uomo ancor giovane, cioè leggero e incostante, che è detto elegante perché piace a se stesso, bello e appariscente all'esterno, ma sempre "Egitto", cioè "tenebroso" dentro, nella sua coscienza: gli arriva dall'aquilone, cioè dal diavolo, il domatore, l'istinto della sua volontà che lo porta facilmente a cadere e a deviare dall'obbedienza a Dio e al suo superiore. Egli è come una vitella che viene tolta dalla battitura del grano dell'aia e portata sul prato o alla stalla, ma essendo abituata alla battitura del grano, non trova requie finché non ritorna al suo solito lavoro. Ci sono molti che non stanno bene se non quando faticano. A costoro sono applicate le parole della Sapienza: "Ci siamo affaticati sulla via dell'iniquità e della perdizione; abbiamo camminato per vie impraticabili", cioè quelle della nostra volontà, "ma non abbiamo conosciuto la via del Signore" ( Sap 5,7 ), cioè la via dell'obbedienza, attraverso la quale egli è venuto a noi. È da stolti, dice Gregorio, stancarsi lungo la via e non voler portare a termine il viaggio. Invece il buon Dio "sale sopra Efraim e schiaccia il suo bel collo" vale a dire la sua vanagloria e la superbia del suo cuore, lo umilia perché si sottometta e diventi obbediente. 8. "Ma quando sarai vecchio" ( Gv 21,18 ). Dice la Sapienza: "Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola con il numero degli anni; la canizie dell'uomo sta nei suoi sentimenti; vera longevità è una vita senza macchia" ( Sap 4,89 ). Vecchio, anziano si dice in lat. senex, perché ignora se stesso ( lat. senescit, se nescit ). Chi vuole essere perfetto obbediente è necessario che sia anziano, deve cioè ignorare se stesso, ignorare la propria volontà. Si legge infatti nella Genesi: "Isacco era invecchiato, i suoi occhi si erano offuscati e non poteva più vedere" ( Gen 27,1 ). Isacco, che s'interpreta "sorriso", è figura dell'uomo obbediente che deve obbedire lietamente alla volontà di colui che comanda e ignorare la propria. In questa anzianità ( di virtù ) la vista si offusca e non può vedere chiaramente, non può cioè distinguere. Dice Bernardo: L'obbedienza perfetta, soprattutto nel principiante, dev'essere indiscussa, cieca, non deve cioè discutere su ciò che viene comandato o perché venga comandato, ma deve solo sforzarsi di eseguire fedelmente e umilmente ciò che viene ordinato dal superiore. Infatti continua: "Tenderai le tue mani" a ciò che è comandato dall'obbedienza, "e un altro", cioè il superiore, "ti cingerà", perché ormai sei vecchio e non più giovane come una volta, quando "ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi". Ma adesso "ti condurrà dove tu non vuoi", perché tu dica con Cristo: Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu. Padre, non si faccia la mia volontà, ma la tua ( cf. Mt 26,39.42 ); e con Davide: "Stavo davanti a te come un giumento" ( Sal 73,23 ). Colpisci con la frusta, stimola con il pungolo, sprona con gli speroni, carica con il peso, nutri con cibi rozzi! Così si fa con il giumento, e io "sto davanti a te come un giumento" perché tu mi conduca dove vuoi e faccia di me ciò che vuoi, perché davanti a te sono come un giumento, anzi come un morto. "Gli disse questo per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio". Concordano le parole della Genesi: "Abramo deperì e morì dopo una serena vecchiaia, in età molto avanzata e sazio di anni" ( Gen 25,8 ). Fa' attenzione, che chi vuol essere perfetto obbediente deve spogliarsi di tre cose: del suo modo di vedere, della sua volontà e del suo corpo. Abramo, che obbedì al comando del Signore e, senza sapere dove era diretto, uscì dalla sua terra, dalla sua parentela e dalla casa paterna, è il vero obbediente che rinuncia al suo modo di vedere per uniformarsi a quello del superiore, anche se questi è poco dotato e inesperto; "morto in serena vecchiaia" riguarda la rinuncia alla propria volontà; "in età molto avanzata" si riferisce all'indebolimento del corpo e alla propria decrepitezza. Se l'obbediente sarà dotato di queste qualità, non vuoti e vani, ma pieni saranno i suoi giorni. Con questa morte l'obbediente glorifica il Signore qui in terra, e quindi in cielo sarà glorificato dal Signore, che è benedetto nei secoli. Amen IV. Sermone allegorico sui santi apostoli Pietro e Paolo 9. "Rallègrati, Zabulon, nella tua uscita, e tu, Issacar, nelle tue tende. Chiameranno i popoli sulla montagna e immoleranno sacrifici legittimi. Succhieranno come latte le inondazioni del mare" ( Dt 33,18-19 ). In questi due patriarchi sono raffigurati i due prìncipi della chiesa Pietro e Paolo. Zabulon, il cui nome s'interpreta "abitazione della fortezza", è figura del beato Pietro, che dopo la discesa dello Spirito Santo divenne l'abitazione di sì grande fortezza che, mentre in precedenza aveva rinnegato il Signore alla voce di una serva, in seguito non ebbe paura neppure della spada di Nerone. "Dalla parola del Signore furono resi saldi i cieli", cioè gli apostoli, "e dal soffio della sua bocca tutta la loro fortezza" ( Sal 33,6 ); e "Io ho reso salde le sue colonne" ( Sal 74,4 ). Issacar, il cui nome s'interpreta "uomo della ricompensa", è figura del beato Paolo, che fu veramente l'uomo della ricompensa eterna, per la quale faticò più di tutti gli altri ( cf. 1 Cor 15,10 ). "Vide che il riposo era bello e che la terra era ottima, e piegò le spalle e il dorso a portare il peso" ( Gen 49,15 ): il vangelo sulle spalle e, per il vangelo, il flagello sul dorso, e quindi la ricompensa come premio. "Guai a me se non predicassi il vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa ho diritto alla ricompensa ( 1 Cor 9,16-17 ). Dice Giobbe: "Colui stesso che mi giudica scriva un libro, affinché io lo porti sulle mie spalle" ( Gb 31,35-36 ). Gesù Cristo, al quale il Padre ha affidato ogni giudizio ( cf. Gv 5,22 ), scrisse il libro, cioè il vangelo, che Paolo, vaso di elezione, portò sulle spalle dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d'Israele ( cf. At 9,15 ), dai quali fu colpito tre volte con le verghe, e una volta fu lapidato per il nome di Cristo ( cf. 2 Cor 11,25 ). 10. Questi due apostoli furono, come oggi, lieti nel loro martirio: Pietro "nella sua uscita", dal supplizio della croce alla gloria dell'eterna beatitudine; Paolo "nelle tende", uscendo dalla tenda del suo corpo ed entrando nella tenda dell'abitazione celeste. Pietro è lieto della croce, Paolo della spada, perché sono sicuri dell'eterna ricompensa, alla quale, mentre erano in vita, avevano chiamato i popoli loro affidati. "Chiameranno i popoli sulla montagna". Leggiamo nel libro dei Numeri: "Il Signore parlò a Mosè dicendo: Fatti due trombe d'argento battuto, con le quali potrai radunare la moltitudine" ( Nm 10,1-2 ). Questi due apostoli sono detti trombe d'argento per la grande risonanza della loro predicazione; "d'argento battuto" perché subirono il martirio. Queste due trombe le ha fatte Cristo, cioè le ha scelte con la sua grazia, e per mezzo di esse ha chiamato la moltitudine dei popoli alla montagna della vita eterna. E come le trombe di Mosè radunavano il popolo per la guerra, per i banchetti sacri e per le solennità ( cf. Nm 10,9-10 ), così questi due apostoli chiamarono i popoli alla guerra contro i vizi. Dice Pietro: "Siate temperanti e vegliate, perché il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente, va in giro cercando chi divorare" ( 1 Pt 5,8 ). E Paolo: "Imbracciate lo scudo della fede, con il quale potrete respingere e spegnere tutti i dardi infuocati del maligno" ( Ef 6,16 ). Li chiamarono ai banchetti dell'innocenza e della santa vita. Pietro: "Come bambini appena nati, bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza: se davvero avete già gustato come è buono il Signore" ( 1 Pt 2,2-3 ). E Paolo: "Banchettiamo con azimi di sincerità e di verità" ( 1 Cor 5,8 ). Li chiamarono alla grande festa della patria celeste. Pietro: "Esulterete di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, la salvezza dell'anima vostra" ( 1 Pt 1,8-9 ). E Paolo: "Correte anche voi in modo da conquistare il premio" ( 1 Cor 9,24 ); e di nuovo: "Finché arriviamo tutti allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo" ( Ef 4,13 ). E dopo che queste trombe, questi due apostoli, ebbero chiamato i popoli ai tre impegni indicati, sentiamo che cosa hanno fatto essi stessi. "E immoleranno sacrifici legittimi" ( alla lett. vittime di giustizia ). È ciò che hanno fatto oggi, immolando a Cristo, con il martirio, i loro corpi come vittime di giustizia, perché erano giusti e santi. 11. E quanto dolce sia stata per loro l'amarezza del martirio, è detto chiaramente: "Essi sorbiranno come il latte le inondazioni del mare". Osserva che il mare che irrompe sulla terra è di aspetto spaventoso e di gusto amaro; al contrario il latte è di colore gradevole e di sapore dolce. E in questo termine "sorbiranno", sono poste in evidenza la brama e il piacere. O amore di Cristo, che rendi dolce ogni amarezza! Il martirio degli apostoli fu spaventoso e amarissimo, ma l'amore di Cristo lo rese loro gradito e dolce, tanto che lo cercarono con impazienza e lo accolsero con letizia, e così furono fatti degni di godere in eterno, insieme con colui che è benedetto nei secoli eterni. Amen. V. Sermone morale 12. "Rallégrati Zabulon nella tua uscita, e tu, Issacar, nelle tue tende". In senso morale, questi due patriarchi sono figura dei due precetti dell'amore: di Dio e del prossimo. Zabulon, che s'interpreta "sostegno dell'abitazione", è figura dell'amore di Dio. L'abitazione è la mente dell'uomo, il cui sostegno, la cui ricchezza è l'amore di Dio: ricchezza più grande non esiste. Leggiamo infatti nei Proverbi: "Beato l'uomo che ha trovato la sapienza e che abbonda di prudenza", cioè di amore di Dio; "il suo possesso è preferibile a quello dell'argento e il suo frutto a quello dell'oro raffinato" ( Pr 3,13-14 ). In queste parole si afferma che la dolcezza della contemplazione, che scaturisce dall'amore verso il creatore, è più preziosa di qualunque ricchezza, e nulla di quanto si possa desiderare teme il confronto con essa. Oppure, l'amore di Dio è detto sostegno dell'abitazione perché sostiene la mente che lo possiede, affinché non crolli. Guai a quell'abitazione che è priva di questo sostegno. Dice il salmo: "Affondo nel fango e non ho sostegno" ( Sal 69,3 ). Il fango è detto in lat. limus, quasi come lenis, cioè molle; è figura dell'amore del mondo e della carne, nel quale affonda colui che non ha l'amore di Dio su cui appoggiarsi, e perciò viene ingoiato dal fango. Issacar, che s'interpreta "mia ricompensa", raffigura l'amore del prossimo. L'amore del prossimo piega le spalle a portarne i pesi, come dice l'Apostolo: "Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" ( Gal 6,2 ), cioè la legge dell'amore. L'amore del prossimo è detto "asino forte", perché porta i pesi del prossimo durante questa vita, per averne la ricompensa poi nella patria. Dice il salmo: "Dopo aver dato ai suoi amici il sonno, ecco i figli, eredità del Signore; la sua ricompensa è il frutto del ventre" ( Sal 127,2-3 ). Dolce è il sonno dopo la fatica. "Amici" è detto in lat. dilecti, come "legati con due" cose. Avendo dunque dato, dopo la fatica, il sonno, cioè il riposo, ai suoi amici, vale a dire a quelli che sono stati legati con il vincolo del duplice comandamento della carità, ecco l'eredità del Signore, perché in quel sonno, in quel riposo è raffigurata la conquista della patria eterna, che è la ricompensa del figlio, adottato per mezzo della grazia, che è frutto del ventre, cioè della madre chiesa. Oppure: gli amici sono l'eredità del Signore, e sono la ricompensa del figlio Gesù Cristo, dati a lui dal Padre come ricompensa della sua passione; e questo Figlio è frutto del ventre verginale: "Benedetto il frutto del tuo ventre" ( Lc 1,42 ). 13. Zabulon dunque, cioè l'amore di Dio, "si allieta nella sua uscita". In queste parole è indicata la vita contemplativa: chi vuol progredire in essa deve uscire quanto prima non solo dalle cure del mondo, ma anche dalle proprie, uscire cioè da se stesso. Si legge infatti nella Genesi: "Abramo corse incontro al Signore dall'ingresso della tenda e lo adorò prostrato a terra; quindi disse: Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo" ( Gen 18,2-3 ). La tenda raffigura la pratica della vita attiva, dalla quale esce e corre incontro al Signore colui che s'innalza prontamente alla contemplazione, e come fuori di sé nell'estasi della mente, nel gaudio dello spirito contempla lo splendore della somma Sapienza. E per restarvi immerso più a lungo, la prega di non passare oltre. Si rallegra quindi Zabulon nella sua uscita, si rallegra anche Issacar, cioè l'amore del prossimo, nelle sue tende, vale a dire nella pratica della vita attiva, nella quale si affatica per alleviare le necessità del prossimo. Di queste tende si legge nel libro dei Numeri: "Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele! Sono come valli boscose, come orti presso un fiume che li irriga, come tende solidamente piantate dal Signore, come cedri lungo le acque" ( Nm 24,5-6 ). Con queste stupende parole viene indicato come dev'essere colui che vuole dedicarsi alla vita attiva. Giacobbe, che s'interpreta "lottatore", si chiamava anche Israele, che significa "vede Dio": è figura dell'uomo che fa vita attiva: ora è in lotta, ora è chiuso nell'osservatorio della sua mente; come Giacobbe, ora unito a Lia, che significa "laboriosa", ora a Rachele, che significa "visione del principio", cioè di Dio. Le tende, o le dimore, raffigurano propriamente la pratica, il servizio della vita santa, che è e dev'essere "bella" per l'onestà dei costumi; "come le valli boscose" per l'umiltà della mente, la quale offre la protezione dell'ombra contro gli stimoli della carne; "come orti presso un fiume che li irriga" con l'abbondanza delle lacrime; "come tende che il Signore stesso ha piantate solidamente" per la costanza dell'animo e per la perseveranza sino alla fine; "come cedri", per la sublimità della speranza, per il profumo della buona riputazione che mette in fuga i serpenti della calunnia; "vicini alle acque" cioè ai carismi della grazia. Chi possiede tali tende può a buon diritto rallegrarsi e vivere in esse felice. 14 - "Chiameranno i popoli alla montagna". Considera che c'è l'uomo interiore e l'uomo esteriore, e ognuno dei due ha il suo popolo. L'uomo interiore ha un "popolo" di pensieri e di sentimenti; l'uomo esteriore invece ha un "popolo" di membra e dei sensi. L'amore di Dio chiama "il popolo" dell'uomo interiore alla montagna, cioè alla sublimità della santa contemplazione, per radunarlo al convito di cui parla Isaia: "Su questo monte il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli un convito di carni succulente e di vini raffinati" ( Is 25,6 ). Quando la mente si eleva nella contemplazione, allora il popolo si raduna sul monte, perché i pensieri si liberano dalle vane divagazioni, e i sentimenti si staccano dagli illeciti desideri, e allora il Signore prepara loro un convito, cioè il gaudio, di carni succulente, vale a dire di luce di sapienza interiore con la quale la coscienza si fortifica. "In voce di esultanza e di gioia, suoni festosi dei convitanti" ( Sal 42,5 ). Come l'animale quando è ben sazio salta e gioca felice, così l'anima, quando ha assaporato le delizie della contemplazione, esulta e tripudia. Il convito poi, rallegrato da vini prelibati, simboleggia la consolazione procurata allo spirito dall'effusione delle lacrime. E questo duplice gaudio pervade pensieri e sentimenti, si trasforma cioè in conoscenza e amore. Parimenti l'amore del prossimo chiama alla montagna, cioè alla sublimità dell'amore fraterno, il popolo dell'uomo esteriore, perché le membra e i sensi siano anch'essi al servizio del prossimo per sovvenire alle sue necessità. Dice infatti Aggeo: "Salite sul monte, portate il legname, edificate la casa: in essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria" ( Ag 1,8 ). Sale sul monte chi ama il prossimo; porta legname colui che lo sopporta; gli edifica una casa quando gli provvede ciò che gli è necessario. 15. "E immoleranno vittime di giustizia". "Sacrificate sacrifici di giustizia" ( Sal 4,6 ). L'amore di Dio immòla la vittima in spirito di umiltà e con cuore contrito ( cf. Dan 3,39 ); l'amore del prossimo si pratica con la fatica e con la sofferenza del corpo. Queste vittime sono dette "di giustizia", perché vengono offerte unicamente per motivi di carità. Sono veramente "vittime di giustizia", non di vanagloria, come dice Osea: "Faceste cadere le vittime nell'abisso" ( Os 5,2 ): fanno questo coloro che piangono sulle sventure dei fratelli, o anche li soccorrono nelle loro necessità solo per vanagloria. "Succhiano come il latte le inondazioni del mare". Chi vuole succhiare deve stringere le labbra. Nessuno può succhiare qualcosa con la bocca aperta. Succhiare si dice in lat. sùgere, da sumendo àgere, cioè agire assumendo. Chi vuole succhiare come il latte, cioè con dolcezza, le inondazione del mare, vale a dire le tentazioni della carne, del mondo e del diavolo, deve serrare le labbra alla vanità del mondo; e quindi la duplice carità verso Dio e verso il prossimo succhia, per così dire, come il latte le tentazioni, perché non accetta un amore estraneo. Dice Mosè nel suo Cantico: "Succhieranno il miele dalla pietra e l'olio dal sasso durissimo" ( Dt 32,13 ). Nella pietra è simboleggiata la durezza delle tentazioni della carne e del mondo, nel sasso durissimo la suggestione del diavolo, ostinato nel tentare. Fortunati coloro che tanto dalla pietra quanto dal sasso ( da qualunque tentazione ) sapranno succhiare, ricavare la dolcezza e la luce di una lieta coscienza! "La pietra – dice Giobbe – mi versava rivoli di olio" ( Gb 29,6 ). Ciò avviene quando chi è duramente tentato, durante la tentazione stessa è visitato e illuminato dalla grazia e irrigato dal dono di lacrime copiose. Si degni di irrigare anche noi con tali lacrime, colui che è benedetto nei secoli. Amen. VI. Sermone allegorico su san Paolo 16. "Chi lasciò libero l'ònagro e chi sciolse i suoi legami? Gli ho dato per casa la solitudine e ho posto la sua tenda in una terra salmastra. Disprezza la folla della città, e non dà ascolto al clamore del tiranno. Guarda all'intorno i monti del suo pascolo e va in cerca di tutto ciò che è verde" ( Gb 39,5-8 ). L'ònagro è detto, in lat., asino del campo ( asinus agri ), ed è figura del beato Paolo, che fu come l'asino del campo, cioè della santa chiesa. Il campo è detto in lat. ager, da àgere, fare, perché in esso si fa sempre qualcosa: o si semina, o vi si coltivano piante, o si tiene a pascolo, o si abbellisce di fiori. Il beato Paolo, nel campo della santa chiesa, compì tutte queste quattro attività, perché vi seminò la semente della Parola di Dio, sugli alberi infruttuosi innestò i nuovi germogli della vita santa perché ringiovanissero e portassero frutto; oppure, come dice l'Ecclesiaste, "vi piantò alberi da frutto di ogni specie" ( Qo 2,5 ), cioè i giusti; vi preparò i pascoli della vita eterna; la ornò e la abbellì con grande varietà di fiori di virtù. Paolo fu dunque l'ònagro di questo campo, perché ne portò il peso del giorno e del caldo ( cf. Mt 20,12 ): "in mezzo a tantissime fatiche, a frequenti prigionie, a innumerevoli percosse e spesso in pericolo di morte" ( 2 Cor 11,23 ); "e oltre a tutto ciò, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese" ( 2 Cor 11,28 ). Chi ha lasciato andar libero questo ònagro? Senza dubbio colui che lo scelse fin dal seno di sua madre, cioè della sinagoga, ai cui riti legali e alle cui cerimonie era legato, e lo chiamò con la sua grazia ( cf. Gal 1,15 ), lasciandolo così andare libero. Infatti egli stesso dice: "Non sono forse libero, io? Non sono forse apostolo? Non ho forse veduto il Signore nostro Gesù Cristo?" ( 1 Cor 9,1 ). Certamente era libero, colui che poteva affermare: "Per me non sono consapevole di colpa alcuna" ( 1 Cor 4,4 ). "E chi ha sciolto i suoi legami?". Certamente Cristo, del quale dice: "Desidero essere sciolto ed essere con Cristo" ( Fil 1,23 ); nel momento della conversione Cristo lo lasciò andare libero per ogni dove ad annunziare la parola; e oggi nel martirio sciolse i legami del suo corpo per poter volare in cielo. 17. "Gli ho dato per casa la solitudine e ho posto la sua tenda in una terra salmastra". Anche Paolo ha detto la stessa cosa: "Colui che ha agito in Pietro per l'apostolato tra i circoncisi, ha agito anche in me per l'apostolato tra le genti" ( Gal 2,8 ), cioè i tra pagani. Le genti erano dette "solitudine", deserto, perché tra loro non abitava Dio, e terra salmastra, cioè di amarezza e di sterilità. Tra di esse Dio diede a Paolo la casa, gli comandò cioè che tra esse e di esse edificasse la casa, cioè la santa chiesa, e le tende di un santo esercito che combattesse in suo favore contro i nemici visibili ed invisibili e difendesse così la casa che gli era stata affidata. "Disprezzò la folla della città" romana, nella quale come oggi gli fu troncata la testa; infatti poté affermare con Giobbe: "Come se temessi molto la folla, e mi spaventasse il disprezzo dei parenti" ( Gb 31,34 ), cioè dei Giudei. Un'altra versione dice esplicitamente: "Non mi spaventai davanti alla grande folla di popolo, sì da aver paura di parlare davanti a loro" ( versione dei LXX ). E in realtà Paolo si comportò proprio così; infatti scrive a Timoteo: "Nei riguardi del Vangelo io sono stato costituito predicatore, apostolo e maestro. È per questo che vado incontro a tanti mali, ma non me ne preoccupo" ( 2 Tm 1,11-12 ). Egli "non diede ascolto al clamore del tiranno", cioè di Nerone, non temette la sua spada, perché nessuna creatura – come dice egli stesso – poté mai separarlo dall'amore di Gesù Cristo ( cf. Rm 8,39 ). Infatti aggiunge: "Guarda all'intorno i monti del suo pascolo", nei quali è indicata la carità di Cristo: "Io vi mostrerò una via migliore di tutte" ( 1 Cor 12,31 ). Quello era il suo pascolo, quello il suo nutrimento e la sua sazietà: egli che solo all'amore di Cristo guardava e per quell'amore camminava all'intorno, disprezzava la moltitudine e non dava ascolto al clamore del tiranno. Oppure, "i monti del pascolo" sono quegli "ordini angelici" tra i quali, nel corpo o fuori del corpo, solo Dio lo sa, fu rapito, e dove poté udire parole che non è lecito all'uomo pronunziare ( cf. 2 Cor 12,3-4 ). Lì si pasceva, lì esultava, perché lì erano i suoi pascoli, cioè la contemplazione e il nutrimento che gli erano propri. "E va in cerca di tutto ciò che è verde". Mentre era ancora nella carne mortale, con la contemplazione della mente fu rivolto costantemente e, si può dire, in continuazione, ai monti del celeste pascolo; adesso invece "va in cerca di tutto ciò che è verde", parole con le quali viene indicato il gaudio dell'eterna sazietà, che soddisfa ogni suo desiderio: infatti chi cerca, desidera. Tanto sublime è la bellezza della divina Maestà, che infiamma della brama di sé tutti quegli spiriti beati, infiammandoli li ristora e ristorandoli accende ancor più il loro desiderio. Alla divina Maestà, dunque, l'onore e la gloria nei secoli eterni. Amen. VII. Sermone morale 18. "Chi lasciò andare libero l'ònagro?". Certamente colui, del quale Mosè dice: "Quando un domani tuo figlio ti parlerà e ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme? Tu gli dirai: Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente, per condurci in una terra" ( Dt 6,20-23 ) "dove scorrono latte e miele" ( Dt 26,9 ). "Chi commette il peccato, è schiavo del peccato" ( Gv 8,34 ); e Pietro: "Uno è schiavo di colui che l'ha vinto" ( 2 Pt 2,19 ). E lascia l'ònagro andare libero da questa schiavitù colui che, per bocca di Isaia, gli dice: "Sono io, sono io che cancello le tue iniquità e per riguardo a me non mi ricordo più dei tuoi peccati ( Is 43,25 ); e Michea: "Distruggerà tutte le nostre iniquità e getterà nel profondo del mare tutti i nostri peccati" ( Mic 7,19 ). L'ònagro è lo spirito del penitente il quale, come è detto nei Proverbi, "Ha osservato un campo e lo ha comperato" ( Pr 31,16 ). Il campo è la patria celeste, dove sempre si lavora, perché lassù si loda Dio incessantemente: "Ti loderanno nei secoli dei secoli" ( Sal 84,5 ). Il giusto osserva questo campo nella contemplazione della sua mente, lo compera con le opere della penitenza, e quindi è detto "asino del campo". E il Signore lo lascia andare libero quando gli dice, come alla Maddalena: "Ti sono perdonati i tuoi peccati" ( Lc 5,23 ). "E chi ha sciolto i suoi legami?". Certamente Giacobbe, di cui parla la Genesi: "Furono sciolti i legami delle braccia e delle mani di Giuseppe per mano del Potente di Giacobbe" ( Gen 49,24 ), cioè di Dio. Il legami sono le cattive abitudini e le concupiscenze del mondo, che tengono legate mani e braccia perché non possano compiere opere buone. Ecco che cosa consiglia Salomone: "Fa' assiduamente tutto ciò che puoi fare con le tue mani, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù nell'inferno, dove tu stai per andare" ( Qo 9,10 ), che cioè stai preparandoti fin da ora e verso il quale ti stai affrettando con il peccato mortale. Ma questi legami vengono sciolti per mano del Potente di Giacobbe, cioè dalla misericordia dell'onnipotente Iddio, che liberò Giacobbe, cioè lo spirito, dalla mano, vale a dire dalla prepotenza di suo fratello Esaù, cioè della carne o del mondo. E questo concorda con ciò che leggiamo nel libro dei Giudici: "Sansone spezzò i legami come si spezza un filo ritorto di stoppa, quando ha preso l'odore del fuoco" ( Gdc 16,9 ). Il fuoco è la grazia dello Spirito Santo, al cui odore, cioè quando viene infusa, spezza i legami delle cattive abitudini, con i quali è tenuto legato Sansone da Dalila, vale a dire lo spirito dalla concupiscenza della carne. Dopo averlo così reso libero, sentiamo che cosa faccia ancora il Signore. "Gli ho dato una casa nella solitudine". Dice Geremia: Davanti alla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi colmato di amarezza ( cf. Ger 15,17 ). La casa simboleggia la pace del cuore, che il Signore concede nel silenzio e nella quiete della mente e del corpo. Leggiamo nelle Lamentazioni: "Sederà solitario e tacerà perché ha elevato se stesso al di sopra di sé; porrà nella polvere la sua bocca" ( Lam 3,28-29 ). In questa citazione si parla delle cinque virtù che sono necessarie a chi vuole essere giusto: la pace del cuore, quando è detto "sederà"; il distacco dalle cose terrene, dove dice "solitario"; il silenzio della bocca, quando aggiunge "tacerà"; l'elevazione della contemplazione quando continua "ha elevato se stesso al di sopra di sé"; e finalmente il ricordo della propria fragilità, quando conclude "porrà nella polvere la sua bocca": dovrà cioè sempre parlare della sua fragilità, memore di quella sentenza: "Sei polvere e in polvere ritornerai" ( Gen 3,19 ). 19. "E le sue tende saranno in una terra salmastra". La terra salmastra è il mondo; infatti dice il salmo: "Fece diventare salmastra la terra fertile per la malizia dei suoi abitanti" ( Sal 106,33-34 ); perché, come dice l'Apocalisse, guai, agli abitanti della terra ( cf. Ap 8,13 ). In questa terra il Signore ha dato all'ònagro, cioè allo spirito, le tende, vale a dire le membra del corpo, perché con esso e per esso combatta contro il diavolo e contro i vizi. Un nemico che combatte tenacemente fa sì che anche tu combatta valorosamente. Infatti dice l'Apostolo: "Io combatto, ma non come chi batte l'aria", bensì come chi batte quei nemici e non solo quelli; "anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù" ( 1 Cor 9,26-27 ). Dice la Genesi: "Abramo spiegò e piantò la sua tenda tra Betel", che s'interpreta "casa di Dio", "e Ai", che s'interpreta "problema della vita" ( cf. Gen 12,8 ). Spiegare e piantare la tenda significa esercitare il corpo nelle opere di penitenza e applicarlo anche a quelle della carità. E questo tra la casa di Dio, cioè la vita eterna, perché ad essa deve sempre orientare l'occhio dell'intenzione, e i problemi della vita, cioè le tentazioni di questa vita, per resistervi e superarle con la fortezza dell'animo. Nella scuola di questa misera vita, sorgono vari problemi riguardo alle tentazioni. E chi è tanto esperto per poterli tutti risolvere? Quante sono le tentazioni, tanti sono i problemi. E non possiamo risolverli tutti con sapienza più grande, che disprezzandoli. Infatti la sentenza della sacra Scrittura conclude: "Disprezzò la moltitudine della città" ( Gb 39,7 ).