Dialogo della Divina Provvidenza

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Capitolo CXXVIII

Come ne’ predecti ministri regna la superbia, per la quale si perde el cognoscimento; e come, avendo perduto el cognoscimento, caggiono in questo defecto, cioè che fanno vista di consecrare e non consacrano.

- Ora ti voglio dire della terza, cioè della superbia, che, perché Io te l’abbi posta per l’ultima, ella è ultima e prima, perché tucti e’ vizi sonno conditi dalla superbia, sí come le virtú sonno condite e ricevono vita dalla caritá.

E la superbia nasce ed è nutricata da l’amore proprio sensitivo, del quale Io ti dixi che era fondamento di queste tre colonne e di tucti quanti e’ mali che commectono le creature: però che chi ama sé di disordinato amore, è privato de l’amore di me perché non m’ama; e, non amandomi, m’offende, perché non observa el comandamento della legge, cioè d’amare me sopra ogni cosa e il prossimo come se medesimo.

Questa è la cagione che, amandosi d’amore sensitivo, essi non servono né amano me, ma servono e amano el mondo: perché l’amore sensitivo né il mondo non hanno conformitá con meco.

Non avendo conformitá insieme, di bisogno è che chi ama el mondo d’amore sensitivo e servelo sensitivamente, odii me; e chi ama me in veritá, odii el mondo.

E però dixe la mia Veritá che neuno può servire a due signori contrari, però che, se egli serve a l’uno, sará incontempto a l’altro.

Sí che vedi che l’amore proprio priva l’anima della mia caritá e vestela del vizio della superbia, unde nasce ogni difecto per lo principio de l’amore proprio.

D’ogni creatura la quale ha in sé ragione mi doglio e mi lamento, ma singularmente degli unti miei, e’ quali debbono essere umili sí perché ogniuno debba avere la virtú de l’umilitá, la quale nutrica la caritá, e sí perché sonno facti ministri de l’umile e immaculato Agnello, unigenito mio Figliuolo.

E non si vergognano essi e tucta l’umana generazione d’insuperbire vedendo me, Dio, umiliato a l’uomo, dandovi el Verbo del mio Figliuolo nella carne vostra?

E questo Verbo veggono, per l’obbedienzia ch’Io li posi, corrire e umiliarsi a l’obrobriosa morte della croce.

Egli ha el capo chinato per te salutare, la corona in capo per te ornare, le braccia stese per te abracciare e i piei conficti per teco stare.

E tu, misero uomo, che se’ facto ministro di questa larghezza e di tanta umilitá, debbi abbracciare la croce; e tu la fuggi ed abracciti con le inique e inmonde creature.

Tu debbi stare fermo e stabile, seguitando la doctrina della mia Veritá, conficcando il cuore e la mente tua in Lui; e tu ti vòlli come la foglia al vento, e per ogni cosa vai a vela.

Se ella è prosperitá, ti muovi con disordinata allegrezza; e se ella è adversitá, ti muovi per impazienzia, e cosí trai fuore il mirollo della superbia, cioè la impazienzia; però che come la caritá ha per suo merollo la pazienzia, cosí la impazienzia è il merollo della superbia.

Unde d’ogni cosa si turbano e si scandalizzano coloro che sonno superbi e iracundi.

E tanto m’è spiacevole la superbia, che ella cadde di cielo quando l’angelo volse insuperbire.

La superbia non saglie in cielo, ma vanne nel profondo de l’inferno; e però dixe la mia Veritá: « Chi si exaltará, cioè per superbia, sará umiliato; e chi se umilia, sará exaltato ».

In ogni generazione di gente mi dispiace la superbia, ma molto piú in questi ministri, sí come Io t’ho decto, perché Io gli ho posti nello stato umile a ministrare l’umile Agnello; ma essi fanno tucto el contrario.

E come non si vergogna el misero sacerdote d’insuperbire, vedendo me umiliato a voi dandovi el Verbo de l’unigenito mio Figliuolo?

E loro n’ho facti ministri, e il Verbo per l’obbedienzia mia s’è umiliato a l’obrobriosa morte della croce!

Egli ha el capo spinato; e questo misero leva el capo contra me e contra el proximo suo, e d’agnello umile, che egli debba essere, è facto montone con le corna della superbia, e chiunque se gli accosta, percuote.

O disaventurato uomo!

Tu non pensi che tu non puoi escire di me.

È questo l’officio che Io t’ho dato, che tu percuota me con le corna della superbia tua, facendo ingiuria a me e al proximo tuo, e con ingiuria e con ignoranzia conversi con lui?

È questa la mansuetudine con che tu debbi andare a celebrare il Corpo e ’l Sangue di Cristo mio Figliuolo?

Tu se’ facto come uno animale feroce, senza veruno timore di me.

Tu devori el proximo tuo e stai in divisione, e facto se’ acceptatore delle creature, acceptando quelli che ti servono e che ti fanno utilitá, o altri che ti piaccino che siano di quella medesima vita che tu; e’ quali tu debbi correggere e dispregiare i difecti loro.

E tu fai el contrario, dando lo’ exemplo che faccino quello, e peggio.

Ma se tu fussi buono, el faresti; ma, perché tu se’ gattivo, non sai riprendere né ti dispiace il difecto altrui.

Tu dispregi gli umili e virtuosi poveregli.

Tu li fuggi: ma tu hai ragione di fuggirli, poniamo che tu nol debba fare; tu li fuggi perché la puzza del vizio tuo non può sostenere l’odore della virtú.

Tu ti rechi a vile di vederti a l’uscio e’ miei poveregli.

Tu schifi ne’ loro bisogni d’andare a visitarli: vedili morire di fame e non li sovieni.

E tucto questo fanno le corna della superbia, che non si vogliono inchinare a usare uno poco d’acto d’umilitá.

Perché non s’inchina? perché l’amore proprio, che notrica la superbia, non l’ha punto tolto da sé; e però non vuole conscendere né ministrare a’ poveregli né substanzia temporale né la spirituale senza rivendaría.

O maladecta superbia, fondata ne l’amore proprio, come hai acciecato l’occhio de l’intellecto loro per sí facto modo, che, parendo lo’ amare e essere teneri di loro medesimi, essi ne sonno facti crudeli; e parendo lo’ guadagnare, pérdono; parendo lo’ stare in delizie e in ricchezze e in grande altezza, essi stanno in grande povertá e miseria, perché sonno privati della ricchezza della virtú; sonno discesi da l’altezza della grazia alla bassezza del peccato mortale.

Par lo’ vedere; ed e’ sonno ciechi, perché non conoscono loro né me.

Non conoscono lo stato loro né la dignitá dove Io gli ho posti, né conoscono la fragilitá del mondo e la poca fermezza sua; però che, se ’l cognoscessero, non se ne farebbero Dio.

Chi l’ha tolto il cognoscimento? la superbia.

E a questo modo sonno diventati dimòni, avendoli Io electi per angeli e perché siano angeli terrestri in questa vita; ed essi caggiono da l’altezza del cielo alla bassezza della tenabre.

E tanta è multiplicata la tenebre e la loro iniquitá, che alcuna volta caggiono nel difecto che Io ti dirò.

Sono alcuni che sonno tanto dimòni incarnati, che spesse volte faranno vista di consecrare, e non consecraranno, per timore del mio giudicio, e per tollersi ogni freno e timore del loro mal fare.

Sarannosi levati la mactina dalla immondizia, e la sera dal disordinato mangiare e bere.

Saragli bisogno di satisfare al popolo, e egli, considerando le sue iniquitá, vede che con buona conscienzia egli non debba né può celebrare.

Unde gli viene un poco di timore del mio giudicio; non per odio del vizio, ma per amore proprio che egli ha a se medesimo.

Vedi, carissima figliuola, quanto egli è cieco!

Non ricorre egli a la contrizione del cuore e al dispiacimento del difecto suo con proponimento di correggersi; anco piglia questo remedio: che non consecrará.

E, come cieco, non vede che l’errore e il difecto di poi è maggiore che quello di prima, perché fa el popolo idolatro, facendo lo’ adorare quella ostia, non consecrata, per lo Corpo e Sangue di Cristo, mio unigenito Figliuolo tucto Dio e tucto Uomo, sí come Egli è quando è consecrato: ed egli è solamente pane.

Or vedi quanta è questa abominazione e quanta è la pazienzia mia che gli sostengo!

Ma se essi non si correggeranno, ogni grazia lo’ tornerá a giudicio.

Ma che dovarebbe fare il popolo acciò che non venisse in quello inconveniente?

Debba orare con condiczione: se questo ministro ha decto quel che debba dire, credo veramente che tu sia Cristo Figliuolo di Dio vivo, dato a me in cibo dal fuoco della tua inextimabile caritá, e in memoria della tua dolcissima passione e del grande benefizio del Sangue, il quale spandesti con tanto fuoco d’amore per lavare le nostre iniquitá.

Facendo cosí, la ciechitá di colui non lo’ dará tenebre, adorando una cosa per un’altra: benché la colpa di peccato è solo del miserabile ministro, ma eglino pure ne l’acto farebbero quello che non si debba fare.

O dolcissima figliuola, chi tiene la terra che non gl’inghioctisce? chi tiene la mia potenzia che non gli fa essere immobili e statue ferme innanzi a tucto el popolo per loro confusione?

La misericordia mia.

E tengo me medesimo, cioè che con la misericordia tengo la divina mia giustizia per vincerli per forza di misericordia.

Ma essi, come obstinati dimòni, non cognoscono né veggono la misericordia mia; ma, quasi come se credessero avere per debito ciò che egli hanno da me, perché la superbia gli ha aciecati, non veggono che l’hanno solo per grazia e non per debito.

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