Dialogo della Divina Provvidenza

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Capitolo CXLIV

De la providenzia che Dio usa verso di coloro che sono ancora nell’amore inperfecto.

- Sai tu, carissima figliuola, che modo Io tengo per levare l’anima inperfecta dalla sua inperfeczione?

Che alcuna volta Io la proveggo con molestie di molte e diverse cogitazioni, e con la mente sterile.

Parrá che sia tucto abandonata da me, senza veruno sentimento: né nel mondo gli pare essere, ché non v’è; né in me gli pare essere, ché non ha sentimento veruno, fuore che sente che la volontá sua non vuole offendere.

Questa porta della volontá, che è libera, non do Io licenzia a’ nemici che l’aprano.

Ma do bene licenzia alle dimonia e agli altri nemici de l’uomo che percuotano l’altre porte; ma questa, che è la principale, no, ché conserva la cittá de l’anima.

È vero che ha la guardia del libero arbitrio, che sta a questa porta: hogliele dato libero, che dica sí e no, secondo che gli piace.

Molte sonno le porte che ha questa cittá.

Le principali sonno tre ( ché l’una è quella che sempre si tiene, se ella vuole, ed è guardia de l’altre ): ciò sonno la memoria, lo ’ntellecto e la volontá.

Unde, se la volontá consente, v’entra il nemico de l’amore proprio e tucti gli altri nemici che seguitano doppo lui.

Subbito lo ’ntellecto riceve la tenebre, che è nemica della luce; e la memoria riceve el odio per ricordamento della ingiuria ( el quale odio è nemico della dileczione della caritá del proximo suo ); ritiene e’ dilecti e piaceri del mondo in diversi modi, come sonno diversi e’ peccati e’ quali sonno contrari alle virtú.

Subito che sonno aperte le porte, s’aprono li sportegli de’ sentimenti del corpo, e’ quali sonno tucti strumenti che rispondono a l’anima.

Unde tu vedi che l’affecto disordenato de l’uomo, che ha uperte le porte sue, risponde con questi organi; unde tucti e’ suoni sonno guasti e contaminati, cioè le sue operazioni.

L’occhio non porge altro che morte, perché è posto a vedere cosa morta con disordenato guardare colá dove non debba; con vanitá di cuore, con leggerezza, con modi e guardature disoneste è cagione di dare morte a sé e ad altrui.

Oh misero te! quel ch’Io t’ho dato perché tu raguardi el cielo e tucte l’altre cose e la bellezza della creatura per me e perché tu raguardi e’ misteri miei; e tu raguardi in loto e in miseria, e cosí n’acquisti la morte.

Cosí l’orecchia si dilecta in cose disoneste, o in udire e’ facti del proximo suo per giudicio; dove Io gli li diei perché udisse la parola mia e la necessitá del proximo suo.

La lingua ho data perché annunzi la parola mia e confessi e’ difecti suoi, e perché l’aduopari in salute de l’anime; ed egli l’aduopera in bastemmiare me, che so’ suo Creatore, e in ruina del proximo, nutricandosi delle carni sue, mormorando e giudicando l’operazioni buone in male e le gattive in bene; bastemiando, dando falsa testimonanza; con parole lascive pericola sé e altrui; gitta parole d’ingiuria, che trapassano ne’ cuori de’ proximi come coltella, le quali parole li provocano ad ira.

Oh, quanti sonno e’ mali e omicidii, quanta disonestá, quanta ira, odio e perdimento di tempo che escono per questo menbro!

Se egli è l’odorato, né piú né meno offende ne l’essere suo con disordenato piacere nel suo odorare.

E, se egli è il gusto, con golositá insaziabile, con disordenato appetito volendo le molte e varie vivande, non mira se non d’empire il ventre suo, non raguardando la misera anima, che aperse la porta, che per lo disordenato prendere de’ cibi viene a riscaldamento la fragile carne sua, con disordenato desiderio di corrómpare se medesimo.

Le mani, in tòllere le cose del proximo suo, e con laidi e miserabili toccamenti, le quali sonno facte per servire il proximo quando il vede nella infermitá, sovenendo con la elemosina nella necessitá sua.

E’ piei, gli sono dati perché servino e portino il corpo in luogo sancto e utile a sé e al proximo suo per gloria e loda del nome mio; ed egli spende e porta el corpo in luoghi vitoperosi in molti e diversi modi, novellando e spiacevoleggiando, corrompendo con le loro miserie l’altre creature in molti modi, secondo che piace alla disordenata volontá.

Tucto questo t’ho decto, carissima figliuola, per darti materia di pianto di vedere gionta a tanta miseria la nobile cittá de l’anima, e perché tu vegga quanto male esce della principale porta della volontá.

Alla quale Io non do licenzia che i nimici de l’anima entrino, come decto è; ma, come Io ti dicevo, do bene licenzia ne l’altre che i nimici le percuotano.

Unde lo ’ntellecto sostengo che sia percosso da una tenebre di mente; e la memoria pare molte volte che sia privata del ricordamento di me.

E alcuna volta tucti gli altri sentimenti del corpo parrá che siano in diverse bactaglie.

Nel guardare le cose sancte e toccandole e udendole e odorandole e andandovi, ogni cosa parrá che gli dia mutazione, disonestá e corrompimento.

Ma tucto questo non è a morte, però che Io non voglio la morte sua ( guarda che egli non fusse sí stolto che egli aprisse la porta della volontá ): Io permecto che eglino stiano di fuore, ma non che entrino dentro.

Dentro non possono intrare se non quando la propria volontá vuole.

E perché tengo Io in tanta pena e affliczione questa anima atorniata da tanti nemici?

Non perché ella sia presa e perda la ricchezza della grazia; ma follo per mostrarle la mia providenzia, acciò che ella si fidi di me e non in sé, levisi dalla negligenzia e con sollicitudine rifugga a me, che so’ suo difenditore, so’ Padre benigno, che procuro la salute sua; acciò che ella stia umile e vegga sé non essere, ma l’essere e ogni grazia che è posta sopra l’essere ricognosca da me, che so’ sua vita.

Come ella cognosce questa vita e providenzie mie in queste bactaglie?

Ricevendo la grande liberazione, ché non la lasso permanere continuamente in questo tempo; ma vanno e vengono, secondo ch’Io veggo che le bisognino.

Talora gli parrá essere ne lo ’nferno, che, senza veruno suo exercizio che allora faccia, ne sará privata e gustará vita etterna.

L’anima rimane serena: ciò che vede le pare che gridi Dio, tucta infiammata d’amoroso fuoco per la considerazione che fa allora l’anima nella mia providenzia, perché si vede essere uscita di sí grande pelago non con suo exercizio, ché il lume venne inproviso, non exercitandosi, ma solo per la mia inextimabile caritá, che volsi provedere alla sua necessitá nel tempo del bisogno, che quasi non poteva piú.

Perché ne l’exercizio, quando s’exercitava a l’orazione e a l’altre cose che bisognano, non le risposi col lume, tollendole la tenebre?

Perché, essendo ancora inperfecta, non reputasse in suo exercizio quello che non era suo.

Sí che vedi che lo inperfecto nelle bactaglie, exercitandosi, viene a perfeczione, perché in esse bactaglie pruova la divina mia providenzia, unde egli s’è levato da l’amore inperfecto.

Anco uso uno sancto inganno, solo per levarli dalla inperfeczione: ch’Io lo’ farò concipere amore ad alcuna creatura spiritualmente e in particulare, oltre a l’amore generale.

Unde con questo mezzo s’exercita alla virtú, leva la sua inperfeczione, fallo spogliare il cuore d’ogni altra creatura che egli amasse sensualmente, di padre, madre, suoro, frategli: ne trae ogni propria passione, e amali per me, Dio.

E, con questo amore ordinato del mezzo ch’Io gli ho posto, caccia il disordinato, col quale in prima amava le creature.

Adunque vedi che tolle questa inperfeczione.

Ma actende che un’altra cosa fa questo amore di questo mezzo: che egli fa provare se perfectamente egli ama me e il mezzo che Io gli ho dato, o no.

E però gli li diei Io, perché egli el provasse, acciò che avesse materia di cognoscerlo; ché, non cognoscendolo, né a se medesimo dispiacerebbe, né piacerebbe quello che avesse in sé che fusse mio.

Per questo modo el cognosce: e giá t’ho decto che ella è ancora inperfecta.

E non è dubbio che, essendo inperfecto l’amore che ha a me, è inperfecto quello che ha alla creatura che ha in sé ragione, però che la caritá perfecta del proximo dipende dalla perfecta caritá mia.

Sí che con quella misura perfecta e inperfecta che ama me, con quella ama la creatura.

Come el cognosce per questo mezzo? In molte cose.

Anco, quasi, se voi aprite l’occhio de l’intellecto, non passará tempo che egli nol vegga e pruovi.

Ma, perché in un altro luogo Io tel manifestai, poco te ne narrarò.

Quando della creatura cui egli ama di singulare amore, come decto è, egli si vede diminuire il dilecto, la consolazione o conversazioni usate, dove trovava grandissima consolazione, o di molte altre cose, o che vedesse che ella avesse piú conversazioni con altrui che con lui, sente pena; la quale pena el fa intrare a cognoscimento di sé.

Se vuole andare con lume e con prudenzia, come debba, con piú perfecto amore amerá quel mezzo, perché, col cognoscimento di se medesimo e odio che averá conceputo al proprio sentimento, si tolle la inperfeczione e viene ad perfeczione.

Essendo poi perfecto, séguita piú perfecto e maggiore amore nella creatura generale, e nel particulare mezzo posto dalla mia bontá, che ho proveduto a farla spronare con odio di sé e amore delle virtú in questa vita della perregrinazione, pure che ella non sia ignorante a recarsi, nel tempo delle pene, a confusione e tedio di mente, a tristizia di cuore e senza exercizio.

Questa sarebbe cosa pericolosa: verrebbeli a ruina e a morte quello che Io gli ho dato per vita.

Non die fare cosí; ma con buona sollicitudine e con umilitá reputandosi indegno di quel che desidera ( cioè non avendo la consolazione la quale egli voleva ), e con lume vegga che la virtú, per la quale principalmente la debba amare, non è diminuita in lui con fame e desiderio di volere portare ogni pena, da qualunque lato ella venga, per gloria e loda del nome mio.

Per questo modo adempirá la volontá mia in sé, ricevendo il fructo della perfeczione, per la quale Io ho permesso le bactaglie, el mezzo e ogni altra cosa perché ella venga a lume di perfeczione.

In questo modo negl’imperfecti uso la providenzia mia, e in tanti altri modi che lingua non sarebbe sufficiente a narrarli.

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