Dialogo della Divina Provvidenza

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Capitolo CL

Dei mali che procedono dal tenere o desiderare disordinatamente le ricchezze temporali.

- Doh! raguarda, carissima figliuola, quanta vergogna a’ miseri uomini amatori delle ricchezze, che non seguitano il cognoscimento che lo’ porge la natura per acquistare il sommo ed etterno Bene!

Lo fanno questi filosofi, che, per amore della scienzia, cognoscendo che e’ l’era inpedimento, le gittavano da loro.

E questi de le ricchezze si vogliono fare uno idio.

E questo manifesta ch’egli è cosí: che essi si dogliono piú quando perdono la ricchezza e substanzia temporale che quando perdono me, che so’ somma ed etterna ricchezza.

Se tu raguardi bene, ogni male n’esce di questo disordenato desiderio e volontá della ricchezza.

Egli n’esce la superbia, volendo essere il maggiore; la ingiustizia in sé e in altrui; l’avarizia, che per l’appetito della pecunia non si cura di robbare il fratello suo, né di tollere quello della sancta Chiesa, che è acquistato col sangue del Verbo unigenito mio Figliuolo.

Èscene rivendarìa delle carni del proximo suo e del tempo: come sonno gli usurai, che, come ladri, vendono quel che non è loro.

Èscene golositá per li molti cibi e disordenatamente prenderli, e disonestá.

Ché, se non avesse che spendere, spesse volte non starebbe in conversazioni di tanta miseria.

Quanti omicidii, odio e rancore verso il suo proximo, e crudeltá con infidelitá verso di me, presumendo di loro medesimi, come se per loro virtú l’avessero acquistate!

Non vedendo che per loro virtú non le tengono né l’acquistano, ma solo per mia, perdono la speranza di me, sperando solo nelle loro ricchezze.

Ma la speranza loro è vana, ché, non avedendosene, elle vengono meno: o essi le perdono in questa vita per mia dispensazione e loro utilitá, o essi le perdono col mezzo della morte.

Allora cognoscono che vane e none stabili elle erano.

Elle inpoveriscono e uccidono l’anima: fanno l’uomo crudele a se medesimo, tolgonli la dignitá dello infinito e fannolo finito, cioè che ’l desiderio suo, che debba essere unito in me che so’ bene infinito, egli l’ha posto e unito per affecto d’amore in cosa finita.

Egli perde il gusto del sapore della virtú e de l’odore della povertá, perde la signoria di sé, facendosi servo delle ricchezze.

È insaziabile, perché ama cosa meno di sé; però che tucte le cose che sonno create sonno facte per l’uomo perché il servissero e non perché egli se ne faccia servo, e l’uomo die servire a me che so’ suo fine.

A quanti pericoli e a quante pene si mecte l’uomo, per mare e per terra, per acquistare la grande ricchezza, per tornare poi nella cittá sua con delizie e stati; e non si cura d’acquistare le virtú né di sostenere un poca di pena per averle, che sonno la ricchezza de l’anima.

Essi sonno tucti ammersi il cuore, e l’affecto, che debba servire a me, egli l’hanno posto nelle ricchezze, e con molti guadagni inliciti carica la conscienza loro.

Vedi a quanta miseria egli si recano e di cui e’ si sonno facti servi: non di cosa ferma né stabile, ma mutabile, ché oggi son ricchi e domane povari; ora sonno in alto, ora sonno a basso; ora sono temuti e avuti in reverenzia dal mondo per la loro ricchezza, e ora è facto beffe di loro avendola perduta, con rimproverio e vergogna e senza conpassione eglino son tractati, perché si facevano amare e erano amati per le ricchezze e non per virtú che fussero in loro.

Ché, se fussero stati amati e fussersi facti amare per le virtú che fussero state in loro, non sarebbe levata la reverenzia né l’amore, perché la sustanzia temporale fuxe perduta e non la ricchezza delle virtú.

Oh, come è grave loro a portare nella coscienzia loro questi pesi!

E l’è sí grave, che in questo camino della perregrinazione non può còrrire né passare per la porta strecta.

Nel sancto Evangelio vi disse cosí la mia Veritá: che « egli è piú inpossibile ad intrare uno ricco a vita etterna che uno camello per una cruna d’aco ».

Ciò sonno coloro che con disordenato e miserabile affecto posseggono o desiderano la ricchezza.

Però che molti sonno quelli che sonno povari, sí com’Io ti dixi, e per affecto d’amore disordenato posseggono tucto il mondo con la loro volontá, se essi el potessero avere.

Questi non possono passare per la porta, però che ella è strecta e bassa; unde, se non gittano il carico a terra e non ristrengono l’affecto loro nel mondo e chinano il capo per umilitá, non ci potranno passare.

E non ci è altra porta che gli conduca ad vita se non questa.

Ècci la porta larga che gli mena a l’etterna dannazione; e, come ciechi, non pare che veggano la loro ruina, che in questa vita gustano l’arra de l’inferno.

Però che in ogni modo ricevono pena, desiderando quello che non possono avere.

Non avendo, hanno pena, e se e’ perdono, perdono con dolore.

Con quella misura hanno il dolore, che essi la possedevano con amore.

Perdono la dileczione del proximo, non si curano d’acquistare veruna virtú.

Oh, fracidume del mondo! non le cose del mondo in loro, però che ogni cosa creai buona e perfecta, ma fracido è colui che con disordenato amore le tiene e cerca.

Mai non potresti con la tua lingua narrare, figliuola mia, quanti sonno e’ mali che n’escono e veggonne e pruovanne tucto dí; e non vogliono vedere né cognoscere il danno loro.

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