Dialogo della Divina Provvidenza

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Capitolo CLXII

De la inperfeczione di quelli che tiepidamente vivono ne la religione, avengaché si guardino da peccato mortale.

E del remedio da uscire de la loro tiepiditade.

- O carissima figliuola, e quanti sonno questi cotali che al dí d’oggi si pascono in questa navicella?

Molti: unde pochi sonno e’ contrari, cioè i veri obbedienti.

È vero che tra e’ perfecti e questi miserabili ci ha assai di quegli che si vivono ne l’ordine comunemente, che né perfecti sonno, come essi debbono essere, né gattivi sonno, cioè che pure conservano la conscienzia loro che non peccano mortalmente, stanno in tiepidezza e freddezza di cuore.

E se essi non exercitano un poco la vita loro con l’observanzie de l’ordine, stanno a grande pericolo; e però l’è bisogno molta sollicitudine, e non dormire, e levarsi dalla tiepidezza loro.

Ché, se essi vi permangono, sonno acti a cadere.

E se pure non cadessero, staranno con uno loro parere e piacere umano, colorato col colore de l’ordine, studiandosi piú d’observare le cirimonie de l’ordine che propriamente l’ordine.

E spesse volte, per poco lume, saranno acti a cadere in giudicio in quegli che piú perfectamente di loro observano l’ordine, e in meno perfeczione le cirimonie, delle quali e’ si fanno observatori.

Sí che, in ogni modo, è loro nocivo a permanere ne l’obbedienzia comune, cioè che freddamente passano l’obbedienzia loro, con molta fadiga e con molta pena.

Però che al cuore freddo pare fadigoso a portare: portano fadiga assai, con poco fructo; offendono la loro perfeczione, nella quale essi sonno intrati e sonno tenuti d’observarla; e, poniamo che faccino meno male che gli altri de’ quali Io t’ho contato, pure male fanno: ché essi non si partirono dal secolo per stare con la chiave generale de l’obedienzia, ma per diserrare il cielo con la chiavicella de l’obbedienzia de l’ordine, la quale chiavicella debba essere col funicello della viltá, avilendo se medesimo, e col cingolo de l’umilitá, come decto è, tenerla strecta nella mano de l’affocato amore.

Sappi, carissima figliuola, che essi sono bene acti a giognere alla grande perfeczione, se essi vogliono, perché vi sonno piú presso che gli altri miseri.

Ma in un altro modo sonno piú malagevoli questi, nel grado loro, a levarli dalla loro inperfeczione, che lo iniquo, nel suo grado, della sua miseria.

E sai tu perché? Perché questo si vede manifestamente che egli fa male, e la conscienzia glil manifesta; unde per l’amore proprio di sé, che l’ha indebilito, non si sforza ad escire di quella colpa che egli vede, con uno lume naturale, che egli fa male quel che fa.

Unde chi el dimandasse: - E non fai tu male di fare questo?

- Direbbe: - Sí, ma è tanta la mia fragilitá, che non pare ch’io ne possa escire.

- Benché egli non dice il vero, ché con l’aiutorio mio ne può escire, se vuole; nondimeno pur cognosce che fa male: col quale cognoscimento gli è agevole a potern’escire, se vuole.

Ma questi tiepidi, che né un grande male fanno né uno grande bene, non cognoscono la freddezza dello stato loro, né in quanto dubbio stanno.

Non cognoscendola, non si curano di levarsene né curano che lo’ sia mostrato; essendo lo’ mostrato, per la freddezza del cuore loro, si rimangono legati nella loro longa consuetudine e usanza.

Che modo ci sará in costoro di farli levare?

Che tolgano le legna del cognoscimento di sé, con odio del proprio piacimento e reputazione, e mettanle nel fuoco della divina mia caritá; sposando di nuovo, come se allora allora intrassero ne l’ordine, la sposa della vera obbedienzia con l’anello della sanctissima fede, e non dormano piú in questo stato, ch’egli è molto spiacevole a me e danno a loro.

Drictamente si potrebbe dire a loro quella parola: « Maladecti tiepidi! che almen fuste voi pur ghiacci.

Se voi non vi correggete, sarete vomicati dalla bocca mia », per quello modo che decto t’ho.

Ché, non levandosi, sonno acti a cadere; e, cadendo, sarebbono reprovati da me.

Innanzi vorrei che fuste ghiacci: cioè che inanzi vi fuste stati nel secolo con l’obbedienzia generale, la quale, a rispecto del fuoco de’ veri obbedienti, si mostra quasi uno ghiaccio; e però dixi: « almeno fuste voi pure ghiacci ».

Hotti dichiarata questa parola, acciò che in te non cadesse errore di credere ch’Io el volesse piú tosto nel ghiaccio del peccato mortale che nella tiepidezza della inperfeczione.

No, ché io non posso volere colpa di peccato, ché in me non è questo veneno: anco mi dispiacque tanto ne l’uomo, che Io non volsi che passasse senza punizione, ché, non essendo l’uomo sufficiente a portare la pena che gli seguitava doppo la colpa, mandai el Verbo de l’unigenito mio Figliuolo.

Egli con l’obbedienzia la fabricò sopra el Corpo suo.

Levinsi dunque con exercizio, con vigilia, con umile e continua orazione; specchinsi ne l’ordine loro e ne’ padroni di questa navicella, che sonno stati uomini come eglino, nutricati d’un medesimo cibo, nati in uno medesimo modo.

E quello Dio so’ ora, che allocta.

La potenzia mia non è infermata, la mia volontá non è diminuita in volere la salute vostra, né la sapienzia mia in darvi lume, acciò che cognosciate la mia veritá.

Adunque possono, se egli vogliono, pure che se l’arrechino dinanzi a l’occhio de l’intellecto, privandosi della nuvila de l’amore proprio, e col lume corrano co’ perfecti obbedienti.

Con questo ci giogneranno; in altro modo, no: sí che il remedio ci è.

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