Proviamo a capirci

Parlare è tutt'uno con giudicare

Seconda complicazione

Giudizi nascosti

Nel corso di una conversazione può esserci successo qualche volta di accorgerci che il nostro interlocutore assumesse, apparentemente senza nessun motivo, un tono risentito o un inspiegabile atteggiamento di chiusura o, diversamente, di aggressività, tanto da chiederci che cosa potessimo aver detto o fatto per suscitare questa reazione.

Ma per quanti sforzi facessimo, non riuscivamo a trovare spiegazione, finendo così per concludere che la gente qualche volta è un po' bizzarra, oppure per pensare che quel nostro interlocutore ha approfittato della situazione per sfogare su di noi le sue ansie o il suo nervosismo.

Facilmente la spiegazione è però un'altra.

Possiamo esserci imbattuti in un tranello della comunicazione, dovuto ad un automatismo per il quale insieme a ciò che diciamo passa sempre un giudizio implicito, nascosto, riguardante sia noi stessi che, soprattutto, la persona con cui stiamo parlando.

Tutte le volte in cui comunichiamo si verificano infatti due fenomeni.

Di uno di questi siamo sempre consapevoli, mentre dell'altro il più delle volte non ce ne accorgiamo.

Il fenomeno di cui siamo consapevoli consiste nella nostra volontà di dire quella certa cosa in quel certo momento.

Raramente ci rendiamo invece conto dell'altro ( quello di cui stiamo segnalando l'esistenza ), per il quale le nostre stesse parole lasciano sempre intendere la considerazione che abbiamo nei riguardi della persona a cui queste parole sono rivolte.

Ma, se chi in questo modo esprime involontariamente il suo apprezzamento sull'altro può farlo senza rendersene conto, chi ne è destinatario ne sente inevitabilmente l'impatto, particolarmente quando esso è penalizzante.

Sono proprio questi nostri giudizi nascosti i responsabili di molte reazioni dei nostri interlocutori apparentemente inspiegabili.

Una nota favola di Esopo può aiutarci a cogliere come si manifestano questi giudizi e, soprattutto, a valutarne le conseguenze.

« Un pastore conduceva le sue pecore a pascolare piuttosto lontano dal villaggio e si divertiva a fare questo scherzo: gridava che i lupi gli assalivano il gregge e chiamava in aiuto gli abitanti del villaggio.

Due o tre volte quelli accorsero spaventati e poi se ne tornarono indietro tra le beffe.

Ma accadde alla fine che i lupi vennero davvero.

Mentre essi sbranavano il gregge, il pastore invocava l'aiuto dei compaesani, ma questi non se ne preoccuparono molto, credendo che egli scherzasse, come al solito ».

Nella prima parte del racconto la considerazione del pastore riguardo a se stesso ed ai compaesani può essere sintetizzata nella frase: « Io sono furbo e loro sono sciocchi ».

Nella seconda parte il giudizio cambia: « Io sono incapace a difendere il gregge da solo e considero loro capaci di aiutarmi ».

Purtroppo per lui, gli abitanti del villaggio continuano a tenere per buono il suo primo giudizio, in relazione al quale la loro risposta è: « Noi non siamo sciocchi e lui vuol fare il furbo alle nostre spalle ».

E non accorrono alle sue invocazioni di aiuto.

É molto facile notare come il significato delle parole « al lupo, al lupo » cambi in relazione alla diversità dei giudizi impliciti in gioco.

Il diritto ...

La famiglia Vaschi, padre, madre ed il figlio Piero, sta viaggiando in autostrada.

Alla guida c'è il padre. Piero ha quasi diciannove anni ed ha la patente da qualche mese.

Si sono fermati in un'area di servizio per fare rifornimento.

Ne approfittano per sgranchirsi le gambe.

Il padre si rivolge a Piero: « Non c'è molto traffico, hai voglia di guidare tu fino all'uscita dall'autostrada? ».

Gli occhi di Piero si illuminano.

E come se il padre gli avesse detto: « Ti considero abbastanza abile come guidatore ».

Piero si immedesima nel giudizio espresso sul suo conto: nessuna difficoltà relazionale in vista.

Qualche volta Laura lamenta con le amiche di sentirsi trattata come una bambina dai genitori.

Si festeggiano oggi in famiglia i suoi sedici anni.

Tutti i familiari le hanno fatto il loro regalo e lei sta aprendoli uno dopo l'altro.

É la volta del regalo del padre.

E una scatoletta piccola piccola: Laura è curiosa di vederne il contenuto.

Dalla confezione sbuca fuori un rossetto per le labbra.

Laura butta le braccia al collo del padre e lo ringrazia entusiasticamente.

Ha ricevuto altri regali, alcuni più costosi, ma questo rossetto ha avuto su di lei un effetto tutto speciale.

Anche questa volta è il giudizio implicito comunicato dal padre mediante questo dono ( « Ti considero grande e ti faccio un regalo da signorina » ) a scatenare la gioia prorompente di Laura.

Siamo in un'officina all'inizio del turno di lavoro.

l capo squadra sta distribuendo agli operai gli incarichi per le prossime ore.

C'è da fare un lavoro delicato, richiedente molta perizia ma almeno altrettanta fatica.

Chiama Rocco che non ha mai ricoperto questa mansione e la affida a lui.

Rocco si mette all'opera con buona lena, con entusiasmo e noncuranza dello sforzo.

Nel comunicargli la richiesta di svolgere questo lavoro, il caposquadra implicitamente ha espresso il giudizio che Rocco è un operaio capace di svolgere mansioni complesse e richiedenti elevata professionalità.

Rocco si è sentito gratificato da questa valutazione del suo capo, si sta dando da fare e quasi non fa caso alla notevole fatica che in questo momento gli viene richiesta.

Entrambi concordano sul giudizio implicito nelle parole del capo e tutto va per il meglio.

Come nei casi appena descritti, una delle condizioni necessarie affinché in una situazione di comunicazione tutto fili liscio consiste nella corrispondenza dei rispettivi giudizi impliciti messi in gioco da parte delle persone coinvolte.

Quando ciò si verifica la loro mente rimane libera dalla preoccupazione su come reagire ad un eventuale giudizio penalizzante e può così dedicarsi in modo indisturbato al contenuto dei messaggi, agli avvenimenti, alle cose da fare.

Possiamo prendere ad esempio la situazione stessa che il lettore sta vivendo in questo momento.

Egli sta comunicando con chi scrive attraverso le parole che sta leggendo.

Chi scrive, per il fatto stesso di scrivere un libro, ritiene se stesso in grado di dire cose interessanti sull'argomento e contemporaneamente giudica il lettore desideroso di saperne di più sul tema.

Se quest'ultimo si riconosce in questi giudizi continuerà la lettura.

Al contrario, nel momento in cui giudicasse che quanto gli viene proposto non merita attenzione, metterebbe in discussione la capacità di chi scrive, interromperebbe la lettura ( la comunicazione ) e dimenticherebbe il libro su qualche scaffale.

Tonio è un quindicenne che vive in campagna.

Il padre si dedica al lavoro dei campi ed alla conduzione della stalla per l'allevamento dei vitelli.

I rapporti tra Tonio ed il padre sono sempre molto tesi.

Il padre è convinto che non abbia voglia di lavorare e non ha molta considerazione nei suoi confronti.

Tanto per tenerlo occupato, oggi gli ha detto di pulire ed ingrassare i meccanismi dell'impianto automatico per il trasporto dei mangimi dal silo alla stalla e per il loro dosaggio.

Si tratta di un impianto costoso che è il fiore all'occhiello di questa piccola azienda agricola.

Il padre pensa già di dover successivamente intervenire a sua volta per rimediare alle inevitabili negligenze di Tonio.

É sera e decide di andare a controllare il lavoro del figlio.

Trova tutto in perfetto ordine: il lavoro è stato fatto a regola d'arte e anche i piccoli particolari sono stati curati come si deve.

Va a vedere lo scaffale dove vengono riposti gli attrezzi e li trova tutti puliti e messi in bell'ordine.

Non crede ai suoi occhi: tutto ciò sarebbe opera di quel fannullone di Tonio?

Nel dire al figlio « fai la manutenzione all'impianto del mangime », il padre ha implicitamente comunicato al figlio ( anche se sicuramente non l'avrebbe voluto ): « Giudico me stesso tranquillo nell'affidarti un lavoro su questo impianto cui tengo molto e considero te abbastanza capace da riuscire a fare ciò che ti chiedo ».

Tonio capisce: « Papa si fida di me! ».

Ed ecco il miracolo, si fa per dire.

... e il rovescio

Il nostro benessere con gli altri dipende in larga misura da questo intreccio di giudizi che, come una trama invisibile ma molto consistente, sta sotto a tutti i nostri collegamenti vitali, a tutte le nostre relazioni.

Alcune volte però questi stessi giudizi impliciti,3 che circolano come se fossero dei contrabbandieri all'interno dei nostri collegamenti vitali, fanno nascere dei guai.

Monica e Gigi hanno avuto Barbara da appena cinque settimane.

É la loro primogenita e sono nel pieno della fase di apprendistato come genitori di una neonata.

Monica è indaffarata ad allattare, pesare, pulire, cullare a tutte le ore del giorno e della notte.

Qualche volta questo ritmo è un po' stressante, particolarmente quando Barbara piange e non è facile capirne il motivo.

Gigi non vuole essere uno di quei padri che si disinteressano dei figli delegando tutto alla madre.

Quando è a casa partecipa attivamente alla cura di Barbara.

Il momento che in queste ultime settimane ha cominciato ad apprezzare di più come padre è il rientro dal lavoro, quando si fa raccontare da Monica come è stata la bambina.

Vuole sapere tutto, fa domande, si fa descrivere nei dettagli il peso, la durata della poppata, il sonno, i pianti.

Non vuole perdere, seppure non possa farlo che indirettamente attraverso le parole della moglie, neppure un attimo di questo primo periodo di vita della figlia.

Da qualche giorno nota però che Monica manifesta insofferenza quando le chiede tutte queste informazioni.

« Sarà un po' nervosa per la fatica » commenta tra sé e sé Gigi.

Finché una sera Monica scoppia in lacrime, dice di non riuscire a farcela più, che non riesce più a reggere tutte queste insistenze, questi interrogatori del marito.

La famigliola entra in crisi.

Cerchiamo di capire.

Gigi, quando si interessa in modo così puntiglioso della giornata di Barbara comunica implicitamente « mi considero un buon padre e ritengo che tu, Monica, possa aiutarmi ad esserlo informandomi di ciò che avviene in mia assenza ».

Dal canto suo Monica vede così la loro situazione: « Se mi fai tutte queste domande significa che non ti fidi delle mie capacità come madre e questo mi fa sentire sempre sotto esame ».

Non cadiamo nella trappola di voler decidere se ha ragione Gigi o ha ragione Monica.

Quello che ci serve notare è come i giudizi impliciti nelle parole e nei comportamenti dei due sono differenti e che l'incidente relazionale scaturisce proprio da queste valutazioni nascoste.4

Un caso analogo è quello di Aldo, capo ufficio in una cartiera.

Tra i suoi collaboratori c'è Fausto, un laureato di circa trent'anni di cui apprezza molto capacità e serietà.

Lo vede ancora un po' insicuro professionalmente e da qualche mese ha deciso di aiutarlo a sviluppare una maggiore autonomia sotto il profilo tecnico.

Segue perciò da vicino la sua attività in modo da non fargli mancare gli stimoli necessari.

Fausto ha notato che da qualche tempo il suo capo si interessa in modo particolare al suo lavoro.

Ciò lo fa sentire a disagio, si sente controllato, ha finito col pensare che Aldo non valuti positivamente la sua collaborazione.

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un fraintendimento nato dalla diversità dei giudizi impliciti legati alla comunicazione.

Quando Aldo si interessa al lavoro di Fausto intende fargli capire: « Lavori bene e voglio aiutarti a lavorare ancora meglio ».

Fausto avverte che Aldo gli dica: « Se devo intervenire io significa che tu da solo non sei all'altezza ».

Angela è una ragazza di ventidue anni, studentessa universitaria.

Di solito per andare alla facoltà si serve dei mezzi pubblici.

Oggi però ha in programma, dopo le lezioni, di recarsi in diversi punti della città per fare alcune commissioni.

Per essere facilitata in questi spostamenti, chiede in prestito al padre l'auto di famiglia.

Il padre acconsente e aggiunge: « Bada che è in riserva, fai subito rifornimento ».

E lei: « Certo, papa ».

Comincia a prepararsi ed il padre riprende: « Lo sai che Piazza Castello è chiusa per lavori? Gira alla larga perché ci sono sempre intasamenti ».

Angela risponde: « Sì, papa ».

Sta pettinandosi davanti allo specchio e sente il padre: « Hai letto sul giornale che hanno allargato la zona disco? ».

Lei risponde: « Sì, lo so ».

Infine, mentre Angela raduna le sue cose per uscire, il padre dice: « Ah, mi raccomando non tirare troppo le marce! ».

Angela a questo punto sbotta: « Uffa, papa! », prende le chiavi ed esce di casa con fare risentito.

Il padre si domanda: « Ma che cosa l'avrà mai fatta arrabbiare così? E sempre tanto nervosa questa ragazza! ».

Ormai siamo abbastanza accorti nel far uscire allo scoperto i giudizi impliciti.

Il padre comunica: « Voglio aiutarti a usare la macchina senza problemi », mentre Angela si dice: « So stare al volante e conosco la città. Non accetto che tu, papa, mi dia dei consigli come se fossi una principiante ».

Va sottolineato come i giudizi impliciti siano inevitabili.

E il fatto stesso di comunicare a metterli in azione.

In qualche modo ciò assomiglia a quanto avviene in occasione di uno sforzo fisico che comporta necessariamente un aumento della frequenza dei battiti del nostro cuore: le due cose sono legate l'una all'altra.

Come non è neppur pensabile di poter chiedere uno sforzo fisico al nostro corpo evitando che di pari passo il nostro cuore acceleri i suoi battiti, così non potrà mai esservi comunicazione con qualcuno senza che si attivino questi giudizi.

Non ci si chieda quindi cosa o come fare per eliminarli.

Ne ci si proponga di tacere quando ci si accorgesse che un messaggio fa passare un giudizio implicito penalizzante: molte volte ciò rappresenterebbe un rimedio peggiore del male.

Infatti, molti ruoli che la vita ci attribuisce ( quello di genitori, di superiori, di insegnanti, quello di amici ... ) ci impongono di non tacere anche quando le nostre parole comportano un giudizio dall'impatto negativo sul nostro interlocutore.

Se stessimo zitti, verremmo meno alle nostre responsabilità e non saremmo né buoni genitori, superiori o insegnanti, né veri amici.

Come comportarci allora?

Che fare

Si tratta innanzi tutto di accorgerci, ancor prima di formulare il nostro messaggio, del tipo di giudizio implicito che stiamo per trasmettere.

Per riuscire in questo, dato che non ne siamo abituati, bisogna allenare la nostra attenzione ed affinare la nostra sensibilità.

A questo scopo ci possiamo chiedere, per esempio, cosa proveremmo nel sentirci dire quella certa cosa se fossimo nei panni di chi ci sta di fronte.

Se pensiamo che la nostra reazione sarebbe di gratificazione o neutra, possiamo procedere senza alcuna preoccupazione.

Se invece immaginiamo che ci sentiremmo sminuiti o penalizzati, è logico prevedere una percezione analoga anche da parte sua, tanto che potrebbe rinchiudersi nel silenzio, diventare polemico o rivoltarsi contro di noi.

Se un'eventuale reazione di questo tipo ci sembra indesiderabile, è necessario pensare a come prevenirla.

Si tratta allora di formulare il nostro pensiero in modo da attutirne l'impatto e renderne meno problematica l'accettazione da parte del nostro interlocutore.

Possiamo con questo proposito far precedere ciò che gli dobbiamo dire da una premessa adatta a smorzare il peso del giudizio implicito destinato a finire sulle sue spalle.

Prendiamo il caso in cui qualcuno stia sbagliando e riteniamo quindi necessario intervenire per consigliarlo.

In queste situazioni, fare un'osservazione o dare un consiglio equivale a far passare il giudizio implicito: « Non sei abbastanza bravo nel venire a capo dei tuoi problemi. Al contrario io sono più in gamba di te e ti spiego come bisogna fare ».5

Se temiamo che l'impatto di questo giudizio comporti la nascita di qualche difficoltà, possiamo ad esempio far precedere il nostro consiglio dalla considerazione: « Forse non ti è mai venuto in mente, ma ... ( e facciamo seguire l'osservazione ) ».

In questo modo forniamo noi stessi una spiegazione accettabile della sua manchevolezza tale da far percepire meno lesivo il giudizio implicito che comunque trasmettiamo.

Come a dire: « Certamente ci saresti arrivato anche tu. Tutto è dipeso solamente dal fatto che non ti è venuto in mente prima ».

Un altro possibile accorgimento consiste nel far cadere meno dall'alto il nostro giudizio implicito, assumendo nel dialogo una posizione pacata, dicendo, ad esempio: « Non voglio certo fare la parte di chi insegna ai gatti ad arrampicarsi, ma, secondo me ... ».

In questo modo sottintendiamo considerazione per la competenza del nostro interlocutore che risulta così salvaguardata malgrado l'osservazione che gli rivolgiamo.

Due modi tra i tanti possibili.

La regola generale consiste nel trovare una premessa capace di assorbire l'impatto dei nostri giudizi impliciti su chi ci sta di fronte.

L'attenzione al fenomeno di cui stiamo parlando e l'impiego degli accorgimenti suggeriti permettono un radicale miglioramento nella qualità della comunicazione.

L'osservazione delle situazioni di tutti i giorni mostra infatti come la grande maggioranza delle difficoltà relazionali dipenda in larga misura proprio dalla circolazione incontrollata di apprezzamenti di questo tipo nascosti nei discorsi tra le persone.

Possiamo ancora pensare a circostanze in cui non sia possibile o non vogliamo ricorrere a questo genere di accorgimenti.

In questi casi può esserci utile anche solamente accorgerci che in quel momento stiamo mettendo in gioco con le nostre parole una considerazione non gratificante per chi ci sta davanti.

Questa consapevolezza ci permette infatti di non farci trovare impreparati dalle sue reazioni e, soprattutto, di non stupircene.

C'è quindi modo e modo di far passare, essendone consapevoli, queste nostre valutazioni su noi stessi e sugli altri.

Il rischio peggiore

Abbiamo notato come le reazioni suscitate dal giudizio implicito possano essere rappresentate da un senso di gratificazione, di neutralità o di deprezzamento.

Talvolta il senso di deprezzamento o di frustazione è particolarmente problematico, al punto da influire sulla persona che ne è interessata in modo molto pesante, ben al di là della risposta emotiva immediata.

Il caso che segue ne è la dimostrazione.

A casa Flavi è l'ora di cena.

Intorno al tavolo ci sono padre, madre, la figlia Irene di diciassette anni, il figlio Alberto di quindici ed il nonno più che ottuagenario.

La conversazione è caduta sugli incidenti stradali del sabato notte al rientro dalle discoteche.

Alberto dice che, secondo lui, si tratta di un falso problema, che di giovani coinvolti in incidenti stradali ce ne sono tutti i giorni e a tutte le ore.

Gli altri non sono d'accordo e ciò fa discutere.

Irene ad un certo punto dice che una causa può consistere nel fatto che i giovani spesso esagerano nel bere alcoolici, considerazione che, pur con sottolineature diverse, trova un po' tutti d'accordo.

Ad un certo punto interviene il nonno dicendo che una volta queste cose non succedevano, che i giovani di allora avevano altro a cui pensare, altro che fare le ore piccole!

La reazione è di mutismo assoluto: ognuno guarda nel suo piatto senza fare alcun commento.

Un attimo dopo il silenzio viene interrotto dalla madre che cambia completamente argomento e si informa con Irene sulla sua preparazione in vista di una imminente interrogazione scolastica.

Come se nulla fosse, l'argomento si sposta quindi sul tema della scuola.

Analizziamo quanto è avvenuto.

Alberto ha espresso un'idea che è stata raccolta dagli altri, ma la sua posizione non è stata condivisa.

Anche Irene ha espresso un'idea che è stata presa in considerazione ed alla fine è stata in linea di massima accolta.

Il nonno pure ha detto quello che pensava, ma nessuno ha raccolto il suo pensiero né l'ha preso sul serio.

La conversazione intorno alla tavola è continuata come se lui non avesse detto nulla.

Se ci riferiamo ai giudizi impliciti, notiamo che quelli riguardanti Alberto ed Irene hanno una caratteristica comune: è come se fosse stato detto loro che i loro ragionamenti meritano attenzione, anche se possono essere ritenuti sbagliati, come nel caso di Alberto.

Per quanto riguarda il nonno invece si è semplicemente negato il fatto che le sue idee possano essere degne di considerazione, tant'è che nessuno ha fatto il benché minimo sforzo per commentarle o, eventualmente, per contestarle.

Le sue parole sono state lasciate semplicemente cadere nel nulla, come se non fossero state pronunciate.

Possiamo definire il giudizio implicito riguardante il nonno spersonalizzante, dato che gli si è di fatto negato il diritto di esistere a pieno titolo all'interno di una conversazione nella quale era coinvolto per la sua stessa presenza a tavola.

Si è trattato di una specie di annullamento della sua persona, quasi a dirgli: « Per questi discorsi tu non esisti ».

Ci rendiamo facilmente conto che, se la posizione di Alberto che si è trovato in disaccordo con gli altri può non essere tra le più piacevoli, ben più pesantemente penalizzante è la condizione del nonno che non si sente nemmeno considerato.

Cosa farà allora? Potrà rinchiudersi in un silenzio immusonito pensando: « Tanto io non conto più nulla » o potrà diventare polemico e petulante nel tentativo maldestro di riconquistarsi una dignità relazionale.

Si noti come entrambe le reazioni non rappresentino un problema solo dal punto di vista del nonno, ma incidano sulla serenità di tutti i membri della famiglia, i quali senza accorgersene hanno creato essi stessi le premesse della scontrosità o delle insopportabili insistenze del vecchietto di cui spesso si lagnano.

Non è sempre tutta colpa dell'arteriosclerosi!

Lasciare circolare impunemente nei nostri collegamenti vitali questi giudizi spersonalizzanti6 è da considerarsi un modo « malato » di comunicare, dato che molto spesso tali giudizi si comportano come un virus che infetta tutte le situazioni di relazione tra due persone: si vengono così a creare conseguenze molto penose per lo stato d'animo di chi ne è fatto oggetto, al punto che ne viene in alcuni casi intaccato l'equilibrio emotivo.

Guai se una di queste due persone è un bambino.

Qualora negli anni in cui si gettano le basi della sua futura personalità di adulto, egli venga sistematicamente bombardato da giudizi impliciti che devastano la sua percezione di persona degna di considerazione.

Come potrà mai trovare fiducia in se stesso quando è stato trattato dagli adulti che lo circondano come se non avesse idee, sentimenti, emozioni?

Nei casi più gravi ciò provoca l'insorgere di difficoltà psicologiche che possono sfociare in veri e propri disturbi della personalità.

Senza arrivare a questi casi limite, si tratta peraltro di un modo di comunicare piuttosto diffuso che, come si constata da questi esempi, si verifica anche nelle famiglie più « normali ».

Davide è un bimbo di quattro anni con un fratellino, Giorgio, di due.

Quando è nato Giorgio è stata dura per lui abituarsi all'idea di non avere più tutte le attenzioni di mamma solo per sé.

Gli hanno detto che doveva volere bene a Giorgio e si è sforzato di farlo, ma come voler bene ad uno che reclama in continuazione la mamma per mangiare, per essere pulito e così via?

Davide ha provato a ritornare a essere piccolo come Giorgio facendosi di nuovo la pipì addosso, nella speranza di obbligare così la mamma a prendersi cura allo stesso modo anche di lui, ma non ne ha ricavato molto.

Gli hanno di nuovo messo il pannolone alla notte e tutto è finito lì.

Davide continua a fare la pipì nel letto e Giorgio continua a godere delle cure materne.

Ora Giorgio è cresciuto, ha imparato a camminare e comincia a fare disastri.

Nessuno dei giochi di Davide è più al sicuro, alcuni sono stati distrutti, altri rovinati da questo novello piccolo Attila.

Davide è convinto che Giorgio sia cattivo perché a lui hanno insegnato e pretendono che queste cose non si facciano.

Ogni tanto si arrabbia, cerca di difendere i suoi giochi e Giorgio si mette a strillare come un'aquila.

Papa e mamma, per farlo smettere, gli dicono che non è successo niente, che Davide gli vuole bene, che loro due sono due buoni e bravi fratellini.

Poi li invitano ad abbracciarsi, a farsi « caro » ed a darsi bacino.

Davide non vorrebbe, tenta di rifiutarsi, ma le mani di papa e mamma lo spingono verso Giorgio finché, tanto per farli contenti e risparmiarsi le loro insistenze, da questo benedetto, tanto atteso bacino.

Davide è molto arrabbiato dentro di sé con Giorgio per tutti i motivi che abbiamo visto e giudica responsabile il fratellino dei suoi guai.

I genitori, con i loro interventi educativi, si comportano come se Davide non avesse queste difficoltà, anzi negano addirittura che queste difficoltà esistano, continuando a dirgli che lui e Giorgio si vogliono molto bene.

Potremmo dire che Davide viene « espropriato » delle sue sensazioni e delle sue emozioni: gli adulti le ignorano come se non esistessero e non fossero state espresse attraverso i suoi comportamenti.

Il virus ha già cominciato a fare disastri: se papa e mamma non cambieranno il loro modo di intervenire, ne passerà di tempo prima che Davide smetta di bagnare il letto!

I giudizi spersonalizzanti sono dappertutto

Ci soffermiamo su alcuni esempi di giudizi impliciti spersonalizzanti, per richiamare l'attenzione del lettore sulla frequenza con la quale essi possono presentarsi nella vita di tutti i giorni e per sottolinearne le possibili conseguenze.

E in corso una discussione carica di tensione tra marito e moglie.

Entrambi si sforzano di convincere l'altro del proprio punto di vista.

Il tono si alza. Ad un certo momento interviene il marito dicendo con tono incalzante: « Dimmi se è vero o no che sono passati mesi dall'ultima volta che siamo andati a trovare i miei parenti! » .

Lei replica: « Non usare questo tono con me, sai! » e lui, cercando di controllarsi: « Non sono forse mesi che i miei non ci vedono? » e lei, di rimando: « Smettila di alzare la voce! »

A questo punto il marito perde le staffe ed ha una reazione emotiva incontrollata.

Cosa ha provocato la reazione incontrollata del marito?

Molto probabilmente la sua esasperazione nasce dal fatto di sentirsi ignorato nelle sue argomentazioni: per due volte pone la stessa domanda e per due volte la moglie anziché rispondergli sposta il discorso.

Il giudizio implicito spersonalizzante è: « Di' pure quello che vuoi, tanto per me ciò che tu dici o ciò che tu provi non ha nessuna importanza.

Non esiste. Ciò che conta è come io mi sento trattata! ».

Una scenetta alla quale possiamo aver assistito in molti.

Una piazza cittadina, un giorno di festa, un palloncino colorato vola via verso l'alto, un bimbo piange.

Un adulto lo consola: « Non è successo niente, guarda come vola in cielo! ».

Il bimbo continua a piangere.

Sembra che quanto più l'adulto si sforzi a dirgli che non è successo nulla, tanto più forte sia il pianto del piccolo.

Carletto è sul seggiolone e la nonna lo sta imboccando.

E la prima volta che gli danno da mangiare il fegato .

Carletto non lo gradisce e lo sputa.

La nonna: « Amm, pappa buona!» e lo imbocca di nuovo.

Carletto sputa e si mette a strillare.

Una giornata di inizio primavera, una di quelle prime giornate di tepore dopo i freddi dell'inverno, quando si apprezza il sole che comincia a riscaldare piacevolmente.

Sarà è sul passeggino spinto dalla madre: Indossa un grosso berretto di lana.

Ad un tratto Sarà si strappa il berretto dal capo perché ha caldo.

Il passeggino si ferma e la mamma rimette a posto il berretto.

Si riparte e qualche passo più in là si ripete la scena e mamma dice: « Fa freddo, bisogna tenere il berretto ».

Dopo poco la bimba si toglie ancora il berretto e così via altre volte nel corso della passeggiata.

Tutti questi bambini sono stati espropriati delle loro sensazioni.

E più che apprezzabile il tentativo degli adulti di consolare, di diversificare l'alimentazione e di evitare l'insorgere di un raffreddore.

Nel primo caso però, mentre il bimbo vive quella che per lui è la tragedia della fuga del suo amico palloncino, gli si dice che non è niente, cioè gli si dice che il dolore che prova non è nulla.

Questo subbuglio interiore che lo fa piangere e singhiozzare, semplicemente non deve esistere.

Eppure lui lo sente e lo fa proprio stare male!

La nonna fa qualcosa di molto simile con Carletto che sente sgradevole il gusto del fegato, gusto sgradevole che la nonna si ostina a definire « pappa buona ».

Carletto sa che queste non sono le sensazioni che sperimenta quando mangia qualcosa che gli piace.

Ma si sente dire che non c'è nessuna differenza.

Anche nel terzo caso l'insistenza della madre nel ricacciare il berretto in testa alla bambina significa: « Guarda che non fa caldo. Tieni il berretto! »

Ciò equivale a dirle che quella spiacevole sensazione di eccessivo calore non esiste.

Però lei la sente!

Tre bambini ai quali è stato negato di fare esistere quella parte di loro stessi che ha espresso di volta in volta dolore, disgusto, sensazione di caldo.

Nell'educazione ...

Proviamo a pensare che questi giudizi impliciti spersonalizzanti, da fatti episodici, diventino uno stile educativo, cioè un modo sistematico di comunicare tra adulti e bambini nel corso di mesi e di anni.

Non facciamo fatica ad immaginare la confusione che si viene a creare nella testolina di un piccino, quando regolarmente ciò che prova viene negato o viene alterato chiamandolo con un nome diverso.

Lo si mette nella condizione di dubitare delle sue stesse percezioni.

Come potrà domani, adulto, avere fiducia in se stesso quando non sa se potersi fidare di ciò che prova e di ciò che percepisce?

I bambini devono poter piangere quando si trovano ad affrontare sofferenze che per loro sono grandi, per quanto banali possano sembrarne le cause agli occhi di un adulto ed i genitori dovrebbero evitare di esigere l'impossibile da se stessi quando pensano: « Se un padre o una madre non sa acquietare il pianto di un figlio, se non sa decidere per lui ciò che è buono al suo palato e ciò che non lo è, o quando ha caldo e quando ha freddo, non è un buon genitore ».

Si può essere buoni genitori anche vicino ad un figlio che singhiozza o che non mangia.

... in famiglia ...

Il ricorso più drammaticamente problematico ai giudizi impliciti spersonalizzanti si trova nella famiglie che sorridono sempre.

Se succede qualcosa di bello sorridono, se succede qualcosa di penoso sorridono, se tutto va bene sorridono, se tutto va male sorridono, se si fa giusto sorridono, se si sbaglia sorridono ...

I membri di queste famiglie, soprattutto gli adulti, hanno probabilmente bisogno di rassicurarsi di far parte di una buona famiglia ed hanno l'idea che le buone famiglie non debbano mai avere contrattempi o tensioni, e allora ... sorridono.

Il risultato è che, ciascuno dei familiari, quando dentro di sé si sente contrariato o arrabbiato, vede reagire gli altri con un sorriso che, come una pellicola dolciastra ed appiccicosa, nega il suo essere arrabbiato o contrariato e lo costringe ad essere come se niente fosse.

Dopo anni di questo genere di esercizi, gli individui finiscono col dubitare di se stessi.

... sul lavoro ...

In un'azienda industriale è in corso una riunione ad alto livello.

Si sta discutendo di qualità, un argomento cruciale in questi ultimi tempi.

Per la verità, i prodotti continuano ad essere apprezzati dai consumatori, ma non si vuole dormire sugli allori.

L'obiettivo è quello di eliminare gli attuali pochi casi di lamentele della clientela.

Nel corso della riunione vengono prese molte decisioni riguardanti la cura della progettazione, quella della manutenzione degli impianti e così via.

Tra le altre decisioni c'è anche quella di promuovere una campagna di sensibilizzazione tra gli operai addetti alla produzione, affinché facciano suggerimenti per l'eliminazione di eventuali inconvenienti presenti nel ciclo di lavorazione.

Terminata la riunione, i responsabili dei reparti di produzione organizzano incontri con gli operai per spiegare loro le intenzioni dell'azienda e per invitarli a segnalare le loro proposte di miglioramento.

Il riscontro a questa sensibilizzazione è positivo ed i suggerimenti arrivano numerosi.

Passa qualche mese ed il numero delle segnalazioni cala vistosamente; non solo, ma quando i responsabili ricordano agli addetti la possibilità di fornire questo genere di indicazioni, l'impressione è che questi ultimi siano infastiditi.

Cerchiamo di capire come sono andate le cose.

I numerosi suggerimenti presentati nel momento iniziale hanno dovuto essere sottoposti ad analisi tecnica.

Ciò ha comportato un notevole impegno di tempo da parte degli addetti agli uffici tecnici, a causa dell'elevato numero dei casi da esaminare.

Di questi suggerimenti, alcuni sono risultati utilizzabili, mentre, come prevedibile, una parte di essi non è stata giudicata adatta per problemi di fattibilità tecnica, di sicurezza o di economia.

All'atto pratico, dalla mobilitazione degli operai sono derivate poche applicazioni concrete e queste poche a distanza di tempo.

La direzione aziendale ha ritenuto non fosse necessario dare un riscontro a tutti coloro che hanno presentato un suggerimento, sia nel caso di esito positivo come negativo.

Dal punto di vista degli operai sembra allora che la loro disponibilità alla collaborazione sia caduta nel nulla, che le loro proposte siano state ignorate, che l'entusiasmo con cui hanno reagito all'invito al coinvolgimento non sia stato preso nella minima considerazione.

Di qui la demotivazione.

A torto forse, ma finiscono per concludere: « Ci chiedono delle idee e poi nessuno se ne cura. Questo significa che, al di là dei bei discorsi, a nessuno interessa veramente quello che suggerisce la nostra esperienza ».

Questa operazione che, tra l'altro, avrebbe potuto portare un miglioramento nel clima aziendale, rischia di ottenere l'effetto opposto.

... in ospedale

Riscontriamo sorprendentemente la presenza di giudizi impliciti spersonalizzanti ( che, ricordiamo, abbiamo chiamato « modo malato di comunicare » a causa delle sue conseguenze ) anche in situazioni relazionali aventi come obiettivo la salvaguardia della salute!

Parliamo del rapporto tra medico e paziente.

Osserviamo un primario che con la sua équipe di aiuti ed assistenti sta facendo il giro delle visite tra le corsie dei ricoverati.

Si fermano accanto ad uno, gli fanno domande, lo visitano, consultano la cartella clinica, discutono, prendono decisioni e passano al letto successivo.

Al paziente non vengono forniti riscontri se non in modo spesso molto sbrigativo, non vengono motivati eventuali cambiamenti nella terapia.

Il paziente scruta il volto dei medici alla ricerca di segnali rassicuranti, ma essi sono molto professionali e non traspare nulla.

La sua ansia di guarigione, la sua preoccupazione riguardo al bene prezioso della vita, il suo bisogno di essere protagonista delle vicende che lo riguardano, tutto questo non viene tenuto in considerazione.

La percezione del malato è quella di sentire annullata la propria personalità, di aver messo la propria esistenza nelle mani di chi è lì per prendersi cura del suo corpo.

Lui è ... il « caso clinico »; cosa pensi, o provi, o voglia sapere, ha l'impressione non conti nulla.

Alla malattia fisica, cui molto spesso si accompagnano stati d'animo di abbattimento e di depressione, si sommano così i penosi effetti di una condizione spersonalizzante.

Proprio quell'ambiente che deve provvedere al benessere della persona, in un momento in cui essa ha bisogno di contare in pieno su tutte le sue potenzialità per combattere la battaglia e riconquistare la salute, rischia di appannare ed indebolire le sue risorse psichiche ( la volontà, l'intelligenza, la collaborazione attiva ) aventi un ruolo determinante insieme alla cure mediche, per il buon esito del processo di guarigione.

Rispettare le persone

Ai casi descritti si potrebbero aggiungere ancora quelli legati alle manovre per sottrarsi alla comunicazione quando non se ne abbia interesse o piacere.

Mostrarsi molto occupati o intenti in qualcosa e fingere di non accorgersi degli approcci dell'interlocutore, accampare impellenti impegni, ironizzare sulle competenze dell'interlocutore in argomento o squalificarlo brutalmente ( cosa vuoi sapere tu! ): sono anche questi modi per scoraggiare l'interlocutore attraverso giudizi impliciti spersonalizzanti.

Si è già sottolineato come il benessere relazionale delle persone passi anche attraverso l'accettabilità dei giudizi ricevuti nelle occasioni di comunicazione.

Come si può pensare che possa essere sentito accettabile un giudizio implicito che suscita un senso di frustrazione profonda, di annullamento delle proprie idee, delle proprie emozioni o delle proprie sensazioni, come nel caso di un giudizio spersonalizzante?

Si tratta perciò di porre la massima attenzione, particolarmente con i più deboli ( bambini, malati, persone in difficoltà ), a non far passare insieme ai contenuti dei nostri messaggi questi giudizi.

Al contrario, occorre permettere loro di costruire e di mantenere integra la consapevolezza del proprio valore insostituibile rappresentato dall'essere persone, mediante giudizi impliciti comunque rispettosi, anche quando non dovessero essere gratificanti.

Per riassumere

Tutte le volte in cui comunichiamo, si verificano sempre due fenomeni.

Di uno dei due siamo sempre consapevoli e riguarda la nostra intenzione di dire determinate cose.

L'altro avviene nella maggior parte dei casi a nostra insaputa: esso consiste nella presenza in quanto diciamo di giudizi impliciti riguardanti sia noi stessi che la persona con cui stiamo comunicando.

La reazione dei nostri interlocutori ai messaggi che inviarne loro è determinata certo dal loro contenuto, ma in misura spesso maggiore, proprio da questi giudizi.

Essi possono essere all'origine di importanti difficoltà nei nostri collegamenti vitali, anche considerato il fatto che ne siamo quasi sempre inconsapevoli.

Talvolta questi giudizi sono tali da essere percepiti come segno della totale non considerazione da parte nostra per la persona stessa di un interlocutore.

Li chiamiamo in questi casi « giudizi impliciti spersonalizzanti » e li consideriamo indice di un modo malato di comunicare, perché - qualora diventino abituali - possono provocare l'insorgere di importanti difficoltà per le persone implicate, soprattutto se sono bambini.

Indice

3 Nel già citato libro «La pragmatica della comunicazione umana» di Watzlawick, Beavin eJackson, questi giudizi impliciti vengono chiamati metacomunicaiione
4

Rimandiamo il lettore ad un successivo capitolo, dove troverà indicati i modi con cui, in casi come quello di Monica, è possibile evitare di lasciare accumulare dentro di sé tensioni ed insoddisfazioni, tanto da arrivare a sentirle insopportabili

5 Noti il lettore come questo giudizio implicito sia presente tutte le volte in cui vengono dati dei consigli. Consigliare e lasciarsi consigliare è spesso difficile proprio perché ne va sempre di mezzo la considerazione sul destinatario del suggerimento in questione
6 Ci serviamo dell'espressione «giudizio implicito spersonalizzante» per esprimere il concetto che gli studiosi definiscono disconferma