Proviamo a capirci

Ascoltare

Sentire e ascoltare

Nel linguaggio corrente esistono due verbi che vengono spesso usati come sinonimi: il verbo « sentire » ed il verbo « ascoltare ».

A ben considerare però, sentire consiste nel lasciare che le onde sonore prodotte da suoni o parole colpiscano l'apparato uditivo indipendentemente dalla volontà; ascoltare presuppone invece l'intenzione di far caso a certe onde sonore perché si è interessati ad esse e si vuole cogliere il loro significato.

Sentire può essere indipendente dalla volontà, ascoltare è sempre intenzionale.

In molte discussioni, lezioni, riunioni si sta a sentire, eventualmente con la mente occupata nei propri pensieri, e non si ascolta: non ci si sente motivati a fare lo sforzo di capire ciò che è oggetto della comunicazione.

D'altra parte ascoltare non sempre ci viene immediatamente spontaneo.

Quando ad esempio si pone il problema di dover incontrare qualcuno che conosciamo poco e temiamo possa crearsi qualche imbarazzo sull'argomento della conversazione, ci chiediamo: chissà di che cosa potrò parlargli!

Non ci sfiora neppure l'idea che la conversazione possa consistere nell'ascolto da parte nostra di ciò che lui potrebbe avere da raccontarci.

Pertanto, presi dalla preoccupazione di trovare qualche argomento interessante, rischiamo di non prendere neppure in considerazione questa seconda possibilità.

I cosiddetti buoni conversatori sono considerati tali proprio perché sanno mostrare interesse per ciò che gli altri hanno da dire mettendoli così a proprio agio, prima ancora che per le loro abilità nell'argomentare.

Si noti che, qualora non esistesse l'ascolto, non avrebbe nessun senso né la parola, né la comunicazione.

A che cosa serve lo sforzo che facciamo per riflettere su ciò che vogliamo dire, per trovare le parole ed i modi appropriati per dirle, per essere logici e convincenti, quando tutto ciò si riduce ad una successione di onde sonore raccolte in modo distratto o addirittura indifferente da chi ci sta di fronte?

« Ti conosco troppo bene »

Non solo la distrazione e l'indifferenza sono nemiche dell'ascolto: anche la presunzione di capire al volo, ancor prima del tempo - giustificata dalla pretesa conoscenza approfondita di un interlocutore - può ostacolare o, addirittura, impedire l'ascolto durante un dialogo.

Il marito che, mentre la moglie parla nel corso di una loro accesa discussione, capisce subito dove lei vuole arrivare, è un esempio comune.

Gli sembra anche normale che sia così: la conosce ormai da tanto tempo!

Tra fidanzamento e matrimonio sono passati più di vent'anni.

E allora, chi mai può osare mettere in dubbio la sua capacità di cogliere a volo il nocciolo dei suoi ragionamenti?

Stare ad ascoltare ciò che ha già capito diventa per lui un inutile spreco di tempo e di attenzione.

E meglio usare quei momenti per cominciare a pensare a come potrà replicare per sostenere la sua idea e a studiare come rendere più stringenti le sue argomentazioni.

Nel far ciò però, la voce della moglie disturba la sua concentrazione e decide allora di « spegnere l'audio » o, meglio, di abbassarlo solamente.

Sì, perché dovrà accorgersi del momento in cui lei farà una breve pausa, fors'anche solo per prendere fiato, e inserirsi ad esporre quanto pensato mentre lei parlava.

La moglie che, oltre a vantare una altrettanto lunga conoscenza di lui può anche far conto sul proprio intuito femminile, arriva a capire ancora più in fretta e, a sua volta, si regola nel medesimo modo.

E vanno avanti così per un po'.

Alla fine, constatata l'inutilità dei loro sforzi, desistono sospirando tra sé e sé: « Cosa bisognerà mai fare per riuscire a capirsi! ».

Chissà che la risposta non consista proprio nel cercare di darsi ascolto l'un l'altra.

Infatti, tutto quel rigore logico spesso accompagnato dalla rievocazione di fatti della loro vita a due ormai sepolti nel tempo ma che nei momenti critici si impongono alla mente facendoci scoprire dotati di una insospettata memoria da elefanti, tutto ciò non serve assolutainente a nulla.

Non serve a nulla se chi è destinatario di così preziosi frutti della nostra intelligenza e della nostra capacità oratoria ha la mente troppo impegnata a partorire a sua volta altrettanta dovizia di saggezze.

Un primo accorgimento pratico consiste quindi nel mettere l'intenzione di capire ciò che ci dicono gli interlocutori all'interno dei nostri collegamenti vitali.

Non si può pensare di aver capito qualcuno se non dopo avergli dato modo di esprimersi in altre parole, dopo aver ascoltato non lui, ma quanto ha da dirci.

Infatti, è sbagliato dire che si ascoltano le persone: è quanto hanno da comunicarci che va ascoltato.

Pertanto, se eventualmente potremmo ritenere di aver ascoltato qualcuno una volta per tutte, non potremo mai pensare di aver ascoltato tutto quello che questa persona può dirci.

Prima capire, poi agire

Altre volte il nostro ascolto è ostacolato dai giudizi che a mano a mano si susseguono nella nostra mente in corrispondenza delle successive affermazioni di chi ci parla.

Ognuno di questi giudizi sollecita in noi un moto di reazione e mentre la nostra mente è impegnata nella scelta della reazione più adatta non è in grado di fare spazio alla sollecitazione proveniente dall'affermazione che viene dopo e così via.

È una rincorsa che può farci scegliere alla fine una reazione fra tutte basandoci solo su ciò cui siamo stati in grado di prestare attenzione e trascurando quanto è andato perso mentre di volta in volta cercavamo dentro di noi la risposta alla domanda: « Rispetto a quello che mi ha appena detto, che cosa faccio, come è giusto reagire? ».

Il rischio è quindi quello di esprimere comportamenti di reazione sbagliati perché riferiti a informazioni parziali.

Il signor Arturo ha scelto un cassetto del mobile ribaltina nell'ingresso per custodirvi i documenti importanti della famiglia.

Nulla di particolarmente riservato ma, da persona pignola e precisa qual è, preferisce che tutto sia in ordine e pronto all'uso in caso di bisogno.

In famiglia tutti sanno di questo cassetto e soprattutto del fatto che è vietato ai figli mettervi le mani: si sa, i bambini, anche senza volerlo, possono creare disordine e al momento opportuno si corre il rischio che tanta cura risulti vana.

Uno dei figli del signor Arturo, Simone di sette anni, sta giocando a far fare dei gran rimbalzi sul pavimento a una pallina di gomma.

Ad uno dei rimbalzi la pallina ricade proprio nel cassetto della ribaltina, stranamente aperto.

Simone è imbarazzato, non sa come regolarsi.

Sa del divieto ed immagina i rimproveri qualora venisse scoperto nell'atto di non rispettarlo; ma ha anche voglia di ricuperare la sua pallina.

Si avvicina cautamente al mobile, allunga la mano e, in quel preciso istante, compare sulla porta il padre che, vedendo il figlio in quella posizione e nulla sapendo della traiettoria della pallina, lo apostrofa immediatamente: « Via le mani di lì! Lo sai che non voglio che tu apra quel cassetto! ».

Simone cerca timidamente di replicare: « Ma papa ... » ma viene subito interrotto: « Ti ho detto di lasciar stare! » ed il figlio: « Vorrei solo ... » ed il padre, alzando la voce e con fare minaccioso, « Insisti! Chiudi subito il cassetto! ».

Simone a questo punto chiude con aria rassegnata il cassetto contenente la sua preziosa pallina e mogio mogio si allontana.

Avendo sentito la voce alterata del marito, la moglie interviene a rimproverarlo per quei suoi modi sempre così autoritari.

Ne nasce una discussione che lascia entrambi risentiti e di cattivo umore.

Dopo qualche ora si vede Simone osservare il padre a distanza, studiarne lo stato d'animo e, vedendolo tornato di buon umore, avvicinarsi finalmente e dirgli: « Scusa papa, a proposito del cassetto della ribaltina, volevo solo dirti che, mentre giocavo, ci è caduta dentro la mia pallina, perché qualcuno l'aveva lasciato aperto.

Cercavo solo di riprendermela, non avevo nessuna intenzione di curiosare ».

In quello stesso istante, come in un lampo, il signor Arturo si ricorda di una telefonata ricevuta in mattinata nel corso della quale ha avuto bisogno di comunicare alcuni dati, di averli cercati al loro posto, cioè nel cassetto, e poi di averlo lasciato aperto per dimenticanza.

Si alza, apre il cassetto e vi trova la pallina del figlio.

Un rimprovero inutile, una discussione con la moglie ed il relativo seguito di cattivo umore: tutto questo per non aver permesso al figlio di spiegarsi, ovvero per non aver voluto ascoltare.

Nella carriera di ogni genitore si può trovare almeno un episodio di questo genere, che si concluse con la necessità di doversi rimangiare una sgridata immotivata.

Cercare le colpe o cercare le cause?

Un'altra sottolineatura cui può dare spunto la situazione appena descritta riguarda l'uso immediato, automatico e quasi scontato, di un atteggiamento accusatorio e colpevolizzante.

In effetti, tra le diverse possibilità di spiegazione di un inconveniente ( negligenza, colpa, errore, fatalità ... ), siamo spesso portati a prenderne in considerazione solamente una: la colpa.

Michele è commesso in un magazzino all'ingrosso di materiali elettrici già da qualche anno.

Il suo incarico è quello di preparare i materiali riportati sugli ordini dei clienti in modo che quando questi arrivano per il ritiro trovino già tutto pronto.

É un lavoro che gli piace e che fa molto volentieri.

Qualche istante fa il capo magazziniere ha ricevuto una telefonata da un importante cliente che lamenta un errore in una consegna di qualche giorno prima: invece di un certo articolo ne è stato fornito un altro non richiesto.

Il cliente è piuttosto risentito e insiste sul fatto che a questo punto dovrà distaccare un suo operaio dal lavoro per mandarlo a fare la sostituzione.

Constatato attraverso la documentazione che la fornitura era stata preparata da Michele, il capo lo chiama da lontano mentre lavora tra gli scaffali.

Michele alza lo sguardo: il tono di voce del capo non promette niente di buono.

Sarà bene prepararsi ad una sfuriata!

Ed infatti si sente dire con modi molto duri, quasi offensivi, che deve stare attento a quello fa, che a lavorare bisogna metterci la testa, che se ha altri pensieri li deve lasciare a casa, che l'azienda non può permettersi di perdere delle grosse forniture a causa dei suoi sbagli, che ci pensi su bene perché, se dovessero ripetersi degli errori, finirà a scaricare gli autocarri dei fornitori.

Michele è sbalordito: cosa potrà aver fatto di così grave?

Prova a chiederlo, ma viene zittito in modo perentorio.

Finalmente, cogliendo un indizio qua ed uno là nel discorso del capo, capisce l'accaduto.

Visto come si sono messe le cose è meglio non discutere, ammettere lo sbaglio, scusarsi garantendo una maggiore attenzione per il futuro e provvedere immediatamente a preparare il materiale per la sostituzione.

A questo punto il capo si allontana consapevole di aver fatto quello che ogni buon responsabile deve fare: constatata una colpa, rimproverare il colpevole.

Ma ragioniamo. Perché è necessario un rimprovero?

Forse per colpevolizzare, o per punire, oppure per mortificare?

Che cosa cambia una volta colpevolizzato, punito o mortificato un collaboratore?

Sotto il profilo pratico nulla, se non una possibile alterazione del clima relazionale.

La funzione di un rimprovero sembra piuttosto essere un'altra: quella di impedire il ripetersi di un inconveniente.

Far si cioè che domani non ci si debba di nuovo trovare alle prese con lo stesso guaio.

Ora, l'intervento del capo, partendo dal giudizio di fondo - senza possibilità di replica - che un errore non possa spiegarsi se non con una mancanza, quasi ci fosse una maliziosa volontà di creare grattacapi, ha raggiunto lo scopo?

Per impedire veramente il ripetersi della cosa, egli si sarebbe dovuto chiedere anzitutto perché Michele aveva sbagliato.

Avrebbe dovuto farsi spiegare come erano andate lo cose.

Avrebbe dovuto quindi ascoltarlo.

Non per giustificarlo a priori, né per sminuire la portata dell'errore, ma per cercare la causa e fare le correzioni del caso.

Solo in questo modo, qualora si dovesse presentare in futuro una situazione analoga, si avrebbe la garanzia di evitarne la ripetizione.

Se il capo di Michele avesse dedicato il tempo usato per colpevolizzarlo ad ascoltarlo, avrebbe potuto notare come la codificazione di magazzino dell'articolo erroneamente inserito nella fornitura è casualmente quasi uguale a quella di un altro articolo molto simile, ma con specifiche diverse.

É vero che c'è stata una distrazione da parte di Michele, ma si può ben dire che è stata favorita da questa circostanza.

Ciò che in un caso di questo genere serve effettivamente è modificare la codificazione di uno dei due articoli, in modo tale da rendere improbabile la confusione dei codici.

La comunicazione non è fine a se stessa

Queste ultime riflessioni richiamano le considerazioni fatte in un capitolo precedente a proposito della possibile confusione tra mezzi impiegati per raggiungere uno scopo e lo scopo stesso.

Anche in questo caso, l'eccesso di peso attribuito al rimprovero finisce per far perdere di vista il vero obiettivo, che è quello di far andar bene le cose per il futuro.

Anche l'atto del comunicare considerato in tutta la sua complessità corre il rischio di cadere in questo stesso genere di confusioni.

Si perde infatti molto spesso di vista il fatto che comunicare ( dire, ascoltare, domandare, spiegare, ecc. ) è un mezzo, al servizio dei nostri obiettivi personali.

E quanto segnalato già nel primo capitolo, che cioè comunicare serve per stabilire i nostri collegamenti vitali, in altre parole per creare le condizioni che rendono possibile la soddisfazione dei nostri bisogni.

Occorre pertanto mantenere distinto ciò che è necessario per comunicare ( che è il mezzo per stabilire i nostri collegamenti vitali ) da ciò che di volta in volta bisogna fare in base ai contenuti della comunicazione per trovare la risposta alle nostre esigenze ( cioè per usufruire dei benefici ricavabili dai nostri collegamenti vitali ) .

Questa importante distinzione può meglio cogliersi attraverso la fig. 1.

fig. 1

Nella fig. 1 poniamo che A, per garantirsi un proprio collegamento vitale, abbia bisogno di comunicare a B un'informazione in suo possesso.

Quest'informazione è rappresentata nella figura come un quadratino nero, presente nella mente di A.

Comunicazione sarà tutto quanto A farà per trasmettere a B l'informazione e nella figura ciò è reso con la freccia tratteggiata che va dalla mente di A verso la mente di B.

Quando si potrà dire che c'è stata comunicazione tra i due e che questa comunicazione è stata efficace?

Esclusivamente nel momento in cui nella mente di B troveremo lo stesso identico quadratino nero presente nella mente di A.

Se il quadratino non entra nella mente di B o ve lo troviamo di un altro colore o al suo posto arriva un triangolo o un cerchio, non c'è stata comunicazione o c'è stato un errore che ne ha compromesso l'efficacia.

Altra cosa è ciò che farà B quando nella sua mente sarà entrato il quadratino nero di A, cioè l'uso che B farà dell'informazione ricevuta, le decisioni che prenderà o i comportamenti che sceglierà di adottare.

Ovviamente, sulla base del quadratino nero reagirà in un certo modo, diverso da come reagirebbe se, ad esempio, avesse recepito un cerchietto blu.

Non conta cosa è stato detto, ma ciò che è stato capito

É interessante notare come le reazioni di B non sono determinate da ciò che ha comunicato A, ma da ciò che B ha capito della comunicazione di A.

Infatti, se comunichiamo con qualcuno, significa che in quel momento lo riteniamo adatto a rispondere ad un nostro bisogno e pertanto tentiamo con lui un collegamento vitale.

Metteremo tutta l'attenzione e la cura necessario nella formulazione dei nostri messaggi, ma ciò che conta veramente è quanto capisce il nostro interlocutore, nel senso che la sua decisione di aderire o meno al nostro invito dipenderà dalla sua interpretazione di quanto da noi comunicato.

Se, ad esempio, nel corso di un lungo viaggio in treno ci rivolgiamo ad un passeggero del nostro stesso scompartimento con lo scopo di conversare ( cerchiamo cioè di stabilire un collegamento vitale finalizzato a renderci meno pesante la lunghezza del viaggio ) e quanto noi diciamo viene erroneamente interpretato, secondo il dizionario mentale del nostro interlocutore, come un'intromissione nelle sue cose private, il rifiuto di quest'ultimo non sarà conseguente a ciò che noi abbiamo detto, ma al significato che lui ne ha ricavato.

Tutto quanto fa B per creare le condizioni affinché sia proprio lo stesso quadratino nero di A ad entrare nella sua mente è ciò che chiamiamo ascolto.

Pertanto, se A sta trasmettendo il quadratino nero e B comincia a pensare se il quadratino gli piace, se è ben fatto, se gli è simpatico ( cioè confonde il mezzo con lo scopo ), la ricezione ne risulterà disturbata ed aumenterà il rischio di errore nella comunicazione.

La prima preoccupazione di B deve essere quella di disporsi nell'atteggiamento più adatto a ricevere il quadratino nero; poi, quando sarà sicuro che si tratta proprio di un quadratino nero, deciderà che uso farne.

La condizione fondamentale dell'ascolto consiste perciò nella sospensione del giudizio sui contenuti della comunicazione.

Più praticamente, preoccuparsi di essere sicuri di aver capito prima di reagire.

Una preziosa alleata: la riformulazione

Ma neanche chi si preoccupa, come suggerito, di mettere nei suoi collegamenti vitali l'intenzione di ascoltare e di sospendere il giudizio interiore mentre essi si verificano, può stare tranquillo: tale è la complessità della comunicazione e delle variabili che la riguardano.

Di tanta complessità si accorsero, a suo tempo, gli scienziati che si dedicarono negli anni '40 alla progettazione dei primi elaboratori, gli antenati dei nostri computers.

All'epoca, la possibilità di utilizzare le proprietà del silicio non era ancora stata presa in considerazione, per cui i ricercatori ricorrevano a diodi dalle dimensioni alquanto ingombranti, considerato che ne servivano a migliaia.

L'informatica ai suoi primi passi aveva bisogno, per offrire prestazioni in minima parte confrontabili con quelle ora fornite da un personal computer non più grosso di un libro, di apparecchiature che occupavano diversi piani per esservi ospitate!

Purtroppo, a dispetto di tanta mobilitazione, nel corso delle prime applicazioni sperimentali gli errori erano frequenti.

Il punto debole fu individuato nel dialogo tra l'uomo e la macchina, nel senso che l'elaboratore forniva risultati sbagliati perché nei suoi calcoli utilizzava dati registrati dall'operatore con qualche errore.

Tanta profusione di mezzi e di tecnologie rischiava di scivolare su una buccia di banana.

Individuato il problema, fu trovata anche la soluzione.

Il funzionamento dell'elaboratore venne impostato in modo tale da costringere la macchina ad « ascoltare » con maggior cura i messaggi ricevuti dall'operatore.

Questa specie di ascolto venne organizzato programmando le operazioni in modo da impedire l'immediata elaborazione di un dato non appena inviato dall'operatore.

La fase di imputazione di un dato fu perciò separata dalla sua immissione in memoria, in precedenza automatica.

Venne quindi prevista la necessità di un comando specifico alla macchina da parte dell'uomo quando egli avesse deciso che il dato già registrato andava inserito nella memoria per essere utilizzato nelle elaborazioni successive.

Questo comando non aveva però ancora il potere di farsi obbedire: esso comportava la sola evidenziazione del dato in questione su un quadrante, con la richiesta implicita all'operatore di controllarlo e, se esatto, di confermare l'ordine di immissione.

E come se l'elaboratore attraverso il quadrante si rivolgesse all'uomo dicendo: « Guarda, io ho capito così. Controlla se ho capito bene. Se ho capito bene, dammi una conferma, altrimenti correggi ».

Da allora le tecnologie informatiche si sono straordinariamente evolute ma, ancor oggi, quasi tutti i programmi di funzionamento dei computers sono impostati tenendo conto di questo accorgimento.

Ne facciamo esperienza tra l'altro tutte le volte in cui ci rivolgiamo ad uno sportello bancario automatico per ritirare del denaro: inseriamo la nostra tessera, digitiamo il codice segreto, indichiamo la cifra che ci serve, premiamo il tasto « prelievo », ma il denaro non ci viene erogato.

Prima sullo schermo compare la scritta « Prelievo L. ... Se esatto digita <esegui> T ».

Ci viene cioè chiesto se l'operazione, così come è stata registrata, corrisponde alla nostra volontà.

Se c'è questa corrispondenza, a seguito del nostro successivo intervento di conferma, compare finalmente l'importo richiesto.

Questo stesso accorgimento può essere utilmente sfruttato anche nella comunicazione tra le persone.

Richiamando il presupposto che, data la complessità, non si può mai essere certi di aver correttamente recepito un'informazione, esso rappresenta un utile strumento di rinforzo alle nostre capacità di ascolto.

Naturalmente, trattandosi di esseri umani, non ci si può certo servire di quadranti o di schermi.

L'accorgimento consiste nel riformulare, cioè nel riproporre, nel corso della conversazione, brevi riassunti di ciò che abbiamo inteso: « Se non capisco male, mi stai dicendo che ... », oppure: « Allora il tuo pensiero è ... », o ancora: « Tu quindi ritieni che ... », e così via.

Non si tratta naturalmente di ripetere parola per parola ciò che ci viene detto, ma di condensare in brevi frasi l'essenza di ciò che abbiamo recepito.

Bisognerà porre cura che queste formule verbali siano accompagnate da un tono di voce ed una mimica da cui traspaia un autentico desiderio di capire: una disattenzione sotto questo profilo può far facilmente interpretare queste espressioni come provocazioni polemiche.

La riformulazione così intesa offre un grandissimo aiuto alle nostre capacità di ascolto.

Infatti ricorrendo ad essa mettiamo il nostro interlocutore nella condizione di poter controllare se quanto da noi capito corrisponde alla sua intenzione.

Se si troverà d'accordo non ci saranno difficoltà, se invece noterà delle differenze potrà immediatamente precisare meglio o correggere, evitando in questo modo sul nascere un incidente di comunicazione.

Tornando alla fig. 1, una riformulazione di B potrebbe essere questa: « Mi pare di capire quindi che la questione consiste in un quadratino nero ».

Rispetto a quest'affermazione, A non potrà che dimostrarsi d'accordo.

Ma se la riformulazione di B fosse: « Capisco: mi stai dicendo che la questione è un triangolo giallo », A capirebbe subito che quanto compreso da B è diverso da quanto ha appena tentato di comunicargli e ciò lo metterebbe in condizione di intervenire a sua volta per le opportune precisazioni.

« Ascoltare con gli occhi »

La riformulazione quindi, con il suo effetto di impegnare ed affinare le nostre capacità di ascolto, rappresenta un interessante meccanismo di controllo sul buon funzionamento della comunicazione.

Disponiamo però anche di altri accorgimenti che ci possono aiutare sotto questo profilo.

Usando un'espressione un po' pittoresca, questi meccanismi potrebbero essere qualificati come: ascoltare con gli occhi.

In un intero capitolo precedente si è sottolineata l'esistenza, confermata dall'esperienza quotidiana, di modi di comunicare che accompagnano o sostituiscono le parole: toni, volume e inflessioni della voce, sguardi, mimica dei lineamenti del volto, gestualità ... ( per citare solo i più evidenti ).

É ovvio che non è possibile immaginare di comunicare con qualcuno facendo tacere queste modalità: essendo noi fatti di carne ed ossa, sono parte della nostra stessa natura e non possono pertanto essere soppresse.

Sfruttandone allora la continua ed inevitabile presenza, in noi come nel nostro interlocutore, possiamo dotarci di una specie di radar di grande aiuto per controllare il buon funzionamento della comunicazione.

Infatti la loro presenza fa sì che, se in un certo momento stiamo dicendo qualcosa e chi è di fronte a noi non parla, possiamo dire che tace ... se ci riferiamo alle parole, c'è una grande loquacità se facciamo caso alla sua mimica ed alla sua gestualità che testimoniano del suo modo di entrare in contatto con le nostre parole.

Tenuto conto di ciò, in qualsiasi situazione ci si trovi coinvolti con altri, nessuno starà mai veramente in silenzio: inevitabilmente ognuno avrà qualcosa da dire, se non con le parole, con messaggi non verbali.

Si tratta di cogliere questi messaggi silenziosi attraverso l'osservazione dei nostri interlocutori ( « ascoltare con gli occhi » ).

Poniamo di dover spiegare qualcosa di piuttosto complesso: noi ci sforziamo di essere logici, chiari e precisi, di usare termini alla portata di chi ci sta seguendo; ma, mentre forniamo le nostre spiegazioni, dobbiamo anche accorgerci di eventuali alterazioni della sua mimica facciale.

Se, nel corso della nostra esposizione, i suoi occhi diventano progressivamente grandi come fanali di una locomotiva, deve nascere in noi il sospetto che ciò che stiamo dicendo generi incomprensione o stupore, che comunque non sia in corso un lineare processo di comprensione.

Non farvi caso comporta inevitabilmente di illuderci che tutto stia filando liscio, quando il nostro interlocutore è in difficoltà.

E così che un professore durante una lezione, un conferenziere nel suo discorso, un prete durante un omelia possono, anzi, devono accorgersi dei modi non verbali con cui, nel silenzio generale, i presenti « dicono » ... la loro noia o il loro disinteresse, oppure il loro consenso, o disaccordo, o gioia, ira, stupore, incertezza, preoccupazione, fiducia ...

Sono tanti i messaggi che siamo in grado di cogliere ricorrendo all'osservazione.

Uno stile di vita

L'ascolto ha però anche una dimensione che va oltre questi pur indispensabili accorgimenti.

L'ascolto è un atteggiamento mentale, uno stile di vita, una sensibilità particolare nel rapportarsi alla realtà.

Luca è un bambino di 9 anni.

É una bella giornata estiva e si è messo d'accordo con i compagni del cortile per andare nel pomeriggio a giocare nel parco cittadino.

Chiede il permesso alla mamma, che lo accorda a patto che rientri alle cinque.

Alle due Luca esce di casa pieno di aspettative per le ore che lo attendono.

Il gruppetto si ritrova, si mettono a giocare e poco alla volta si crea tra di loro un clima bellissimo, quasi magico.

Luca ne è completamente preso.

Le loro fantasie costruiscono simulazioni in cui ognuno si immedesima con fervore: un tronco tagliato diventa un'astronave, un disco da freesby un volante con cui guidarla, le macchine che passano laggiù nella via le astronavi nemiche.

E una giornata particolarmente calda e tutto questo movimento, questa gioiosa agitazione li fa sudare.

Luca, ad esempio, per tergersi il sudore, si passa le mani sporche sulla fronte e ... vi lascia il segno.

Ma sono così felici! Un gioco si sussegue all'altro in una sarabanda di stimoli e di emozioni.

Ad un certo momento Luca si ricorda della raccomandazione di tornare per le cinque.

Guarda l'orologio: mancano pochi minuti.

Preso com'era dal divertimento non si è reso conto del trascorrere veloce del tempo.

Luca è un bambino giudizioso e, per quanto a malincuore, saluta gli amici per tornare a casa.

Nel suo cuore porta ancora la gioia dei giochi: il suo viso lascia trasparire tutta la sua contentezza.

Lo si vede correre per la strada per non arrivare in ritardo: la maglietta fuori dai pantaloni, le ginocchia sporche di erba, i capelli spettinati.

Finalmente arriva al portone di casa.

Suona, fa di corsa le scale, mentre nei suoi occhi c'è tutta la luminosità che può esserci nello sguardo di un bambino felice.

Entra in casa e con un balzo è di fronte alla madre ... la quale, senza neanche dargli il tempo di salutarla, guardandolo con disapprovazione esclama: « Guarda in che stato ti sei ridotto! ».

Il cuore di Luca si gela.

Avrebbe voluto raccontare a mamma le sue avventure, prolungare la sua gioia condividendola con lei, ma mamma non è contenta.

Pazienza!

La madre di Luca non vede lo sguardo del figlio, non si accorge nemmeno di cosa c'è nel suo cuore.

É cieca ai suoi sentimenti ed alle sue emozioni.

L'unica cosa che coglie è la prospettiva di un bucato in più.

Non ha saputo « ascoltare » suo figlio, cioè dare importanza a lui ed al modo in cui lui sta vivendo questo momento.

Ascoltare Luca non significa non fargli notare che, pur nel divertimento, si può avere un po' più di attenzione per l'ordine degli abiti e per la pulizia; significa fare ciò quando si è avuto prima cura di accogliere e valorizzare le sue emozioni.

Altrettanto si può dire della madre di una quindicenne che da qualche tempo è preoccupata per i prolungati silenzi della figlia.

Con l'adolescenza, il bel rapporto di confidenza che c'era tra loro due si è interrotto.

Ora la madre è anche un po' preoccupata: le sembra di vedere qualche volta della tristezza nello sguardo della figlia.

Prova a chiederne il motivo, ma la replica è sempre il silenzio o una breve frase per tagliar corto.

Spesso si trova a rimpiangere i tempi in cui chiacchieravano tranquillamente e la figlia le raccontava fiduciosamente le sue cose.

Oggi, mentre la madre sta lavando i piatti dopo il pranzo, si vede la ragazza che le si avvicina con fare esitante.

Si ferma di fianco a lei, l'aiuta ad asciugare le stoviglie e comincia a raccontare con tono sconsolato: « Mamma, tu sai che Greta e Monica sono le mie migliori amiche.

Ci diciamo sempre tutto, tra di noi non ci sono segreti.

Io mi sono sempre fidata ed ho raccontato loro anche delle cose molto personali.

Oggi, è come se mi fosse cascato il mondo addosso: mi sono accorta che sono andate a dire in giro le mie confidenze.

Non hai idea di come ci sono rimasta male! ».

E la madre, senza alzare lo sguardo dai piatti che sta lavando, commenta: « Tu non mi ascolti mai! Tè l'ho sempre detto di non fidarti di quelle due! ».

Una figlia, delusa nelle sue amicizie, cerca consolazione e conforto nella madre e quest'ultima, dopo essersi spesso rammaricata per l'atteggiamento di chiusura della ragazza, nel momento in cui le sta riaprendo il cuore non trova di meglio che deprezzarne le scelte!

E facile immaginare il seguito di questa scenetta: la figlia posa lo strofinaccio e va a chiudersi nella sua camera.

La confidenza tra loro due stenterà un bel po' a ristabilirsi.

Due esempi per rendere l'idea della portata, si potrebbe dire, esistenziale dell'atteggiamento di ascolto.

Esso consiste essenzialmente nel fatto di spostare noi stessi dal centro dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni, del nostro mondo, per lasciar spazio ai pensieri, alle preoccupazioni e al mondo dei nostri interlocutori.

Significa ancora avere una considerazione rispettosa per la diversità degli altrui dizionari mentali ed una sensibilità attenta verso le loro intenzioni di coinvolgerci nei loro collegamenti vitali.

Per riassumere

La produzione di messaggi in una situazione di comunicazione non ha alcun senso se non si presuppone la disponibilità all'ascolto da parte di qualcuno.

Ascoltare comporta di sospendere il giudizio su quanto ci viene detto in un certo momento, in modo da poterci concentrare sull'esigenza primaria di capirne il contenuto e di non distorcerne il significato.

La nostra reazione ad un messaggio sarà certamente più producente se sarà riferita alle reali intenzioni del nostro interlocutore, cioè se, avendo correttamente ascoltato, avremo capito bene.

La riformulazione da parte nostra dei messaggi ricevuti permette al nostro interlocutore di vetrificare la conformità della nostra comprensione rispetto alle sue intenzioni.

Avere cura nell'ascoltare non è solamente un accorgimento per comunicare bene, ma è anche il modo che ci permette di sviluppare e di valorizzare pienamente i nostri collegamenti vitali.

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