Il maestro interiore

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I segni e la conoscenza delle cose

AG. - Parimenti vorrei che tu comprendessi che le cose significate valgono di più dei segni.

Infatti tutto ciò che è per altro, necessariamente vale di meno rispetto a ciò per cui è.

A meno che tu non sia di diversa opinione.

AD. - Mi pare che in proposito non si debba acconsentire troppo in fretta; infatti, se diciamo "melma" ( coenum ), penso che questo nome sia di gran lunga superiore alla cosa che significa.

Il fatto che, nell'udirlo, provochi disgusto non dipende dal suono della parola, anche perché coenum, in quanto nome, cambiata una sola lettera, diventa coelum ( cielo).

Ma noi sappiamo quanto sia grande la differenza che c'è fra le cose significate da questi nomi.

Pertanto non attribuirei mai al segno coenum ciò che detestiamo nella cosa che esso significa e appunto per questo lo reputo superiore alla cosa.

Non è un caso dunque che udiamo più volentieri questo segno che non percepiamo la cosa con qualcuno dei sensi.

AG. - Dai prova di grande perspicacia.

È falso dunque che tutte le cose valgono di più dei loro segni?

AD. - Sì, così sembra.

AG. - Dimmi allora che cosa hanno avuto di mira, secondo te, coloro che hanno imposto un nome a una cosa tanto brutta e spregevole.

Per dirla diversamente, li approvi o li disapprovi?

AD. - Da parte mia non oso né approvarli né disapprovarli, e non so neppure a che cosa mirassero.

AG. - Sai tu almeno che cosa hai di mira quando pronunci questo nome?

AD. - Questo sì, certamente. Infatti intendo dare un segno per insegnare o far ricordare al mio interlocutore ciò che ritengo opportuno apprenda o ricordi.

AG. - E che? L'insegnare o il far ricordare oppure l'apprendere o il ricordare, che con questo nome tu puoi facilmente offrire o ricevere, non si devono ritenere di maggior valore del nome stesso?

AD. - Concedo che anche la conoscenza ottenuta mediante tale segno è da preferire al segno, ma non per questo penso che sia così anche per la cosa.

AG. - Dunque, secondo la nostra tesi, mentre è falso che tutte le cose devono essere preferite ai loro segni, non è falso invece che tutto ciò che è per altro vale di meno di ciò per cui è.

La conoscenza della melma appunto, per la quale questo nome è stato istituito, è da preferirsi al nome stesso che, a sua volta, come abbiamo stabilito, è da preferirsi alla melma stessa.

E infatti per nessun altro motivo la conoscenza è da preferire al segno di cui si tratta se non perché è provato che il segno è per essa e non essa per il segno.

Così è avvenuto per un divoratore o cultore del ventre, come lo chiama l'Apostolo, il quale diceva che viveva per mangiare.

Un uomo sobrio che l'ascoltava non riuscì a sopportarlo e gli replicò: "Quanto sarebbe meglio che mangiassi per vivere".

In ogni caso entrambi parlavano in base a questa medesima regola.

Non per altro infatti il ghiottone fu rimproverato se non perché, col dire che viveva per il cibo, dava prova di stimare così poco la vita da considerarla di minor valore dei piaceri della gola.

E se si loda giustamente l'uomo sobrio, lo si fa perché, comprendendo quale delle due cose si dovrebbe compiere per l'altra, cioè quale si dovrebbe subordinare all'altra, ammonì che si deve mangiare per vivere piuttosto che vivere per mangiare.

Allo stesso modo, a un chiacchierone amante delle parole che dicesse: "Insegno per parlare", forse anche tu e chiunque altro capace di giudicare rettamente le cose rispondereste: "Buon uomo, perché piuttosto non parli per insegnare?".

Se ciò è vero e tu sai che lo è, vedi certamente quanto siano da considerare di minor pregio le parole rispetto a ciò per cui le usiamo.

Il loro stesso uso, peraltro, è da preferire alle parole, perché le parole sono fatte per usarle e noi appunto le usiamo per insegnare.

Di quanto dunque l'insegnare è migliore del parlare, di tanto il linguaggio è migliore delle parole.

Di conseguenza il contenuto dell'insegnamento ( doctrina ) è di gran lunga migliore delle parole.

Ma io vorrei sentire se per caso tu abbia qualche cosa da ribattere.

AD. - Ammetto che il contenuto dell'insegnamento è migliore delle parole: ma non so se non ci sia nulla da obiettare contro la regola per cui tutto ciò che è per altro vale di meno rispetto a ciò per cui è.

AG. - Ne tratteremo in maniera più adeguata e approfondita un'altra volta; per ora quello che tu ammetti è sufficiente per ciò che cerco di stabilire.

Tu concedi che la conoscenza delle cose ha maggior valore dei loro segni; pertanto non ti pare che la conoscenza delle cose che sono significate è da preferirsi alla conoscenza dei segni?

AD. - Ma davvero ho concesso che la conoscenza delle cose è superiore alla conoscenza dei segni o non piuttosto che è superiore ai segni stessi?

Su questo punto perciò esito a essere d'accordo con te.

Forse che, se il nome "melma" è da preferirsi alla cosa che significa, anche la conoscenza di questo nome è da preferirsi alla conoscenza di questa cosa, sebbene il nome di per sé sia inferiore a questa conoscenza?

In effetti quattro sono i termini: il nome e la cosa, la conoscenza del nome e la conoscenza della cosa.

Siccome il primo è superiore al secondo, perché il terzo non dovrebbe esserlo rispetto al quarto?

Ma, qualora non lo sia, per questo deve essere inferiore?

AG. - Vedo che hai tenuto presente in modo veramente mirabile quello che hai concesso e hai chiarito quanto pensavi.

Ma, come credo, comprendi che questo nome di due sillabe che risuona dicendo "vizio" è superiore rispetto a ciò che significa, mentre la conoscenza di tale nome è di gran lunga inferiore rispetto alla conoscenza dei vizi.

Ammesso che proponi alla considerazione i quattro elementi e cioè nome e cosa, conoscenza del nome e conoscenza della cosa: a buon diritto noi preferiamo il primo al secondo.

Questo nome infatti, nel poema di Persio in cui si dice: "Ma costui è istupidito dal vizio", non solo non introduce alcunché di vizioso nel verso, ma anzi gli conferisce un certo ornamento, sebbene la cosa significata da questo nome, quale che sia il soggetto in cui si trova, lo renda inevitabilmente vizioso.

Ma non va così per il terzo termine rispetto al quarto: vediamo che il quarto eccelle sul terzo.

La conoscenza di questo nome infatti è di poco valore rispetto alla conoscenza dei vizi.

AD. - E questa conoscenza, secondo te, è ancora da preferirsi anche se rende più infelici?

Persio, fra tutte le pene che la crudeltà dei tiranni ha escogitato o la loro cupidigia fa scontare, considera superiore solo quella da cui sono tormentati gli uomini, costretti a riconoscere i vizi che sono incapaci di evitare.

AG. - Con questo modo di ragionare tu puoi dire che neppure la conoscenza delle virtù è da preferirsi alla conoscenza del nome relativo, perché vedere una virtù e non possederla è un supplizio con cui il medesimo poeta satirico si è augurato che fossero puniti i tiranni.

AD. - Dio ci scampi da questa follia.

Ormai comprendo che non si deve dare la colpa alle conoscenze in se stesse, attraverso le quali l'istruzione più alta e completa riempie l'anima; inoltre che gli uomini affetti da una malattia tale che, contro di essa, non possono giovarsi neppure di un rimedio così efficace, si devono considerare come i più miseri di tutti.

Credo che anche Persio fosse di questo avviso.

AG. - Hai ben compreso; ma quale che sia l'opinione di Persio a noi cosa importa?

In questa materia infatti non siamo soggetti all'autorità di queste persone.

D'altronde qui non è facile spiegare se una conoscenza è da preferirsi a un'altra.

Per ora mi è sufficiente quello che si è raggiunto, ossia che la conoscenza delle cose che sono significate, anche se non è migliore della conoscenza dei segni, tuttavia lo è dei segni stessi.

Ora perciò esaminiamo più in dettaglio quale sia il genere di cose che, come dicevamo, si possono mostrare per se stesse, senza segni, come parlare, passeggiare, sedere, giacere e simili.

AD. - Mi ricordo di ciò che si tratta.

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