Teologia dei Padri

Indice

La dannazione eterna

1. - Il tormento eterno

Dopo la risurrezione, quando il giudizio universale avrà avuto luogo e la sentenza sarà stata eseguita, verranno posti confini precisi alle due città, a quella cioè di Cristo e a quella del diavolo, una dei buoni, l'altra dei cattivi: ma l'una e l'altra composte di angeli e di uomini.

Gli uni non avranno più la volontà, gli altri non avranno più la capacità di peccare.

Inoltre, non vi sarà nessuna possibilità di morire: gli uni godranno felici in perpetuo della vita eterna; gli altri, infelici, saranno immersi nella morte eterna senza la possibilità di morire: per entrambi non esiste fine.

Ma, nella beatitudine, un beato sarà più glorioso dell'altro, e anche nella miseria [ della dannazione ], a un dannato la sua situazione sarà più tollerabile che all'altro.

Inutilmente perciò alcuni, anzi molti, commiserano con sentimento umano l'eterna pena dei dannati e i loro tormenti perenni, ininterrotti, e non si sentono di ammettere una simile realtà.

Quando vedi qualcosa di grande e di bello nella vita presente, pensa al regno dei cieli, e ti sembrerà un nulla; quando qualcosa di terribile, pensa all'inferno, e ne riderai.

Se le brame del corpo ti assalgono, rifletti a quel fuoco, rifletti allo stesso piacere del peccato, quanto sia esiguo quanto non sia piacere.

Se il timore delle leggi di quaggiù è tanto grande che ci distoglie dalle azioni delittuose, quanto più il ricordo dell'eternità, del castigo che non ha fine, del premio eterno!

Se il timore di un re terreno ci trattiene da tanti mali, quanto più il timore del re eterno!

Ma come possiamo conservare continuamente in noi questo timore?

Se ascoltiamo continuamente le Scritture.

Se solamente la vista di un morto tanto ci impressiona, quanto più l'inferno e il fuoco inestinguibile?

Quanto più quel verme che mai non muore?

Se pensiamo sempre all'inferno non cadremo facilmente nell'inferno.

Per questo motivo Dio ci ha minacciato il castigo: se non recasse grande frutto il pensarvi, Dio non avrebbe tanto minacciato, ma poiché il suo ricordo ci dà forza per grandi cose, per questo egli ne ha deposto nella nostra anima la minaccia, come medicina salutare.

Non trascuriamo il grande guadagno che ne deriva, ma riflettiamoci continuamente: a pranzo e a cena.

Discorrere d'argomenti piacevoli, non giova all'anima, ma la rende più fiacca; discorrere di verità serie e terribili, la distoglie da ogni leggerezza e dispersione, la richiama dalle distrazioni e la raccoglie.

Chi discorre di teatri e di mimi, non giova certo alla sua anima, ma la rende invece più spensierata, più eccitata; chi si interessa e si intromette nei fatti altrui, la getta spesso nel pericolo per tale curiosità.

Ma colui che discorre dell'inferno non corre certo pericolo e rende la sua anima più saggia.

Forse pensi di essere importuno verso gli altri con tali discorsi?

Ma se non ne parli, spegni l'inferno?

E se ne parli, lo fai ardere?

Sia che ne parli, sia che non ne parli, il suo fuoco continua a divampare.

Se dunque ne parli sempre, è perché tu non vi debba cadere.

Non è possibile che l'anima, che si preoccupa dell'inferno, pecchi facilmente.

Ascolta il saggio ammonimento: Ricordati dei tuoi ultimi eventi, e in eterno non peccherai ( Sir 7,36 ).

Non è possibile che l'anima che teme il giudizio non rifugga dalle colpe: il timore che le domina la mente non permette che in essa vi sia nulla di mondano.

Se un semplice discorso sull'inferno scuote e impressiona tanto, quanto più il pensiero ad esso, non passeggero ma sempre presente nell'anima, non purifica quest'ultima più di ogni fuoco?

Costoro non intendono opporsi alle divine Scritture, ma solo sono portati a intendere con maggiore malleabilità e a interpretare in senso più blando ciò che nelle Scritture sarebbe espresso - essi pensano - più per incutere terrore che per annunciare la verità.

Dicono infatti: Dio non si dimenticherà di essere misericordioso, e conterrà la sua ira per la sua grande clemenza ( Sal 77,10 ).

Sono parole che leggiamo in un salmo; ma possiamo applicarle senza perplessità solo a coloro che vengono chiamati vasi di misericordia ( Rm 9,23 ), poiché anch'essi non grazie ai loro meriti, ma per la bontà di Dio sono liberati dalla miseria.

Ma se quelli pensano che tali parole si riferiscano a tutti, non è necessario tuttavia dover ammettere che abbia fine la dannazione di coloro, dei quali è stato detto: Ed essi se ne andranno al supplizio eterno ( Mt 25,46 ), per non essere costretti ad ammettere che un giorno avrà fine anche la felicità di coloro dei quali è stato detto, al contrario: « Ma i giusti se ne andranno alla vita eterna ».

Che invece la pena dei dannati talvolta sia un po' mitigata, lo possono sempre ammettere, se lo vogliono.

Giacché il fatto che su di loro resta l'ira di Dio ( Gv 3,36 ), cioè la dannazione stessa - è questa infatti che viene detta ira di Dio, non una perturbazione dell'animo divino - può essere interpretato nel senso che egli, nella sua ira, ossia nel perdurare della sua ira, non ferma la sua misericordia: e ciò, non ponendo fine al supplizio eterno, ma interrompendo talvolta o alleviandone le pene. Il salmo, infatti, non dice « per porre fine alla sua ira », oppure « dopo la sua ira », ma « nella sua ira ».

Ammesso che questa resti anche nella misura minima possibile, perdere il regno di Dio, essere esiliati dalla città di Dio, venire sottratti alla vita di Dio, mancare dell'immensa e molteplice dolcezza di Dio, da lui riserbata a coloro che lo temono e da lui elargita a quanti in lui sperano, è una pena tanto grande, che non ammette confronto con nessun tormento conosciuto quaggiù, per quanti secoli dovesse durare, giacché quei tormenti sono eterni.

Senza fine dunque durerà la morte eterna dei dannati, cioè la loro privazione della vita di Dio; e precisamente in ciò consisterà la pena comune a tutti i dannati, per quanto gli uomini, guidati dal loro sentimento di umanità, possano figurarsi che le pene siano varie o che i dolori vengano interrotti o alleviati.

Agostino, Manualetto, 29,111-113

2. - Proporzione tra pena e colpa

Certamente vi è un solo fuoco infernale, ma esso non tormenta tutti i dannati allo stesso modo, perché ciascuno ne prova il castigo secondo la misura richiesta dalla sua colpa.

Come anche in questo mondo molti si trovano sotto lo stesso sole, ma non tutti ne subiscono la vampa allo stesso modo, anzi l'uno più, l'altro meno; così avviene anche laggiù: il fuoco non brucia tutti nello stesso modo e nella stessa misura.

Ciò che qui viene condizionato dalle diverse situazioni del corpo, là viene operato dalla diversità dei peccati, e così tutti sono nello stesso fuoco, ma ogni singolo ne è riarso in modo distinto e particolare.

Gregorio Magno, Dialoghi, 4,43

3. - Se il fuoco dell'inferno abbia fine

Non è una piccola questione quella che dobbiamo affrontare, anzi è fra le più importanti e suscita l'interesse di tutti gli uomini: se il fuoco dell'inferno abbia fine.

Che non l'abbia, Cristo stesso l'ha asserito dicendo: Il loro fuoco non si spegnerà e il loro verme non morirà ( Mc 9,45 ).

Vedo che vi irrigidite udendo ciò, ma che ci debbo fare?

Dio comanda di predicare spesso ciò con le parole: « Annuncialo a questo popolo ».

Noi siamo stati posti al servizio della parola e dobbiamo, anche se non lo vorremmo, per forza essere molesti agli uditori.

O meglio, se volete, non saremo molesti.

Se operi il bene, è detto infatti, non temere ( Rm 13,3 ).

Vi è dunque possibile ascoltarci non solo senza avversione, ma addirittura con piacere.

Che dunque non abbia fine, Cristo stesso l'ha dichiarato; e anche Paolo, mostrando che la pena è eterna, dice dei peccatori: Saranno castigati con la perdizione eterna ( 2 Ts 1,9 ); e ancora: Non illudetevi: né i fornicatori, né gli adulteri, né gli effeminati erediteranno il regno di Dio ( 1 Cor 6,9 ); e agli ebrei diceva: Sia vostra mira la pace con tutti, senza la quale nessuno vedrà il Signore ( Eb 12,14 ).

Anche il Cristo a coloro che dicevano: Nel tuo nome abbiamo compiuto molti prodigi, disse: Via da me, operatori di iniquità: non vi conosco! ( Mt 7,22-23 ).

Pure le vergini furono escluse e non entrarono; e di quelli che non gli dettero cibo, il Signore disse: Se ne andranno al supplizio eterno ( Mt 25,46 ).

Non venirmi a dire: « In che modo si può parlare di giustizia se il castigo non ha fine? ».

Quando Dio parla, da' retta alle sue dichiarazioni e non opporre alle sue parole ragionamenti umani!

Del resto, come non sarebbe giusto non punire così colui che dall'inizio ha ricevuto mille beni e ha poi perpetrato opere degne di castigo e non ha migliorato né per i benefici né per le minacce?

Se cerchi proprio quello che è giusto, noi avremmo dovuto esser distrutti subito, fin dall'inizio, secondo il dettame della giustizia; o meglio, se ci fosse avvenuto ciò, non sarebbe stato dettame di giustizia, ma segno di misericordia.

Infatti, quando qualcuno offende chi non gli ha fatto torto, è stretta giustizia che sia punito.

Quando poi offende il benefattore, a cui egli nulla di buono prima ha dato e che invece gli ha fatto mille benefici, benefattore che è l'unica causa della sua esistenza, che essendo Dio, gli ha donato la vita soffiandogli l'anima, gli ha fatto mille doni di grazia, lo vuole condurre nel cielo …; se dunque dopo tanti benefici, non solo lo offende, ma lo offende ogni giorno con le sue opere, sarà forse costui degno di perdono?

Non vedi in che modo Dio punì Adamo per un solo peccato?

« É vero - tu dici - ma gli aveva elargito il paradiso terrestre e gli aveva fatto godere una grande benevolenza ».

Ma non è la stessa cosa peccare quando si vive nella felicità e quando si vive tra mille tribolazioni.

Eppure qui sta il male: che tu pecchi fuori del paradiso terrestre, tra i mille dolori della vita presente, e la miseria non ti rende più saggio, come se un carcerato continuasse a commettere delitti.

Inoltre, a te, Dio ha promesso beni più grandi del paradiso terrestre; ancora non te li ha dati, perché tu non ti infiacchisca nel tempo della lotta; ma te ne ha parlato, perché tu non soccomba sotto le fatiche.

Adamo commise un solo peccato, e attirò la morte su di tutti; noi invece commettiamo mille colpe ogni giorno.

Se lui dunque per una sola colpa attirò su di sé un male tanto grande e introdusse la morte nel mondo, cosa dovremmo patire noi, che viviamo continuamente nella colpa e che invece del paradiso terrestre abbiamo la speranza del cielo?

Queste parole sono pesanti e affliggono chi le ascolta, lo so bene.

Il mio cuore ne è turbato ed è pieno di spavento.

Quanto più vedo che la dottrina dell'inferno è solidamente provata, tanto più tremo e vorrei sottrarmi per la paura.

Ma è necessario dire queste cose, affinché non cadiamo nell'inferno.

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla prima lettera ai Corinti, 9,1-2

4. - Il verme che non morirà e il fuoco che non si estinguerà

Avverrà, avverrà certamente ciò che Dio ha detto, per mezzo del suo profeta, circa il supplizio eterno dei dannati: Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà ( Is 66,24 ).

É per rincalzare con più forza questa verità che il Signore Gesù - raffigurando con le membra che scandalizzano quegli uomini che amiamo come le nostre stesse membra -, dice comandando di amputarle: É bene per te entrare nella vita mutilato, piuttosto che con due mani andartene nella geenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il loro fuoco non si estingue ( Mc 9,43-44 ).

Così, parlando del piede, dice: É bene per te entrare zoppo nella vita eterna, piuttosto che con due piedi essere mandato nella geenna del fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue ( Mc 9,45-46 ).

E non altrimenti dice, parlando dell'occhio: É bene per te entrare guercio nel regno di Dio, piuttosto che con due occhi essere mandato nella geenna del fuoco, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue ( Mc 9,47-48 ).

Non esita a ripetere nello stesso passo per tre volte le stesse parole.

Chi non è atterrito per questa ripetizione, e per la minaccia tanto veemente di quella pena uscita dalla bocca divina?

Alcuni intendono che questi due elementi, il fuoco e il verme, siano pene dell'anima e non del corpo, e dicono anche che gli uomini, che saranno stati separati dal regno di Dio, saranno riarsi dal dolore dell'anima, che troppo tardi e senza frutto ormai si pente, e perciò pretendono che si può convenientemente usare il termine « fuoco » al posto di questo dolore bruciante, come nella frase dell'Apostolo: Chi viene scandalizzato, che io non ne arda? ( 2 Cor 11,29 ).

E pensano che nello stesso modo si debba interpretare « verme »; infatti, come dicono, sta scritto: Come la tignola consuma il vestito e il verme il legno, così la tristezza tormenta il cuore dell'uomo ( Pr 25,20 ).

Coloro invece che non hanno dubbi sulla presenza, in quel supplizio, di pene sia dell'anima e del corpo, affermano che il corpo sarà bruciato dal fuoco e l'animo sarà roso quasi dal verme dell'afflizione.

Quantunque questa affermazione sia più attendibile - è certamente assurdo infatti che ivi non vi sia dolore o dell'anima o del corpo -, a me tuttavia sembra più ovvio asserire che tutt'e due questi dolori interessino il corpo, piuttosto che nessuno dei due.

Perciò in quelle parole della divina Scrittura non si parla del dolore dell'anima, perché è logico, anche se non lo si dice, che quando il corpo soffre tanto, anche l'anima ne sia tormentata da una sterile penitenza.

Si legge del resto anche nelle antiche Scritture: La vendetta sulla carne dell'empio: fuoco e verme ( Sir 7,19 ).

Si poteva dire più in breve: « La vendetta sull'empio ».

Perché dunque si dice « sulla carne dell'empio », se non per il fatto che ambedue, cioè il fuoco e il verme, saranno pena della carne?

Se poi la Scrittura ha voluto parlare di vendetta della carne, perché si punirà nell'uomo la sua vita secondo la carne ( per la quale l'uomo viene travolto dalla morte seconda, come ci insegna l'Apostolo dicendo: Infatti se vivrete secondo la carne morirete: Rm 8,13 ), ciascuno scelga ciò che gli piace: o riferire il fuoco al corpo e il verme all'anima - quello in senso proprio, questo in senso figurato -; o riferire tutt'e due in senso proprio al corpo.

Ho già dimostrato sufficientemente che gli animali stessi possono vivere anche nel fuoco [ La città di Dio, 21,2; anche Plinio nella sua Storia Naturale, 21,42 parla di un animale, « pyrallis » o « pyrotocon » che vive nel fuoco ], nella combustione senza consunzione, nel dolore senza la morte, per un miracolo del Creatore onnipotente: chi nega che ciò sia possibile, ignora da chi derivino tutte le meraviglie che contempliamo nella natura.

Egli infatti è Dio, e ha fatto in questo mondo tutti i miracoli grandi e piccoli che abbiamo ricordato, e quelli incomparabilmente più numerosi che non abbiamo ricordato; e li ha tutti inclusi in questo mondo: un unico miracolo, il più grande di tutti.

Ciascuno perciò scelga, come gli piace, una delle due soluzioni, sia ritenendo che il verme si riferisca al corpo in senso proprio, sia che lo riferisca all'anima, trasferendo il significato del vocabolo dalle realtà corporee a quelle incorporee.

Quale di queste due soluzioni sia vera, lo mostrerà facilmente la stessa realtà, quando la scienza dei santi sarà tanto grande che a loro non sarà più necessaria l'esperienza per conoscere quelle pene, ma basterà, per conoscerle, la sola sapienza, che allora sarà piena e perfetta.

Infatti ora conosciamo solo in parte, fino quando giungerà la perfezione.

Purché tuttavia non si ritenga che quei corpi saranno allora tali da non essere afflitti dai dolori del fuoco.

Agostino, La città di Dio, 21,9

5. - Colpa passeggera e pena eterna

Alcuni ritengono ingiusto che si venga condannati a una pena eterna per dei peccati che, per quanto grandi, sono stati perpetrati in un breve tempo, come se la giustizia con le sue leggi badasse a che ciascuno sia punito per uno spazio di tempo uguale a quello che ha consumato a compiere ciò che merita punizione … Che dunque?

Bisogna condannare ai ceppi ogni reo precisamente per tanto tempo, quanto ne ha impiegato in ciò che gli merita una tale pena?

Non è forse giusto che sconti tra i ceppi una pena di anni lo schiavo che, con una parola o con un colpo, passati in un istante, ha offeso o ferito il suo padrone?

Ora, la confisca dei beni, l'ignominia, l'esilio, la schiavitù - pene inflitte, ordinariamente, senza possibilità di remissione - non possono forse considerarsi, in rapporto alla nostra vita, come pene eterne?

Certo, non possono essere eterne, perché neppure la vita che esse castigano si spinge nell'eternità; e tuttavia le colpe che vengono punite con pene lunghissime si perpetrano in tempo brevissimo, e non vi fu mai nessuno che pensò di limitare i tormenti inflitti ai delinquenti al breve tempo in cui fu commesso da essi l'omicidio o l'adulterio o il sacrilegio o qualsiasi altro delitto; delitti da valutare non in base al tempo impiegato, ma alla grandezza dell'iniquità e dell'empietà.

Se per qualche grave crimine uno viene condannato a morte, le leggi considerano forse suo castigo lo spazio di tempo in cui viene ucciso, che è brevissimo, e non invece il fatto che così viene tolto per sempre dalla società dei viventi?

Eliminare gli uomini da questa città mortale con il supplizio della prima morte corrisponde esattamente a eliminarli da quella città immortale col supplizio della seconda morte.

E come le leggi di questa città non possono far sì che venga richiamato chi è stato ucciso, così neppure le leggi di quella città possono richiamare alla vita eterna chi è stato condannato alla morte seconda.

Ci obiettano: Come è dunque vero ciò che dice il vostro Cristo: Con la misura con cui misurate sarà misurato a voi ( Lc 6,38 ), se un peccato transitorio viene punito con un supplizio eterno?

Essi non badano al fatto che si parla di una misura identica, ma non in base al tempo, bensì in base alla gravità del male, in modo che chi ha fatto il male patisca lo stesso male.

Ed è vero anche, poi, che la frase si può intendere rettamente solo nel contesto in cui il Signore la usò, parlando cioè dei giudizi e delle condanne.

Perciò: chi giudica e condanna ingiustamente, se poi viene giudicato e condannato giustamente, riceve nella stessa misura ciò che egli non ha dato.

Con una sentenza ha operato e con una sentenza subisce: anche se con una condanna ha operato ciò che è ingiusto, con una condanna subisce ciò che è giusto.

Una pena eterna sembra dura e ingiusta alla sensibilità umana, perché nella grande debolezza dei nostri sensi mortali manca quel senso di altissima e purissima sapienza che permette di percepire quanta nefandezza sia stata perpetrata nella prima prevaricazione.

Infatti, quanto maggiore era il godimento dell'uomo in Dio, tanto maggiore fu l'empietà con cui egli lo abbandonò, rendendosi degno di un male eterno per aver distrutto in sé un bene che poteva essere eterno.

Da qui, tutto il genere umano è stato condannato in massa: infatti colui che per primo commise quella colpa fu punito con tutta la sua stirpe che era in lui, come nella sua radice, tanto che nessuno avrebbe mai potuto essere liberato dal castigo giusto e meritato, se non per misericordia e grazia gratuita.

Così il genere umano ne risultò distinto in due: in alcuni si sarebbe manifestato ciò che può la grazia misericordiosa, negli altri ciò che può la giusta vendetta.

E non sarebbe stato bene che o la grazia o la vendetta si fossero manifestati in tutti, perché, se tutti avessero subito le pene della giusta condanna, in nessuno sarebbe apparsa la grazia misericordiosa di colui che redime; invece, se tutti fossero stati elevati dalle tenebre alla luce, in nessuno sarebbe apparsa la severa vendetta.

In questa si trovano assai più che in quella, perché si comprenda ciò che tutti avrebbero dovuto subire.

E se tutti vi fossero soggetti, nessuno potrebbe a ragione biasimare la giustizia di colui che castiga; il fatto invece che tanti ne siano liberati è motivo per sommamente ringraziare il gratuito dono di colui che libera.

I platonici, pur non ammettendo che qualche peccato possa restare impunito, pensano tuttavia che tutte le pene debbano essere orientate all'emendazione, sia se inflitta da leggi umane, sia da leggi divine; sia in questa vita, sia dopo la morte; sia che si ottenga misericordia quaggiù, sia che, nonostante la pena, non ce se ne corregga …

Coloro che sono di questo parere, non ammettono dopo la morte nessuna pena se non purificatrice: in qualche elemento superiore alla terra, acqua, aria o fuoco, ci si monderebbe, espiando e soffrendo, dalle macchie contratte per contagio terreno …

Noi invece ammettiamo che in questa vita mortale vi siano alcune pene purgative, non certo per coloro che, castigati quaggiù, non migliorano o piuttosto peggiorano; ma purgative per coloro che puniti da esse si correggono.

Tutte le altre pene, sia temporanee sia eterne, secondo il trattamento che a ciascuno spetta dalla divina Provvidenza, vengono inflitte per i peccati sia passati sia attuali nei quali ancor vive chi ne è punito, o per esercitare e mettere in evidenza le virtù, e ciò per opera sia di uomini che di angeli, buoni o cattivi.

Se poi qualcuno soffre per la cattiveria o l'ignoranza di un altro uomo, certo pecca colui che per ignoranza o ingiustizia fa male agli altri; ma non pecca Dio che, con giudizio giusto per quanto occulto, permette che ciò avvenga.

Alcuni soffrono pene temporanee solo in questa vita, altri dopo la morte; altri poi sia qua che là: tuttavia, solo prima del grande giudizio, severissimo e definitivo.

Ma non tutti coloro che dopo la morte soffrono pene temporanee cadono necessariamente nelle pene eterne che dureranno dopo il giudizio.

Infatti abbiamo detto che ad alcuni le colpe, che non vengono rimesse in questo mondo, verranno rimesse nel mondo futuro, che cioè non saranno puniti d'eterno supplizio nella vita futura.

Agostino, La città di Dio, 21,11-13

6. - Il fuoco dell'inferno, castigo degli spiriti maligni

Si presenta qui un nuovo problema: se il fuoco non sarà incorporeo come il dolore dell'anima, ma corporeo, nocivo a toccare e atto a tormentare i corpi, come potrà servire anche per castigo degli spiriti maligni?

Sappiamo infatti che lo stesso fuoco sarà supplizio sia per gli uomini, sia per i demoni, secondo le parole di Cristo: Via da me, maledetti, al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli ( Mt 25,41 ).

A meno che anche i demoni non abbiano una specie di corpo, come hanno ritenuto uomini dotti, composto d'aria pesante e umida il cui impulso noi sentiamo quando soffia il vento.

Se questo elemento aereo non soggiacesse all'azione del fuoco, non brucerebbe negli impianti balneari.

Infatti, se prima non divampasse, non potrebbe bruciare il combustibile: fa ciò che subisce.

Ma se qualcuno afferma che i demoni non hanno corpo alcuno, è inutile su questo argomento rompersi la testa o disputare accanitamente.

Perché non possiamo asserire che gli spiriti incorporei possono essere tormentati in modo reale, ma misterioso, da un fuoco corporeo, se gli spiriti degli uomini, che sono certamente incorporei, possono ora essere inclusi in membra corporee e potranno lassù essere uniti a tali membra con legami indissolubili?

Gli spiriti dei demoni, o meglio gli spiriti-demoni, quantunque incorporei, si uniranno anche senza corpo al fuoco materiale, per esserne tormentati.

Non che lo animeranno, divenendo degli esseri animati composti di anima e di corpo, ma, come ho detto, si uniranno ad esso in modo mirabile e ineffabile, ricevendo la pena dal fuoco senza dargli la vita.

Del resto, anche il modo con cui gli spiriti si uniscono ai corpi e li rendono viventi è mirabile e assolutamente incomprensibile all'uomo: e si tratta dell'uomo stesso!

Direi che gli spiriti arderanno senza corpo, come ardeva il ricco nell'inferno, quando disse: Sono tormentato in questa fiamma! ( Lc 16,24 ), se non mi sembrasse più conveniente rispondere che quella fiamma era in tutto simile agli occhi che egli elevò fissando Lazzaro, alla lingua su cui desiderava venisse posta una goccia di acqua e al dito di Lazzaro con il quale pregava che gli fosse reso questo servizio; ma in quel luogo le anime erano prive dei corpi.

Era dunque incorporea anche la fiamma che lo bruciava e la goccia che egli bramava, simili agli oggetti visti in sonno o in estasi, che, sebbene incorporei, assomigliano a corpi.

L'uomo, che è in questo stato di estasi, se lo è con lo spirito e non col corpo, vede tuttavia se stesso tanto simile al proprio corpo da non poter trovare affatto qualche distinzione.

Ma quella geenna, detta anche lago di fuoco e di zolfo ( Ap 20,9 ) sarà un fuoco corporeo, e tormenterà i corpi dei dannati, sia uomini, sia demoni: corpi massicci, se uomini; corpi aerei, se demoni.

Oppure solamente i corpi degli uomini col loro spirito e gli spiriti dei demoni senza corpo, uniti però al fuoco per riceverne la pena, non per dargli la vita. Il fuoco sarà unico per tutti, come ha detto la Verità stessa ( Mt 25,41 ).

Agostino, La città di Dio, 21,10

7. - La perdita del cielo è un castigo più grande che l'inferno

Molti di quelli che riflettono poco si accontentano di salvarsi dall'inferno.

Ma io sostengo che è una pena ben peggiore dell'inferno non giungere alla gloria, e penso che, chi cade da lassù, non debba tanto soffrire per i mali dell'inferno quanto della perdita del regno dei cieli.

Invero è proprio questo il peggiore castigo.

Quando talvolta vediamo il re entrare col suo seguito nel palazzo reale, riteniamo fortunati quelli che gli vivono vicino, che parlano con lui, che hanno parte alle sue decisioni, che partecipano della sua gloria.

E anche se abbiamo mille beni, ci stimiamo sfortunati e non godiamo dei nostri possedimenti, quando vediamo la gloria di coloro che lo circondano, pur sapendo quanto tale splendore sia precario e insicuro, sia per le guerre, sia per le congiure e l'invidia, sia perché in sé e per sé non ha alcun valore.

Ma quando si tratta del re dell'universo, che domina su tutto l'orbe terrestre e non solo su una sua piccola parte, anzi che lo tiene nel pugno, che misura i cieli col palmo della mano, che tutto sostiene con la parola della sua potenza, di fronte a cui tutte le genti sono un nulla, sono uno sputo: non riterremo supremo castigo non esser accolti nel suo seguito; ci accontenteremo solo di aver sfuggito l'inferno?

Quale cosa più miserabile esiste di una tale anima?

Invero questo re verrà, non tirato da una coppia di muli bianchi, non sul carro aureo, non ornato di porpora e corona, non così verrà a giudicare la terra.

Ma come? Odi il grido dei profeti che lo annunciano come possono esprimersi gli uomini.

Uno dice: Dio verrà apertamente, il nostro Dio, e non tacerà; il fuoco arderà al suo cospetto e intorno a lui infurierà un forte uragano.

Chiamerà il cielo in alto, e anche la terra a giudicare il suo popolo ( Sal 50,3-4 ).

Giovanni Crisostomo, Lettera a Teodoro, 12

8. - Col timore dell'inferno, si evita l'inferno

Quando vedi qualcosa di grande e di bello nella vita presente, pensa al regno dei cieli, e ti sembrerà un nulla; quando qualcosa di terribile, pensa all'inferno, e ne riderai.

Se le brame del corpo ti assalgono, rifletti a quel fuoco, rifletti allo stesso piacere del peccato, quanto sia esiguo quanto non sia piacere.

Se il timore delle leggi di quaggiù è tanto grande che ci distoglie dalle azioni delittuose, quanto più il ricordo dell'eternità, del castigo che non ha fine, del premio eterno!

Se il timore di un re terreno ci trattiene da tanti mali, quanto più il timore del re eterno!

Ma come possiamo conservare continuamente in noi questo timore?

Se ascoltiamo continuamente le Scritture.

Se solamente la vista di un morto tanto ci impressiona, quanto più l'inferno e il fuoco inestinguibile?

Quanto più quel verme che mai non muore?

Se pensiamo sempre all'inferno non cadremo facilmente nell'inferno.

Per questo motivo Dio ci ha minacciato il castigo: se non recasse grande frutto il pensarvi, Dio non avrebbe tanto minacciato, ma poiché il suo ricordo ci dà forza per grandi cose, per questo egli ne ha deposto nella nostra anima la minaccia, come medicina salutare.

Non trascuriamo il grande guadagno che ne deriva, ma riflettiamoci continuamente: a pranzo e a cena.

Discorrere d'argomenti piacevoli, non giova all'anima, ma la rende più fiacca; discorrere di verità serie e terribili, la distoglie da ogni leggerezza e dispersione, la richiama dalle distrazioni e la raccoglie.

Chi discorre di teatri e di mimi, non giova certo alla sua anima, ma la rende invece più spensierata, più eccitata; chi si interessa e si intromette nei fatti altrui, la getta spesso nel pericolo per tale curiosità.

Ma colui che discorre dell'inferno non corre certo pericolo e rende la sua anima più saggia.

Forse pensi di essere importuno verso gli altri con tali discorsi?

Ma se non ne parli, spegni l'inferno? E se ne parli, lo fai ardere?

Sia che ne parli, sia che non ne parli, il suo fuoco continua a divampare.

Se dunque ne parli sempre, è perché tu non vi debba cadere.

Non è possibile che l'anima, che si preoccupa dell'inferno, pecchi facilmente.

Ascolta il saggio ammonimento: Ricordati dei tuoi ultimi eventi, e in eterno non peccherai ( Sir 7,36 ).

Non è possibile che l'anima che teme il giudizio non rifugga dalle colpe: il timore che le domina la mente non permette che in essa vi sia nulla di mondano.

Se un semplice discorso sull'inferno scuote e impressiona tanto, quanto più il pensiero ad esso, non passeggero ma sempre presente nell'anima, non purifica quest'ultima più di ogni fuoco?

Giovanni Crisostomo, Omelie sulla seconda lettera ai Tessalonicesi, 2,3

Indice