Profeti una missione a rischio

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L'indispensabile essere

di Elena De Palma

Nel veloce e quasi parossistico fluire di immagini e di voci, nell'incalzare travolgente dei fatti e delle vicende che neppure riescono a esaurirsi, una specie di istinto di salvezza ci spinge di tanto in tanto allo « stop ».

Oggi non si può neppure concepire un video registratore senza il « ferma immagine ».

Perché avvertiamo inconsciamente questo bisogno di « stop »?

I rischi della dissoluzione sono avvertiti ormai come un pericolo abbastanza ravvicinato e percepibile anche se tutte le teorizzazioni possibili del frammentarismo ci hanno spinto nel costume quotidiano a vivere l'« attimo fuggente ».

Ci sentiamo quasi travolti di azione in azione, di impegno in impegno, anche nel fare il bene e queste scelte di « bene » costituiscono, anche talvolta per il cristiano, l'alibi per non fermarsi, per non scegliere, per rotolare passivamente di attività in attività, e « attività » rischiano di essere certe preghiere comunitarie o anche personali e certe liturgie più o meno chiassose, e non importa che la musica sia prodotta da cori più o meno sgangherati e altrettanto sinceri, o da organi o chitarre suonati con maggiore o minore maestria o virtuosismo, ma sempre con grande passione e generosità.

Dosi sempre più massicce di comunicazioni, che tendono a rendere quotidiano lo straordinario e l'emergente, ci coinvolgono emotivamente in situazioni o di pietà o di commiserazione o anche di entusiasmo o di ira subito dimenticate, che però restano registrate nelle profondità del nostro essere con intensità a noi ignota e non misurabile.

Restano l'irritazione, la preoccupazione, l'ansietà, talora una sottile o profonda vena d'angoscia e una sete di notizie e di forti impressioni capaci di cancellare le precedenti.

L'immagine antica dell'uomo che si guarda allo specchio e dimentica il suo volto è quella che forse descrive meglio la situazione quotidiana degli uomini e delle donne del nostro tempo.

E peraltro conosciamo bene la paura e quasi la vertigine del fermarsi e chiedersi: « chi sono io »?, « dove vado »?, « che cosa sto facendo»?. È come affacciarsi sul vuoto.

A questa domanda che una volta o l'altra arriva implacabile e per lo più improvvisa quando lo « stop » è imposto da una malattia, da una limitazione o da un brusco distacco o da un lutto, il cristiano ha una risposta.

Tale risposta vale solo per lui oppure il cristiano può e sa essere un compagno di strada capace di sostenere il fratello che si interroga e capace di lasciarsi interrogare per rispondere della speranza che tale risposta; essa sarà però credibile solo se nata dall'esperienza, solo se autenticamente vissuta e comunicata.

Il cristiano, oltre a sapere e a dichiarare a chi lo interroga chi è e da dove viene, deve realizzare in sé la dimensione dell'« essere ».

È indispensabile cioè che il cristiano comunichi, manifesti ciò che è.

È una creatura, ed è consapevole di esserlo, accetta i limiti derivanti dalla propria creaturalità.

È creatura nel tempo: nasce, cresce, diventa adulto, declina e muore, non è onnipotente sulla materia, ma sa trasformarla per la sopravvivenza propria e altrui; non è onnipotente sugli animali, ma impara ad addomesticarli e a servirsene; la sua mente sa pensare, progettare e programmare, le sue mani sanno fare per costruire, eppure può sbagliare, eppure può fallire; il suo cuore sa amare, eppure può anche odiare e distruggere il rivale o il fratello; sente paura e angoscia di fronte a una prova che teme di non saper superare, eppure ha coraggio e audacia per conoscere o per raggiungere un obiettivo.

È una creatura non mai pienamente appagata, sempre in attesa di una salvezza e di una felicità della quale sente in sé il richiamo, ma per la quale non trova in sé la forza.

Ma il cristiano credente sa di essere creatura fatta a immagine di Dio creatore, sa di essere stato creato per amore, sa di essere figlio di Dio e sa da dove gli vengono tutte quelle potenzialità che avverte in sé, sa anche l'origine dei limiti che conosce bene insieme alla non mai spenta speranza di salvezza e di liberazione, conosce il peccato e crede in Cristo Salvatore.

L'esistere nella precarietà di una vita ricevuta diventa partecipazione all'Essere attraverso la comunicazione della vita di Cristo, dell'incontro con Cristo morto e risorto, che dalla precarietà dell'esistere ci salva e ci comunica la vita nella pienezza e senza termine.

Il cristiano è uno che conosce il peccato e il perdono e la salvezza portata da Cristo, ha sperimentato i distacchi causati dalla morte e gli scacchi del dolore, ma attende di vivere per sempre la vita del Risorto già ricevuta e continuamente comunicata attraverso i Sacramenti donati come « segni » per tutti gli uomini da Cristo alla sua Chiesa.

Ma come testimoniare questo nuovo « essere », questa vita dell'uomo nuovo in Cristo Gesù?

Il primo segno coerente è quello della carità: la vita dell'uomo nuovo è dono gratuito di Dio; la gratuità dell'amore rende evidente che uno sa che gratuitamente ha ricevuto e gratuitamente dona.

Il secondo segno coerente è quello del perdono e della misericordia, ognuno conosce i propri limiti e le proprie colpe, le profondità oscure del cuore, ma il cristiano amato e guarito da Cristo mandato dal Padre, rende manifesta la misericordia quando, perdonando, è partecipe della misericordia del Padre.

Un terzo segno coerente è l'amore per la Verità; il Verace, l'Amen di Dio glie l'ha donata, e la scelta della verità amata difesa praticata rende visibile questa partecipazione alla vita di Colui che è Via, Verità, Vita.

Un altro segno coerente indicato e proposto da Cristo come condizione per seguirlo è la croce.

« Chi vuole essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua ». ( Lc 9,23 )

L'autenticità dell'essere « altro Cristo » si sperimenta e si fa visibile di fronte allo scacco del dolore, che solo per l'esperienza di Cristo si fa salvezza.

E proprio questo segno fondamentale ci rinvia alla gioia delle beatitudini che passano tutte attraverso condizioni umanamente dolorose, ma diventano segno di una vita ricevuta: il regno dei cieli è dei poveri in spirito, i puri di cuore vedranno Dio, gli operatori di pace saranno chiamati i figli di Dio, e il regno dei cieli è dei perseguitati per la giustizia.

San Paolo ha una frase che dice il nuovo essere del discepolo, dell'uomo nuovo in Cristo Gesù: « Per me vivere è Cristo ». ( Fil 1,21 )

Questa è l'aspirazione più profonda, il desiderio più intimo del battezzato, che spinge alcuni, e noi siamo tra questi, a una radicalità di sequela e imitazione di Gesù povero, casto e obbediente come via per arrivare quasi con più certezza e rapidità alla situazione definita così bene da Paolo.

Lo Spirito che geme e prega in noi, perché non sappiamo neppure cosa chiedere, affretti questo tempo del nostro pieno essere in Cristo Gesù e ci renda capaci di testimoniare questo « essere ».

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