Il paradosso delle Beatitudini

Indice

Come conciliare giustizia e misericordia

( Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, / perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, / perché troveranno misericordia. Mt 5,6-7 )

di Marisa Sfondrini

Per una volta, cominciamo dalla dichiarazione conclusiva: giustizia e misericordia sono due inscindibili gemelle, non due qualità antitetiche.

Perché? Ma è semplice: basta leggere le Sacre Scritture, vero distillato, nel pensiero umano, del rapporto creatura - creatore, ma anche delle creature fra di loro.

L'autore sacro, che si rivolge a Dio, lo chiama il Giusto e il Misericordioso.

Con un gioco di parole, si potrebbe dire, giusto perché misericordioso e misericordioso perché giusto.

La giustizia di Dio non corrisponde all'equa ripartizione fra gli esseri umani dei benefici; Dio - nella Bibbia - è giusto, perché difende il suo popolo quando questo è vittima di avversari malvagi; ed agisce così perché è fedele all'alleanza.

Iddio è il « sole di giustizia » che, nel giorno di Jahwé opererà la distinzione fra giusti e ingiusti. ( Sal 19; Ml 3,20 )

Nel Nuovo Testamento, Gesù è il Giusto, l'innocente martire, il cui sangue sparso rende giustizia a tutti i martiri e riscatta la creazione dal dominio del peccato, libera l'uomo dalla morte.

Ma lo stesso Gesù, segnatamente nella parabola degli operai, ( Mt 20,1-16 ) mostra che l'amore di Dio va ben al di là della semplice giustizia ( distributiva, nel caso ).

Per san Paolo, poi, la vera giustizia non viene dalle opere, ma è una grazia che « discende dal cielo » ( Rm 1,17; Rm 3,21 ) per trasformare il creato.

Dio è il Misericordioso ( per la tradizione islamica questo appellativo è riservato ad Allah ).

La sua è una misericordia 'viscerale' ( Sal 50,1 ) ( e sono « visceri materni » quelli di Dio misericordioso ), ha la sua fonte nella « sostanza » stessa di Dio, abbraccia completamente l'essere umano e il cosmo, lo ricrea facendolo « nuova creatura ».

Atto supremo della misericordia di Dio è perciò l'Incarnazione, l'assunzione, cioè, da parte di Gesù, in tutto, della natura umana « tranne che nel peccato ».

Non può esservi, dunque, giustizia, anche umana, che prescinda dalla misericordia, dal dovere di considerare, cioè, ogni situazione che coinvolge in qualche modo la persona, con la mente e con il cuore, con la razionalità e con il sentimento.

Il ripristino della giustizia non si ha, infatti, se non nella ri-creazione.

Per il salmista il Signore è « lento all'ira e grande nell'amore » ( Sal 103,8 ) e «agisce con giustizia e con diritto / verso tutti gli oppressi »: ( Sal 103,6 ) è dunque questa la vera logica dei comportamenti.

È infatti il malvagio, l'ingiusto, che si lascia prendere la mano dall'ira, trattando chi gli sta di fronte con durezza.

Per lo scrittore sacro non si pone il problema della « colpa »: essa è scontata per il fatto stesso che l'essere umano è peccatore.

Ma Dio « non ci tratta secondo i nostri peccati / non ci ripaga secondo le nostre colpe ». ( Sal 103,10 )

Le abbondanti citazioni sono dal salmo 103 per una scelta obbligata dallo spazio, non certo dalla mancanza di altre « prove documentali » che la Bibbia offre nell'Antico come nel Nuovo Testamento in abbondanza.

Da ciò consegue, appunto, quello che si diceva all'inizio: non si può dare giustizia se non dentro un contesto di misericordia, addirittura in un contesto d'amore.

Un amore che, proprio perché autentico, si preoccupa di raddrizzare i torti, dando soddisfazione a chi è colpito, ma al tempo stesso di mettere in condizioni chi ha offeso di non ripetersi, chiudendo la bocca all'odio, alla vendetta, alla rivalsa, con il gesto più paradossale, un bacio.

La giustizia è, però, affidata agli esseri umani: sia che riguardi la distribuzione di beni, sia che riguardi la gestione dei poteri, sia che riguardi la promulgazione e il rispetto delle leggi, tutto dipende dai comportamenti, dalle relazioni che uomini e donne di ogni generazione riescono a stabilire l'uno con l'altro.

Uomini e donne, esseri imperfetti, ma salvati dall'Incarnazione e chiamati ad essere perfetti « come il Padre ».

È probabilmente questa necessità di perfezione a rendere tanto delicato l'atto di rendere giustizia, comunque.

Perché ognuno deve avere il suo, ciò che gli spetta di diritto per rendersi conto di essere un « figlio amato dal Padre ».

Fare giustizia dovrebbe essere, allora, sempre un atto d'amore umano, che serva da canale per percepire l'amore divino.

Il « modello giustizia » è quello divino, cui anche la giustizia umana, sia quella compiuta attraverso la distribuzione di beni e benefici, sia quella che si attua nei tribunali, deve in qualche modo ispirarsi e uniformarsi.

La giustizia degli uomini

Spesso sono gli eventi storici a far emergere agli occhi dell'opinione pubblica un problema che, magari sotto la cenere, è comunque sempre esistito.

Così gli italiani ( e con loro molti altri popoli europei, quasi contemporaneamente ) sono stati messi di fronte ai problemi di giustizia, e quasi costretti a prenderne atto, dallo scoperchiamento dell'immondo pentolone della corruzione, delle connivenze fra mondo finanziario e industriale e mondo politico.

Oppure, dopo che magistrati coraggiosi, eredi di altri che hanno pagato con la vita - aiutati anche dal crollo ignominioso di una classe politica fortemente collusa con la criminalità organizzata - hanno incarcerato e processato boss mafiosi, già ritenuti 'intoccabili', anche perché protetti da altri magistrati infedeli e da politici corrotti.

Ma perché possiamo definire, ad esempio, alcuni 'corrotti' ed altri 'corruttori'?

Come si stabilisce un reato? Perché deve, in uno stato, esistere chi giudica e chi reprime?

Dai dieci comandamenti al diritto romano

Da che gli esseri umani si sono raggruppati in piccole comunità per meglio sopravvivere, hanno sentito il bisogno di darsi regole di convivenza almeno minime, a partire da valori comunemente riconosciuti come tali e quindi condivisi largamente.

Non fosse altro che per imbrigliare il potere di chi, più dotato di mezzi ( intellettuali o economici o fisici ), correva il rischio attuale e costante di non lasciare spazio ai più deboli.

Si è così stabilita una gerarchia di diritti cui generalmente corrispondono dei doveri.

Gli stessi dieci comandamenti, di biblica memoria, possono essere guardati come la più alta individuazione di valori comuni necessari perché l'essere umano si riconosca tale nei rapporti: con Dio, con gli altri esseri umani.

Sono così una sorta di raccolta di leggi, un codice di comportamento: verso Dio ( i primi tre comandamenti ) e degli uomini fra loro.

Stabiliscono infatti i diritti principali: il rispetto per chi ti ha generato; la condanna del furto, dell'omicidio, dell'impurità ( un concetto non limitabile alla sfera sessuale ), della falsa testimonianza; la garanzia al legittimo possesso ( non proprietà ) e uso dei beni creati ( non sottilizziamo per il momento, perché fra i 'beni' utilizzabili è compresa anche la donna; ma tale era il costume semita ).

Nel suo cammino di civiltà, l'essere umano ha promulgato leggi raccolte poi in codici che ne hanno razionalizzato anche l'applicazione.

Si è poi sentito il bisogno di affidare a qualcuno il controllo sulla regolare applicazione delle leggi, qualcuno capace di comminare eventualmente pene ai trasgressori.

All'inizio di una vita comunitaria, il potere di fare le leggi e di giudicarne l'applicazione era concentrato nelle mani di un unico personaggio, generalmente il re, il capo riconosciuto per carisma personale e per discendenza.

A mano a mano che il processo di socializzazione si è fatto più raffinato, i due poteri ( legislativo e giudiziario ) sono stati differenziati ed affidati a persone diverse, indipendenti le une dalle altre.

La giustizia umana è, quindi, una necessità, primordiale e fondamentale perché l'uomo non diventi lupo per l'altro uomo, generalmente più debole e indifeso.

La grandezza di un principe o di un capo di stato è stata ( quasi ) sempre storicamente stabilita non tanto sulla base delle conquiste, quanto sulla capacità di garantire un accettabile stile di convivenza fra i sudditi o i concittadini.

Ma la giustizia umana è ben lontana dalla perfezione, è soltanto una base, anche quando si è espressa in modalità alte e raffinate ( almeno per i tempi storici correnti ): come accadde, per esempio, nell'antica Roma, « patria » comunemente riconosciuta del diritto moderno.

Umane insufficienze della giustizia umana

La giustizia garantita dal corpus legislativo di uno stato non è però sufficiente se, ad esempio, sorge poggiando su criteri di disuguaglianza di principio e sostanziali, fra cittadino e cittadino.

Per il pur raffinato diritto romano, possedere schiavi e lucrare sulla loro compra-vendita era legittimo.

E ci sono voluti venti secoli di pacifica rivoluzione cristiana per arrivare a condannare e proibire la schiavitù.

È ciò che avevano ben compreso gli iniziatori della rivoluzione francese che invocavano 'egalité', uguaglianza per tutti i cittadini, in uno stato in cui due categorie di persone ( gli aristocratici e gli ecclesiastici ) avevano più diritti degli altri.

L'umana giustizia non è nemmeno sufficiente a livello internazionale, perché il corpo legislativo di uno stato può difendere i diritti fondamentali dei propri cittadini in maniera parziale, disuguale rispetto agli altri stati.

Per questo si è sentito il bisogno di promulgare, a livello internazionale, le carte dei diritti fondamentali: dell'uomo, del bambino, del malato, dell'ambiente ecc.

Per stabilire, cioè, una sorta di minimo comune denominatore affinché ad ogni uomo e ad ogni donna che vengono al mondo, indipendentemente dall'età, dal ceto, dallo stato di salute, dall'appartenenza sessuale, possa essere garantita una comune base minima, al di sotto della quale, cioè, la vita, la convivenza non possono definirsi umane.

Il rapporto tra regola sociale e regola personale

« La giustizia è per definizione la virtù che assume e adempie il dovere del rispetto verso il diritto altrui »;

così la lapidaria definizione di Agostino Clerici.1

Nel suo saggio Clerici affronta un tema basilare anche nella ricerca del rapporto fra giustizia e misericordia; egli afferma, infatti, che non si realizza una vera giustizia soltanto applicando le regole alla lettera; occorre un coinvolgimento personale.

La legge dello stato deve essere in certo modo filtrata da quella 'legge' non scritta che si forma nel cuore dell'essere umano, che è « il campo che la responsabilità deve arare e l'impegno seminare e rendere fecondo.

Certo, serve una regola sociale che definisca i paletti di confine entro cui lavorare proficuamente.

Ma la migliore regola sociale è lettera morta senza l'impegno personale ».2

Nella sua richiesta di giustizia, di regole, l'essere umano corre il pericolo di costruire scatole vuote.

Da ciò metteva in guardia Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi quando affermava: « le migliori strutture, i sistemi meglio idealizzati diventano presto inumani se le inclinazioni inumane del cuore dell'uomo non sono risanate, se non c'è una conversione del cuore e della mente di coloro che vivono in quelle strutture o le dominano ».3

È facile invocare, infatti, giustizia verso gli 'altri' - siano essi gli amministratori della cosa pubblica o siano essi privati cittadini dai quali ci pensiamo separati e distanti - considerando, in pratica, se stessi, come cittadini al di fuori e al di sopra delle stesse regole, che anzi si cerca di eludere.

Come dire: chiediamo multe feroci per i T.I.R. che in autostrada vanno a velocità folli, ma noi continuiamo tranquillamente a passare col rosso per le strade della città.

A questo proposito Clerici parla del « progressivo svuotamento di un principio morale tradizionale, l'epicheia.

Esso entra in azione in contesti operativi - non previsti e non prevedibili dal legislatore - in cui il singolo da una soluzione morale che diverge da quella strettamente giuridica.

Si agisce secondo epicheia quando si adegua la legge nella sua anima, sapendo cioè cogliere il suo spirito e attuarlo pur nella novità della situazione e pur con forme che sembrano in conflitto con la norma stessa.

È evidente che il ricorso a l'epicheia presuppone equilibrio e un cammino di formazione della coscienza, perché i motivi che spingono alla diversa soluzione morale devono essere sempre moralmente giustificabili ».4

Si tratta di attuare la legge eticamente e responsabilmente; non di aggirarla, come potrebbe avvenire da parte di una coscienza poco formata, in un contesto individualista in cui ciascuno è solo preoccupato di salvaguardare il proprio tornaconto.

Il rispetto della legge « è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell'ordine morale la sua anima e la sua giustificazione »,5 cosicché « la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell'etica come dimensione fondamentale e irrinunciabile della persona ».6

La giustizia come regola sociale deve avere per base leggi che salvaguardano il bene comune al di là degli interessi particolari, associativi o di corporazione.

Deve essere semplice, chiara, non equivocabile, in modo da garantire il più possibile contro scappatoie 'legali', ma anche dall'insorgere di una mentalità 'giustizialista', secondo la quale fare giustizia corrisponde a fare vendetta.

La legge deve essere sempre percepibile come uno strumento ( quindi non come un fine ) che aiuta a vivere ciascuno in libertà « perché pone tutte le energie personali a servizio di un ideale … aiutando i singoli soggetti a farlo diventare il più possibile reale ».7

Per rendere reale l'ideale, occorre che l'esigenza di costruzione di un bene comune sia inscritta nelle coscienze personali.

Onestà non è soltanto 'non rubare', ma è anche agire con competenza, occupando ad esempio soltanto i posti che si è in grado di occupare, per i quali si possiedono gli strumenti conoscitivi e operativi adatti; è rispettare l'altro nella sua dignità di persona.

È anche essere capaci di un giudizio personale su ogni avvenimento, formulato autonomamente e non piegato dal richiamo del 'così la pensano tutti!' … E così via.

Tutto questo non si improvvisa, ma è frutto di una formazione, di un costante processo educativo, che ci metta in grado di formulare, appunto, giudizi autonomi e correttamente informati.

Le grandi ingiustizie umane

Fa parte di un cammino educativo per le nostre coscienze, l'analisi delle grandi ingiustizie umane.

La complessità sociale e lo stesso allargamento - attraverso la comunicazione mass mediale - degli orizzonti di conoscenza personale, non ci permettono di pensarci indenni e irresponsabili davanti alle ingiustizie che ogni giorno si perpetrano alle varie latitudini.

Inoltre, se consideriamo giustizia e misericordia come inscindibili, sono proprio queste le forme di giustizia che esigono da ciascuno un giudizio corroborato dalla misericordia, che sola ci permette di superare il senso della vendetta insieme con quello di impotenza o di non responsabilità davanti a grandi avvenimenti lontani nello spazio e anche nel tempo.

L'ombra di Caino

Non possiamo fare a meno di mettere sotto la lente d'ingrandimento le ingiustizie commesse contro l'infanzia, certamente la parte più disarmata dell'umanità.

È un obbligo citare i « ragazzi di strada » abbandonati a se stessi, che vagano nelle strade delle ricche metropoli sudamericane e che i vari « squadroni della morte » si sentono in diritto di massacrare impunemente perché « disturbano il commercio e i turisti »; è obbligo citare i bimbi del Ruanda, della Somalia, della Bosnia, della Cecenia e di tutte le parti del mondo devastate dal cancro delle guerre e delle guerriglie; è obbligo citare i bambini della Romania, fatti nascere per la volontà di un dittatore crudele che voleva sempre più braccia per il proprio esercito, e poi scacciati da quei genitori - macchina riproduttiva, che non li hanno mai desiderati, e abbandonati a se stessi, condannati a essere manovalanza per la malavita organizzata.

L'ombra di Caino ci insegue: ma non possiamo dimenticare le donne del Bangladesh ridotte a vere e proprie 'riserve' di organi, fatte espatriare con il miraggio di un lavoro, trasferite in compiacenti cliniche, uccise per ricavarne organi da trafficare.

Nessuno saprà mai quante sono state.

Così come nessuno saprà mai quante vittime ha fatto e fa la droga, mentre pochi 'signori' si arricchiscono, fondano eserciti privati per difendere i loro 'campi', corrompono stati e autorità.

Corrompono anche i contadini, costretti a coltivare le 'erbe mortali' per ricavarne quel poco da vivere.

Non possiamo dimenticare i fabbricanti di armi, quelli che le commerciano, gli stati che costruiscono il loro bilancio sulla produzione di ordigni mortali, i vecchi e nuovi ricchi che invadono i 'divertimentifici' internazionali ( le grandi spiagge, le stazioni montane più raffinate, gli hotel più cari ecc. ) e vengono riveriti perché lasciano quattrini ( non importa se imbrattati di sangue: ma si sa 'pecunia non olet'! ).

Non possiamo dimenticare i moderni mercanti di schiavi, che si arricchiscono alimentando le speranze dei poveri più poveri: quelli che organizzano, a suon di dollari, i viaggi disperati dei boat people ( siano asiatici in fuga dai regimi terroristici, siano albanesi che credono l'Italia il regno di Bengodi ); quelli che 'importano' giovani donne col miraggio di un lavoro onesto che si traduce in prostituzione; quelli che introducono clandestinamente mano d'opera dal Terzo Mondo, da impiegare nei lavori che nessuno vuole fare ( bracciantato agricolo, lavori pericolosi per l'incolumità fisica ) naturalmente senza regolari permessi o protezioni previdenziali.

Non possiamo dimenticare quelli che attentano gravemente all'ambiente, provocando disastri ecologici: le petroliere che lavano i loro serbatoi in mare, o quelle troppo vecchie con attrezzature al di sotto dei limiti di sicurezza; le discariche abusive; il deflusso di liquami senza che siano fatti passare dagli opportuni filtraggi … e così via fino al contrabbando di materiale nucleare.

L'ombra di Caino sta sulla spalla di ciascuno di noi, come maligno consigliere e segna una vittoria ogni volta che - anche nel piccolo - fingiamo di non vedere, di non sentire per non dover parlare, sporcarci …

I poveri sempre con noi

Ce lo garantisce il Vangelo, i poveri saranno sempre con noi.

E mai verità è parsa viva e palpabile come oggi, in questo nostro mondo in cui grandi sprechi vengono consumati accanto a miserie inenarrabili.

È la povertà il grande male della nostra società: lo ribadisce con forza anche il 'programma d'azione' stilato a conclusione della Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite su 'Popolazione e sviluppo' tenutasi al Cairo dal 5 al 13 settembre 1994.

Nonostante gli indubbi progressi, è un fatto constatato che le forbici tra ricchi e poveri si stanno ogni giorno aprendo un po' di più.

Nei paesi in via di sviluppo, che pure sembrano aver intrapreso una strada di risanamento economico e di maggiore giustizia distributiva delle risorse, c'è sempre una quota di popolazione che resta fuori dalla stanza del banchetto.

Anche nella nostra progredita Europa, il problema degli 'homeless', i senza fissa dimora, di cui nessuno sembra curarsi se non le organizzazioni del volontariato, colpisce un po' tutti gli stati, anche la ricchissima Germania unificata, incontrastato motore economico dell'Europa unita.

Il citato 'Programma d'azione' dell'O.N.U. sottolinea un altro punto comune: fra i poveri, certamente in condizioni peggiori sono le donne.

I feti femminili sono rifiutati più di quelli maschili ed abortiti in maggiore quantità.

Le bambine sono fatte prostitute ( spesso per la 'gioia' dei turisti ) in età sempre più precoce.

Le giovani donne alimentano il mercato della prostituzione, della pornografia, ma anche - come abbiamo già notato - del commercio degli organi per trapianto.

Le donne si ritrovano ad essere sempre più spesso capofamiglia involontarie, perché abbandonate dai propri partners, senza risorse economiche.

Le donne anziane indigenti sono in tutto il mondo in numero maggiore degli uomini ( e non soltanto perché le donne hanno vita più lunga! ).

I grandi programmi economici sono quasi sempre elaborati a tavolino, sulla base di modelli teoretici ineccepibili, ma che sembrano dimenticare che le soluzioni sono destinate a uomini e donne concreti, ciascuno con il suo desiderio di giustizia e di libertà, ciascuno con i suoi bisogni da soddisfare.

Caduto il marxismo, rovinati in macerie i socialismi reali, oggi tutti parlano di 'libero mercato' come della soluzione d'ogni problema di distribuzione equa delle ricchezze.

Ma la 'aurea' legge della domanda e dell'offerta deve essere governata dalla solidarietà ( dall'impegno e dal giudizio etico personale, per riprendere un concetto esposto nel capitolo precedente ), perché il teorema di Adamo Smith secondo il quale « ciascuno è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era parte delle sue intenzioni » ( cioè il benessere collettivo ) è franato in pezzi come il socialismo.

Chi ha già tanto vuole sempre di più.

Dalli al diverso

Quando qualcosa non funziona, quando si verifica una situazione palese di ingiustizia, istintivamente cerchiamo un capro espiatorio.

La situazione forse non cambia, ma tutti ci sentiamo meglio.

E ci sono alcuni che al mondo sembrano essere venuti soltanto per interpretare questo scomodo ruolo.

Come è difficile, allora, per alcuni vivere, semplicemente vivere; quante ingiustizie pubbliche e private si consumano perché i privati o le masse possano scaricare la propria frustrazione.

È in questo modo che si bandiscono le partite di caccia al 'diverso'.

A coloro che non rientrano nei così detti standard di normalità, senza generalmente che ci domandiamo chi possa adeguatamente ( e senza commettere ingiustizia ) fissare i parametri, i confini tra normalità e diversità.

Così abbiamo dichiarato 'diversi' i barboni senza fissa dimora, quelli che non hanno lo stesso colore della nostra pelle, i portatori di 'handicap', i malati di mente, gli omosessuali, i transessuali, i travestiti, gli ebrei, gli zingari, i bambini troppo piccoli per potersi difendere, chi appartiene ad una minoranza etnica …

'Diverso' è un calderone sotto cui arde il fuoco dell'intolleranza, dell'ignoranza bieca, dei fondamentalismi anche religiosi, degli ideologismi senza ideale.

'Diverso' è anche chi non si adegua agli schemi correnti, chi non accetta la così detta 'morale comune', chi agisce 'senza buon senso'.

Sì, 'diverso' è anche l'eroe puro, che non cerca la sua gloria, che non chiede quattrini in cambio di prestazioni da record, che mette ciascuno davanti alla propria pusillanimità.

'Diverso' è spesso l'artista, che illumina con un fascio di bellezza divina il tiepido liquame nel quale siamo immersi, e che ci disturba costringendoci ad ammetterne la bruttezza.

'Diverso' è anche il santo, il 'giusto', chi cerca cioè di agire secondo una legge ritenuta 'superiore', e il cui stile di vita condanna implicitamente, spesso senza tribunali e senza arringhe, il dissipato stile di vita comune.

La piatta, grassa società del consumo e del benessere non può tollerare che la 'diversità' si insinui come un granello di sabbia nei suoi ben oliati meccanismi.

E corre ai ripari, in qualche modo.

Segregando, ridicolizzando, ghettizzando, proponendo addirittura, come nel caso degli ebrei, una 'soluzione finale' a mezzo gas.

Chi è 'diverso' ci fa paura, perché non riusciamo a inquadrarlo nei nostri comodi schemi interpretativi della realtà.

Meglio, quindi, toglierlo di mezzo perché non ci turbi, non ci sconcerti, non ci impaurisca, appunto.

La 'più ' diversa

Schiacciare una minoranza sembrerebbe compito abbastanza facile, più arduo conculcare una maggioranza.

Eppure gli esseri umani sono riusciti ad ottenere anche questo risultato.

Se la 'ingiustizia' per antonomasia è impedire ad un essere umano di vivere come tale, è sull'essere umano donna ( maggioranza numerica ) che è caduto il massimo delle ingiustizie.

Non occorre annoverarsi tra i femministi arrabbiati, per affermare che, nel corso dei secoli, le donne sono state prede, mercé di scambio, grembi da cui far fabbricare braccia per la guerra o per la gleba.

Regine o contadine non importa: il destino era lo stesso per tutte.

La donna ha dovuto attendere secoli e secoli, fino alla nostra epoca, per vedere riconosciuta - e non senza lotte e lutti - la propria dignità come persona umana, alla pari dell'uomo.

E nonostante nessuno metta più in dubbio tale eguale dignità, le donne sono ancora vittime di incesti, di stupri ( non importa se 'semplici' o 'per pulizia etnica' ), di violenze che coinvolgono la sfera più intima, misteriosa della persona umana, quella sessuale; il maschio della specie umana, anche padre, anche fratello, tende a considerare la donna come sua proprietà soprattutto nella gestione dell'attività riproduttiva.

È la capacità della donna di portare e far crescere dentro di sé una nuova creatura, che da sempre intriga l'uomo, che lo intimorisce, affascina e intimidisce: egli è davanti alla 'misteriosa creatura'.

Che è apparsa subito come la più debole nel momento del parto.

Una debolezza vulnerabile che rallentava la marcia dei nomadi primitivi, che la faceva incapace di procacciarsi il cibo da sola, che esponeva il clan agli attacchi di clan avversari.

La donna era comunque sempre necessaria: e ciò che non si può perdere, si tende almeno a limitare nel potere di autodeterminazione.

Così le donne vennero difese, perfino idolatrate, ma relegate in quello che era indicato come il loro proprium, tutto ciò che con la maternità e la cura aveva una qualche attinenza.

In questo modo ingiustizia è stata fatta: non alle donne, non soltanto a loro, perlomeno, ma all'intera umanità, che ha perso l'apporto del loro « genio » ( così Giovanni Paolo il ha definito, nella Mulierìs dignitatem, l'articolato complesso delle qualità femminili sconosciute o sottovalutate dalla parte maschile dell'umanità ).

I senza peccato

Una forma sottile d'ingiustizia è quella commessa da chi, sentendosi, per decreto divino, investito della parte di 'giusto', giudica il suo prossimo 'peccatore'.

Può accadere a tutti di essere Caino travestito da Abele: gli esempi sono facili da trovare.

Si può chiamare questo tipo di situazione in vari modi: educazione, sollecitudine, avere cura, darsi da fare, perfino innamoramento …

Tutti nobili sentimenti, fino a quando non diventano maschere di una diversa realtà.

Perché io educatore voglio plasmare l'educando a mia immagine e somiglianza; perché io ho cura dell'altro, voglio da lui non solo gratitudine, ma dipendenza; perché io dico di amare l'altro, ma voglio soggiogarlo, rendermelo schiavo.

Tutti delitti contro la libertà e contro la giustizia, perché non permettono alla controparte di crescere in umanità.

Simile all'ingiustizia dell'educatore che si crede sostituto di Dio, è quella dei capi spirituali, dei guru, delle « grandi anime ».

Occorrono dosi massicce di autentica santità personale perché non ci si senta dèi.

Molte ingiustizie sono state perpetrate « in nome di Dio »: guerre sante, epurazioni, pulizie etniche.

Persino l'accusa di deicidio lanciata dai cristiani agli ebrei è stata una concausa ( e probabilmente non la più leggera ) perché avvenisse la 'Shoà', lo sterminio nazista.

La pretesa superiorità spirituale fa nascere fenomeni come l'integrismo, il fondamentalismo, l'intolleranza religiosa.

Fa crescere la colossale bestemmia derivante dal tentativo di mettere le mani su Dio e di piegarlo al nostro potere e al nostro servizio, con la pretesa di « difenderne l'onore ».

È ingiusta anche la violenza morale dei non violenti per professione, per dichiarazione politica, di quelli che pretendono di conoscere il volere divino prima di ogni altro e di essere, sempre per diritto divino, incaricati di esercitarlo.

Chi ha potere intellettuale, spirituale, ancora più chi ha poteri economici viene colto, spesso, da deliri di onnipotenza ed è ancora più pericoloso: le apparenze, infatti, sono a suo favore, poiché, per meglio attuare il suo gioco, spesso si presenta come povero e disarmato.

Dei delitti e delle pene

Quelle descritte in precedenza sono grandi ingiustizie che derivano da una concezione del potere ( sia privato sia pubblico ) come servo dell'egoismo personale o di clan.

Ingiustizie autentiche, ma spesso difficili da decifrare e soprattutto da eliminare.

Vi sono poi le ingiustizie, diciamo così, più semplici: sono quelle che derivano dalle infrazioni delle leggi, cioè della base minima di convivenza civile che ogni agglomerato umano si dà.

Sono sempre attentati contro la vita

Ogni delitto, e non necessariamente l'omicidio o la violenza fisica, è un attentato alla vita altrui.

Perché parte da un sostanziale disprezzo per l'altro e per la sua dignità.

Rubo, corrompo, truffo, evado il fisco ecc. perché considero me stesso il solo centro d'attenzione, l'unico meritevole di vivere con agio.

Non sempre i delitti hanno la stessa gravità dal punto di vista della giustizia umana: parcheggiare in zona vietata è, per il codice, meno grave che guidare in stato di ubriachezza.

Le conseguenze infatti possono essere diverse, ma il disprezzo delle regole che genera l'infrazione è il medesimo.

Alcuni delitti sono considerati « meno gravi » per consuetudini culturali difficili a morire: quanto tempo è passato prima che dal codice penale italiano fosse cancellato il così detto « delitto d'onore » che mandava praticamente impunito un assassino, soltanto che si riuscisse a provare che l'omicidio era stato compiuto per « difendere l'onore infranto »?

La violenza sessuale contro donne, minori o persone in stato di debolezza, è un delitto contro la persona umana e la sua dignità, una violenza paragonabile all'omicidio, perché colpisce la sfera più intima, personale, misteriosa dell'essere umano.

Chi ha subito tale tipo di violenza, fatica a risollevarsi, a non sentirsi « sporco ».

Eppure, nella civilissima Italia, erede dei legislatori romani, patria del diritto, non si è riusciti per anni a far passare una legge che colpisse adeguatamente i violentatori, specialmente se riuniti in gruppo; e che proteggesse le vittime denunzianti da riti processuali che le mettevano ( specialmente se donne ) nella situazione di sentirsi - loro, le vittime - in certo modo colpevoli.

Pena punitiva o redentiva?

Anche le pene, quelle previste dai codici, non possono essere stabilite partendo da un senso di disprezzo per chi ha commesso un reato.

Dice, ad esempio, la Costituzione italiana: « Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato » ( art. 27 ).

Chi è riconosciuto colpevole dai tribunali di stato, ha diritto a potersi riscattare dal male compiuto, a quella che - con termine teologico - chiamiamo conversione.

Ciò non può avvenire se chi è dichiarato colpevole, non è messo in condizione di riconoscere la propria 'qualità' di colpevole e in qualche modo può continuare a considerarsi trattato ingiustamente.

Per questo motivo è essenziale che il cittadino venga educato fin dai primissimi anni al rispetto della legalità.

Anche quando, nel caso di piccole infrazioni ad esempio, la si fa franca, il nostro 'foro interno' dovrebbe metterci in guardia e richiamarci all'osservanza delle regole infrante.

Dalla multa all'ergastolo, ogni pena dovrebbe accompagnare, per così dire, nel cammino di redenzione, in modo da restituire al civile consesso un cittadino nuovo.

La pena ha un suo contenuto 'religioso', che è sottolineato anche dai verbi usati: si commina una pena, la si espia …

Questo nelle dichiarazioni teoriche è assodato: ma nella pratica le pene, quando sono piccole, acuiscono la volontà di evitarle; quando sono gravi, inveleniscono, abbrutiscono, ottenendo il risultato esattamente contrario a quello voluto.

Il grande crogiolo del carcere

Nei casi di delitti gravi, la pena consiste generalmente nella privazione della libertà personale per un certo periodo che può arrivare fino all'ergastolo.

Vi sono quelli che sulla propria fedina hanno scritto alla voce 'fine pena', 'mai'.

La società si difende da chi viola le regole della convivenza, restringendone la libertà generalmente in un carcere.

Questa separazione può essere richiesta dalla particolare gravita del fatto o anche dal pericolo che il colpevole possa ripetere il medesimo delitto.

Il carcere è quindi una sorta di protezione, che dovrebbe viaggiare in due sensi: proteggere la società dal delinquente, ma anche il delinquente dall'impossibilità ad emendarsi.

Ormai è sempre più diffusa l'opinione che il carcere, così com'è gestito ( parliamo di una media, non certo degli immondezzai che in taluni stati e sotto taluni regimi vengono fatti passare per carceri ), serve a poco.

Costringere alla convivenza in uno spazio esiguo, personaggi con storie diverse alle spalle, può diventare invece che scuola di nuova vita, scuola di delinquenza.

Per non parlare della tragedia di chi è tossicodipendente, sieropositivo, malato gravemente; o di chi è in attesa di giudizio e probabilmente innocente ( nelle carceri italiane ciò accade almeno nella metà dei casi ) e si trova a dover scontare lunghi periodi di carcere preventivo.

Per essere autenticamente redentivo, il carcere dovrebbe avere porte più aperte, non isolare dal contesto sociale i detenuti ma rieducarli.

Ciò è esigenza insostituibile per le carceri minorili, ma anche per gli altri istituti di pena che ospitano adulti.

L'essere umano si costruisce come tale nella relazione positiva con altri esseri umani.

Sono tanti i problemi che riguardano la vita carceraria, possiamo elencarne soltanto alcuni che più di altri mettono in rilievo la contraddittoria situazione di un luogo di pena che non aiuta a riacquistare la condizione di cittadino a pieno titolo e che solo una giustizia con lo sguardo misericordioso potrebbe convertire in strumento positivo.

L'inattività è pessima consigliera: ebbene, nelle carceri italiane le possibilità di lavorare, per un detenuto, sono vicine allo zero; si passano i giorni a non far nulla: è questo forse il difetto più grave.

La promiscuità è terreno favorevole al vizio: nelle nostre superaffollate case circondariali si mescolano in esegui spazi tossicodipendenti, omosessuali, persone con problemi psicologici anche seri ecc.

Le possibilità di un minimo di privacy sono inesistenti.

Così come sono inesistenti le possibilità di un minimo di vita affettiva - sessuale normale, con conseguenze che si possono facilmente immaginare.

Si è cercato di trovare rimedi alle tante situazioni oggettivamente disumane: ma vi si oppongono la scarsezza dei mezzi a disposizione, la scarsezza del personale di sorveglianza ( strano destino: stessa vita dei carcerati ma senza colpe! ), la scarsezza degli educatori, di iniziative alternative.

Il carcere rimane un crogiolo da cui spesso si esce non puro metallo, ma ancora più sporchi.

Giudice e non giustiziere

La magistratura ha un compito straordinario.

Essere magistrato, un buon magistrato, dovrebbe essere nel libro dei sogni di ogni cittadino: è un compito alto e delicato, che esige intelligenza acuta, sensibilità, delicatezza e intransigenza prima di tutto con se stessi; e soprattutto un grande cuore.

Dice mons. Dante Lafranconi che la giustizia deve essere perseguita « non con l'animo vendicativo e neppure col gusto di concludere: 'Finalmente giustizia è fatta' perché il colpevole è stato condannato; ma è perseguita con sofferenza, continuando ad amare e a stimare il colpevole e desiderando sinceramente la sua riabilitazione.

E si sa che nulla giova tanto a riscattare una persona che ha sbagliato quanto l'amarla, e farle sentire che la si ama » .8

La toga sull'anima

Il capo dello stato italiano, Oscar Luigi Scalfaro, ebbe ad usare - nell'invitare un celebre magistrato, il dottor Antonio Di Pietro, a revocare le dimissioni una felice espressione.

Disse più o meno così: « Un vero magistrato la toga non l'ha sulle spalle, ma sull'anima ».

Ciò significa che un magistrato, sia esso giudicante o inquirente, non si può mai svestire del suo ruolo; come il medico, come il prete, come l'insegnante.

E un ruolo chiave nella società, ed ha bisogno di sostegno e protezione.

Sostegno da parte delle altre autorità e della pubblica opinione, pur senza clamori, senza ribalte accese.

Protezione attraverso le leggi per garantirne l'indipendenza totale da altri poteri.

Quello giudiziario è il terzo potere, in uno stato moderno e democratico ( gli altri due essendo quello legislativo, del parlamento, e quello esecutivo, del governo ).

Deve essere sganciato dagli altri poteri, sottoposto al controllo diretto di propri organi di autogoverno nei quali gli altri poteri abbiano comunque rappresentanti.

Una democrazia prevede infatti, per il mantenimento della legalità, controlli incrociati fra i vari poteri, in modo che uno non possa prevaricare sull'altro.

Il buon funzionamento della giustizia ( ripetiamo, non come vendetta dei 'buoni' sui 'cattivi', ma come ristabilimento della condizione di legalità nella riabilitazione del colpevole ) è il miglior segnale per comprendere se uno stato è realmente democratico.

Negli stati totalitari, infatti, la toga è spesso sottoposta alla divisa militare o ad altri condizionamenti.

L'imparzialità di un peccatore

Il giudice, il magistrato, è pur sempre un essere umano, un peccatore: non è quindi troppo chiedergli l'imparzialità?

Nessuno pretende dal giudice la giustizia assoluta, possibile soltanto a Dio.

La toga non conferisce il potere di leggere nei cuori.

La giustizia umana è sempre imperfetta: ma la scommessa è di renderla la meno imperfetta possibile attraverso vari correttivi, come possono essere i vari gradi di giudizio esperibili, fino alla corte suprema di cassazione, o il giudizio espresso da un collegio di giudici dopo che il processo è stato istruito da un magistrato inquirente e le accuse dibattute pubblicamente da un collegio difensivo.

Ciò che si chiede al magistrato è di non essere un 'giustiziere' né un 'vendicatore'.

Il magistrato non è un eroe, non è il cavaliere senza macchia e senza paura che si muove su un bianco destriere.

È un essere umano con le sue gioie e i suoi dolori, le sue piccole miserie e i suoi spazi di grandezza; è un lavoratore che ha fatto del diritto la sua professione.

La sua pur imperfetta imparzialità deve essere frutto di professionalità e di competenza.

È anche uno che, per la sua professione, rischia a volte la vita.

Come ben sanno i magistrati italiani esposti sul fronte del terrorismo, della malavita organizzata.

E che per proteggere sé e la famiglia sono spesso costretti ad una vita blindata: in bunker, con la scorta armata, su auto a prova di proiettile, senza la possibilità di normali relazioni …

Proprio perché è esposto più di altri al contatto nocivo con le cellule malate di una società, il magistrato va anche difeso dai pericoli di 'contagio', dalla sovraesposizione presso l'opinione pubblica, dalla sottile violenza delle minacce indirette.

La legge dell'amore

Dicevamo all'inizio che non si da giustizia senza misericordia, né misericordia senza giustizia.

I due termini sono inestricabilmente intrecciati e necessari l'uno all'altro.

Dice ancora mons. Lafranconi nell'opera citata: « Se è vero che la correzione, e anche la punizione come strumento correttivo, può essere provvidenziale ( e in tal senso la Bibbia spessissimo parla di Dio che corregge l'uomo ), lo è solo in quanto tale misura è suggerita dall'amore ».

Giustizia e misericordia

Se quella enunciata è l'esigenza, occorre anche riconoscere che non è facile « far valere un diritto o esigere giustizia con animo misericordioso ».9

L'istinto di Caino ci porta a rispondere alla violenza con violenza, ad essere aggressivi verso chi ha offeso noi o il contesto in cui viviamo, a vendicarci in qualche modo.

Occorre educarsi ed educare alla misericordia come disposizione interiore del nostro animo.

« Ma le disposizioni interiori, quando sono condivise ed espresse da più persone, non possono non manifestarsi anche sul piano sociale e tradursi incisivamente sul costume ».10

La misericordia deve ugualmente trovare un suo confine nel rispetto della giustizia « perché la misericordia che prescindesse dalla giustizia si risolverebbe in grave pregiudizio tanto per la società quanto per gli individui.

Per quanto riguarda infatti la società, verrebbero a mancare dei riferimenti oggettivi che sono però indispensabili alla convivenza civile.

E inoltre, dato che la storia dell'umanità è inquinata dal peccato, si correrebbe il rischio di favorire il gioco di quanti, noncuranti della misericordia, si preoccupano solo di fare i propri interessi, calpestando anche i diritti degli altri.

In una condizione com'è quella dell'uomo sulla terra, in cui la conflittualità è inevitabile, il valore della giustizia e la forza del diritto sono necessari perché la conflittualità non degeneri in sopruso del più forte sul più debole, o, nella migliore delle ipotesi, non si trasformi in discriminazione arbitraria tra i cittadini ».11

Individualmente, giustizia e misericordia appaiate garantiscono contro il rischio di deresponsabilizzazione con il continuo richiamo ai diritti, ma anche ai doveri di ciascuno verso di sé e verso il prossimo.

Diritti e doveri che trovano il loro fondamento nella giustizia e che vengono formulati pubblicamente nelle leggi.

Per agire con giustizia e misericordia non si può guardare ad ogni fatto asetticamente: occorre collocarlo nel contesto storico in cui avviene, individuando il grado di responsabilità nell'operare le scelte che l'hanno prodotto.

Non si può mettere tutti sullo stesso piano, colpevoli e incolpevoli, vittime e carnefici.

Si deve sostenere la legittimità delle condanne dei rei, pur chiedendo la disposizione al perdono di chi è vittima del reato, un perdono che non sospende naturalmente l'iter giudiziario.

Giustizia e carità

« Certo una sintesi perfetta tra giustizia e misericordia non appartiene all'uomo, almeno finché si trova in questo mondo.

Solo Dio ne è capace. L'uomo vi tende come meta desiderata e profeticamente realizzata nell'uomo Dio, Gesù Cristo »: in questa affermazione di mons. Lafranconi12 si situa l'ultimo passaggio, quello alla carità, all'amore.

Atto supremo di giustizia, infatti, non è, forse, stabilire le regole, scrivere le leggi, sanzionare i reati, punire i colpevoli.

È prevenire in radice che si diano le condizioni perché un reato possa essere perpretato.

Questo non può avvenire se non in un 'regime d'amore'.

Il primo e più importante dovere che ciascuno di noi ha verso il suo prossimo, è di renderlo 'padrone' della propria quota d'amore, di permettergli di sentirsi amato dall'Amore, per essere capace a sua volta di amare l'Amore e di donare il proprio umano amore a tutti.

Solo nell'autostima ( 'ama te stesso' ) si può trovare la forza e la capacità per amare il prossimo ( e quindi non nuocergli ).

E la condizione di santità diffusa che si erge a schermo contro ogni violenza, una santità possibile, anche se difficile da attuarsi.

È la condizione del Crocifisso, che non fa di ogni erba un fascio, distingue, ma distingue nell'amore e da sempre una opportunità: come sul Golgota, nella vicenda del buon ladrone e dell'altro.

È la condizione del Risorto che attira tutti a sé, che è 'via, verità e vita'.

Non è una condizione innata, ma un pellegrinaggio: al quale siamo tutti invitati, per il quale tutti abbiamo un minimo di mezzi.

Occorre però avvalersene: da questo punto di vista, noi siamo liberi di scegliere.

Indice

1 In «Giustizia, regola sociale e impegno personale» (Testimo ni nel mondo, n. 119, anno 20, settembre-ottobre 1994)
2 Op. cit.
3 Paolo VI, Evangelii Nuntiandi 36
4 Dal citato articolo di Agostino Clerici in Testimoni nel mondo, n. 119
5 Dal documento dei vescovi italiani «Educare alla legalità», 1991, n. 2
6 Ibid., n.3
7 Da Agostino Clerici, «Giustizia, regola sociale e impegno personale», in Testimoni nel mondo, n. 119
8 Di mons. Dante Lafranconi, «Giustizia e misericordia. Un problema per la comunità», in Testimoni nel mondo, n. 119
9 Mons. Lafranconi, op. cit.
10 Op. cit.
11 Op. cit.
12 Op. cit.