Il paradosso delle Beatitudini

Indice

Operatori di pace in un mondo in conflitto

di Giulio Battistella

In questo capitolo riporto le esperienze degli aderenti all'appello « Beati i Costruttori di Pace » ( BCP ), relative a due tipi di conflitti presenti oggi nel mondo.

Il primo conflitto è quello prodotto dalla contrapposizione più antica di questo mondo, quella considerata anche dal Vangelo: ricchi e poveri; forti e deboli; grandi e piccoli.

Oggi questa contrapposizione ha proporzioni planetarie e prende nomi nuovi: Nord e Sud del mondo; generazione presente e generazioni future.

Dentro questo conflitto i BCP hanno lanciato l'« Operazione Bilanci di Giustizia ».

Il secondo conflitto è quello relativo alle contrapposizioni etniche, cioè all'incapacità di convivere tra diversi.

Un conflitto che ha sorpreso l'umanità proprio quando, caduto il muro delle contrapposizioni ideologiche e politiche, sembrava raggiunta un'epoca di pace.

Dentro questo conflitto cruento, i BCP hanno tentato una presenza di pace, con operazioni come « Sarajevo » ( 1992 ) e « Mir Sada » ( 1993 ), ecc.

In questo capitolo riporto dunque i seguenti argomenti:

1) Una chiave di lettura delle Beatitudini in cui si conclude che nella misura in cui il regno di Dio si fa presente già qui nel tempo, anche i poveri e gli afflitti, qui, nel tempo, dovrebbero essere « beati », cioè meno poveri ed afflitti, perché da emarginati e dimenticati diventano il centro dell'attenzione e dell'impegno di tutti.

Questo in realtà non è avvenuto, e la contrapposizione tra ricchi e poveri oggi è più forte e violenta che mai.

2) A partire dalle considerazioni sopra esposte, è necessario interrogarci, come cristiani, sulle nostre responsabilità e mancanze.

Nella lettera Tertio millennio adveniente ( novembre 1994 ), il Papa, al proposito dice: « Alle soglie del nuovo Millennio i cristiani devono porsi umilmente davanti al Signore per interrogarsi sulle responsabilità che anch'essi hanno nei confronti dei mali del nostro tempo ».

E tra « le ombre del presente » il Papa segnala: « la corresponsabilità di tanti cristiani in gravi forme di ingiustizia e di emarginazione sociale » ( n. 36 ).

In questa ottica, riporto una specie di revisione di vita secondo lo schema vedere - giudicare - agire.

Si parte dalla constatazione che siamo un po' tutti figli della « mano invisibile », cioè di una ideologia deresponsabilizzante; per concludere ( alla luce della Parola di Dio e del Magistero ) che è necessaria una pastorale dell'austerità in vista di nuovi stili di vita.

In questa dirEzione va l'iniziativa di BCP, « Operazione Bilanci di Giustizia ».

3) Nella già citata lettera apostolica, il Papa parla di « un altro capitolo doloroso » nella storia dei cristiani, cioè « dell'acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio alla verità » ( n. 35 ).

Ebbene, anche oggi, intolleranza e violenza caratterizzano, in aree a noi vicine, i rapporti tra etnie, culture e religioni diverse.

Dentro questi conflitti, BCP hanno tentato una presenza di pace; riporto l'esperienza di « Sarajevo » e alcune riflessioni su di essa.

Le beatitudini: perché beati?

Sul passo di Matteo 5,1-12 ( le così dette « Beatitudini » ) si è scritto molto e non sempre si è colto il significato profondo del messaggio, tanto che, per alcuni, esso assumeva un significato di fatalismo e disimpegno: se beati sono gli afflitti, gli affamati ecc., ebbene, lasciamoli come sono, che così saranno felici in Cielo.

Per capire nel senso giusto questa Parola mi sembrano necessarie due distinzioni previe.

Due distinzioni previe

La prima è questa: coloro che sono dichiarati beati appartengono a due distinte categorie che non allo stesso titolo saranno beate.

La prima categoria è quella degli « ultimi », di coloro cioè che qui sulla terra, per una ragione o per l'altra sono carenti e perciò afflitti, infelici.

Il loro stato infelice non è conseguenza di particolari virtù, ma di loro carenze fisiche, psichiche, morali o di carenze morali altrui ( ingiustizia, abbandono, emarginazione ).

Sono le prime quattro suddivisioni di « beati »: i « poveri », gli « afflitti », i « miti » ( cioè i deboli che non possono reagire, ma devono subire le prepotenze altrui ), « quelli che hanno fame e sete della giustizia » ( cioè coloro che subendo l'ingiustizia, anelano un cambiamento, una situazione di giustizia ).

La seconda categoria comprende invece le altre quattro suddivisioni: i « misericordiosi », i « puri di cuore », gli « operatori di pace » e i «perseguitati per causa della giustizia » o « per causa mia », cioè a causa della loro fedeltà a Gesù, a quel Gesù che si identifica con i poveri, gli afflitti, ecc. delle prime beatitudini.

Nella seconda categoria di beati ci possono essere anche i ricchi, i potenti, ma che hanno fatto la scelta preferenziale dei poveri, e proprio perché misericordiosi, e puri di cuore ( cioè sinceri; vicini ai poveri non per tornaconto, ma per farli felici ) e amanti e costruttori di pace, proprio per questo loro impegno attivo e non violento a favore della giustizia, per queste loro virtù; proprio per tutto questo sono perseguitati, insultati, emarginati come i poveri e gli afflitti che si sforzano di fare felici.

Anche costoro sono beati.

Ma a quale titolo? Allo stesso titolo della prima categoria di beati?

Per rispondere è necessario fare la seconda distinzione, quella relativa ai « perché »; « beati … perché di essi è il regno dei cieli … perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » ( Mt 5,5-12 ).

Bisogna fare cioè una distinzione nel concetto di « regno dei cieli ».

Certamente il « regno dei cieli » ( o il « regno di Dio », che è la stessa cosa ) è una realtà escatologica, cioè dei tempi finali, di quando, finita la storia, ci saranno « nuovi cieli e nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia » ( 2 Pt 3,15 ).

Una situazione dunque finale di vita piena, di felicità perfetta e definitiva, di Paradiso.

Ma « il regno di Dio è ( anche ) vicino », ha detto Gesù ( Mc 1,15 ); ed è questa la buona notizia, il Vangelo, dato soprattutto ai poveri ( Lc 4,18 ).

È vicino, non nel senso che manca poco tempo all'avvento finale del regno, ma nel senso che il regno è alla portata dell'uomo.

Se l'uomo si converte ai valori, alle logiche, alla vita di Dio manifestata in Cristo; cioè se fa, come Cristo, la volontà del Padre, il regno dei cieli, per dono dello stesso Dio, per Grazia, ha un suo inizio, una sua realtà anche qui su questa terra.

È possibile, è alla portata dell'uomo che si converte, instaurare, già qui nel tempo, relazioni tra Padre Celeste e figli e tra fratelli, relazioni simili a quelle che ci saranno in cielo, cioè nella fase definitiva del regno.

Relazioni di solidarietà, amore, pace, comunione nell'uguaglianza dei diversi, nel rispetto delle diversità, così come Cristo ci ha mostrato in se stesso.

« Il regno di Dio - egli ha detto - è già in mezzo a voi » ( Lc 11,20 ); ma bisogna costantemente chiedere che, facendo la sua volontà, il regno venga, come diciamo nel Padre nostro: « venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra » ( Mt 6,10 ).

Ebbene, con questa seconda previa distinzione, è possibile capire più in profondità il significato delle beatitudini.

Per i deboli e per i forti due diversi motivi per essere « beati »

La prima categoria, quella dei poveri in quanto carenti, in quanto vittime di ingiustizia, ecc., è beata perché, già nella sua fase terrena, il regno è loro, cioè, è per loro.

Se viene il regno dei cieli, cioè se facendo la volontà del Padre anche in terra, si instaurano le logiche di vita del cielo ( di Dio ); se così succede, i poveri, gli afflitti, non saranno più tali, non saranno più gli ultimi, gli abbandonati, i dimenticati, i nascosti, ma diventeranno oggetto di attenzione, cura, amore, come in una famiglia dove l'attenzione di tutti si concentra sul più piccolo o il più sofferente.

Se già in terra viene il Regno di Dio, è come si passasse dalle logiche delle gare olimpiche ( « viva i campioni » ), a quelle della scalata ( « attenti ai più deboli », perché anche loro devono arrivare ).

Per questo i poveri, i carenti sono beati.

Nei confronti del regno definitivo, della vita eterna, invece, anche i poveri, gli afflitti, come tutti, devono amare per accedervi, e non soltanto essere amati; amare così come possono, come sono capaci, e per quel poco o tanto che possono; devono cioè tentare di passare nella seconda categoria di beati; quella dei misericordiosi; di coloro che per amore ai più miseri sono disposti ad accettare, come Cristo, fatiche e persecuzioni.

Di costoro è pure il regno di Dio, ma nel senso che il loro faticare e soffrire non sarà vano.

Anche se qui sulla terra non vedranno niente cambiare; anche se i loro sforzi sembrano inutili, e inoltre essi stessi sono derisi e calunniati, « Rallegratevi ed esultate - dice il Signore - perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » ( Mt 5,12 ).

Quei frutti di bene, cioè, di poveri meno poveri, di afflitti meno afflitti, di handicappati meno handicappati, che speravamo, e che forse non siamo riusciti a vedere e gustare qui nel tempo; quei frutti, li gusteremo certamente nell'eternità, nel banchetto celeste; prefigurato, qui in terra, dal banchetto eucaristico, dove sani e malati, belli e brutti, forti e deboli, intelligenti e ritardati mentali, tutti possono accedere; e guai a impedirglielo.

« Non glielo impedite - gridò indignato Gesù agli apostoli - lasciate che i piccoli vengano a me, perché di essi è il regno di Dio » ( Mc 10,14 ).

A 2000 anni dalla nascita di Cristo, e dopo tanti sforzi di evangelizzazione da parte della Chiesa, si dovrebbe vedere che i poveri sono « beati »; sono cioè al centro dell'attenzione, e di conseguenza, meno poveri, meno emarginati.

E invece, ciò che si vede, è una crescente emarginazione di interi popoli ed aree geografiche come l'Africa o parte dell'America Latina.

Perché? Dove abbiamo fallito come cristiani e che fare perché davvero « venga il suo regno »?

Il Regno viene quando si fa la volontà del Padre « come in cielo e così in terra ».

In cielo tutti stanno bene, sono felici, questa è la volontà del Padre; perché non è così anche in terra?

Perché tanta emarginazione? Dove abbiamo tradito la sua volontà e cosa fare oggi per compierla?

A queste domande cercheremo di rispondere nella parte che segue.

Dentro il conflitto « ricchi e poveri »: una revisione di vita

Vedere

Volendo rispondere alle domande con cui sopra abbiamo concluso, mi sembra necessario partire da una constatazione: la nostra società, e noi tutti, siamo figli della « mano invisibile »; ci siamo, cioè, rapportati ed organizzati sull'ipotesi di Adam Smith, della « mano invisibile ».

Come cristiani non siamo stati abbastanza profetici da contestare nei fatti tale ipotesi, ma piuttosto l'abbiamo avallata con una specie di miracolismo irresponsabile, che si può tradurre in questa formula: « Ognuno per sé e Dio per tutti ».

Ma vediamo, prima, l'ipotesi della « mano invisibile » così come fu formulata nel XVIII secolo.

- La falsa ipotesi della « mano invisibile »

Adam Smith ( n. 1723, m. 1790, Scozia ), il filosofo, economista scozzese, considerato il padre del nostro liberalismo economico ( nel senso che ha sistematizzato il pensiero economico del suo tempo e dei secoli precedenti ), insegnava che l'egoismo è la fonte del bene comune e del progresso sociale, e che non c'è altro da fare che assecondarlo.

Ecco un passo del suo libro più famoso, La ricchezza delle Nazioni: « Nessuno in genere si propone per principio di promuovere il bene pubblico, e nemmeno sa come incrementarlo se non ha tale proposito … mira soltanto alla propria sicurezza … pensa solo al suo guadagno, ma in realtà, in questo come in altri casi, è guidato da una mano invisibile a promuovere un fine che non faceva parte delle sue intenzioni.

E non è detto che sia peggio per la società il fatto che non facesse parte delle sue intenzioni.

Nel perseguire il suo interesse promuove spesso quello della società in modo più efficace di quando intenda promuoverlo espressamente …

L'uomo di Stato che cercasse di dirìgere i privati indicando loro in quale modo devono impiegare i propri capitali, non solo si caricherebbe del peso di una funzione del tutto inutile, ma si assumerebbe un'autorità che non si può affidare … neppure ad un consiglio o ad un senato … » ( op. cit., Libro IV, Cap. n, Sez. I ).

Dal libero gioco degli interessi privati, quindi, il bene di tutti.

Da notare che quando A. Smith scriveva queste cose ( cioè prima del 1776, anno in cui il libro, La ricchezza delle nazioni, veniva pubblicato ), in America del Nord una grande massa di schiavi negri ( comprati sulle coste africane ) lavorava nelle miniere e nelle piantagioni della grande colonia inglese; le truppe inglesi conquistavano Cuba, e in Asia, mettevano le basi del grande impero britannico consolidandone la presenza nell'India.

In concreto, appellandosi alla « mano invisibile », si era così sancito il diritto di una parte di umanità ( quella forte ) a fare tranquillamente i propri interessi; e il dovere dell'altra a portarne le conseguenze, pena l'intervento della « mano visibile »: le forze armate europee « liberatrici » delle « leggi di mercato » da ogni intoppo che osasse ostacolarne la « sacra » vigenza.

Con la crisi del Golfo Persico, il problema del petrolio e la relativa smania di fare guerra, risulta chiaro che siamo ancora completamente dentro a queste logiche smithiane.

I nuovi modelli di difesa europei sono studiati infatti non più per difendere i sacri confini della patria, ma per « assicurare la tutela degli interessi vitali », cioè « delle fonti energetiche, delle linee di rifornimento … ecc. ».

Assicurarne la tutela logicamente, non in casa del Giappone o degli USA, ma in casa dei poveri e dei deboli ( le citazioni sono prese da un documento del Ministero della Difesa italiano, del 31 ottobre 1990, p. 22 ).

In queste logiche ci siamo cascati anche noi, cristiani; non le abbiamo contestate con decisione; qualcosa si è fatto nei documenti, nella dottrina, ma non nei fatti, nelle scelte economiche e politiche dei cristiani.

La storia ci ha mostrato che se ognuno persegue soltanto i propri interessi privati, a costo anche di danneggiare gli altri, e non pensa al bene comune, non ci sarà né pace, né vita per l'umanità; si vivrà sempre più in un clima di guerra, nonostante tutte le distensioni Est-Ovest.

Un'economia vissuta come conflitto, non può portare che al conflitto.

Su di una rivista, in una pubblicità a tutta pagina, c'era l'immagine di uno sbarco di marines armati fino ai denti e minacciosi nello sguardo.

Sopra, in inglese, c'era scritto: « Rendi le tue vendite aggressive ».

E sotto, in italiano: « Marketing è una guerra. Una guerra tra aziende concorrenti.

E ogni azienda dispone di un proprio esercito per combatterla …

Per vincere la guerra occorre possedere un esercito potente, preparato, aggressivo … incentivato … » ( L'Espresso, 28.01.90, p. 27 ).

Da un'economia vissuta in questo spirito di guerra, alla guerra nel Golfo, il passo non è stato breve, ma obbligato.

Come abbiamo potuto, noi cristiani, fare la « comunione » in chiesa, all'altare, e poi entrare nella vita, nel lavoro, nel commercio, nella politica con questo spirito di lotta, di conflitto, di guerra, di egoismo?

Come possiamo sperare che Dio agisca in noi per costruire un mondo di pace, quando la pace ce la diamo soltanto in chiesa e fuori chiesa prepariamo la guerra?

L'inefficacia storica del cristianesimo a cambiare il mondo, non nei primi secoli ( che allora l'ha cambiato ) ma negli ultimi secoli, è certamente legata a questa ideologia che abbiamo inconsciamente sposato, a queste incoerenze e fratture madornali tra fede e vita, tra culto ed economia, catechesi e politica; fratture ed incoerenze che abbiamo finito per tollerare anche dentro il partito che del cristianesimo portava simbolo e nome.

Noi, accogliendo tranquillamente le tesi razziste di Adam Smith, e operando in coerenza ad esse, ci siamo, per così dire, autoscomunicati; ci siamo cioè messi fuori da una comunione operativa con Dio che poteva darci la capacità di trasformare il mondo in dirEzione del suo regno; che è « regno di giustizia, di amore e di pace » ( dal Prefazio di Cristo Re ).

Dopo questa constatazione previa, vediamo più in generale il comportamento dei cristiani dentro l'antico conflitto ricchi-poveri.

La carità verso i poveri

Sempre, nella Chiesa, si è fatto attenzione ai poveri.

A testimoniarlo stanno tutte le istituzioni, congregazioni, associazioni e opere che, fin dai primi secoli, ad oggi, sono sorte in seno alle Chiese per esercitare o promuovere un servizio ai poveri.

Nominiamo soltanto le più note, dei nostri tempi:

- Le opere missionarie, con asili, scuole, ospedali, laboratori ecc., per i più diseredati; opere sostenute dalla carità dei cristiani, canalizzata attraverso le PPOOMM, i vari istituti missionari, i CMD, o i singoli missionari; è difficile fare un calcolo, ma sono centinaia e forse migliaia di miliardi che confluiscono verso i più bisognosi del Terzo Mondo.

- Le Caritas, le Conferenze di San Vincenzo, alcune opere parrocchiali o di istituti religiosi sul nostro territorio ( es. Camilliani, ecc. ), gli organismi di volontariato di ispirazione cristiana e tante altre iniziative che ognuno può ricordare.

Nonostante questo mastodontico impegno caritativo, rimangono tre grossi problemi: due all'interno della Chiesa e uno nel mondo.

Nella Chiesa

a) I poveri sono poco presenti nella pastorale attiva, sono più oggetto di attenzioni che soggetti di pastorale; a volte non sono nemmeno oggetto di pastorale, cioè, certe categorie più emarginate ( baraccati, terzomondiali, immigrati, disoccupati, ecc. ), o vengono loro alle nostre chiese e istituzioni, o rimangono privi di attenzione, perché difficilmente si va tra loro ( v. lettere di p. Zanotelli da Nairobi ).

b) Nella pastorale ordinaria, la carità appare spesso come cosa secondaria; catechesi, culto e sacramenti costituiscono la sostanza della pastorale, la carità si delega alle istituzioni specializzate di cui sopra, e ad esse ci si collega con giornate particolari annuali, mensili o saltuarie.

Nel Mondo

La carità dei « cristiani » ( che fino al 1500 coincidevano con gli « europei » ) non ha impedito, nel corso degli ultimi secoli, l'insorgere di gravissimi problemi, e di ingiustizie planetarie che ancora esistono e si aggravano, rischiando di condurre l'umanità alla catastrofe ( Sollicitudo reisocialis nn. 24, 26, 47 ).

Accenniamone alcune:

il colonialismo con l'annessa schiavitù necessaria per far arrivare i prodotti d'oltremare sui nostri mercati a prezzi concorrenziali con quelli europei ( finita legalmente nel 1888 );

le guerre mondiali;

le corse agli armamenti ( fino all'attuale accumulo di potenziale esplosivo corrispondente a 3.000 kg. di tritolo per ogni abitante della terra );

l'indebitamento dei paesi poveri che convoglia capitali dai poveri ai ricchi;

il degrado ambientale giunto a livelli tali che ( secondo il rapporto sullo « Stato del mondo » 1989, del « Worldwatch Institute » di Washington ), per salvare il pianeta in pericolo, l'umanità ha solo dieci anni di tempo, poi sarà troppo tardi ( L'Osservatore Romano, 12.02.1989 );

il degrado e l'inquinamento socio-culturale che, mediante l'invadenza e l'egemonia dei potentati economici, politici e militari, distrugge antiche culture e ancestrali equilibri interiori, togliendo senso alla vita e sospingendo verso l'evasione dell'alcolismo e le droghe.

Un dato basta a definire l'assurdità dell'attuale situazione: ogni minuto primo muoiono nel mondo 25 bambini per denutrizione o mancanza di medicine di poco costo ( UNICEF ), mentre nello stesso minuto si spendono nel mondo 2 miliardi di lire per armamenti e apparati militari.

Diverse valutazioni

Di fronte a questa situazione ( che in parte ha avuto origine dentro l'area cristiana ) si danno, nella Chiesa, due tipi di valutazioni.

Una propende a scaricare ogni responsabilità dei mali su chi sta fuori o si è allontanato dalla Chiesa ( il sottosviluppo è frutto di culture non cristiane; la schiavitù, le guerre, la corsa agli armamenti sono conseguenze del progressivo distacco di popoli e culture dalla Chiesa, ecc. ).

Secondo questa ipotesi, per così dire, svuotandosi le Chiese si riempiono gli arsenali e si degrada la qualità della vita; per cui, basterebbe tornare a riempire le Chiese che « la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato » sarebbero assicurate.

L'altra analizza, invece, le responsabilità dei cristiani e delle istituzioni ecclesiali e cerca, nella pastorale e nella teologia, le lacune e le deformazioni che hanno consentito il proliferare di tanti mali anche ( e a volte in particolar modo ) in area cristiana.

In questa direzione andrebbe la Teologia della Liberazione ( TdL ) dell'America Latina, che insiste su un forte impegno del cristiano nel sociale e sulla scelta preferenziale dei poveri.

Giudicare la Storia alla luce della Parola

Alla luce della Parola di Dio, della Tradizione e del Magistero cerchiamo ora di formulare un giudizio su quanto esposto sopra, in vista di un agire più conforme alle istanze evangeliche.

Già nella prima parte del presente capitolo, parlando di « Beatitudini », abbiamo visto ciò che il Vangelo propone in rapporto al conflitto ricchi-poveri.

Ora tentiamo di ampliare il discorso.

- Sacra Scrittura e Tradizione

Sia l'Antico che il Nuovo Testamento fanno, del rapporto con i poveri, la misura del nostro rapporto con Dio e il banco di prova della pietà e religiosità ( AT: Is 1,10-20; Is 58,5-12; NT: i passi sono innumerevoli, basti uno per tutti, Mt 25,31-46 ).

Il rapporto con i poveri, proposto dalla Parola di Dio, non è di semplice assistenzialismo, ma di uguaglianza.

Giungere, cioè, alla comunione profonda con i poveri, in modo che non siano più riconoscibili come tali e non siano più oggetto di particolari attenzioni, ma siano, possibilmente, come gli altri, capaci di ruoli attivi, sia apostolici che sociali.

Come un grido di trionfo, Luca dice che nella comunità di Gerusalemme « nessuno era bisognoso », perché i beni erano in comune ( At 4,32-35 ).

Paolo dice che, a Corinto, erano proprio i poveri a costituire la comunità cristiana ( 1 Cor 1,26-30 ) e a testimoniare il Vangelo.

Anche la non violenza è un ideale per i primi cristiani; si veda Mt 5,38-48; Rm 12,17-21; 1 Pt 2,19-25; 1 Pt 3,8-17.

Ma gli ideali e i valori del Regno, per essere vissuti non solo individualmente, ma socialmente, hanno bisogno di mediazioni storielle, perché non tutti nella società sono santi e ugualmente motivati e si possono creare inconvenienti.

Nelle prime comunità cristiane, ugualitarie e non violente, c'è subito chi se ne approfitta e vive sulle spalle degli altri.

Paolo deve intervenire dando la norma: « chi non vuoi lavorare, non deve neanche mangiare … » ( 2 Ts 3,6-15 ).

Rimane, comunque, la tensione verso il valore dell'uguaglianza e della non violenza.

Sulla non violenza, si vedano i passi delle lettere di Paolo e Pietro citati sopra, e sull'uguaglianza, come valore verso cui tendere, si veda 2 Cor 8,1-15.

Il NT ci avverte che in queste tensioni non solo i singoli cristiani possono mancare, ma anche le comunità, cioè le istituzioni ecclesiali.

Si veda Gc 2,1-17 e Ap 3,14-22.

- L'offuscarsi dei valori

Storicamente, dobbiamo riconoscerlo, siamo arrivati non solo a diminuire le tensioni verso i valori del Regno, ma addirittura a consacrare le violenze come azioni che glorificano Dio, e la disuguaglianza prodotta dalla ricchezza come segno della benedizione di Dio; tollerando, in pratica, il ritorno di schiavitù di proporzioni faraoniche.

San Bernardo, predicando le crociate, diceva: « Il soldato di Cristo … giova … a Cristo se uccide … In occasione della morte di un pagano, il cristiano si gloria in quanto Cristo viene glorificato … » ( Servitium n. 58, 1988,p.39 ).

Il colonialismo è stato difeso anche dai cattolici fino a qualche decennio fa.

Non si è contestata la nascita di nuovi imperi; san Giovanni ( Ap 18,1-24 ) cantava, invece, come un trionfo del Cielo, la caduta di Babilonia, cioè dell'imperialismo di Roma.

La rivista cattolica francese L'Ami du Clergé, ad esempio, negli anni '30, difendeva il diritto della Francia a sottomettere con la forza le popolazioni marocchine e occuparne il territorio, con questi ragionamenti: « Il nostro suolo non produce più a sufficienza e il nostro commercio ha bisogno di sbocchi.

Ora noi troviamo in Marocco la fertilità del suolo e gli sbocchi commerciali; noi ci andiamo, e se, dopo proposte amichevoli, i 'riffani' ci serrano in faccia le porte, noi le sfondiamo, come il povero affamato sfonda la vetrina del fornaio, per pigliare il pane quotidiano necessario al nutrimento » ( da La Civiltà Cattolica, vol. I, 1936, p. 394 ).

Quando l'Italia invadeva l'Abissinia, La Civiltà Cattolica scriveva: « … la necessità vitale può legittimare l'occupazione di una parte del territorio coloniale per sovvenire ai bisogni della vita individuale … ».

Forse, i cristiani, preoccupati dei buoni rapporti con il potere economico e politico per mantenere la possibilità di predicare il Vangelo ( si veda 1 Tm 2,1-4 ), hanno trascurato l'incarnazione dei valori evangelici ( in particolare, della scelta preferenziale dei poveri ) nella cultura, nell'economia e nella politica internazionale.

Oppure hanno creduto talmente alla « mano invisibile » ( che fa il bene di tutti mentre ognuno persegue i propri interessi privati ) da dimenticare le istanze evangeliche.

Quella infondata spiritualità miracolista della « mano invisibile » contrasta infatti con una autentica spiritualità pasquale ed eucaristica.

Proviamo a pensarci.

Laicità e globalità nella morte di Cristo

L'Eucaristia ci costringe ad una spiritualità veramente laica ( non laicista ); ci costringe, cioè, a una comprensione della storia che esclude scappatoie miracolistiche.

« Fate questo in mia memoria ».

Fare memoria della morte di Cristo, il Figlio di Dio, vuol dire ricordare la radicale serietà e laicità della nostra storia umana e la conseguente responsabilità che ognuno deve assumere.

Se noi, con il nostro egoismo, con il nostro pensare soltanto al nostro bene senza preoccuparci di quello degli altri, seminiamo morte nel mondo, non c'è nessuna « mano invisibile » e nessun intervento miracoloso di Dio che ci salvi dalle conseguenze.

Nemmeno quando l'egoismo umano provoca la morte del Figlio di Dio, Dio interviene miracolosamente.

« Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce e ti crederemo » ( Mt 27,40 ).

Ma non scende; non scende per sfatare ogni ipotesi di « mano invisibile ».

Dio non è disposto ad intervenire miracolosamente per riparare le conseguenze del nostro egoismo irresponsabile.

« Non tentare il Signore Dio tuo! » ( Mt 4,7 ).

È disposto invece a darci un « cuore nuovo »; e proprio per questo Cristo non retrocede di fronte alla morte; perché spera che anche il peccatore, il nemico, davanti a quella morte, si converta e viva.

« Questo è il calice del mio sangue … versato per voi e per tutti in remissione dei peccati … » ( dalla Messa ).

La morte e resurrezione di Cristo è, dunque, la conferma che si può risorgere dall'egoismo, si può essere uomini nuovi, che pensano al bene grande, al bene « di tutto l'uomo e di tutti gli uomini » ( PP 14 ) anche nelle piccole scelte del quotidiano.

Si può « pensare globale e agire locale »; la « Comunione » è la conferma che in questo, sì, che Dio ci aiuta, ci da la sua vita, la sua forza, il suo Spirito; basta crederci e cominciare: « Chi mangia la mia carne … ha la vita eterna » ( Gv 6,54 ).

I miracoli del Vangelo non sono quindi una prova dell'agire saltuario e miracolistico di Dio nella storia, ma il segno della direzione in cui Dio costantemente agisce attraverso il nostro impegno storico.

Se io, se noi, come Cristo, cerchiamo la gioia della famiglia ( Gv 2,1ss ), la salute dei fratelli ( Gv 4,46ss ), la loro liberazione dalla fame, dal peccato, dall'egoismo ( Gv 6,1-70 ), dall'oscurità e dall'emarginazione ( Gv 9,1ss ), sfiducia ( Gv 21,1ss ); se noi cerchiamo tutto questo, sappiamo di non essere soli, siamo in « comunione » con Dio, lo Spirito di Dio agisce in noi e potenzia la nostra azione, il nostro faticare nella storia non sarà inutile; Cristo non è rimasto nel sepolcro, ma è risorto, e tornerà per dare completezza e perfezione al regno di Dio che già viene nella storia mediante l'impegno di uomini e donne di buona volontà, sostenuti dalla grazia di Dio.

Le conferme del Magistero

Il Concilio Vaticano II, soprattutto con la Gaudium et spes, riporta l'attenzione sulla politica e l'economia e pone le basi per un ritorno a posizioni più profetiche e meno compromesse con i poteri mondani; da segnalare le encicliche di Giovanni XXIII che precedono o accompagnano il Concilio: Mater et Magistra e Pacem in terris.

Ma è la Populorum progressio ( 1967 ), di Paolo VI, che introduce una analisi strutturale delle situazioni di povertà, e anticipa l'idea di un nuovo ordine economico ( e politico ) internazionale ( NOEI ) ( nn. dal 56 al 61 ); idea ripresa da Octogesima adveniens ( 1971 ) al n. 43, e da SRS, pure al n. 43.

Queste novità danno origine, in America Latina, ai documenti di Medellin ( 1968 ) e Puebla ( 1979 ), dove chiaramente ( usando le stesse parole di Giovanni Paolo II ) si parla di « Meccanismi che … a livello internazionale, producono ricchi sempre più ricchi a spese di poveri sempre più poveri » ( Puebla n. 30 e 1264 ).

Meccanismi che, logicamente, vanno cambiati, con politiche ed economie diverse dalle attuali.

Avendo, però, dei costi per i paesi più ricchi, i cambiamenti strutturali necessari devono trovare nella base popolare una disponibilità a cambiare nella propria vita quel che c'è da cambiare: consumi, stili di vita, uso dei beni, ecc. ( Populorum progressio nn. 47 e 84 ); convinti, però, che questo è il prezzo non solo del benessere altrui, ma anche della propria pace ( Populorum progressio nn. 49 e 87 ).

La Sollicitudo rei socialis ripropone con forza queste tematiche e le interseca con il problema ambientale, sviluppando l'idea di « interdipendenza » ( SRS nn. 9 e 34 ).

Per la prima volta appare l'espressione, « strutture di peccato », propria della Teologia della Liberazione, cioè, meccanismi, organizzazioni economiche e politiche che minacciano di morte l'umanità; prima fra esse, la divisione in blocchi contrapposti ( SRS n. 36 ).

Alla radice di tutto, la « brama esclusiva del profitto » e la « sete del potere » ( n. 37 ); di conseguenza, la necessità di profondi cambiamenti personali e comunitari con proiezione sul sociale e sul politico.

Nella conclusione, al n. 47, la SRS propone, « a tutti », un cammino di cambiamento personale, familiare e sociale, e « misure ispirate alla solidarietà e all'amore preferenziale per i poveri »; misure che, allo stesso tempo, rappresentano un intervento in favore della « salvaguardia del creato »; perché appare sempre più evidente che gli interessi degli « ultimi » coincidono, ormai, con quelli di tutta l'umanità, e che « giustizia, pace, salvaguardia del creato » sono tre valori profondamente collegati e mete raggiungibili per uno stesso cammino di cambiamento.

E il cammino dei « nuovi stili di vita » e dei « nuovi modelli di sviluppo » che i paesi più industrializzati devono ormai intraprendere.

In questo senso è molto chiaro l'appello dell'enciclica Centesimus annus ( 1991 ).

Al n. 52 si legge: « … il povero - individuo o Nazione - ( per migliorare la propria condizione mediante il lavoro ) ha bisogno che gli siano offerte condizioni realisticamente accessibili.

Creare tali occasioni è il compito di una concertazione mondiale per lo sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano.

Ciò può comportare importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane, permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di averne in misura sufficiente … » ( n. 52; si vedano anche i nn. 36-38 ).

Questa « concertazione mondiale per lo sviluppo », di cui parla la Centesimus annus, non è una pura ipotesi, o peggio, una lontana utopia, ma è qualcosa che, a livello di Nazioni Unite, si tenta già di fare.

Nel 1992 c'è stato il « Vertice di Rio » su « sviluppo e ambiente »; nel marzo del 1995 ci sarà il « Vertice di Copenaghen » sullo « sviluppo sociale ».

L'intento di questi vertici è proprio « una concertazione mondiale » per il bene di tutti, generazioni future incluse; ma i risultati sono assai deludenti perché, come dice la Centesimus annus, ciò « implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano »; e nessun Governo se la sente di affrontare le reazioni negative di una base che, illusa dai mass-media, tende a stare economicamente sempre meglio, e non vede perché dovrebbe cambiare in direzione di austerità i propri « stili di vita consolidati » all'insegna del consumismo e dello spreco.

Per avere consensi e governare, oggi, bisogna illudere la gente che potrà stare ancora meglio di quel che sta e consumare di più.

Le ultime elezioni e i sondaggi di opinione, non solo in Italia, confermano proprio questo fenomeno e questa irresponsabile tendenza.

Agire - Nuovi stili di vita

Essere operatori di pace dentro l'antico, e sempre nuovo, conflitto ricchi-poveri, oggi significa andare decisamente contro corrente, cioè contro l'opinione corrente ( maggioritaria ) della possibilità di un consumismo senza freni; e in concreto, significa affrontare l'avventura della testimonianza di nuovi stili di vita.

È questo il messaggio lanciato dal « Comitato Ecclesiale per la Campagna contro la fame nel mondo » ( formato da Caritas Italiana, Istituti missionari, Centri Missionari, ecc. ).

Riporto qualche stralcio dell'« Appello di Pentecoste 1994: Per la vita di tutti cambiarne la nostra ».

Dall'« Appello di Pentecoste »

« Ciò che appare sempre più urgente e indispensabile è un grande salto di qualità nei comportamenti di base.

Una rivoluzione culturale, una istanza etica nelle scelte economiche iniziali, nelle domande di base.

Un approccio nuovo al lavoro, al mercato, al risparmio, al voto.

In questi ambiti non è più possibile un approccio individualista, una ricerca del proprio interesse privato, e basta; sarebbe il contrario del Vangelo e delle logiche della vera Vita che è comunione.

Così facendo, non si fa più l'interesse di nessuno, nemmeno dei propri figli, che saranno travolti da grandi squilibri mondiali.

È necessaria una cultura della mondialità, una ricerca costante, in tutte le scelte di base, del bene comune, del bene di tutto e di tutti; e, per semplificare, del bene degli ultimi e dei più deboli.

Ci conforta scoprire che ormai, tutto questo non è soltanto parola, discorsi, principi; ma anche timido inizio di un cammino concreto, vissuto, esperienze ed iniziative già in atto.

Diamo, qui, soltanto i nomi di alcune di esse.

Sono iniziative socio-economiche e politiche già avviate, di cui è indispensabile prendere atto ed interessarci: 'Imprese no-profit'; 'Commercio Equo e Solidale'; risparmio etico mediante 'Mutue per l'Autogestione' ( MAG ); 'Operazione Bilanci di Giustizia'; 'Controllo sul Mandato Elettorale' con operazioni tipo 'Democrazia è Partecipazione'; Obiezioni di coscienza; Volontariato e Boicottaggio ( non acquisto ) di prodotti iniqui.

Certamente sono gocce in un oceano, piccoli semi che si sta gettando; ma dice il Vangelo: 'Se aveste tanta fede quanto un granello di senape, potreste dire a questa pianta: - Sradicati e trapiantati in mare - ed essa vi obbedirebbe' ( Lc 17,6 ).

Fede, fiducia, che non siamo soli in questo impegno per il bene comune; lo Spirito Santo, Spirito di Vita e di Comunione, ci sostiene.

Se rischiamo qualcosa, per il bene comune, disposti anche a perderci, faremo l'esperienza della Sua forza, del Suo sostegno, come già accadde nella prima Pentecoste, a Gerusalemme ( At 2,1-13 ).

( … ) In ambito ecclesiale, proponiamo una pastorale dell'austerità.

Qualche parrocchia più sensibile e 2, 3 diocesi, in Italia, potrebbero studiare, inventare e dare inizio alla sperimentazione di una pastorale promotrice di stili di vita più austeri.

Ciò che oggi manca è proprio l'esperienza, il vissuto proponibile ».

« Operazione Bilanci di Giustizia »

BCP, con l'« 0perazione Bilanci di Giustizia » ( segnalata sopra nell'Appello ) si propone proprio l'offerta di un « vissuto proponibile », cioè la testimonianza di famiglie che nel concreto della loro vita quotidiana si sforzano di mettere il bilancio familiare ( compere, consumi, risparmi, ecc. ) in sintonia con il « bene grande » di tutta l'umanità.

Quello del BCP non è soltanto un appello, una proposta, un libretto, ma è una organizzazione messa in piedi proprio per offrire esperienze e testimonianze che si può cambiare ed è bello.

Ci sono ormai un centinaio di famiglie che si cimentano quotidianamente in questa « Operazione »; ci sono gruppi sparsi un po' in tutta Italia che studiano le possibilità concrete di cambiamento, e c'è una segreteria nazionale che raccoglie e rilancia le varie esperienze.

Ad essa rimandiamo per ulteriori informazioni ed approfondimenti.

Qui ci basta aver dato il significato e il senso dell'iniziativa.

« Operazione Bilanci di Giustizia », presso MAG Venezia, Via dell'Ongaro 2, 30175 Marghera ( Ve ), tel. 041/5381479.

Dentro la guerra - Ripensando a Sarajevo: profezia e politica

Quando il conflitto è già degenerato in guerra aperta, distruttrice di vite umane, di città e villaggi, per chi vuol vivere la beatitudine relativa agli « operatori di pace », quali possibilità rimangono?

Non c'è più niente da fare, o rimangono ancora strade aperte?

BCP, nei confronti del conflitto bosniaco, hanno tentato qualche cammino.

Riporto di seguito l'esperienza « Sarajevo I », così come l'avevo descritta a distanza di pochi giorni dall'averla vissuta.

La città

Sarajevo: una città assediata, bersagliata, disastrata, ma dove si continua a vivere e resistere.

Una città simbolo, che non si arrende al progetto serbo-croato di spartizione e separazione etnica; perché vuole continuare ad essere, come è sempre stata, una città multinazionale e multirazziale.

Una città dove serbi, croati e musulmani convivono pacificamente; dove ortodossi, cattolici, islamici ed ebrei conservano le loro fedi e tradizioni, e vanno pacificamente ai loro templi dislocati nel centro storico, quasi uno di fronte all'altro.

Una città simbolo che potrebbe prefigurare una futura convivenza europea pacifica e multiculturale.

Ebbene, in questa città ci sono stato anch'io, l'11 e il 12 dicembre '92, come uno dei 500 pacifisti dell'operazione: « Solidarietà di pace a Sarajevo ».

L'idea di andarci

L'idea di andare a Sarajevo, nata nel corso di un digiuno a Longare di Vicenza ( ex base atomica della NATO ), nei giorni dell'anniversario di Hiroshima e Nagasaki ( 6-9 agosto 1992 ), è stata portata avanti con incrollabile tenacia da don Albino Bizzotto, di Padova ( l'ideatore dell'appello « Beati i costruttori di pace », del 1985 ), con la straordinaria collaborazione di persone piovute, per così dire, dal cielo, e di entità di ogni tipo, colore ideologico e confessione: dal settimanale Avvenimenti a « Radio Maria », da ADI-STA al giornale Avvenire e a « Mosaico di Pace » di Pax Christi, dal vecchio pacifista aconfessionale, al giovane scout credente e non violento.

Quasi assenti, invece, i tradizionali partiti, movimenti e associazioni schierati per la pace.

Perplessi perfino alcuni membri della segreteria dei « Beati i costruttori di pace del Triveneto ».

Il motivo di fondo di questo « andare a Sarajevo » lo esprime lo stesso don Albino, su Avvenimenti ( 6.1.93, p. 28 ): « La guerra è conosciuta fin nelle pieghe più profonde da chi la subisce quotidianamente non da chi la fa; per questo abbiamo scelto di esprimere la nostra opposizione ad essa non andando a manifestare sotto le finestre dei signori della guerra, ma partendo dalla identificazione del nostro quotidiano con quello delle persone che la « stanno subendo ».

Una manifestazione di pace, dunque, in zona di guerra.

Ci avevano detto ( Corriere della Sera ): Per la guerra nel Golfo, tante manifestazioni; e ora cosa fate per una guerra alle porte di casa nostra?

Dove sono i pacifisti? La risposta era semplice: nel Golfo c'eravamo anche noi, italiani, a far la guerra, accanto agli USA, per il petrolio.

Aveva una logica manifestare sulle piazze d'Italia, ma ora che senso avrebbe?

Se qualcosa ha senso fare, è là, dove la guerra si gestisce e si subisce, appunto, a Sarajevo.

E a Sarajevo siamo arrivati; e ci aspettavano.

Rappresentanti delle varie religioni, autorità civili, responsabili del Centro Internazionale della Pace di Sarajevo e semplici cittadini, ci aspettavano.

Speravano che potessimo arrivare, e non lo credevano impossibile.

Tutti gli altri, invece, sì che lo ritenevano impossibile, e ci scoraggiavano ad andare: governi italiano, croato, serbo, ONU, ecc.

Ma proprio qui stava il significato dell'impresa: tentar di dimostrare che « l'impossibile » è un po' più in là di quel che politicamente si pensa.

« Calate le vostre reti per la pesca! ». Gridò Gesù dalla riva.

« Abbiamo faticato tutta la notte senza prendere niente ». Risposero i discepoli.

« Ma sulla tua parola … »; e gettarono le reti; e le reti si riempirono di pesci ( Lc 5,1-8 ).

L'esperienza fatta

Riaccendere una speranza, ecco il significato di questa iniziativa di pace.

Riaccendere, come fa un fiammifero, che rischiara un istante e poi si spegne, ma lascia, dietro il suo fumigare, fiammelle accese che possono rischiarare insospettabili cammini da percorrere.

I miracoli nel Vangelo hanno questo significato, indicano una direzione verso cui marciare sperimentando la forza dello Spirito.

E noi siamo tornati da Sarajevo con la percezione di aver vissuto qualcosa di straordinario, che aveva del miracoloso, frutto, più che del nostro impegno, delle tante preghiere di singoli, comunità, monasteri che ci avevano accompagnato.

Tornando, mi venivano alle labbra le parole del salmo 126: « Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare.

Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.

Veramente grandi cose ha fatto il Signore per noi … ».

E pensandoci, anche a distanza di giorni, non posso che riaffermarlo: un mare in tempesta forza 8, una nave che faceva acqua, e poi 500 persone su 10 pullman in zona di guerra, senza protezione dell'ONU, passando dall'uno all'altro fronte dove si incrociano gli spari tra nemici …; e tornare tutti 500, senza il minimo incidente, nemmeno una caviglia slogata, un ritardatario che perda il pullman, come capita in normali gite parrocchiali o scolastiche.

Tutto questo ha veramente del meraviglioso, e appare, all'occhio di fede, come un segno, una indicazione di marcia verso cammini non violenti da percorrere, con coraggio; con più coraggio di ciò che dimostra oggi la grande politica dei potenti.

« L'ONU dei potenti - diceva mons. Tonino Bello, a Sarajevo - si ferma alle porte, quando scende il tramonto.

Noi, ONU dei popoli, ONU dei poveri, siamo entrati di notte a Sarajevo ».

Tra gli applausi della platea immersa nel buio di un teatro rischiarato appena da deboli candeline, mons. Tonino, vescovo di Molfetta, presidente di Pax Christi italiana, uscito da pochi giorni dall'ospedale ( chemioterapia ), esprimeva così tutta la carica profetica di quell'assemblea: un migliaio, circa, di persone, tra italiani ( più di 450 ), spagnoli, inglesi e bosniaci di Sarajevo; con di fronte, sul palcoscenico, tutti i capi religiosi e le autorità civili della città assediata, e i nostri due vescovi ( Bello e Bettazzi, vescovo di Ivrea ).

Era il momento culminante di una operazione ritenuta da tutti i responsabili della politica non solo rischiosa, impossibile, ma anche controproducente, pericolosa per gli attuali « equilibri » bellici.

E invece eravamo lì, come un segno che l'« impossibile » è un po' più in là di quel che si pensava.

Un segno che anche per affermare e tentare la pace per vie non violente, vale la pena rischiare.

In lontananza qualche scoppio di granata; ma non tale da spaventare.

Ci eravamo fidati, in fondo, anche dei serbi; di coloro, cioè, che assediano e sparano su Sarajevo, ma che alla fine ( due giorni di attesa ) ci avevano consentito di attraversare il territorio da loro controllato ed entrare nella città assediata.

Un rischio, ma non una follia, perché anche i serbi rimangono uomini.

Per risolvere i problemi con la forza delle armi e con le guerre, quanto hanno rischiato e pagato i popoli, in tutti i tempi e tutti i luoghi!

Quanti scoppi sulle teste e sulla pelle della gente!

E per risolvere i problemi pacificamente, con il dialogo, per vie non violente, che non si possa rischiare un po' di più di quanto stiamo facendo? Che sia proprio impossibile?

Dopo Sarajevo, noi diciamo di no, non è impossibile, è ancora possibile.

Il frutto dell'esperienza

Coniugare la profezia che lo Spirito alimenta nel segreto dei cuori, con la politica e l'economia che concretamente fanno la storia e il futuro dei popoli, ecco il frutto futuro di questa impresa.

Frutto, all'inizio, più intuito che ragionato; più sperato nell'inconscio, che programmato nell'azione; ma che ora ci appare come il significato più prezioso della nostra avventura.

Frutto ancora acerbo, da far maturare con altrettanta tenacia di quella dimostrata dal nostro leader, don Albino Bizzotto, e altrettanta fiducia di quella dimostrata dai due vescovi: Bettazzi, il Patriarca, e Bello, il Profeta, della pace, come qualcuno li aveva definiti.

Se ce ne fossero tanti di questi vescovi, come sarebbe più facile la « nuova evangelizzazione »!

Ma quando parlo di profezia e politica cosa intendo? Mi spiego subito.

Profezia e politica

Per profezia intendo l'affermazione, la testimonianza personale dei valori in cui si crede: credo nella pace, nella fecondità della non violenza, nella solidarietà tra i popoli, e sono disposto anche a rischiare la mia vita ( non quella degli altri ) per testimoniare a me stesso e agli altri che tutto questo è un valore, una meta da raggiungere, verso cui camminare; non mi importa se i costi, i rischi, non valgono la candela, mi basta testimoniare, indicare la meta.

Nel momento profetico non si calcola, non si confrontano i costi con i risultati, ma soltanto i valori in cui si crede, con se stessi, con la propria vita.

La politica, invece, è l'arte del bene comune, l'arte del possibile.

Qui non si gioca più in proprio, si assume la responsabilità della famiglia, del gruppo della società, del mondo.

E allora non posso far correre agli altri i rischi della profezia.

Qui bisogna fare calcoli e vedere se i costi, i rischi valgono i risultati; qui bisogna valutare passo dopo passo, come si fa in una cordata sul ghiaccio; non basta andare in direzione della meta, bisogna evitare i passi falsi, il ponte di neve che copre il crepaccio, per non cadere dentro.

Qui si fa quel che si può, a volte il male minore, a volte si torna indietro, per poi riprendere.

Ma detto questo bisogna subito aggiungere che se la politica perde di vista la profezia, cioè quella testimonianza di valori e mete che lo Spirito suscita in ogni comunità, nel cuore spesso dei più semplici; se la politica non vi presta attenzione e ascolto, è come se perdesse l'orientamento, la meta, i valori; addio bene comune!

Imperverserà violenza razziale e violenza mafiosa; tangentopoli e massoneria; squallore politico e ingiustizie sociali.

Ed è ciò che purtroppo sta accadendo.

Voi capite allora quanto sia necessaria oggi la profezia!

E se è necessaria, certamente, lo Spirito sta soffiando con potenza nei cuori dei più semplici, perché non manchi questa testimonianza di cui la società e l'umanità intera necessitano come acqua pura di sorgente e aria fresca di montagna.

La sorprendente risposta all'appello per un intervento pacifico a Sarajevo, lanciato da Longare nel corso di un digiuno ( 900 adesioni, 550 effettive ), è stata la conferma che lo Spirito soffia anche oggi, nonostante tutto, e la profezia non manca.

E la realizzazione del progetto ( in 500 a Sarajevo ) è stata la conferma che la profezia si può coniugare con la politica.

I singoli partecipanti, infatti, hanno fornito l'afflato profetico all'operazione Sarajevo; gli organizzatori, adottando il metodo del passo dopo passo e della costante consulta della base, hanno fatto politica a partire dalla profezia.

Ai politici di professione e alle istituzioni, ora, il compito di tener conto di questa esperienza.

A quando lo studio, la ricerca, la proposta di una « difesa popolare non violenta » in Italia?

E a livello ONU, oltre a una doverosa formazione e crescita di una propria forza armata ( i Caschi Blu ), congiunta a una riduzione delle Forze Armate dei singoli Stati ( una forza armata ONU che ponga fine all'appalto degli interventi militari agli USA ); oltre a questo, a quando lo studio di un corpo popolare di pace, per interventi sul tipo dei 500 a Sarajevo?

Interventi per una distensione degli animi e un ulteriore tentativo di soluzione pacifica dei conflitti, da popolo a popolo, e non solo da governo a governo, prima di eventuali interventi di « polizia internazionale »?

Ecco alcune piste di ricerca politica aperte dall'esperienza di Sarajevo.

Perché non ho fatto cronaca

Vi sarete accorti che non ho fatto cronaca, ma piuttosto considerazioni sui fatti.

A dir il vero, sentivo un certo imbarazzo a parlare dell'esperienza di Sarajevo.

Ne hanno già parlato e scritto così bene, con tanta freschezza, molti dei partecipanti, che aggiungere dell'altro mi pareva inutile e indiscreto.

Improvvisati giornalisti che hanno avuto la costanza di annotare, a caldo, le impressioni lungo il tragitto.

Li guardavo con ammirazione.

Io che avevo già parlato e scritto tanto di pace, di giustizia e non violenza, io, su quella nave, in quel pullman, tra quegli amici improvvisati, fra quei 500, mi sentivo allievo, tornato a scuola.

Che meravigliosi! Quante lezioni ho ricevuto! Persone di ogni tipo.

Tra i 500, c'erano 5 parlamentari, 2 vescovi, una trentina di sacerdoti, 8 suore, catechisti e catechiste, scout e tanti tanti non praticanti, anche aconfessionali, ma credenti negli stessi valori, come ci tenevano a precisare.

Uomini e donne, molti giovani, ma anche anziani e genitori, papa e mamme, alcuni con il « mandato » del coniuge che non aveva potuto venire, o dell'intera famiglia ( come Natalina, da Preore, Trento, che portava con sé una lettera ammirata ed entusiasta della figlia maggiore, quindicenne ), altri usciti invece di casa con la convinzione di essere soltanto compatiti e tollerati.

A loro, certamente, partecipare era costato molto di più di quanto era costato a me.

E quando, nei piccoli gruppi di « affinità » in cui eravamo suddivisi ( 15-20 componenti ), era il momento di decidere il nuovo passo da fare ( se andare avanti o fermarci ), la componente profetica ( che non calcola ) aveva sempre la meglio.

Io, a volte, mi trovavo solo a ricordare che c'era anche l'aspetto politico da tener presente, il calcolo dei rischi e dei risultati, perché eravamo in tanti, e c'era una responsabilità collettiva.

Ecco perché non faccio cronaca: ho paura di rovinare qualcosa che altri hanno vissuto e raccontato con una carica profetica molto più grande della mia, e dai quali ho avuto soltanto da imparare.

Imparare che cosa?

Ripensare il mondo

Imparare a ripensare il mondo; che non è poi così meschino o perverso come spesso siamo tentati di credere.

Lo Spirito semina, semina quando e dove vuole, nel cuore di credenti e « non credenti », vecchi e giovani, soprattutto giovani.

« L'antico è già accaduto - diceva il Signore per bocca del profeta Isaia - qualcosa di nuovo io vi annuncio, prima che germogli, ve lo faccio udire » ( Is 42,9 ).

E più avanti: « Non pensate più alle cose passate! Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? » ( Is 43,18-19 ).

Una politica che non tiene conto di ciò che « germoglia » è una politica miope, che dovrà per forza farsi da parte e lasciare spazio a chi sa vedere.

Se queste ricchezze interiori ci sono nella società, perché non tenerne conto?

Perché non pensare niente di nuovo?

O meglio, soltanto nuove armi, e « nuovi modelli di difesa », a favore sempre dei più forti, perché abbiano sempre ragione?

È così che si costruisce il domani? Ecco la lezione che ho ripassato a Sarajevo!

Già l'avevo studiata, ma è così facile dimenticarla, che Sarajevo mi ci voleva.

Sul piano più strettamente di fede, sono stato riconfermato in un ragionamento che già facevo: è vero, gli Apostoli e i primi discepoli sono finiti tutti « male »: uccisi dalle persecuzioni.

Ma prima di quella fine hanno fatto in tempo tutti a sperimentare la meravigliosa potenza dello Spirito di Dio; che ci sostiene e sospinge quando abbiamo preso la giusta direzione del servizio, del dono, del rischio, dell'amore anche ai nemici.

Forse che noi, presa la stessa direzione, non sperimenteremo niente?

Non vedremo le « meraviglie di Dio » ( At 14,26 )?

Sarajevo conferma che vedremo.

Come già ci diceva Isaia: « Allora brillerà fra le tenebre la tua luce … » ( Is 58,8-12 ).

E allora, avanti, con coraggio, con più coraggio!

Come potranno averne i politici se noi credenti, praticanti, anche comunitariamente, come istituzione visibile, non ne abbiamo?

Come potranno crederci se noi poniamo le nostre sicurezze e mostriamo di credere soltanto nel « partito dei cattolici », cioè nel potere, e nell'8 per mille?

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