Lettere circolari

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Settima lettera circolare

Sul concatenamento delle virtù per giungere alla perfezione

Sia lodato Gesù Cristo

Signori, « Vos autem curam omnem subinferentes, ministrate in fide vestra virtutem, in virtute autem scientiam, in scientia autem abstinentiam; in abstinentia autem patientiam; in patientia autem pietatem; in pietate autem amorem fraternitatis; in amore autem fraternitatis, charitatem ».

« Per conto vostro, prima di occuparvi di ogni altra faccenda, applicatevi ad unire alla fede la virtù, alla virtù la scienza, alla scienza l'astinenza, all'astinenza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità » ( 2 Pt 1,5-7 ).

Tale è l'ordine, il progresso, il concatenamento che il Principe degli Apostoli ci ha tracciato dei doveri del Cristiano.

Conoscendo quanto sia vivo e sincero il desiderio che voi avete della perfezione, ho creduto che fosse mio dovere assecondarlo e che non potessi far di meglio in questo campo che mettervi sotto gli occhi e svilupparvi quanto Egli ha voluto insegnarci in queste poche parole.

Seguendo quest'ordine, aderendo ai vari doveri ch'esso ci prescrive, noi otterremo quei beni ineffabili che sono il frutto della nostra vocazione al cristianesimo e, come dice il santo Apostolo, diverremo partecipi della divina natura: « ut efficiamini divinae consortes naturae » ( 2 Pt 1,4 ).

Ma per raggiungere questa felicità, bisogna che diventi il primo e il più ardente dei nostri affari.

Non o necessario che trascuriamo gli altri affari, quelli che riguardano i bisogni della vita ed i doveri della vita civile: l'Apostolo non lo esige; suppone anzi che noi ce ne occupiamo; ma ci avverte di subordinare questi affari a quelli che ci sono da lui prescritti, che sono di una ben più elevata importanza.

È il senso di quell'espressione: « Vos autem curam omnem subinferentes ». « Prima di occuparvi di ogni altro affare ».

Queste parole devono renderci attenti agli avvisi che egli ci dà, eccitarci a penetrarne bene il senso e farci prendere la ferma risoluzione di seguirli con fedeltà.

Congiungere la pratica della virtù alla fede

Il primo avviso che ci da l'Apostolo è di congiungere alla fede la pratica della virtù: « Ministrate in fide vostra virtutem ».

La nostra Fede non deve essere sterile; deve rendersi evidente con le opere virtuose; non basta credere quanto deve credere un cristiano; bisogna vivere in maniera conforme alla fede.

Il termine di cui si serve l'Apostolo per esprimere questo dovere, significa propriamente l'azione di un servitore che adempie tutto ciò che riguarda il suo ufficio; non fa con ciò nulla di supererogatorio, non fa invece che compiere un dovere che gli è imposto; il che deve intendersi ugualmente degli altri doveri ricordati dopo questo primo.

La Fede può essere considerata sotto due aspetti: come un dono di Dio e come una virtù.

Come dono di Dio è una luce che rischiara i nostri spiriti per conoscere le verità ch'Egli ha rivelato alla sua Chiesa, mentre contemporaneamente la sua grazia inclina le nostre volontà a sottometterci alla sua infallibile autorità ed a credere, su questa autorità, a tutto quanto Egli ha rivelato.

Come virtù, è l'adesione di cuore e di spirito che l'uomo da liberamente a tutte queste verità.

È sotto questo ultimo aspetto che la Fede è qui considerata, com'è chiaro, e se ci fosse intorno a ciò il minimo dubbio, l'Apostolo sembra averlo voluto dissipare, non dicendo solamente la Fede, ma « la vostra fede » « in fide vostra ».

Più che ad esortarci ad essa, suppone in noi questa virtù, poiché fin dagli inizi di questa lettera ha felicitato i fedeli perché avevano una fede simile alla sua: « Qui coaequalem nobiscum sortiti sunt fidem » « Coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la medesima fede » ( 2 Pt 1,1 ).

In questa fede suppone egualmente tutte le qualità di cui deve essere rivestita e non insiste che sulla pratica delle virtù da cui deve essere accompagnata.

Ciò che l'Apostolo ci prescrive, come è stato detto, è che noi abbiamo dei sentimenti ed una condotta che rispondano alla nostra fede.

Molti cristiani disonorano con i loro costumi la professione che fanno di credere a tutte le verità della nostra santa religione; vivono come se non le credessero; come se credessero tutto il contrario; non hanno neppure quel terrore che è causato negli spiriti delle tenebre dalla conoscenza naturale delle cose divine: « daemones credunt et contremiscunt » « i demoni hanno fede e tremano » ( Gc 2,19 ).

Si direbbe, a vedere l'opposizione tra la loro fede ed i loro costumi, che considerano le verità della religione come favole fatte per divertire la credulità del popolo.

Credono in Dio e non ci pensano mai; credono in Gesù Cristo e tutta la loro vita passa ad oltraggiarlo; credono di essere stati creati per godere dell'eterna felicità e non sono occupati che dei beni presenti.

Credono che c'è un inferno e non fanno nulla per evitare questa disgrazia, anzi fanno tutto quello che finisce irrimediabilmente per condurveli.

Una simile fede non può servire che a loro condanna.

Il servitore che avendo conosciuto la bontà del suo padrone non s'è presa la briga di compierla, sarà maggiormente punito.

« Servus qui cognouit voluntatem Domini sui, et non praeparavit et non fecit secundum voluntatem eius, vapulabit multis ».

La nostra fede deve essere viva, forte, efficace.

Viva: dobbiamo risvegliarla incessantemente con riflessioni serie, con meditazioni profonde che possano impedirci di perdere di vista i grandi oggetti della religione.

Forte: deve darci la forza di vincere tutti gli ostacoli che s'oppongono alla nostra salvezza ed alla pratica delle virtù cristiane.

Efficace: deve portarci alle opere buone ed agli atti di virtù che ci renderanno sempre più gradevoli a Dio.

L'Apostolo, come il suo Divin Maestro, vuole che noi teniamo sempre in mano la fiaccola delle Fede, questa lampada evangelica che deve sempre guidarci nella presente notte tenebrosa. « Sint lucernae ardentes in manibus vestris » « Abbiate nelle vostre mani lampade ardenti » ( Lc 12,35 ).

Vuole che noi viviamo nella sua luce, di quella vita che è propria del giusto, secondo quanto sta scritto: « Il giusto vive di fede » « Justus ex fide vivit » ( Rm 1,17 ); che a questa luce noi giudichiamo tutte le cose: il bene ed il male, le cose presenti e le future, il tempo e l'eternità, i beni della terra e quelli del cielo, i mali che si soffrono quaggiù alla sequela di Gesù Cristo, e quelli a cui saranno eternamente dannati quanti non l'avranno seguito.

San Pietro, dapprima, non parla che della virtù in generale; ma di una virtù pratica, quale è richiesta dalla giustizia a cui bisogna principalmente applicarsi e l'ordine che lega tra loro queste virtù.

Congiungere la scienza alla pratica della virtù

Secondo avviso: congiungere la Scienza alla pratica delle virtù: « In virtute scientiam ».

La virtù, per essere meritoria e veramente cristiana, ha bisogno di essere richiamata, diretta, perfezionata dalla scienza.

Ma qual'è questa scienza, senza della quale la virtù sarebbe falsa ed imperfetta?

Bisogna necessariamente che venga da Dio; ogni altra scienza non ne meriterebbe il nome davanti a Dio.

Deve essere una scienza pratica, poiché tutto quanto è detto qui riguarda la condotta del cristiano; per di più deve essere non tanto frutto dello studio quanto della preghiera e degli atti di virtù, perché è classificata tra i doveri e le virtù necessarie al cristiano.

Non può essere dunque che quella scienza della religione, quanto al dogma ed alla morale, che influisce sulla pratica delle virtù e che tutti devono possedere, per quanto non sia necessaria a tutti nello stesso grado di perfezione.

Questa scienza ci regola e ci dirige nella pratica della virtù, affinché non prendiamo abbagli sul suo vero oggetto.

Capita spesso che uomini accecati dai loro pregiudizi, travolti dalle loro passioni, si smarriscano stranamente e considerino come atti virtuosi delle azioni assai criminali.

« Si avvicina il tempo, diceva Nostro Signore, in cui tutti quelli che vi metteranno a morte, crederanno di fare un sacrificio a Dio » « Venit hora, ut omnis qui interficit vos, arbitretur obsequium se praestare Deo » ( Gv 16,2 ).

S. Paolo rende testimonianza che quelli del suo popolo, i quali perseguitavano il nome cristiano, avevano lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza: « Aemulationem Dei hahent, sed non secundum scientiam » ( Rm 10,2 ).

In tutti i tempi si è vista ripetersi la stessa cosa nella persecuzione suscitata dall'eresia contro i veri fedeli.

Si potrebbe pure cadere in un simile errore in rapporto alle altre virtù.

Tocca alla scienza preservarcene.

La scienza ci illumina per praticare la virtù in un modo soprannaturale e meritorio e ci fa scegliere, tra le virtù, quelle il cui esercizio ci conviene maggiormente, secondo i tempi, i luoghi, le persone .

Per mancanza di questa scienza pratica, molta gente, per quanto persuasa delle verità della fede, compie opere di virtù senza merito ed in modo tutto naturale, perché ignorano che, per rendere meritorie le nostre opere per il cielo, non basta che siano buone; bisogna per di più che si agisca per un principio di grazia, che si facciano per un fine soprannaturale, che si riferiscano a Dio e che ci si trovi in stato di grazia.

In questa scienza si trovano regole sicure e lumi sufficienti per discernere se un tale atto di virtù ci conviene, se è nell'ordine di Dio e conforme alla sua volontà.

La scienza perfeziona la pratica della virtù, perché quanto più si conosce la virtù e tanto più la si ama; quanto più la si ama e tanto più la si desidera; e quanto più la si desidera, tanto più si fanno sforzi per ottenerne la perfezione.

Non si trascura nulla a questo scopo, la si domanda a Dio con preghiere ferventi e continue, e Dio che ci ispira queste preghiere, non manca di esaudirle, diffondendo su di noi lumi più vivi ed abbondanti, per conoscere e praticare la virtù in una maniera più perfetta: « Io ho desiderato, dice il Savio, e l'intelligenza mi è stata data.

Ho invocato il Signore e lo spirito di sapienza è venuto in me ». « Optavi et datus est mihi sensus; et invocavi, et venit in me spiritus sapientiae » ( Sap 7,7 ).

Da ciò si vede che questa scienza è la scienza dei Santi, scienza che appartiene egualmente allo spirito ed al cuore, ed a cui i Libri Santi danno diversi nomi: la chiamano Sapienza, intelligenza, prudenza, disciplina.

Nulla ci è più sovente e più fortemente raccomandato in essi.

I salmi ed i libri sapienziali ne fanno i più magnifici elogi; sembra che lo Spirito Santo non li abbia dettati che per eccitarci ad acquistare questa scienza, e per insegnarcela.

« Ascolta, mio figlio, ci dice nei Proverbi, ascolta le istruzioni di tuo padre.

Fa in maniera di possedere la sapienza. Metti in opera tutto per acquistare la prudenza.

È con questo lavoro che si arriva al sommo della sapienza ». « Audi, fili mi, disciplinam patris » ( Pr 1,8 ) « Posside sapientiam, posside prudentiam. Principium sapientiae, posside sapientiam » ( Pr 4,5.7 ).

Non c'è sacrificio alcuno che non dovreste fare per ottenerla, occorresse per questo dare quanto possedere: « Et in omni possessione tua, acquire prudentiam » ( Pr 4,7 ).

La prova maggiore dell'accecamento e della follia della gente del mondo è il disprezzo che fanno di questa divina Sapienza.

« Sapientiam atque doctrinam stulti despiciunt ». « Gli insensati disprezzano la sapienza e la dottrina » ( Pr 1,7 ).

Tale disprezzo e disgusto che dimostrano per lei, sarà la principale causa della loro condanna.

« Mi invocheranno, dice il Signore, ed io non li esaudirò, mi cercheranno con premura e non mi troveranno affatto, poiché non hanno avuto che disgusto per le mie istruzioni ».

« Invocabunt me et non exaudiam; mane consurgent et non invenient me; eo quod exosarn habuerint disciplinam » ( Pr 1,28-29 ).

Il torto maggiore delle anime imperfette è di trascurare questa scienza che procurerebbe loro la pace, le farebbe godere dell'abbondanza, e le libererebbe da ogni specie di timore: « Qui me audierit, absque terrore requiescet et abundantia perfruetur, timore malorum sublato ».

E se i più fervorosi hanno da rimproverarsi qualche cosa, è di non fare ancora sufficienti sforzi per acquistare una scienza che sarebbe per essi incessantemente un aumento di grazie e che cingerebbe la loro fronte di una fulgida corona.

« Dabit capiti tuo augmenta gratiarum, et corona inclyta proteget te ». « Metterà sul tuo capo un aumento di grazie e ti coprirà di una brillante corona » ( Pr 4,9 ).

Congiungere l'astinenza alla scienza

Terzo avviso. Congiungere l'Astinenza alla Scienza. « In scientia autem Abstinentiam ».

Si possono recare due ragioni di questo avviso che dà l'Apostolo.

La prima è che all'astinenza veniamo condotti innanzitutto da questa scienza pratica, da questa prudenza cristiana che deve dirigere tutte le nostre virtù.

La seconda, che questa scienza non può essere vera, sussistere e perfezionarsi in noi se non a misura che pratichiamo l'astinenza con maggiore o minore perfezione.

L'astinenza non è considerata qui solamente come la virtù che reprime gli eccessi di gola e che porta ad interdirsi l'uso degli alimenti nocivi o proibiti dalle leggi della Chiesa.

È considerata nel senso più esteso, come una delle virtù cardinali chiamata la Temperanza.

In questo senso, l'astinenza comprende l'umiltà opposta all'orgoglio, la moderazione opposta all'avarizia, la castità opposta al vizio carnale, la dolcezza opposta alla collera, la temperanza propriamente detta opposta alla golosità, la benevolenza opposta all'invidia, infine la diligenza ed il fervore opposti alla pigrizia.

Essa ci allontana da ogni eccesso vizioso: e poiché la giustizia cristiana non si può praticare se non ci si allontana dal vizio, ne segue evidentemente che la scienza di questa giustizia deve dapprima dirigerei alla pratica dell'astinenza.

Senza questa virtù, non saremmo affatto disposti ad acquistare le altre.

Cos'è mai un uomo, che, non essendo trattenuto dalle regole dell'astinenza, prende le sue passioni come guida e si abbandona sfrenatamente a tutti i suoi sregolati desideri?

Se già non merita, semplicemente il nome d'uomo, non essendo condotto dal lume della ragione, meriterebbe poi il nome di cristiano?

Un cristiano è un uomo elevato sopra la natura dell'uomo, sprigionato dalla schiavitù dei sensi, vivendo più nello spirito che nella carne, più nel cielo che sulla terra; i beni della terra ai suoi occhi sono come fango; gli onori del mondo un'apparenza ingannatrice; i piaceri sregolati, un orrore.

Giudica di ogni cosa alla luce dell'eternità; la dottrina e gli esempi di Gesù Cristo sono la regola della sua condotta.

Non vede nulla di grande se non Dio; a Dio solo vuoi piacere.

Questa prima nozione del cristiano racchiude necessariamente la pratica dell'astinenza.

L'altra ragione da noi citata, non è meno evidente.

Senza la pratica dell'astinenza, la scienza di cui parla l'Apostolo:

1) Non può essere vera, poiché questa scienza è una scienza pratica che ha per oggetto e per fine di rendere l'uomo veramente spirituale, libero da ogni affetto basso e vizioso; il che viene prodotto per mezzo dell'astinenza; anche perché una scienza pratica non è reale e vera se non in quanto produce l'effetto che si propone come fine.

È ciò che ci insegnano queste parole del discepolo prediletto: « Chiunque dice di conoscere Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è un mentitore e non c'è in lui verità ». « Qui dicit se nosse Deum, et mandata eius non custodit, mendax est, et in hoc veritas non est » ( 1 Gv 2,4 ).

« Chi dice di essere nella luce ed odia suo fratello, è ancora nelle tenebre ». « Qui dicit se in luce esse et fratrem suum odit, in tenebris est usque odhuc » ( 1 Gv 2,9 ).

Ciò che S. Giovanni dice in generale dei comandamenti, ed in particolare dell'Amore del prossimo, si può dire ugualmente dell'umiltà, della dolcezza delle altre virtù che sono racchiuse nell'astinenza.

2) Senza la pratica dell'astinenza, questa scienza non può sussistere perché viene da Dio e Dio non la dà se non a quanti hanno il cuor docile e vivono staccati dalle vane dolcezze della vita.

Isaia lo dice espressamente: « A chi il Signore darà la scienza, a chi darà l'intelligenza, se non a quelli che si saranno svezzati dal latte, che si saranno strappati dal seno? »

« Quem docebit scientiam? quem intelligere faciet auditum? ablactatos a lacte, avulsos ab uberibus » ( Is 28,9 ).

3) Non si avanza in questa scienza che in proporzione dei progressi che si fanno nella astinenza, liberandosi delle cose create e di se stesso, per non aderire che alla volontà di Dio.

« Se qualcuno, dice il Signore, vuol fare la volontà di Dio, conoscerà se questa dottrina è da Dio ».

« Si quis voluerit voluntatem eius facere, cognoscet de doctrina, utrum ex Deo sit ». ( Gv 7,17 ).

« Non c'è che lo Spirito di Dio, dice San Paolo, che conosca le cose di Dio ». « Quae Dei sunt nemo cognovit, nisi Spiritus Dei ». ( 1 Cor 2,11 ); « l'uomo animale non può concepire ciò che è dello Spirito di Dio ». « animalis homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei » ( 1 Cor 2,14 ).

Bisogna dunque aver parte allo Spirito di Dio, bisogna che per mezzo della pratica dell'astinenza e della rinuncia a se stesso, si muoia ad ogni desiderio della carne per possedere la scienza di Dio in qualche grado di perfezione e solamente in proporzione degli sforzi che si fanno per vincersi e per assoggettare se stessi si può arrivare a ciò che questa scienza ha di più sublime.

Non accontentiamoci di astenerci da ciò che appare esteriormente di vizioso in noi; non sarebbe questo che un lavoro superficiale.

L'astinenza esige che noi scaviamo più intimamente in noi stessi e che coraggiosamente sradichiamo dai nostri cuori non solamente ogni affetto sregolato, incompatibile con lo stato di salute, ma anche quell'accozzaglia di attacchi, di desideri, di inclinazioni, che, senza essere peccato tendono al peccato, ci distolgono dal bene e ci rendono incapaci di ricevere il lume del Signore.

Questo non è ancora che il lavoro più indispensabile.

La Scienza di Dio, a misura che cresce in noi, ci scopre dei doveri più estesi.

Che cosa dobbiamo abbandonare, perdere, sacrificare per abbozzare in noi Gesù Cristo, il divino modello di tutti i cristiani, per praticare la sua dottrina, per camminare sui suoi passi, per entrare nei suoi sentimenti, per agire nel suo Spirito, per conformarci in tutto al suo volere, per essere in Lui una stessa cosa con Dio; in una parola, per essere perfetti cristiani?

Quale rinuncia continua a noi stessi! Quale controllo sulle nostre parole, sui nostri pensieri, sui nostri desideri!

Quale sacrificio degli affetti più innocenti! Quale spirito di penitenza e di mortificazione!

Quale implacabile guerra da sostenere contro l'amor secreto di noi stessi che si ricerca in tutto, che si offende di tutto, che si illude incessantemente!

Quale attenzione per non accordare alla natura che il necessario, o almeno solo quanto conviene ai suoi bisogni!

Quale indipendenza dai sensi e dal proprio spirito! Quale spiritualità soprannaturale e divina!

Congiungere la pazienza all'astinenza

Quarto avviso. Congiungere la Pazienza all'Astinenza. « In abstinentia autem patientiam ».

La pratica della pazienza è essenzialmente legata a quella dell'astinenza.

Non si può praticare l'una senza praticare l'altra.

La caratteristica dell'astinenza, come abbiamo poco sopra visto, è dapprima di distaccarci da ogni eccesso vizioso; in un secondo tempo modera i desideri; infine ci distacca da noi stessi con il dividere, secondo l'espressione di S. Paolo, « l'anima dallo spirito, i tendini dalle ossa e dal midollo » « pertingens usque ad divisionem animae ac spiritus, compagum quoque ac medallarmn et discretor cagitationum et intentionum cordis » ( Eb 4,12 ).

Occorre che la compagine dell'uomo spirituale sia come scomposta, che le ossa siano separate le une dalle altre, che la grazia di Dio ne distacchi il fondo di corruzione che ne è come il midollo, che i nostri pensieri ed affetti più secreti siano interamente purificati.

Tutto ciò non può avvenire senza la pazienza, la cui proprietà è di farci sopportare con rassegnazione le cose dure e penose alla natura, di farcele in seguito stimare e di riceverle in pace, come beni e favori celesti; di farcene infine trionfare e di riempirci di una grazia santa e spirituale nelle sofferenze più acute e nelle pene più amare ed umilianti.

Non è mio intendimento entrare nei particolari di quanto riguarda la pazienza; ma sembra che, per sviluppare un po' il pensiero dell'Apostolo, e per confermare quanto stiamo dicendo, venga a proposito esporre brevemente qual'è l'esercizio della pazienza nel diversi stati della vita spirituale.

« Beato chi avrà portato il giogo del Signore, dice il profeta, fin dalla più tenera giovinezza ». « Bonum est viro cuin portaverit iugum ab adolescentia sua » ( Lam 3,27 ).

La sua felicità non consiste nel non aver nulla da soffrire.

Ad ogni età costa sempre adempiere i doveri del cristiano, vivere nella dipendenza, far sempre la volontà altrui e mai la propria, soggiacere a doveri importuni e continui, obbedire in tutto a maestri e genitori a volte duri e fastidiosi.

È vero che nella prima giovinezza i combattimenti sono più leggeri, gli obblighi meno grandi perché meno noti; non si incontrano le stesse opposizioni, tutto asseconda i nostri sforzi di cui ci è fatta una necessità; di solito non si agisce, non si può neppure agire che in una maniera spontanea.

Perciò la vita può essere innocente, ma non si tratta ancora di vita spirituale.

La vita spirituale non comincia che al tempo in cui lo spirito, richiamato da lumi più vivi e penetranti, si forma intorno a Dio e alle sue perfezioni, a Gesù Cristo ed ai suoi misteri, alla dignità del cristiano ed ai suoi doveri, nozioni più sublimi e più vicine alla verità.

Un nuovo cammino s'apre davanti ai suoi occhi; nuovi doveri, doveri più perfetti e difficili gli sono svelati.

Quanti ricevono questa luce sentono che devono purificare i loro affetti, interdirsi molte cose che s'erano credute permesse, regolare le proprie azioni secondo le massime del santo Vangelo, darsi alle pratiche di pietà, abbracciare la penitenza e camminare in mezzo alla spine, per sentieri stretti e tortuosi, alla sequela di Gesù Cristo.

Questo cambiamento è penoso; gli assalti dell'inferno, le sue tentazioni si fanno più violente; ci si vede esposti al sarcasmo del mondo; si risente maggiormente la forza delle inclinazioni che si devono combattere, la difficoltà delle virtù che bisogna acquistare.

La pazienza si fa dunque necessaria allora; ma la pratica ne è meno difficile a quelli che sono vissuti fino allora nell'innocenza, perché questa innocenza ha diminuito molto gli ostacoli da vincere, perché gli spiriti delle tenebre hanno meno presa su di essi ed il mondo meno impero; e perché sono meglio disposti per ricevere i favori dal cielo.

Non è così invece di quelli che, avendo ben presto scosso il giogo della legge di Dio, si sono abbandonati alla foga delle loro passioni ed immersi in ogni sorta di abitudini cattive e di azioni criminali.

Per una speciale misericordia il Signore faccia loro sentire una voce formidabile che li arresti nel pieno delle loro sregolatezze; la sua luce scopra loro la via spirituale su cui devono camminare; docili a questa voce, fedeli a questa luce, ritornino sinceramente al Signore; con una intima contrizione e con la confessione più umile di tutti i disordini della loro vita passata, rientrino in grazia con Dio: il che non si può fare senza molti sforzi e combattimenti e per conseguenza senza una grande pazienza; eccoli allora introdotti nella vita spirituale; ma non è ancora che un debole inizio.

Per irrobustirsi in questa, vita nuova, per raccogliere il frutto del loro lavoro, la pratica della pazienza è ad essi più che mai necessaria.

Bisogna che essi stessi si condannino ad una penitenza che abbia qualche proporzione coi peccati che hanno commesso; che lavino con le proprie lacrime le sozzure di cui s'è macelliate il loro cuore; che facciano espiare alla loro carne di peccato quei piaceri che le hanno accordato contro la legge di Dio; e che facciano servire alla giustizia quelle membra che sono state strumento di peccato.

Quanti ostacoli non hanno da sormontare da parte degli spiriti del male, di cui a lungo sono stati gli schiavi e che pretendono perciò di aver acquistato dei diritti su di essi!

In quali lotte non devono impegnarsi contro se stessi per disfarsi intieramente delle loro antiche abitudini!

A quante privazioni devono condannarsi per estirpare in sé il gusto dei piaceri e delle vanità del mondo.

Quale vigilanza sui propri sensi! Il Savio ci fa presentire tutte queste cose quando avverte quelli che vogliono darsi interamente al servizio di Dio che essi devono tenersi fermi nel suo timore ed attendersi ogni specie di tribolazione.

« Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem ». « Figlio mio, accostandoti al servizio di Dio, tienti fermo nella giustizia e nel timore, e tienti pronto alla tentazione » ( Sir 2,1 ).

L'Apostolo ugualmente ci preavvisa che quelli i quali vogliono condurre una vita cristiana e santa, saranno esposti alla persecuzione.

« Omnes qui pie volunt vìvere in Christo Jesu, persecutionem patientur ». « Tutti quelli che vogliono vivere nella pietà in Cristo Gesù, soffriranno persecuzione » ( 2 Tm 3,12 ).

La pratica della pazienza deve diventare più perfetta quanto più si progredisce nella vita spirituale.

Le pene che si sopportavano altra volta con rassegnazione, devono essere vissute con calma ed accettate con amore.

Riconosco che in questo stato di progresso in cui suppongo l'anima, essa si trovi molto alleggerita, essendosi scaricata delle catene che l'accasciavano, applaude alla scelta fatta e conosce per esperienza come sia dolce il giogo del Signore e leggero il suo peso.

« Ingum meurn suave est et onus meum leve ». « Il mio giogo è dolce e leggero il mio peso » ( Mt 11,30 ).

Sembra che il Signore voglia ricompensare con le sue carezze il prezzo che è costato l'abbandonare la via larga su cui procedono i peccatori.

Respira un'aria più pura; si vede come trasportata in una regione di luce; la bellezza della religione la incanta, i misteri di Gesù Cristo la commuovono, penetra più intimamente le massime del Santo Evangelo, ciò che esse hanno di più austero è meno impressionante per lei.

Il cuore le rende la dolce testimonianza che essa ama il Signore od almeno che desidera ardentemente di amarlo; e questo amore addolcisce le sue pene e le rende facili i sacrifici più duri.

Ma questo tempo non può essere di lunga durata.

Il bene stesso dell'anima domanda che il Divino Sposo si assenti affinché essa, purificata nel crogiuolo delle prove, possa ricevere la pienezza dello Spirito Santo.

« Expedit ut ego vadam. Si enim non abiero, Paracletus non veniet ad vos ». « Vi torna utile che me ne vada, poiché se non vado il Paraclito non verrà a voi » ( Gv 16,7 ) .

La pazienza dell'anima è messa allora alle più dure prove.

Non parlerò che di quelle che le vengono della vita spirituale e non di quelle che le sono comuni con ogni specie di persone.

Maggiori lumi hanno fatto vedere all'anima obblighi maggiori e più estesi.

Dio preme su di lei perché essa lo serva con maggior perfezione.

Sente che Egli esige da lei una maggior purezza, un distacco più universale da tutte le cose, una morte più totale a se stessa, una vita più spirituale e più libera dai sensi; sente di essere molto lontana dal corrispondere alla bontà del Signore, al suo amore, agli esempi della sua vita; ogni giorno essa rinnova in questo ambito le sue risoluzioni ed ogni giorno essa vi è infedele.

Gli aiuti dall'alto sono meno sensibili, i lumi meno vivi, le occasioni di cadute sono più numerose, gli attacchi più violenti, il pericolo più incombente.

Le sembra di non ricavare più il medesimo frutto dalla frequenza ai Sacramenti; le preghiere trascorrono nella distrazione, nel disgusto, nella tiepidezza; l'insensibilità l'accompagna dovunque; agisce come se fosse senza fede, senza speranza, senza amore; il bene che compie non le pare che un seguito di abitudini contratte.

Dio permette questa apparente insensibilità perché non si appoggi per niente su se stessa e non si aspetti nulla che dalla sua infinita misericordia.

Ma il demonio si serve di questa disposizione per farle perdere la confidenza che essa deve avere in Dio.

Si sforza di persuaderla, come un tempo gli amici di Giobbe volevano persuadere questo santo personaggio, che Dio non l'avrebbe trattata con tanta severità se essa non fosse colpevole di qualche grave infedeltà; ed a volte l'anima per una falsa umiltà e i per non conoscere sufficientemente le vie di Dio, si abbandona a questa suggestione, da cui cade in molte: angoscie e perplessità, di cui i ministri del Signore faticano molto a guarirla.

Siccome non vede nulla nella sua condotta presente che la debba allarmare, ne cerca la causa sul passato, dubita di essersi accusata bene dalle proprie mancanze, di aver avuto un debito dolore, di averne fatto penitenza.

Essa stessa si condanna come colpevole; le sue azioni virtuose non le sembrano più che ipocrisie, i suoi buoni sentimenti che illusione; l'edificazione che dà le pare una maschera che nasconde il suo disordine interno; le sue confessioni e comunioni un seguito di sacrilegi e di delitti; la sua immaginazione si riempie di fantasmi spaventosi, non vede più in Dio che un giudice irritato, pronto a lanciare contro di lei una sentenza di riprovazione; a volte anzi questa sentenza le sembra già pronunciata.

Quando l'anima è più docile, quando la fede è più viva, e la sua speranza più ferma e illuminata, sa che la grazia di Dio non dipende già dal sentimento e non si lascia affatto andare a vani terrori.

Si eleva in Dio con una fede pura; spera tutto dal suo amore, malgrado i sentimenti di timore di cui è pervasa, vuole amarlo ardentemente come l'unico oggetto che meriti il suo amore; ma essa non può impedire che sentimenti ed apprensioni affatto opposte si elevino in lei e tacciano sul suo cuore un'impressione più viva e più forte di tutti gli atti che essa oppone loro, poiché questi atti sono puramente spirituali e come relegati al sommo della volontà.

IL combattimento non è sempre cosi violento; ma la guerra è continua.

Lo spirito del male aggredisce l'anima in mille maniere; l'attacca con ogni specie di tentazioni.

Si serve di tutto per distoglierla da Dio; ora la innalza con la presunzione, ora l'abbatte con timori eccessivi; ora eccita in lei gioie vane, ora la immerge nel turbamento e nella tristezza.

Dio non abbandona l'anima in questa situazione; ed essa ha intervalli di lumi e di consolazioni; ma questi intervalli sono rari.

Dio li proporziona ai blsogni dell'anima ed alla forza delle tentazioni, ed i soccorsi che accorda non hanno ordinariamente nulla di sensibile e non sono sentiti che per fede.

Fra queste vicissitudini e queste prove, una pazienza umile e piena di fiducia è la sola risorsa dell'anima il solo scudo che la mette al riparo da ogni assalto.

Essa non deve stancarsi di soffrire, di combattere, di praticare, la virtù; con questo mezzo tali prove riusciranno a lei di gloria e di felicità, il Signore ne sarà glorificato.

« Sopportate, dice il Savio, il braccio del Signore quando si appesantisce su di voi, tenetevi uniti a Dio, sopportate i suoi rigori perché tutto alla fine segni per voi un aumento di vita ».

« Sustine sustentationes Dei: coniungere Dea et sustine, ut crescat in novisimo vita tua » ( Sir 2,3 ).

« Accogliete, dice il Savio, tutti i rimedi che saranno applicati al a vostro male; sopportate questi rimedi, per quanto siano dolorosi; e per un sentimento della vostra bassezza, sopportateli pazientemente, per quanto tempo piacerà a Dio di prolungare le vostre sofferenze ».

« Omne quod libi appliciiiim fuerit, accipe: et in dolore sustine, et in humiltate tua patientiam habe » ( Sir 2,4 ).

Quando l'anima ha saputo approfittare di queste prove e si sono adempiuti i disegni di Dio su di lei, essa ne esce più pura e più bella, e sembra rinascere ad una vita nuova.

« Il suo spirito, come dice l'Apostolo, è abituato da un lungo esercizio a distinguere il bene dal male ».

« Pro consuetudine exercitatos habent sensus ad discretionem boni ac mali » ( Eb 5,14 ).

Elevata al di sopra della natura e di se stessa, si libera in parte dalle illusioni e dalle oscurità dello spirito, gode del frutto che le hanno procurato tanti combattimenti e vittorie; ma ciò non è per abbandonarsi ad un riposo incompatibile con lo stato diquesta vita per un cristiano.

La guerra non è ancor terminata, e per quanto lo spirito del male abbia perduto quasi ogni speranza di vincerla, la molesta e l'attacca con maggior furore che mai, e Dio, che vuole far risplendere in lei la forza e la potenza della sua grazia, sembra mollare il freno al furore di lui e lasciargli il potere di dirigere tutte le proprie forze contro quest'anima.

Il nemico si serve a questo fine dell'impero che esercita sul mondo.

Egli suscita dovunque contraddizioni a quest'anima, travagli e innumerevoli combattimenti; essa non trova riposo alcuno sulla terra; è saziata d'obbrobi e, divenuta oggetto di scherno alla vile plebaglia, è schiacciata sotto i piedi come un verme della terra.

È una vittima destinata alla morte, la sua vita è un continuo sacrificio; è esposta a tutti i colpi dei cattivi.

Infine, quando è arrivato il tempo di incoronarla, Dio, per farne un immagine più perfetta del suo Divin Figlio, permette che si inventino per lei torture nuove, per farla morire nel modo più crudele ed ignominioso.

Tale è stata la sorte degli Apostoli dopo la discesa dello Spirito Santo e quella di un gran numero di martiri e dei più illustri confessori, almeno quanto ai desideri dei loro cuori.

Per parte sua, quanto non fa l'anima per dare a ciascuna delle proprie azioni tutta la purezza di cui è capace, per evitare le imperfezioni più leggere, per non concedere nulla alla natura, per raggiungere quanto di più eroico hanno le virtù, per procurare la gloria di Dio e la salvezza del prossimo!

Quante lacrime versate sui peccatori! Quante penitenze, quante fatiche continue!

Quante sollecitudini per la Chiesa! Quale lotta penosa contro gli spiriti delle tenebre!

Di quali virtù, e sopratutto di quale pazienza non occorre che a questo fine sia rivestita!

Ma lo Spirito di Dio la riempie della propria forza e della propria sapienza; il suo cuore nutre per le croci i sentimenti del Cuore del suo Divin Maestro: sospira incessantemente verso di esse come verso la sorgente di acqua viva che sola può smorzare la sete ardente da cui è bruciata.

Non può vivere senza la croce; ella sola la consola dall'assenza del suo diletto; e quando essa è in suo possesso, l'abbraccia con un santo trasporto.

Il suo più ardente desiderio è di spirare tra le sue braccia e di essere in tutto, per quanto le è possibile, secondo la misura della grazia, un'immagine perfetta dell'Uomo dei dolori.

Congiungere la pratica della pietà a quella della pazienza

Quinto avviso. - Congiungere la pratica della Pietà a quella della pazienza. « In patientia autem pietatem ».

Si percepisce subito il rapporto vicendevole di queste due virtù.

Non ci sarebbe vera pietà senza la pratica della pazienza.

Come si potrebbe infatti avere per Dio una tenerezza ed un affetto filiale, mentre si rifiuterebbero le pene ed i castighi che a Lui piace di infliggerci?

D'altra parte, come si potrebbero ricevere con amore queste pene e questi castighi, se non si avessero per Dio i sentimenti che la pietà ci ispira?

Le pene naturalmente abbattono, affliggono l'anima, l'esercizio della pazienza è da se stesso penoso e doloroso.

La pietà sostiene l'anima, la eleva, facendole rilevare, in Dio, la tenerezza di un Padre che l'ama e che non la tratta con rigore perché l'ama.

La incoraggia, facendole vedere i grandi vantaggi che deve ricavare dalle proprie sofferenze; essa cambia la tristezza in gioia; perché all'anima fa apparire le sofferenze come il mezzo più potente per testimoniare a Dio il proprio amore.

La Pietà comunica alla pazienza la nobiltà che essa sa derivare dal proprio oggetto e dal proprio fine.

Quanto più essa si perfeziona e tanto più la pazienza si purifica e si fortifica.

Debole ai suoi inizi, si accontenta di una umile sottomissione alla volontà rigorosa del Padre celeste; a misura che cresce e che si fa più forte, fa sì che l'anima si abbandoni con amore agli ordini di un Padre di cui riconosce la tenerezza.

Quando la Pietà è arrivata ad un certo grado di perfezione, e considera che il suo Divin Padre, tenendola sulla Croce, la tratta nello stesso modo con cui ha trattato il suo Figlio prediletto, allora l'anima, trasportata dall'amore delle sofferenze, sospira con ardore verso le sofferenze e le abbraccia con un santo entusiasmo.

La pietà, anche se naturale, opera qualche cosa di simile.

Una madre sopporterebbe con tanta facilità le pene innumerevoli che le causa la cura dei figli, se non fosse sostenuta, fortificata dalla tenerezza che ha per essi?

Quella di Giacobbe per Rachele fa si che egli non conti per molto le fatiche che affronta giorno e notte, custodendo i greggi di Labano.

Cosa non farà dunque una pietà soprannaturale, prodotta in noi dallo Spirito Santo che ha per termine Iddio?

Il Signore stesso considerava nelle sue sofferenze la volontà del Padre: « Sicut mandatum dedit mihi Pater, sic facio ». « Io faccio ciò che il mio Padre mi ha comandato» ( Gv 14,31 ).

Egli le accoglieva come un calice che gli era presentato dalla mano del Padre: « Calicem, quem dedit mihi Pater » ( Gv 18,2 ).

Questo sentimento di pietà animava i Martiri nelle prigioni, sui cavalletti, in mezzo alle fiamme.

Sostiene il solitario nella sua solitudine e fa che l'anima religiosa sopporti con gioia i rigori di una vita penitente.

La pietà è un balsamo applicato sulle piaghe dell'anima; è una deliziosa unzione che addolcisce ogni croce.

« Il mondo vede le nostre croci, diceva S. Ber nardo, non vede l'unzione che la pietà effonde su di essi ». « Crucem vident, unctionem non vident ».

La pietà non si limita ai rapporti che ha necessariamente con la pazienza.

Per dare qualche sviluppo alle parole dell'Apostolo, per formarcene una giusta idea, bisogna gettare uno sguardo sui differenti oggetti che essa abbraccia sugli effetti che produce sui caratteri che la distinguono.

Gli oggetti che abbraccia sono:

1) Dio stesso e tutto ciò che lo avvicina a noi sempre più: la Santa Trinità, Gesù Cristo ed i suoi misteri.

Ecco il grande ed essenziale oggetto della nostra pietà.

Immediatamente dopo la Santa Umanità del Salvatore e congiuntamente con lei viene la Santa Madre di Dio, l'augusta Maria, tutta splendente di bellezza e della santità del suo Figlio, tutta rivestita del suo potere e collocata incomparabilmente al di sopra di tutte le pure creature, per essere la grande Protettrice degli uomini, la loro Mediatrice presso Gesù Cristo, come Gesù Cristo stesso è loro Mediatore presso il suo Padre.

Al terzo posto vengono gli Angeli ed i Santi, come ministri ed amici di Dio, preposti da Lui per aiutare gli uomini, mediante il loro ministero e la loro intercessione, ad arrivare all'eredità celeste.

2) Ciò che viene immediatamente da Dio, come la Santa Chiesa che è il Corpo mistico di Gesù Cristo, i Pastori, rivestiti della sua autorità, la parola di Dio, la Santa Scrittura, la grazia, i sacramenti che ce la comunicano, e tutto ciò che appartiene ai sacramenti; infine le nostre chiese, sopratutto quelle m cui risiede realmente e corporalmente Gesù Cristo nel Sacramento del suo amore.

3) Tutto ciò che ci unisce a Dio, tutti i mezzi che ci ha dati per avvicinarci a Lui: la preghiera, la meditazione, le letture di pietà, le istruzioni cristiane, l'Ufficio divino e tutti gli esercizi del culto pubblico, e soprattutto la Santa Messa; infine l'uso frequente della Confessione e della Comunione che servono singolarmente a nutrire ed a perfezionare in noi la pietà, e di cui l'anima non può allontanarsi senza cadere tosto nel rilassamento e nella tiepidezza.

L'effetto che la Pietà produce in noi è di applicarci a questi differenti oggetti, secondo la natura di ciascuno di essi.

L'anima pia è sempre occupata di Dio, si inabissa alla sua presenza, e non aspira che alla felicità di rendersi sempre più gradevole agli occhi di Sua Divina Maestà.

Essa lo vede e l'onora in Gesù Cristo; la vista dell'Uomo-Dio la commuove e rinfiamma, i suoi misteri sono il trattenimento continuo del suo spirito; e per testimoniargli il suo amore, si sforza di imitare i suoi esempi e di conformarsi alle lezioni del suo Vangelo.

Vede, nella Madre di Dio, la creatura preferita di Dio, l'immagine più perfetta del suo Figlio, la Madre più tenera degli uomini, la Regina del cielo e della terra, ugualmente potente e piena di bontà.

Questi sentimenti regolano la sua devozione per lei.

Maria è, dopo Gesù, il principale oggetto del suo rispetto, della sua confidenza e del suo amore.

Nei Santi e negli spiriti beati onora i propri intercessori presso Dio, i suoi protettori e modelli.

L'anima pia rende pure, a tutto quanto porta l'impronta di Dio, l'omaggio che gli deve.

Rende alla Chiesa l'obbedienza più completa; l'ama come sua madre, riverisce tutti i suoi ministri, ciascuno secondo il suo grado; ascolta con rispetto la parola di Dio.

Vede nella Santa Scrittura l'infallibile autorità di Dio stesso; nei sacramenti, benefici d'inestimabile prezzo; nella grazia, il più grande di tutti i tesori, il solo di cui sia gelosa; il suo timore è di non corrispondervi con sufficiente fedeltà.

Le cerimonie della Chiesa, tutte le cose che usa per sostenere e risvegliare la pietà dei fedeli, le sembrano degne di venerazione; ne parla rispettosamente e vi ricorre con fiducia.

I luoghi santi in cui risiede il Signore, dove esaudisce le nostre preghiere, dove effonde su di noi i suoi doni, gli sembrano come paradisi; non vi appare che con il raccoglimento più profondo ed i sentimenti di cui sono penetrati gli Angeli davanti al trono dell'Altissimo.

L'anima pia infine ricerca con santo ardore tutti i mezzi che possono avvicinarla sempre più a Dio.

La preghiera e la meditazione fanno le sue delizie; il suo spirito ed il suo cuore sono in una elevazione continua verso Dio; attinge in letture sante e pie conversazioni ciò che può servire di alimento alla sua pietà.

Fugge con cura i vani divertimenti del mondo e non trova la sua pace, la sua forza e la sua felicità che nelle cose di Dio.

La pietà, che produce in noi questi effetti, ha diversi caratteri che ci fanno discernere quando essa è reale e verace.

Essa non è sempre accompagnata da una devozione sensibile.

Ne è priva, come s'è già detto, nel tempo di quelle prove interiori che la preparano ad una vita più spirituale e tali prove durano a volte lungamente.

Ciò non impedisce che sia allora una vera pietà e che questo stato di insensibilità sia per l'anima l'occasione di molti meriti preziosissimi ed il germe di un'alta santità.

L'anima ha molta pena a persuadersene; ma coloro che il Signore ha incaricato della sua condotta possono facilmente convincersene per la fedeltà che essa porta in tutte le sue pratiche, per gli sforzi che fa per vincersi, per i sentimenti d'umiltà di cui è ripiena.

Al contrario capita a volte che si provi una grande sensibilità di devozione, che si versi una quantità di lacrime, che si abbiano grandi sentimenti per Dio, vivi lumi, un grande gusto della virtù ed anche desideri di fare e di soffrire per Dio cose difficili, e che nonostante ciò si sia senza una vera pietà.

Ciò si capisce quando la condotta non corrisponde a così belle idee, quando i desideri si portano su oggetti estranei, quando si trascurano i propri doveri presenti, e sopratutto quando si manca di umiltà.

Questa falsa pietà è una delle più dannose illusioni della vita spirituale e conduce spesso a deviazioni deplorevoli.

È vero tuttavia che ordinariamente la pietà ha qualche cosa di affettuoso e di sensibile.

Questo sentimento di devozione è dapprima in gran parte nei sensi, su cui esercita un'impressione viva e gradevole che li distacca dai piaceri grossolani per far loro ricercare la virtù, e procura loro soddisfazioni pure ed intime.

L'anima non è ancor capace d'altro. Ma a misura che l'anima avanza verso la perfezione, questo sentimento di devozione si spiritualizza.

È quella gioia che costituisce uno dei principali frutti dello Spirito Santo; i sensi non vi partecipano che in quanto essa è comunicata loro dallo Spirito.

Essa è tutta nella fede e nasce spesso da quanto è più penoso per la natura.

« Fratelli miei, dice l'apostolo S. Giacomo, credete che avete tutti motivo di darvi al gaudio quando siete assaliti da ogni specie di tentazione ». « Omne gaudium existimate, fraires mei, cum in varias tentationes incideritis » ( Gc 1,2 ).

Lo spirito di Maria esulta di gaudio in Dio, suo salvatore. « Exultavit spiritus meus in Dea salutari meo » ( Lc 1,47 ).

Una calma profonda, una pace deliziosa penetra in fondo all'anima.

Essa è circondata da luce. Vola senza pena in seno a Dio.

Vi si riposa come nel suo centro; e poiché l'orazione e la solitudine favoriscono la sua attrattiva, non è senza sforzo che le abbandona quando lo zelo e la carità la chiamano altrove.

Congiungere l'amore alla pietà

Sesto avviso. - Congiungere l'amore fraterno alla pietà. « In pietate autem amareni fraternitatis ».

Per quanto sia cosa lodevole cercare la solitudine e consacrare il proprio tempo agli esercizi di pietà, non bisogna che questa attrattiva ci distolga dalle opere di zelo.

La carità fraterna deve avere la preferenza; rifiutargliela, sarebbe rovesciare l'ordine; il che nei primi tempi del cristianesimo sarebbe stato pregiudizievole al progresso e non lo sarebbe meno ai nostri giorni al bene della religione, che tentano di strapparci, a meno che i veri cristiani non riuniscano tutti i loro sforzi per arginare le devastazioni dell'empietà e non lavorino concordemente per preservare le anime deboli dal contagio.

Per di più l'uomo fatto ad immagine di Dio, il cristiano riscattato dal sangue di Gesù Cristo, figlio adottivo di Dio, tempio vivo dello Spirito Santo, fratello e membro dell'Uomo-Dio, è, in queste sue qualità, uno del principali oggetti della pietà cristiana.

Quanto si fa per lui, lo si fa per Gesù Cristo stesso.

Saremmo dunque in errore se temessimo di nuocere al nostro profitto spirituale abbandonando le dolcezze della preghiera per occuparci delle opere della carità fraterna.

Gesù Cristo si è offerto per la salvezza degli uomini in sacrificio; è in questo sopratutto che Egli vuole essere nostro modello; non c'è neppure un'anima per la cui salute non dobbiamo essere pronti a sacrificare tutto: i nostri beni, il nostro gusto di pietà, il nostro riposo, la salute, la reputazione, la vita.

Amarci gli uni gli altri, come Gesù Cristo stesso ci ha amato, questo è il precetto del Signore per eccellenza: « Hoc est praeceptum meum, ut diligatis invicem, sicut dilexi vos ». « Il mio precetto è che vi amiate come io vi ho amati » ( Gv 15,12 ).

Ecco la misura, la regola della nostra carità verso il prossimo: non bisogna cioè mettere dei limiti.

Bisogna, per quanto è in nostro potere, fare per il prossimo ciò che il Salvatore del mondo ha fatto per tutti gli uomini in generale e per ciascuno di noi in particolare.

Ciò ci mostra come debba essere perfetta la pratica della carità fraterna.

Non voglio qui svilupparne tutti i doveri : abbraccia tutti i doveri e chi pratica la carità fraterna, dice S. Paolo, compie tutta la legge : « Qui diligit proximum, legem implevit » ( Rm 13,8 ).

Su questo comandamento e su quello dell'amore divino si riassumono e la Legge ed i Profeti.

« In his duobis mandatis universa lex pendet et Prophetae » ( Mt 22,40 ).

Mi limiterò ad osservare che nelle caratteristiche che l'Apostolo ci ha tracciato della carità fraterna, non solamente le da per compagne le virtù che hanno un diretto rapporto con il prossimo, come la pazienza, la bontà, la dolcezza.

« Charitas patiens est, benigna est … ». « La carità è paziente, dolce … » ( 1 Cor 13,4 ); non solamente scarta lontano da lei quei vizi e difetti di cui il prossimo avrebbe da soffrire maggiormente, come l'invidia, la gelosia, la collera, i sospetti: « Charitas non aemulatur, non ìrritatur, non cogitai malum, non gaudet super iniquitate » « La carità non è invidiosa, non si irrita, non pensa il male, non gioisce dell'iniquità » ( 1 Cor 13,4 ); ma ancora ce la presenta come non sopportante nessuno di quei vizi che sembrano attaccare solo l'uomo che se ne rende colpevole: l'imprudenza, la vanità, l'ambizione, il proprio tornaconto: « Non agii perperam, non inflatur, non est amtiosa, non quaerit quae sua sunt » « Non agisce a vanvera, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca affatto i propri interessi » ( 1 Cor 13,4 ); il che ci fa comprendere che per esercitare la carità verso il prossimo bisogna èssere esenti da quei vizi che nascono dall'amore disordinato dell'uomo per se stesso.

La carità fraterna per essere perfetta dovrebbe essere libera da ogni concupiscenza, e siccome ciò non può avvenire in questa vita, essa non sarà in tutta la sua perfezione che in cielo; e mentre le altre virtù, il cui esercizio è necessario quaggiù e per il nostro stato presente e per le miserie che lo accompagnano, saranno come assorbite dalla divina Carità, l'amore fraterno sussisterà eternamente con lei perché in essa non c'è nulla di non santo, o piuttosto perché esso stesso non è che una partecipazione o meglio una necessaria emanazione di questa divina carità.

Coronare tutte le virtù con la carità

Settimo avviso. - Coronare tutte le virtù, e soprattutto l'amore del prossimo con la Carità.

« In amore autcm fraternitatis Charitatem ». Per compiere ciò che ci è imposto da queste parole, bisogna che il nostro amore per il prossimo sia soprannaturale e divino nel suo motivo, nel suo principio, nel suo fine.

Nel suo motivo: non deve considerare sul prossimo le sue qualità naturali, ciò che ha di amabile, i legami del sangue o dell'amicizia che abbiamo con lui, i servizi che ci ha resi o che possiamo da lui attenderci.

Non è che non ci sia permesso di amare il nostro prossimo per questa specie di motivi; ma allora lo amore che si mitre per lui non è che l'amore naturale, che non è affatto meritorio per il ciclo.

Perché questo amore del prossimo sia un amore di carità, bisogna che sia fondato su rapporti che il prossimo ha con Dio, come sua opera, sua immagine, suo figlio, oggetto del suo amore; così che sia Dio che venga amato in lui.

Nel suo principio: l'amore di carità che si ha per il prossimo è un ramo o piuttosto un germoglio di quello che si ha per Dio; deve avere lo stesso principio divino; non può essere prodotto ed effuso nei nostri cuori che dallo Spirito Santo.

Nel suo fine : questo amore tende direttamente a Dio da cui emana; non si propone che quanto può rendere l'uomo più santo e gradevole a Dio: la gloria di Dio e l'adempimento della volontà di Dio.

Se si propone fini meno puri, anche se buoni, non è più un amore di carità.

Un segno, a cui si può riconoscere sicuramente se l'amore è così soprannaturale, è quando si ama universalmente tutti gli uomini, senza distinzione di amici o di nemici, di parenti o di estranei, e quando si vuol del bene e si fa del bene, quanto è possibile, a tutti.

Non c'è questo amore di Carità, senza cui non si può essere nella grazia di Dio, qualora non si estenda a tutti gli uomini.

Un sol uomo che si escludesse dal proprio amore, fosse pure il peggiore ed il più odioso degli uomini viventi sulla terra, basterebbe per far vedere che non abbiamo affatto questo amore di Carità che è assolutamente necessario per la salvezza.

« Amate i vostri nemici, dice il Signore, fate del bene a quelli che vi odiano e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del vostro Padre celeste, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e che elargisce la pioggia ai giusti ed agli ingiusti » « Ego autem dico uobis: diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos et orate prò persequentibus et calumniatibus vos. Ut sitis filii Patris vostri, qui in coelis est qui solem suum oriri facit super bonos et malos et pluit super iustos et iniustos » ( Mt 5,44-45 ).

La carità ci eleva al di sopra di noi stessi, al di sopra di tutti gli oggetti creati, al di sopra di quanto vi è di più attraente sulla terra e di più grande nel cielo; e diretta verso Dio come diretta verso il prossimo, essa non guarda che Dio da lei amato per se stesso ed al di sopra di tutto.

La carità non annulla le altre virtù non ne impedisce l'esercizio; lo comanda anzi sulla terra, perché esso ci è necessario mentre viviamo quaggiù, ma essa le regola e le indirizza tutte al loro fine, da loro la propria perfezione.

Essa sussiste nell'uomo viatore con la Speranza e la Fede; non potrebbe neppure sussistere senza di esse, poiché non fruisce ancora del Divino Oggetto che ama e che non vede ancora a faccia a faccia.

Non lo può ancora contemplare che con gli occhi della Fede ed ha anche bisogno che la Speranza le presti ali per tendere a Lui come all'unico fine ad al bene sovrano dell'uomo; ma aiutata dal soffio dello Spirito Santo, accesa dal suo ardore, essa si eleva sopra queste virtù e va a perdersi e ad inabissarsi nel seno di Dio per amarlo, pur senza vederlo se non per la Fede, con lo stesso amore degli Spiriti comprensori, dei Santi che lo contemplano senza nubi, come è; con il medesimo amore che Dio ha per se stesso, e che le Divine Persone hanno tra loro.

Dobbiamo amare Dio perché Egli ci comanda di amarlo e perché, senza tale amore, non vi sarebbe affatto salvezza per noi.

È una cosa infinitamente giusta, è l'inizio della sapienza.

Noi dobbiamo amare Dio perché riceviamo da Lui tutto quanto siamo e tutto quanto abbiamo, nell'ordine della natura e della grazia: la qualità d'uomo fatto a sua immagine, la qualità di Cristiano e tutti i beni che queste qualità racchiudono.

È un dovere di riconoscenza che ci obbliga a riferire tutto a Dio: il nostro corpo, la nostra anima, le nostre potenze; e questo dovere è tanto più incalzante quanto più innumerevoli sono questi beni, quanto più sono di ogni momento e ciascuno di essi è di inestimabile valore.

Noi dobbiamo amare Dio poiché da Lui ci attendiamo tutto e poiché è una sorgente inesauribile e sempre aperta di grazie e di benefici a cui possiamo attingere ad ogni momento, per mezzo di Gesù Cristo, tutto quanto ci occorre e polche Egli ci destina, dopo questa vita, un bene che racchiude tutti gli altri beni e che non è altro che Lui stesso.

Questo amore appartiene alla speranza, e ci obbliga a fissare in Dio tutti i nostri desideri ed a lavorare incessantemente per renderci degni di possederlo.

Noi dobbiamo amare Dio perché egli ci ama.

Questo motivo è più puro e più forte degli altri; nulla commuove più dell'amore.

È più incalzante: quando se ne è convinti, non ci si può più impedire di fare ogni sforzo per testimoniare a Dio il proprio amore, ed i nostri sforzi sono maggiori quanto più tutto ciò che noi possiamo fare non è nulla in confronto di ciò che il divino amore ha fatto e fa ancora continuamente per noi.

Questo motivo è così nobile e puro che quando, con il soccorso della grazia, siamo arrivati fin qui, non è affatto credibile che la grazia non conduca a perfezione la sua opera; e forse non succede mai che un'anima arrivi veramente a questo grado d'amore soprannaturale senza elevarsi a quello della carità.

Ma infine questo motivo non è ancora quello di pura carità; è mescolato con qualche ripiegamento su di noi e non mira puramente a Dio come è in se stesso.

La Carità ama Dio per se stesso: senza escludere gli altri motivi, essa però non vi si ferma.

Non si ferma che alle sue infinite perfezioni.

Essa in Dio non vede che Dio, ed il suo motivo per amare Dio non o che Dio stesso: « Ratio diligendi Deum, Deus est » ( S. Bernardo ).

Noi ameremmo Iddio anche se non ce l'avesse comandato; anche se la nostra salvezza non dipendesse da questo amore; anche se, per impossibile, non avessimo ricevuto nulla da Lui; anche se non dovessimo aspettarci nulla; anche se non ci fosse ne da temere inferno non amandolo, ne da sperare il cielo, amandolo.

Noi l'ameremmo perché merita infinitamente di essere amato, perché è infinitamente giusto amare Colui che è la sorgente di quanto c'è di bello, di buono, di amabile; che è lui stesso tutto bellezza, tutto bontà, tutto sapienza, tutto amore, e dinnanzi a cui ogni bellezza, ogni grandezza si eclissa e scompare.

Noi rameremmo sopra tutte le cose, e tutte le cose per rapporto a lui, perché tutti gli altri esseri non sono nulla vicino a lui.

Sarebbe fare un oltraggio a Dio, sarebbe renderci colpevoli di una grande ingiustizia, di una grande insania, se amassimo qualche cosa creata più di Dio, nello stesso modo di Dio, come Dio.

È ciò che il precetto della carità proibisce rigorosamente.

Quando si ama Dio sopra tutte le cose e per se stesso; quando si evita con cura ciò che può offenderlo; quando si è nel proposito fermo di perdere tutto, di sofFrire tutto piuttosto di perdere l'amicizia di Dio, si adempie il precetto della carità.

Ma la Carità non conosce limitazioni: « La misura di amare Dio, è di amarlo senza misura » « Modus diligendi Deum, sine modo » ( S. Bernardo ).

Quale misura infatti, quali limitazioni potremmo mettere al nostro amore per Dio?

Quando adempissimo in tutta la sua estensione il grande precetto della carità; quando amassimo, Dio con tutto il nostro cuore, con tutte le nostre forze; quando tutti gli atti della nostra volontà, tutti i pensieri del nostro spirito; quando tutti i nostri desideri, i nostri affetti, le nostre parole, le nostre opere fossero dirette, animate, accese dalla carità più pura; e lo fossero senza interruzione, senza impurità, senza imperfezione; allora si avvererebbe quel che sembra voluto delle parole del precetto, ma di cui l'uomo è incapace in questa vita e che non può essere compiuto che nell'eternità felice.

Perciò il Signore ha voluto solamente mostrarci con ciò, quanto è geloso del nostro amore; come noi non possiamo mai amarlo abbastanza; come non ci siano momenti, luoghi, circostanze in cui noi non dobbiamo appartenere interamente a lui; come egli voglia occupare il primo posto nel nostro cuore e che non dobbiamo mai soffrire in noi, ne nei pensieri e sentimenti, né nelle nostre parole ed azioni, nulla che sia contrario a questo amore di preferenza che gli dobbiamo.

Ma quando questa perfezione fosse possibile in questa vita, quando il nostro amore per Dio, quaggiù, fosse come quello degli Angeli e dei Santi in cielo, quale proporzione avrebbe con la grandezza di Dio, con la sua bontà, con la sua infinita eccellenza?

Che sarebbe allora se noi ci mettessimo dei limiti; se non gli dessimo tutto lo slancio di cui è suscettibile, con il soccorso della grazia; se con le nostre negligenze, con la nostra mancanza di corrispondenza, impedissimo alla grazia di operare in noi con tutta la sua forza; se contristassimo in noi lo Spirito Santo, con una moltitudine di mancanze, di attacchi, incompabili con la perfezione della carità?

Noi possiamo tuttavia supplire, in qualche maniera, alla debolezza ed alla insufficienza del nostro amore.

La carità rende comuni tra gli amici di Dio tutti i beni.

L'amore che tutti gli abitanti del cielo hanno per Dio, appartiene anche a noi veramente; possiamo appropriarcelo ed offrirlo a Dio come un amore che c'è proprio; e per quanto questo amore non sia propriamente degno di Dio, non ha nulla che gli dispiacerà e coprirà le miserie e le imperfezioni inseparabili del nostro amore.

Eleviamoci ancora più in alto e lasciando molto al di sotto di noi i più sublimi Serafini, arriviamo fino alla Regina dei celi, che, per quanto pura creatura, dì tanto sorpassa tutte le altre creature con l'ardore e la purezza del suo amore, quanto le sorpassa con la sua dignità di Madre di Dio.

In qualità di figli suoi, noi abbiamo particolari diritti su di Lei; l'offerta che faremo del suo amore, rialzerà ancor più il valore del nostro.

Non fermiamoci ancora qui. Sotto gli auspici di Maria, presentiamoci al suo Divin Figlio; penetriamo nel suo Cuore e non temiamo di considerare il suo amore come appartenente a noi e di offrirlo come tale al Padre.

Noi lo possiamo ed i nostri diritti in questo sono incontestabili.

Gesù Cristo ci è stato donato dal suo divin Padre; si è donato lui stesso a noi intieramente; egli è in noi e noi siamo in lui; noi non formiamo con lui che un medesimo tutto ed ha ceduto a noi tutti i suoi beni.

Offriamo dunque a Dio tutto l'amore di cui arde il Cuore di Gesù.

Amiamo Dio con questo divin Cuore.

Allora il nostro amore sarà libero da tutte le sue miserie e per Gesù Cristo ameremo Dio in un modo degno della sua grandezza e delle sue infinite perfezioni.

Ciò non ci dispensa, senza dubbio, dal fare tutto quanto sta in noi per rendere più pura e perfetta la nostra carità.

Noi non possiamo infatti partecipare all'amore dei Santi, della Madre di Dio, di Gesù Cristo stesso clic nella misura con cui entriamo nei loro sentimenti.

Dobbiamo dunque faticare incessantemente a purificare i nostri cuori da quanto potrebbe mettere in noi ostacolo alla grazia e che ci potrebbe impedire di ricevere l'influsso del divino amore.

Dobbiamo impiegare tutti i nostri sforzi per acquistare e consolidare in noi quelle virtù che meglio ci dispongono alla carità: la riconoscenza, la confidenza in Dio, la conformità al suo beneplacito; ed il modo di acquistarle è di fare ciò che sta da noi per non perdere mai di vista la sua divina presenza.

Potrebbe apparirci difficile ciò? Dio è presente dovunque; noi non facciamo nulla che egli non lo faccia pure in noi.

Noi non esistiamo che per Lui; noi non abbiamo che il movimento da Lui impressoci.

La vita e tutto ciò che serve alla vita: la luce, il respiro, gli alimenti, sono benefici che riceviamo ad ogni istante dalla sua mano.

« In ipso vivimus, movemur, et sumus » ( At 17,2 ).

Tutto, nella natura ci richiama il ricordo di Dio, tutto ci mostra la sua mano sempre operante.

« I cieli ci annunciano la sua gloria, ed il firmamento con tutti gli astri che lo decorano, è opera delle sue mani » « Coeli enarrant gloriarn Dei et opera manum eius annuntiat firmamentum » ( Sal 19,2 ).

Non c'è creatura sulla terra che non porti qualche impronta delle sue perfezioni, della sua potenza, della sua bontà, del suo amore.

La Fede, che ci trasporta in un ordine di cose soprannaturali, ci rappresenta le perfezioni di Dio in un modo ancor più luminoso ed ammirevole.

Tutti gli oggetti che essa ci offre ci parlano del divino amore, mostrandocene la necessità.

L'inferno ci mostra l'infelicità di coloro che non amano Iddio; il Cielo, quanto si è felici quando lo si ama; la Chiesa è, sulla terra, il regno del divino amore.

Questo amore si mostra a noi sul suo trono, circondato da fiamme, sorretto dalla clemenza e dalla misericordia.

Le verità da lei insegnate segnano la strada che conduce al divino amore; i sacramenti, sorgenti inesauribili alle quali lo possiamo attingere incessantemente; la moltitudine di grazie che Dio spande con profusione sui suoi figli ha per scopo di farli aderite più saldamente al suo amore.

Buone sono queste considerazioni; ancor migliori le opere.

Senza queste, lo stesso ricordo di Dio, la sua presenza non servirebbero che a pascere il nostro spirito e non raggiungerebbe il proprio scopo.

Applichiamoci dunque, prima di ogni cosa, all'esercizio delle virtù : sia questa, come ce la prescrive l'Apostolo, la prima delle nostre cure; e per non smarrirci, sia a destra sia a sinistra, segniamo il cammino che egli ci ha tracciato, non disprezziamo alcuna delle virtù che ci indica, e riferiamole tutte alla divina Carità.

È la Carità che le abbellisce, che le incorona, che le lega le une alle altre, per formare con esse quel bei complesso, quella catena che ci offre il Principe degli Apostoli: catena preziosa che racchiude tutti nostri doveri verso Dio, verso il prossimo, verso noi stessi; catena di gloria e di onore, di cui ogni cristiano deve essere ornato come di una magnifica collana, testimonio della sua perfetta obbedienza, per trovare grazia ed apparire con gloria alla presenza di Sua Divina Maestà.

« Ut addatur grafia capiti tuo, et torques collo tuo » ( Pr 1,9 ).

Rivestirsi dell'ornamento delle virtù

L'Apostolo ci mostra poi quanto sia importante e necessario per noi rivestirci di questo ornamento.

È l'ottavo ed ultimo avviso che da su questo argomento.

« Se voi avete continuamente queste virtù davanti agli occhi, ci dice, se siete fedeli a farne uso, se lo fate ogni giorno in una maniera più perfetta e più abbondante, non sarà invano né senza frutto che avrete ricevuto la conoscenza di Gesù Cristo, Nostro Signore » « Haec si vobiscum adsint et superent, non vacuos nec sine fructu vos constituient in Domini nostri cognitione » ( 2 Pt 1,8 ).

È manifesto che l'Apostolo non attribuisce questi felici risultati ad alcune di queste virtù separate dalle altre, ma al loro complesso, al loro concatenamento.

È da qui che nasce la loro forza ed efficacia; tutte, senza eccezione, sono necessarie, per quanto non in tutti nello stesso grado di perfezione, a costituire un vero cristiano.

Quando ci dice che con queste virtù, noi non abbiamo imparato « Invano e senza frutto » a conoscere Gesù Cristo, dobbiamo intendere che praticando queste virtù, produciamo ogni giorno una moltitudine di opere buone e che raccoglieremo questi frutti inestimabili, di cui ha parlato come effetti necessari della conoscenza di Gesù Cristo, e particolarmente la felicità di essere fatti « partecipi della natura divina » « diuinae consortes naturae » ( 2 Pt 1,4 ): felicità di cui si incomincia a godere quaggiù quando si è fedeli a quanto ci ingiunge l'apostolo, ma di cui in cielo soltanto ci sarà il pieno godimento.

Ciò basta senza dubbio per convincerci quanto sia importante la pratica di queste virtù.

L'Apostolo ce ne mostra in seguito la necessità, mettendoci sotto gli occhi l'infelice stato di un cristiano, che non fosse ornato di queste virtù.

« Colui, dice, che trascura di praticarle, che non le ha per così dire sotto mano, per farne uso tutte le volte che ne ha bisogno, e tale bisogno è di tutti i momenti : « Cui non praesto suni haec », « questo uomo è un cieco », « caecus est », « non avanza che a tastoni » « et mami, tentans ». « egli vive come se avesse dimenticato che è cristiano e che i suoi antichi peccati gli sono stati perdonati » « oblivionem accipiens purgationis velerum suorum delictorum » ( 2 Pt, 1,9 ).

Può anche succedere che quest'uomo abbia una grande penetrazione di spirito, molte conoscenze in ogni campo; che sia buon politico, un dotto, grande giureconsulto, abile teologo, famoso predicatore; ma con tutto ciò, se non pratica ciò che insegna l'Apostolo, è in un deplorevole accecamento.

L'ultimo degli spiriti delle tenebre sorpassa in lumi ed in conoscenze naturali i più famosi geni che siano esistiti sulla terra; non è stato tuttavia meno colpito di cecità e l'abisso profondo in cui è eternamente immerso ci mostra quanto sia stato funesto il suo accecamento.

Tale sarebbe l'accecamento di questo infelice cristiano.

Quando un uomo, dopo di essere stato istruito alla scuola di Gesù Cristo, è uscito di strada; quando non procede più alla sequela di Colui che è la vera luce nella via dell'umiltà, della pazienza, della carità, non c'è più nulla di sicuro e di fermo nella sua condotta, cammina a tastoni, e perdendo il ricordo di tutte le grazie ricevute, dimenticando perfino la sua qualità di cristiano, la disonora con una infinità di delitti.

Il numero di questi ciechi è grande ed ogni giorno se ne vede aumentare la schiera in questo secolo di incredulità.

Voi siete troppo fortemente legati a Gesù Cristo perché io possa temere per voi una simile disgrazia.

Ma ciascuno deve temerla per se stesso e questo timore deve portarlo a vegliare con maggior cura su di sé.

Non dobbiamo essere d'altronde scossi per la perdita di un'infinità di anime, tutte cosparse dal sangue di Gesù Cristo?

Non dobbiamo fare ogni sforzo per strapparle dal pericolo a cui esse si sono disgraziatamente esposte, per preservare dal contagio quasi generale le anime che non ne sono ancora minacciate? per affrettare a questa porzione dell'eredità del Signore, il ritorno delle sue grandi misericordie, od almeno perché egli si degni di completare quelle benedizioni celesti che ci ha già fatto sentire per un eccesso di clemenza e di bontà?

Che potremmo fare di più conveniente per ciò, se non lavorare con nuovo ardore alla nostra propria perfezione, affinché nel giorno della visita del Signore al suo popolo, possiamo lavorare con maggior zelo e successo alla salvezza e perfezione del prossimo, ciascuno di noi secondo lo stato e la misura della sua grazia e dei suoi lumi?

Lavoriamo dunque con maggior fervore del solito all'edificazione della nostra perfezione, secondo l'ordine che ci è prescritto dal Principe degli Apostoli.

Una Fede forte e generosa serva di fondamento solido all'edificio.

Si elevi la virtù su questo fondamento e l'arricchisca di ogni sorta di opere buone ed essa stessa sia diretta nei suoi sforzi dalla scienza dei Santi.

Non trascuriamo nulla per renderci di giorno in giorno più abili in questa scienza.

Essa ci insegnerà a combattere dapprima le nostre passioni, ad estirpare i nostri vizi ed a non concedere nulla alla corruzione della natura, mediante la pratica di una santa astinenza.

In questo lavoro, chiamiamo in nostro aiuto la Pazienza e si perfezioni sempre più in noi la pratica di questa virtù; non ve n'è alcuna che sia più necessaria, ma ha bisogno di essere essa stessa sostenuta da una grande Pietà.

La pietà è così bella, cosi giusta, così attraente, che i nostri cuori devono volare spontaneamente verso di lei.

Sappiamo attaccarci a quanto ha di più solido, senza ricercarne sempre le dolcezze sensibili; stiamo in guardia soprattutto che non ci distolga mai dai doveri della carità fraterna.

Abbiamo per il prossimo i sentimenti di Gesù Cristo.

Attingiamo pure dal Divin Cuore di Gesù quella Carità, pura e tutta ardente che dobbiamo avere per Dio.

Questa divina Carità animi, quant'è possibile, tutte le nostre azioni e regni sovrana sui nostri cuori.

È questo il vero mezzo, Signori e carissimi Confratelli, di adempiere i disegni mirabili, ma nascosti, di Dio su di noi.

È l'augurio più vivo e più continuo del mio cuore.

Sia anche il voto di ciascuno di voi per gli altri; ed ogni giorno offriamolo concordemente al Signore, per la mediazione di Maria, nostra tenera Madre, non avendo tutti assieme che un cuore ed un'anima, in unione dei sacri Cuori di Gesù e di Maria.

Non dubitiamo affatto che il Signore, nel tempo più conveniente, esaudirà il grido unanime dei nostri cuori, che solo ha per fine la sua maggior gloria ed il maggior bene della Santa Chiesa. Così sia.

Io sono con rispetto, Signori, il vostro umilissimo ed obbedientissimo servo in Gesù Cristo.

29 maggio 1805

P. J.

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