Osservazioni sulla morale Cattolica Parte prima Capitolo I Sulla unità di fede L'unità della fede, che non può risultare se non da un assoggetta mento assoluto della ragione alla credenza, e che per conseguenza non si trova in nessun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica, lega completamente tutti i membri di questa Chiesa a ricevere gli stessi dommi, a sottomettersi alle stesse decisioni, a formarsi con gli stessi insegnamenti Che l'unità della fede si trovi nel più alto grado, o piuttosto assolutamente, nella Chiesa cattolica, è questo un carattere evangelico di cui essa si vanta; poiché non ha inventata quest'unità, ma l'ha ricevuta; e, tralasciando tanti luoghi delle Scritture dov'essa è insegnata, ne riporterò due, in cui si trova non solo la cosa, ma la parola. San Paolo nell'Epistola agli Efesi, dice espressamente: Una e la fede; e dopo avere enumerati vari doni e ufizi che sono nella Chiesa, stabilisce per fine di essi l'unità della fede, e della cognizione del Figliolo di Dio. L'illustre autore non adduce gli argomenti per cui l'unità della fede non deva poter resultare che dalla schiavitù assoluta della ragione alla credenza. Se la cosa fosse così, non si potrebbero conciliare i passi citati dianzi, con quell'altre parole del medesimo apostolo: il razionale vostro culto. Ma non solo si conciliano; si spiegano anzi, e si confermano a vicenda. Certo, la fede include la sommissione della ragione: questa sommissione è voluta dalla ragione stessa, la quale riconoscendo incontrastabili certi princìpi, è posta nell'alternativa, o di credere alcune conseguenze necessarie, che non comprende, o di rinunziare ai princìpi. Avendo riconosciuto che la Religione Cristiana è rivelata da Dio, non può più mettere in dubbio alcuna parte della rivelazione; il dubbio sarebbe non solo irreligioso, ma assurdo. Supponendo, per un momento, che l'unità della fede non fosse espressa nelle Scritture, la ragione che ha ricevuta la fede deve adottarne l'unità: non ha più bisogno per questo di sottomettersi alla credenza; ci deve arrivare per una necessità logica. La fede sta nell'assentimento dato alle cose rivelate, come rivelate da Dio. Suppongo che l'autore, scrivendo questa parola fede, le ha applicata quest'idea, perchè è impossibile applicargliene un'altra. Ora, repugna alla ragione che Dio riveli cose contrarie tra di loro; se la verità è una, la fede dev'esserlo ugualmente, perchè sia fondata sulla verità. La connessione di quest'idee è chiaramente accennata nel testo già citato in parte: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Dall'unità di Dio resulta necessariamente l'unità della fede, e da questa l'unità del culto essenziale. Bacone mostrò di tenere questa per una verità fondamentale, dove disse: Tra gli attributi del vero Dio si pone che e un Dio geloso: onde il suo culto non soffre ne mescolanza, ne compagnia. L'idee di fede e di pluralità sono così contradittorie, che il linguaggio stesso pare che repugni a significare la loro unione; poiché si dirà bene le diverse religioni, opinioni, credenze religiose, ma non già le diverse fedi. Per religione s'intende un corpo di tradizioni, di precetti, di riti; e si vede assai bene come ce ne possa essere più d'una. Così nelle opinioni si considera piuttosto la persuasione di chi crede, che la verità delle cose credute. Ma per fede s'intende persuasione fondata sulla rivelazione divina; e benché popoli di vario culto credano che l'opinione loro abbia questo fondamento, il linguaggio ricusa l'espressipne che significherebbe la coesistenza di rivelazioni diverse, perchè la ragione la riconosce impossibile. Molti di diversa religione possono credere di posseder la fede; ma un uomo non può ammettere che questi molti la possiedano. Se questa fosse una sofisticheria grammaticale, vaglia per tale, bastando l'argomento semplicissimo col quale s'è provato che l'unità - della fede non suppone altro assoggettamento della ragione, che alle leggi del raziocinio. Non voglio certamente dire con ciò, che la fede stessa consista in una semplice persuasione della mente: essa è anche un'adesione dell'animo; e perciò dalla Chiesa è chiamata virtù. Questa qualità le è contrastata dal Voltaire, in un breve dialogo dove la bassa e iraconda scurrilità del titolo stesso indica tutt'àltro, che quella tranquillità d'animo con cui si devono pure esaminare le questioni filosofiche. « Un onest'uomo sostiene, « contro un escremento di teologia che la fede non è punto una virtù, con questo argomento: È forse virtù il credere? o quello che tu credi ti sembra vero, ed in questo caso non c'è merito a crederlo; o ti sembra falso, ed allora è impossibile che tu lo creda ». È difficile d'osservare più superficialmente di quello che abbia qui fatto il Voltaire. Per escludere dalla fede ogni cooperazione della volontà, egli non considera nel credere se non l'operazione della mente, che riconosce vera o non vera una cosa; riguarda quest'operazione come necessitata dalle prove, non ammettendo altro a determinarla, che le prove stesse; considera insomma, la mente come un istrumento, per così dire, passivo, su di cui le probabilità operano la persuasione o la non credenza: come se la Chiesa dicesse che la fede è una virtù dell'intelletto. È una virtù nell'uomo; e per vedere come sia tale, bisogna osservare la parte che hanno tutte le facoltà dell'uomo nel riceverla o nel rigettarla. Il Voltaire lascia fuori due elementi importantissimi: l'atto della volontà, che determina la mente all'esame, e la disposizione del core, che influisce tanto nell'ammettere o nel rigettare i motivi di credibilità, e quindi nel credere. In quanto al primo, le verità della fede sono in tante parti così opposte all'orgoglio e agli appetiti sensuali, che l'animo sente un certo timore e una certa avversione per esse, e cerca di distrarsene; tende insomma ad allontanarsi da quelle ricerche che lo condurrebbero a scoperte che non desidera. Ognuno può riconoscere in se questa disposizione, riflettendo all'estrema attività della mente nell'andare in cerca d'oggetti diversi, per occupare l'attenzione, quando un'idea tormentosa se ne sia impadronita. La volontà di metter l'animo in uno stato piacevole influisce su queste operazioni in una maniera così manifesta, che quando ci si presenta un'idea che riconosciamo importante, ma sulla quale non ci piace di fermarci, ci accade spesso di dire a noi stessi: non ci voglio pensare; e lo diciamo, quantunque convinti che questo non pensarci ci potrà cagionare dei guai nell'avvenire; tanto è allora in noi il desiderio di schivare un sentimento penoso nel momento presente. Questa mi pare una delle ragioni della voga che hanno avuta, e hanno in parte ancora, gli scritti che combattono la religione col ridicolo. Secondano una disposizione comune degli uomini, associando a idee gravi e importune una serie d'idee opposte e svaganti. Posta quest'inclinazione dell'animo, la volontà esercita un atto difficile di virtù, applicandolo all'esame delle verità religiose; e il solo deternarsi a un tale esame suppone non solo un'impressione ricevuta di probabilità, ma un timore santo dei giudizi divini, e un amore di quelle verità, il quale superi o combatta almeno l'inclinazioni terrestri. Che poi l'amore o l'avversione alle cose proposte da credersi influisca potentemente sulla maniera d'esaminarle, sull'ammetterne o sul rigettarne le prove, è una verità attestata dall'esperienza più comune. Si sparga una notizia in una città che abbia la disgrazia d'esser divisa in partiti; essa è creduta da alcuni, discreduta da altri, a norma degl'interessi e delle passioni. Il timore opera, al pari del desiderio, sulla credenza, portando talvolta a negar fede alle cose minacciate, e talvolta a prestargliene più di quello che si meritino; la qual cosa avviene spesso quando si presenti un mezzo di sfuggirle. Quindi sono così comuni quell'espressioni: esaminare di bona fede, giudicare senza prevenzione, spassionatamente, non farsi illusione, e altre simili, le quali significano la libertà del giudizio dalle passioni. La forza d'animo, che mantiene questa libertà, è senza dubbio una disposizione virtuosa: essa nasce da un amore della verità, independente dal piacere, o dal dispiacere che ne può venire al senso. Si vede quindi quanto sapientemente alla fede sia dato il nome di virtù. Siccome poi la mente umana non sarebbe arrivata da sé a scoprire molte verità della religione, se Dio non le avesse rivelate; e siccome la nostra volontà corrotta non ha da sé quella forza di cui s'è parlato; così la fede è chiamata dalla Chiesa e una virtù e un dono di Dio. Tornando da questa lunga digressione al passo che stiamo esaminando, confessò di non intendere chiaramente il senso di quella proposizione: che l'unità di fede non si trova in alcun'altra religione allo stesso grado che nella cattolica. Come ci possono essere diversi gradi nell'unità di fede, il più e il meno in un'unità qualunque? O quest'altre religioni propongono come vera la loro fede, e devono insegnare che è vera essa sola, o ammettono che qualche altra lo possa essere; e come possono chiamar fede la loro, che in fatto è un vero dubbio? Ogni volta che una di queste religioni s'avvicina al principio dell'unità, cioè quando esclude ogni dottrina opposta alla sua, ciò accade perchè in quella religione si sente allora vivamente che è assurdo il dir vera una proposizione, e non rigettare ciò che la contradice. E ogni volta che s'allontana da quel principio, ciò accade perchè, non sentendosi certi della propria fede, s'accorda agli altri ciò che si chiede per sé, la facoltà di chiamar fede ciò che non importa la condizione del credere. È la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: Non sia ne tuo, ne mio; ma si divida. Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che ci siano mezzi bambini vivi. Infatti, né l'illustre autore indica quale sia il grado dell'unità di fede, fino al quale la ragione deva arrivare; né è possibile l'indicarlo, giacché l'assunto sarebbe contradittorio. Dire che la ragione deva assoggettarsi alla fede, ma in un certo grado, qualunque sia, è dichiarare la fede infallibile insieme, e bugiarda. Infallibile, in quanto, per sé, e come fede, può legittimamente richiedere un assoggettamento qualunque della ragione: bugiarda, in quanto, richiedendo un assoggettamento che la ragione può legittimamente limitare, ridurre a un certo grado, e fargli, dirò così, la tara, afferma più di quello che gli si deva credere. Il non essere la Chiesa cattolica soggetta alle fluttuazioni accennate sopra; il trovarsi in essa, non un maggiore o minor grado d'unità di fede, ma l'unità della fede; questo dirsi e poter essere immutabile, è un carattere doppiamente essenziale della verità dei suoi insegnamenti. È la condizione necessaria della ragione, come della fede; due doni d'un solo e stesso Dio; la distinzione e la concordia dei quali è divinamente espressa nelle parole già citate dell'Apostolo: il razionale vostro culto. Capitolo II Sulla diversa influenza della religione cattolica secondo i luoghi e i tempi Però l'influenza della religione cattolica non è la stessa in ogni tempo ed in ogni luogo. Essa ha operato in Francia ed in Germania molto differentemente da quello che ha fatto in Italia e Spagna … Le osservazioni che ci siamo proposti di fare sulla religione dell'Italia o della Spagna durante i tre ultimi secoli, non devono essere applicate a tutta la Chiesa Cattolica. Per dilucidare questo punto, il quale, come si vedrà, non è qui d'un'importanza meramente storica, è necessario rammentare il disegno del cap. CXXVII, del quale osserviamo una parte. Esso è espresso nell'intitolazione del capitolo medesimo: « Quali sono le cause che cangiarono il carattere degli Italiani dopo che furono assoggettate le loro repubbliche ». E se ne assegnano quattro: la prima, e la sola di cui mi propongo di ragionare, è la religione. L'autore, entrando a spiegare la parte che questa ebbe, secondo lui, nel produrre un tal cambiamento, si fa un'obiezione dell'unità della fede; poiché, vincolando essa, come dice benissimo, tutti i membri della religione cattolica a ricevere gli stessi dommi, a sottomettersi alle stesse decisioni, a formarsi con gli stessi insegnamenti, pare che questa religione deva essere piuttosto una cagione d'uniformità tra i vari popoli che la professano, che di differenze. Ciò non ostante, soggiunge, l'influenza della religione cattolica non è la stessa in ogni tempo e in ogni luogo; essa ha operato diversamente in Francia e in Germania, che in Italia e in Spagna. Per indurre una diversità d'influenza, non ostante l'unità della fede mantenuta da tutti i cattolici, io credo che non si possano trovare cagioni che di tre sorte. I. Leggi o consuetudini disciplinari, le quali non sono parte della fede. II. Alterazioni insensibili e parziali della dottrina o inesecuzioni e violazioni della disciplina essenziale e universale, le quali, lasciando intatto in teoria il principio dell'unità, possono portare una nazione o una frazione di essa, per lungo tempo o per intervalli, con maliziosa cognizione di causa o ignorantemente, a operare e parlare in fatto, come se avesse rinunziato all'unità. III. Circostanze particolari di storia, di coltura, d'interessi, di clima, non legate direttamente con la religione, ma così legate con gli uomini che la professano, che l'influenza della religione resta da esse o bilanciata o elisa o impedita o facilitata, più presso gli uni che presso gli altri. Se l'illustre autore avesse cercate in queste tre classi le cause particolari degli effetti diversi e speciali, che asserisce aver la religione prodotti in Italia, io mi sarei guardato bene d'entrare in una tale questione; perchè, o le sue ragioni mi sarebbero parse concludenti, e avrei goduto d'imparare, come m'è accaduto in tant'altre parti di questa Storia; o non m'avrebbero persuaso, e sarebbe stato uno di quei casi nei quali avrei creduto che il silenzio fosse migliore della dimostrazione. Ma siccome quelle cose che s'assegnano da lui come cagioni di dannosa influenza sugl'Italiani, sono la più parte, non usi ne opinioni particolari a loro, ma massime morali, o prescrizioni ecclesiastiche venerate e tenute da tutti i cattolici, in Francia e in Germania non meno che in Italia e in Spagna; così chi le condannasse verrebbe a condannare la fede cattolica: conseguenza che troppo importa di prevenire. L'autore stesso, nominando a varie riprese, nel corso delle sue riflessioni, semplicemente la Chiesa, lascia dubitare se intenda d'attribuire ad essa le dottrine che censura, o se voglia dire: la Chiesa in Italia. Verificare il preciso senso delle sue parole in questo caso, non è cosa possibile, ne utile; onde io mi restringerò a dimostrare l'universalità e la ragionevolezza di quelle massime e di quelle prescrizioni censurate da lui, che sono cattoliche. Citerò spesso scrittori francesi, non solo per la loro decisa superiorità in queste materie, ma perchè la loro autorità serve mirabilmente a far vedere che queste non sono dottrine particolari all'Italia; e che la Francia non differisce da essa in ciò, fuor che nell'avere avuto uomini che le hanno più eloquentemente, cioè più ragionatamente, sostenute e difese. La più splendida prova poi dell'universalità di queste massime morali sarà tratta dalle Scritture, dove sono per lo più letteralmente; dimanierachè si può affermare francamente, che non sono, ne possono essere controverse da dei cattolici di nessuna nazione. Le prescrizioni della Chiesa riguardanti la morale si possono dividere in due classi, cioè: decisioni di punti di morale, con le quali la Chiesa attesta che la morale confidatale da Cristo è quella, e non un'altra che si voglia fare adottare decisioni, alle quali i fedeli hanno obbligo d'aderire; ovvero: Leggi per regolare, nelle parti essenziali, l'uso dell'autorità conferita ugualmente alla Chiesa dal suo Fondatore, d'applicare gli aiuti e i rimedi spirituali, che hanno tutti origine da Lui. Per l'une e per l'altre si può chiamare in testimonio qualunque cattolico di Francia e di Germania, con la certezza di sentirlo rispondere che sono in vigore sia nell'una, sia nell'altra nazione. Si citerà, dove occorra, il Concilio di Trento, come il più recente e il più parlante testimonio di questa uniformità di dottrina: uniformità legata dommaticamente e logicamente, come dev'essere, con la perpetuità di essa. Il Coiicilio di Trento, dice l'illustre autore, s'adoperò a riformare la disciplina della Chiesa con altrettanto ardore, quanto nell'impedire ogni riforma nelle sue credenze e nei suoi insegnamenti. Nessun cattolico potrà esprimere con più precisione e con più forza la fermezza dei Padri di quel concilio nel rigettare ogni riforma nella fede. Cosa ( giova ripeterlo ) contradittoria, e quindi impossibile, non meno che empia; poiché equivale a rinnegare la stessa identica autorità di cui si fa uso; equivale a dire: credete a me, che non credo a me: v'insegno una verità, riservandomi ad avvertirvi, a miglior tempo, che è un errore, come fo, in questo momento, con quella che v'ho data altre volte per verità. Ora, a Trento sedettero vescovi di quelle quattro nazioni; e come c'erano andati con la testimonianza delle loro chiese sui punti controversi di fede e di morale, ne partirono con la testimonianza della Chiesa universale. D'allora in poi il Concilio di Trento fu specialmente il punto a cui ricorsero tutti i cattolici; e, per provare la fede di tutti i secoli, consegnata e sparsa in tanti concili, non ebbero, in moltissime questioni, a far altro che citare quel concilio che l'aveva riprodotta, e per così dire riepilogata. Il gran Bossuet lo pose per fondamento alla sua Esposizione della fede cattolica, per attestare i punti di morale e di disciplina essenziale, alcuni dei quali, censurati nel Capitolo sul quale sono fatte le presenti osservazioni, lo erano pure ai suoi tempi, benché con argomenti affatto diversi. E nella sua corrispondenza col Leibnitz, lo stesso Bossuet rigetta sempre come non ammissibile la proposizione di riesaminare le decisioni del concilio di Trento. Io desidererei solo pregarvi di dirmi se potete mettere in dubbio che i decreti del Concilio di Trento siano stati ricevuti in Francia e Germania fra i cattolici come in Spagna ed in Italia in ciò che riguarda la fede; e se avete mai udito un solo cattolico che si sia creduto libero di ricevere o non ricevere la fede di questo Concilio. Ora, i decreti del Concilio di Trento riguardanti la morale, che saranno citati in queste osservazioni, sono sopra punti che, per consenso di tutti i cattolici, fanno parte della fede. In quanto agli abusi e agli errori popolari, importa d'accennare, una volta per sempre, che non sono imputabili alla Chiesa, la quale non gli ha ne sanciti, né approvati. Ho fiducia di provare, che non sono conseguenze legittime ne del domma ne della morale della Chiesa. Se alcuni le hanno dedotte da essa, la Chiesa non può prevenire tutti i paralogismi, né distruggere la logica delle passioni. Quando però mi parrà che questi mali siano minori in realtà che in pittura, io non lascerò di farlo osservare; ma solamente per la giustificazione della Chiesa, sulla quale se ne vuol far ricadere il biasimo. Se alcuno vorrà credere che questi inconvenienti siano particolari all'Italia, io non m'affaticherò per levargli una tale opinione. S'avverta però che le citazioni degli scrittori francesi verranno in molte parti a provare incidentemente il fatto contrario; poiché si vedrà che, nello stabilire le verità cattoliche, hanno combattuto quegli errori e quelle illusioni, come esistenti in Francia. Così non fosse! perché può mai per un cristiano diventare una consolazione dell'orgoglio nazionale il vedere la Chiesa meno bella in qualunque parte del mondo? Dovunque sono i fedeli retti, illuminati, irreprensibili, sono la nostra gloria: dobbiamo farne i nostri esemplari, se non vogliamo che siano un giorno la nostra condanna. Capitolo III Sulla distinzione di filosofia morale e di teologia Esiste senza dubbio un intitno legame fra la religione e la morale, ed ogni uomo onesto deve riconoscere che il più nobile omaggio che la creatura possa rendere al suo creatore è quello di inalzarsi a Lui colle proprie virtù. Tuttavia la filosofìa morale è una scienza assolutamente distinta dalla teologia; essa ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con sé il proprio convincimento; e dopo aver sviluppato lo spirito con la ricerca dei suoi principii, appaga il cuore con la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e convenevole. La Chiesa s'impadronì della morale, come se fosse cosa puramente di suo dominio. Quando Gesù Cristo disse agli Apostoli: Istruite tutte le genti insegnando loro d'osservare tutto quello che v'ho comandato, ingiunse espressamente alla Chiesa d'impadronirsi della morale. Certo gli uomini hanno, indipendentemente dalla religione, dell'idee intorno al giusto e all'ingiusto, le quali costituiscono una scienza morale. Ma questa scienza è completa? È cosa ragionevole il contentarsene? L'essere distinta dalla teologia è una condizione della morale, o un'imperfezione di essa? Ecco la questione: enunciarla è lo stesso che scioglierla. Perchè, finalmente, è appunto questa scienza imperfetta, varia, in tante parti oscura, mancante di cognizioni importantissime intorno a Dio e, per conseguenza, intorno all'uomo e all'estensione della legge morale; intorno alla cagione della repugnanza che l'uomo prova troppo spesso nell'osservare anche la parte di essa, che pur conosce e riconosce; intorno agli aiuti che gli sono necessari per adempirla interamente; è questa scienza, che Gesù Cristo pretese di riformare, quando prescrisse l'azioni e i motivi, quando regolò i sentimenti, le parole e i desidèri; quando ridusse ogni amore e ogni odio a dei princìpi che dichiarò eterni, infallibili, unici e universali. Egli unì allora la filosofia morale alla teologia; toccava alla Chiesa a separarle? Di che tratta la filosofia morale? Del dovere in genere e dei vari doveri in particolare; della virtù e del vizio; della relazione dell'una e dell'altro con la felicità o l'infelicità; vuole insomma dirigere la nostra volontà e negl'intenti e, conseguentemente, nelle deliberazioni. E la morale teologica ha forse un altro scopo? può averlo? Se dunque hanno per oggetto lo stesso ordine di verità, per applicarle, nella pratica, allo stesso ordine di fatti, come saranno due scienze diverse? Non è egli vero che dove discordano, una dev'essere falsa? e che dove dicono lo stesso, sono una scienza sola? È evidente che non si può prescindere dal Vangelo nelle questioni morali: bisogna o rigettarlo, o metterlo per fondamento. Non possiamo fare un passo, che non ci si pari davanti: si può far le viste di non accorgersene, si può schivarlo senza urtarlo di fronte; non essere con lui, senza essere contro di lui; si può, dico, in parole, ma non in fatto. Io so che questa distinzione o, per parlare più esattamente, quest'antitesi di filosofia morale e di teologia è ricevuta comunemente; che con essa si sciolgono tante difficoltà, e si conciliano tanti dispareri; ma senza cercare se essa medesima si concili con la logica. So anche che altri uomini distinti l'hanno adottata, anzi ci hanno fondata sopra una parte dei loro sistemi. Ne prenderò un esempio da un uomo e da un libro tutt'altro che volgari: Poiché in quest'opera io non sono affatto teologo, ma scrittore politico, così potrebbe darsi che vi fossero cose non interamente vere se non secondo un modo di pensare umano, non essendo state considerate in relazione con verità più sublimi. Ma per essere del Montesquieu, questa frase non è meno priva di senso. Poiché, se queste cose saranno interamente vere in un modo di pensare umano, saranno vere in qualunque modo di pensare. Questa contradizione che si suppone possibile con delle verità più sublimi, o non esisterà, o, se esiste, farà che quelle cose non siano interamente vere. Se hanno una relazione con delle verità più sublimi, questa relazione è la prima cosa da esaminarsi; poiché qual é il criterio della verità che si cerca, se non la verità nota? O forse che le verità perdono la loro attitudine e il loro diritto, quando sono sublimi? Il sofisma sul quale é fondata questa protesta, come tante altre simili, era già stato svelato, mezzo secolo prima, da un osservatore profondo e sottile del cuore umano, il Nicole. Esaminando il valore di quelle parole tanto frequentemente usate: umanamente parlando, egli dice: Da quanto si ode dire pare che vi siano come tre classi di sentimenti: gli uni giusti, gli altri ingiusti, i terzi umani; e tre classi di giudizi: gli uni veri, gli altri falsi, ed i terzi umani … Pero non e così. Ogni giudizio è o vero falso; ogni sentimento e o giusto o ingiusto; ed è necessario assolutamente che quelli che noi chiamiamo giudizi e sentimenti umani si riducano all'una od all'altra di queste due classi. Il Nicole ha poi egregiamente messo in chiaro il motivo per cui si ragiona in quella strana maniera. Si dice che una massima è umanamente vera, perchè non si può, come si vorrebbe, chiamarla vera semplicemente. Non le si attribuisce che una verità relativa; ma per dedurne delle conseguenze che non convengono se non alla verità assoluta. Quest'espressione significa dunque: io sento che la massima di cui ho bisogno, è opposta alla religione: contradire alla religione, non voglio; abbandonare la massima, nemmeno: non potendo farle concordare logicamente, mi servo d'un termine che lascia intatta la questione in astratto, per scioglierla in fatto secondo i miei desidèri. Perchè non si dice mai: secondo il sistema tolemaico, secondo la chimica antica? Perchè in queste cose nessuno si crea il biogno d'ingannar sé medesimo. Ma, senza arrogarsi di fare un giudizio sopra Montesquieu, si può credere che l'uso di queste espressioni, comune, in quel tempo, a tanti scrittori, non sia venuto da un errore d'intelletto. La religione cattolica era allora in Francia sostenuta dalla forza. Ora per una legge, che durerà quanto il mondo lontana, la forza fa nascere l'astuzia per combatterla; e quegli scrittori che desideravano abbattere la religione senza compromettersi, non dicevano che fosse falsa, ma cercavano di stabilire dei princìpi incompatibili con essa, e sostenevano che questi princìpi ne erano indipendenti. Non s'arrischiando di demolire pubblicamente l'edifizio del Cristianesimo, gl'innalzavano accanto un altro edifizio, che, secondo loro, doveva farlo cadere. Ma questa filosofia morale ha le sue basi nella ragione e nella coscienza; porta con se il suo proprio convincimento; e dopo avere sviluppato lo spirito con la ricerca dei princìpi, appaga il core con la scoperta di ciò che e veramente bello, giusto e conveniente. E cos'ha fondato, da se, su queste basi? Ha prodotto un convincimento unanime e perpetuo? La sua ricerca dei princìpi è riuscita a un solo e inconcusso ritrovato? Le sue scoperte del bello, del giusto e del conveniente sono anch'esse concordi? E appagano il core davvero? Se è così, può essere distinta dalla teologia: non ne ha più bisogno; o, per dir meglio sarà la teologia stessa. Ma se ha variato e varia secondo i luoghi e i tempi, non si potrà opporla alla morale cattolica, che è una. Sarà lecito domandare, prima di tutto, quale sia questa filosofia morale, di cui s'intende parlare; giacche è indubitato che ce ne sono molte. Ci sono due cose principali nella morale, il principio, e le regole delle azioni, che ne sono l'applicazione: la storia della morale, sia come dottrina popolare, sia come scienza, presenta, e nell'uno e nell'altre, la più mostruosa varietà. In quanto alle regole basta, per convincersene, rammentarsi gli assurdi sistemi di morale pratica che sono stati tenuti da nazioni intere. Il Locke, volendo provare che non ci sono regole di morale innate e impresse naturalmente nell'anima degli uomini, ne ha citati esempi in gran quantità. Egli è andato a cercarne la maggior parte tra i popoli rozzi e vicini allo stato selvaggio; ma non gliene sarebbe mancati tra le nazioni più conosciute, e che hanno più fama di civili e illuminate. Trovavano essi nel loro core e nella loro mente la vera misura del giusto e dell'ingiusto i gentili? Quei Romani i quali sentivano con raccapriccio che un loro cittadino fosse stato battuto di verghe, e ai quali pareva un atto di giustizia ordinaria il dar vivo alle fiere uno schiavo, fuggito per non poter resistere ai trattamenti d'un padrone crudele? Di tale iniquità di fatti e di giudizi, gli storici e i moralisti antichi ci hanno trasmesse non poche testimonianze, e, per lo più, senza avvedersene. Quale è dunque questo convincimento morale, se non nasce in tutti gli uomini? Potrà pur troppo essere tanto compito, da determinare un uomo a commettere un'azione pessima, con la persuasione d'operar bene; tanto costante, da impedire che nasca in lui il rimorso dopo averla commessa; si potrà estendere a nazioni intere; ma sarà un convincimento falso. E per chiarirlo tale, non sarà nemmeno necessario il testimonio della religione; basterà che cessino alcune circostanze, che si cambi un interesse, che s'abolisca una costumanza. In quanto al principio della morale, le differenze non sono più tra i Mingrelianì, i Peruviani e i Topinambi: è questione di tempi e di paesi colti, e di pochi uomini che pretendono di fare astrazione da ogni interesse, da ogni autorità e da ogni abitudine per trovare il vero. Pochi, dico, riguardo al rimanente degli uomini; ma autori di scole che si possono chiamar molte, anche in paragone di ciò che accade in tant'altre scienze, nelle quali il dissenso non è, a gran pezzo, ne così umiliante, ne così dannoso. I nomi soli delle più universalmente celebri tra quelle scole, nomi che corrono alla mente d'ognuno, senza bisogno di citarli, bastano per dare un concetto pur troppo vasto d'una tale varietà, e dispensare da ogni prova. E s'osservi che non sono di quelle discussioni che hanno, per dir così, un moto progressivo, facendo ognuna delle parti un qualche passo verso un centro comune, e tornando così in aumento stabile della scienza ciò che, da principio, era stato opinione particolare d'una scola. Qui invece i diversi sistemi cadono e risorgono, conservando sempre le loro differenze essenziali; si disputa, ripetendo ognuno sempre i suoi argomenti come perentori, e ripetendoli per quanto si sia dovuto vedere che non riescono ad abbattere quelli degli avversari: è il gran carattere delle questioni inconciliabili. Ora, se ciò che l'illustre autore ha nominalmente riunito sotto il titolo di filosofia morale, si risolve in fatto e si disperde in una moltiplicità eterogenea; se delle premesse diverse e opposte, e delle diverse e opposte conclusioni, intorno al bello, al giusto, al conveniente, sono tutt'altro che la scoperta di ciò che è veramente bello, giusto e conveniente; è superfluo l'aggiungere che da quelle non potrà mai resultare l'appagamento del core, asserito da lui come effetto d'una tale scoperta, e neppure, s'intende, quello della mente. Gioverà piuttosto l'osservare come il non essere alcuno di quei tanti sistemi rimasto mai vittorioso, in una guerra così antica, e sempre viva o rinascente, venga dall'esser tutti ugualmente inetti a produrre quel duplice e corrispondente appagamento. Ci sono in qualunque sistema di morale assolutamente distinta dalla teologia ( sia per ignoranza involontaria della rivelazione, sia per volontaria esclusione di essa ), due vizi innati e irremediabili: mancanza di bellezza, ossia di perfezione, e mancanza di motivi. Perchè una morale sia compita, deve riunire queste due condizioni al massimo grado; deve cioè non escludere, anzi proporre i sentimenti e l'azioni più belle, e dare dei motivi per preferirle. Ora, nessuno di questi sistemi può farlo: ognuno di essi è, per dir così, obbligato a scegliere; e tutto ciò che acquista da una parte, lo perde dall'altra. Se, per evitare la difficoltà, si ricorre a un sistema medio, questo tempererà i due difetti, ma conservando e l'uno e l'altro. Mi sia lecito d'entrare in un esame più esteso, per mettere in chiaro questa proposizione. Quanto più un sistema di filosofia morale cerca d'adattarsi al sentimento universale, consacrando alcune massime che gli uomini hanno sempre lodate e ammirate, la preferenza data alle cose giuste sulle piacevoli, il sacrifizio di sé stesso, il dovere adempito e il bene fatto senza speranza di ricompensa né di gloria, tanto più riesce inabile a dare, dei suoi precetti e dei suoi consigli, una ragione adequata, prevalente a ogni argomento e a ogni interesse contrario. Infatti, se noi esaminiamo quale sia in una bella azione la qualità che eccita l'ammirazione, e che le fa dare un tal titolo, vedremo non esser altro che la difficoltà ( intendo, non la difficoltà d'eseguire che nasce dagli ostacoli esterni, ma quella di determinarsi ): la giustizia, l'utilità saranno condizioni senza le quali essa non sarebbe bella, ma non sono quelle che la rendono tale. Se, mentre si sta ammirando la risoluzione presa da un uomo in una data circostanza, si viene a sapere che gli tornava conto di prenderla, l'ammirazione cessa; quella risoluzione si chiamerà buona, utile, giusta, saggia, ma non più ammirabile ne bella; si dirà che quell'uomo è stato fortunato, onesto, avveduto; nessuno lo chiamerà grande. E perciò l'invidia, la quale, quanto è sciocca riguardo all'intento, altrettanto è acuta nella scelta dei mezzi, mette tanto studio a trovar qualche motivo d'interesse in ogni bella azione, che non possa negare; cioè un motivo per cui sia stato facile il risolversi a farla: le cose facili non sono ammirate. Ma perchè mai le più belle azioni compariscono difficili al più degli uomini, se non perchè essi non trovano nella ragione dei motivi sufficienti per intraprenderle risolutamente, anzi trovano nell'amore di sé dei' motivi contrari? Ma se, per evitare l'inconveniente e la vergogna di dar precetti e consigli, senza poter proporre dei motivi proporzionati, un sistema di morale vuol limitarsi a prescrivere e a raccomandare l'azioni che s'accordino con l'utile temporale di chi le fa, non solo, non soddisfa, ma offende un'altra tendenza di tutti gli uomini, i quali non vogliono rinunziare alla stima di ciò che è bello senza essere utile temporalmente; anzi è bello appunto per questo. Io so che, nel sistema della morale fondata sull'interesse, si spiegano tutte l'azioni più magnanime e più independenti da ciò che comunemente si chiama utile: si spiegano col dire che gli uomini di gran core ci trovano la loro soddisfazione. Ma, perchè una teoria morale sia completa, non basta che spieghi come alcuni possano aver fatto ciò che essa medesima è costretta a lodare; bisogna che dia ragioni e motivi generali per farlo. Altrimenti la parte più perfetta della morale diventa un'eccezione alla regola, una pratica che non ha la sua ragione nella teoria, ma ha solamente una cagione di fatto in certe disposizioni individuali; è quasi una stravaganza di gusto. C'è negli uomini una potenza che gli sforza a disapprovare tutto ciò che non par loro fondato sulla verità; e siccome non possono disapprovare le virtù disinteressate, così vogliono un sistema nel quale esse entrino come ragionevoli. Io credo che, quanto più si osservi, sempre più si vedrà che le morali umane si agitano tra questi due termini, cercando invano di ravvicinarli. Ognuno di quei sistemi ha una parte di fondamento nell'una o nell'altra tendenza della natura umana, cioè o nella stima della virtù, o nel desiderio della felicità ( tendenze indistruttibili come il vero, che è l'oggetto dell'una, e il bene, che è il termine dell'altra ); ognuno tiene da quella su cui si fonda, un'imperfetta ragione d'essere, e una forza per combattere; come dal trascurar l'altra gli viene l'impotenza di vincere. La difficoltà consiste nel soddisfarle ugualmente, nel trovare un punto dove la bellezza e la ragionevolezza dell'azioni, dei voleri, dell'inclinazioni, si riuniscano necessariamente, in ogni caso e con piena evidenza. Questo punto è la morale teologica. Qui l'anima umana ritrova, per dir così, la sua unità nel riconoscimento dell'unità eterna e suprema del vero e del bene. S'immagini qualunque sentimento di perfezione: esso si trova nel Vangelo; si sublimino i desideri dell'anima la più pura da passioni personali fino al sommo ideale del bello morale: essi non oltrepasseranno la regione del Vangelo. E nello stesso tempo non si troverà alcun sentimento di perfezione, al quale col Vangelo non si possa assegnare una ragione assoluta e un motivo preponderante, legati ugualmente con tutta la rivelazione. È egli bello il perdonare l'offese, l'avere un core inalterabile, placido e fraterno per chi ci odia? Chi ne dubita? Ma per qual ragione dovrò io impormi questi sentimenti, quando tutto mi strascina agli opposti? Perchè tu non puoi odiare il tuo fratello se non come cagione del tuo male; se non lo è, il tuo odio diventa irragionevole e ingiusto: ora, egli non t'ha fatto male; la tua volontà sola può nocerti realmente: egli non ha fatto male, che a se stesso, e da te merita compassione. Se l'offesa ti punge, è perchè dai alle cose temporali un valore che non hanno; perchè non senti abitualmente che Dio è il tuo solo bene, e che nessun uomo, nessuna cosa può impedirti di possederlo. Il tuo odio viene dunque dalla corruttela del tuo core, dal traviamento del tuo intelletto: purifica l'uno e correggi l'altro, e non potrai odiare. Di più, tu riconosci come il più sacro dovere quello d'amare Dio sopra ogni cosa: devi dunque desiderare che sia glorificato e ubbidito: oseresti tu volere che alcuna creatura ragionevole gli negasse il suo omaggio, si ribellasse alla sua legge? Questo pensiero ti fa orrore; tu desidererai dunque che ogni uomo serva Dio e sia nell'ordine; se lo fai, desideri a ogni uomo la perfezione, la somma felicità: ami ogni uomo, senza alcuna possibile eccezione, come te stesso. È bello il dare la propira vita per la verità e per la giustizia? Il darla senza testimoni che t'ammirino, senza un compianto, nella certezza che gli uomini ingannati t'accompagneranno con l'esecrazioni, che il sentimento della santità della tua causa non troverà fuon di te dove appoggiarsi, dove diffondersi? Non c'è uomo che non pianga di ammirazione al sentire che un altro uomo abbia abbandonata la terra così. Ma chi proverà che sia ragionevole il farlo? Quale è il motivo per cui si deva rinunziare a quel sentimento così forte nel core di ogni uomo, al desiderio di far consentire delle anime immortali come la nostra al nostro più alto e profondo sentire? Perchè quando a seguire la giustizia non c'è altra strada che la morte, è certo per noi che Dio ci ha segnata quella per arrivare a Lui; perchè il secolo presente non ha il suo compimento in se; perchè il bisogno che abbiamo d'essere approvati non sarà soddisfatto se non quando vedremo che Dio ci approva; perchè ogni nostro sacrifizio è leggeiero in paragone dell'ineffabile sacrifizio dell'Uomo-Dio, al quale dobbiamo esser somiglianti, se vogliamo entrare a parte del suo regno. Ecco i motivi per cui milioni di deboli creature, con quell'aiuto divino che rende facili tutti i doveri, hanno trovato che la determinazione la più ammirabile e la più difficile, quella di morire tra i tormenti per la verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole; e l'hanno abbracciata. Prodigiosa storia della religione! nella quale l'atto di virtù il più superiore alle forze dell'uomo, è forse quello di cui gli esempi sono più comuni. Non se ne potrà immaginare alcuno, per cui il Vangelo non dia motivi: non si potrà immaginare un sentimento vizioso, che secondo il Vangelo, non supponga un falso giudizio. Si domandi a un cristiano quale sia in ogni caso la risoluzione più ragionevole e più utile; dovrà rispondere: la più onesta e la più generosa. Troviamo qui l'occasione di osservare di passaggio quanto sia inconsistente la distinzione che alcuni credono di poter fare tra la morale del Vangelo, per la quale professano ammirazione, non che stima, e i domini del Vangelo, che dicono opposti alla ragione; come se queste fossero nel Vangelo due dottrine estranee l'una all'altra. E ci sono invece essenzialmente e perpetuamente connesse; a segno che non ci si trova quasi un insegnamento morale del Redentore, che non sia confermato da Lui con un insegnamento dommatico, dal suo primo discorso alle turbe, nel quale dice beati i poveri di spirito, perche di questi e il regno de cieli, fino a quello che precedette di due giorni la celebrazione della sua ultima pasqua, e nel quale fonda il precetto dell'opere della misericordia sulla rivelazione della sua futura venuta a giudicare tutti gli uomini. È quindi facile il vedere che quella distinzione implica una supposizione affatto assurda, come è quella d'una dottrina, nella quale la verità sia, non già mescolata accidentalmente col falso, ma fondata interamente sul falso. E non già una qualche verità sparsa, staccata, secondaria; ma un complesso compito e perfettamente consentaneo di verità regolatrici di tutti gli affetti dell'animo, di tutte le determinazioni della volontà, in qualunque condizione della vita umana. Supposizione, ripeto, assurda non meno che empia, d'un maestro sempre sapiente nei precetti, e sempre fallace nei motivi, il quale, in una norma del credere, indegna dell'assentimento della ragione, abbia ritrovata una norma del volere e dell'operare, che la ragione medesima deva poi riconoscere superiore a qualunque sua speculazione, come fa quando rammira, senza poterla rivendicare come sua, col darle, di suo, un diverso fondamento. Infatti, dond'è, donde poteva essere ricavata l'idea di perfezione proposta agli uomini nel Vangelo, se non dall'esemplare del Dio perfetto, che nessuno ha mai veduto, e che fu rivelato dal Figlio unigenito, che e nel seno del Padre? ( Gv 1,18 ). Chi poteva dir loro: Siate perfetti, se non Quello che poteva aggiungere: come è perfetto il vostro Padre che è nei cieli? ( Mt 5,48 ) Qual maestro avrebbe insegnato ai suoi discepoli, a tutti quelli che fossero per credere in lui fino alla fine dei secoli, a esser tutti una sola cosa, se non Quello che all'inaudito insegnamento poteva aggiungere quell'ineffabile esempio: come, o Padre, una sola cosa siamo noi? ( Gv 17,22 ) E i mezzi d'eseguire una tal legge, donde potevano venire se non dall'onnipotenza del Legislatore medesimo? Chi poteva esigere dall'uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non Chi gliela poteva promettere, dicendo: Chiedete e vi sarà dato? ( Lc 11,9 ) Chi la forza di sostenere per la giustizia tutte le violenze di cui è capace il mondo, se non Chi poteva dire: lo ho vinto il mondo? Chi la forza più mirabile ancora, di sostenerle in pace, se non Chi poteva dire: Questa pace l'avrete in me? ( Gv 16,33 ). E donde finalmente poteva aspettarsi una ricompensa perfetta come questa legge medesima? Chi poteva prometterne una, non solo alla virtù, ma al segreto della virtù, se non Chi parlava in nome del Padre che vede nel segreto? ( Mt 6,4 ). Chi prometterla abbondante in paragone di qualunque sforzo più eroico, di qualunque sacrifizio più doloroso, se non Chi poteva prometterla nei cieli?. Chi nobile al pari del precetto d'aver fame e sete della giustizia, anzi perfettamente connaturale ad esso, se non Chi poteva dire: La vostra beatitudine starà nell'essere satollati?. Si può egli non vedere in questi esempi ( e sarebbe facile il moltiplicarli, se ce ne fosse bisogno ) una connessione unica, una relazione necessaria, tra i precetti e i motivi? Quando dunque la ragione ammira la morale del Vangelo, alla quale non si sarebbe potuta sollevare da se, fa rettamente il suo nobile ufizio: ma quando ne sconosce l'unità divina; quando in ciò che il Vangelo prescrive e in ciò che annunzia non vuol vedere una sola e medesima rivelazione; quando ricusa d'ammettere motivi soprannaturali di precetti ugualmente soprannaturali, che confessa eccellenti ( che non vuol dir altro se non conformi a delle verità d'un ordine eccellente ), allora non può più chiamarsi ragione, perche discorda da se medesima. Sicché, quand'anche per quelle parole « filosofia morale », come sono adoperate dall'illustre autore e da lui opposte alla teologia, si potesse intendere, invece d'una confusa e discorde moltiplicità di dottrine, una sola dottrina; quand'anche si potesse intendere una dottrina tutta vera, cioè il complesso delle nozioni rette intorno alla morale, che si trovano, dirò così, sparse nell'umanità, e queste nozioni nettate dai tanti falsi concetti che ci sono mescolati, accresciute di ciò che l'osservazione e il ragionamento particolare possono aggiungere alla cognizione comune, e ordinate in forma di vera scienza; quand'anche, finalmente, si potesse per quelle parole intendere una scienza universalmente nota, e esclusivamente ricevuta, si dovrebbe ancora dirla inadequata all'intento, perchè in essa non si troverebbe un principio col quale a ogni grado della moralità ( e non solo della moralità intera e perfetta che c'è manifestata dalla Fede, ma di quella medesima a cui arriva la cognizione naturale ) si possa assegnare una ragione assoluta, legata con una sanzione preponderante; perchè in altri termini, le sue speculazioni non pareggiano, né potrebbero mai pareggiare l'idea del bene morale, sia come regola, sia come termine della volontà, cioè e come virtiì e come felicità: idea che ai più sinceri e potenti sforzi di quelle speculazioni, non solo rimane inesaurita, ma sempre più comparisce inesauribile. Dal che viene di conseguenza che non si potrebbe da quella filosofìa ricavare un criterio applicabile a ogni azione e a ogni sentimento. Anzi, per esser vera scienza, dovrà essa medesima riconoscere questa sua mancanza; giacche come mai potrà esser vera scienza una la quale sconosca la natura del suo oggetto, e la misura necessaria delle sue speculazioni, a segno di non avvedersi d'una sproporzione necessaria che ci sia tra queste e quello? e, per restringere il bene morale nei limiti di quelle speculazioni, lo mutili e lo snaturi? neghi il carattere di verità a tutto ciò che le oltrepassa, o riconoscendo al di là da quelle qualcosa ( e quanto! ) a cui non può negare il carattere di verità, e di cui non sa render ragione, si dichiari nondimeno scienza compita? Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rivelare, la religione aggiunge ( ciò che ugualmente poteva essa sola ) la cognizione di ciò che può darci la forza d'adempire i primi, e d'adempirli per riguardo e secondo lo spirito dei secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia. ( Lc 11,13 ) Certo, non era necessario la rivelazione per farci conoscere che troppo spesso troviamo in noi medesimi, non solo una miserabile fiacchezza, ma una indegna repugnanza a seguire i dettami della legge morale. E l'apostolo dei gentili, dicendo: Non fo il bene che voglio, ma quel male che non voglio, quello io fo ( Rm 7,19 ), ripeteva una verità ovvia anche per loro. Ovidio aveva detto prima di lui: Il core e la mente mi danno opposti consigli: vedo il meglio, l'approvo; e vo dietro al peggio. E quando l'apostolo medesimo esclama: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ) si direbbe quasi che non faccia altro, che ripetere il lamento di Socrate. Ma da qual uomo non istruito nella scola di cui Paolo fu cosi gran discepolo e così gran maestro, poteva uscire quella divina risposta alla desolata domanda, allo sterile lamento: La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro? ( Rm 7,25 ). Principio d'irrecusabile autorità; regole alle quali si riduce ogni atto e ogni pensiero; spirito di perfezione che in ogni cosa dubbia rivolge l'animo al meglio; promesse superiori a ogni immaginabile interesse temporale; modello di santità, proposto nell'Uomo-Dio; mezzi efficaci per aiutarci a imitarlo, e nei sacramenti istituiti da Lui ( e nei quali anche chi ha la disgrazia di non riconoscere l'azione divina, non può non vedere azioni che dispongono a ogni virtù ), e nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa la potenza divina da quel: Chiedete, e vi sarà dato; tale è la morale della Chiesa cattolica: quella morale che sola potè farci conoscere quali noi siamo, che sola, dalla cognizione di mali umanamente irremediabili, potè fai nascere la speranza; quella morale che tutti vorrebbero praticata dagli altri, che praticata da tutti condurrebbe l'umana società al più alto grado di perfezione e di felicità che si possa conseguire su questa terra; quella morale a cui il mondo stesso non potè negare una perpetua testimonianza d'ammirazione e d'applauso. Che, anche dopo il Cristianesimo, alcuni filosofi si siano affaticati per sostituirgliene un'altra, è un fatto purtroppo vero. Simili a chi, trovandosi con una, moltitudine assetata, e sapendo d'esser vicino a un gran fiume, si fermasse a fare con dei processi chimici qualche gocciola di quell'acqua che non disseta, hanno consumate le loro cure nel cercare una ragione suprema e una teoria completa della morale, assolutamente distinta dalla teologia: quando si sono abbattuti in qualche importante verità morale, non si sono ricordati ch'era stata loro insegnata, ch'era un frammento o una conseguenza del catechismo; non si sono avvisti che avevano soltanto allungata la strada per arrivare ad essa, e che invece d'avere scoperta una legge nova, spogliavano della sanzione una legge già promulgata. La Chiesa non ignora i loro sforzi, e i loro ritrovati; ma è forse questo un esempio per lei? Non ha potuto altro che compiangerli e ammonirli: perchè avrebbe dovuto imitarli? La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha consegnata una dottrina morale perfetta, non dovrà mantenersene padrona? dovrà cessare di dirgli con Pietro: Da chi andremo? tu hai le parole di vita eterna? ( Gv 6,69 ) dovrà cessare di ripetere che disperde chi noti raccoglie con lui? ( Lc 11,23 ) Potrà supporre un momento che ci siano due vie, due verità, due vite? Le sono stati affidati dei precetti; e depositaria infedele, ministra diffidente, dispenserà dei dubbi? Lascerà da una parte la parola eterna, e s'avvilupperà nei discorsi dell'uomo, per riuscire a trovare forse che la virtù è più ragionevole del vizio, forse che Dio dev'essere adorato e ubbidito, forse che bisogna amare i suoi fratelli? Il Verbo avrà assunta questa carne mortale, e attraversate l'angosce ineffabili della redenzione, per meritare alla società fondata da Lui un posto tra l'accademie filosofiche? La Chiesa, che, con i suoi primi insegnamenti, può innalzare il semplice, il quale ignora perfino che ci sia una filosofia morale, al più alto punto, non di questa filosofia, ma della morale medesima; a quel punto a cui si trova un Bossuet dopo aver percorso un vasto circolo di meditazioni sublimi; l'abbandonerà a se stesso, affinchè prenda, se può, la strada del ragionamento, che può condurre a cento mete diverse? Stanco e smarrito, l'uomo si rifuggirà alla città collocata sul monte ( Mt 5,14 ), e questa non gli darà asilo? Affamato di giustizia e di certezza, d'autorità e di speranza, ricorrerà alla Chiesa, e la Chiesa non gli spezzerà quel pane che si moltiplica nelle sue mani? No: la Chiesa non tradisce così i suoi figli: noi non possiamo temere d'essere abbandonati da lei: non ci resta che il timore salutare che possiamo abbandonarla noi: un tal timore non deve che accrescere la nostra fiducia in Chi ci può tenere attaccati a questa colonna e fondamento della verità ( 1 Tm 3,15 ). Dimentichiamo diciotto secoli di esistenza, di successione di pastori e di sommi pastori, di continuazione nella stessa dottrina; diciotto secoli nei quali si contano tante persecuzioni e tanti trionfi, tante separazioni dolorose e non una sola transazione: che abbiamo noi bisogno d'esperienza? I primi fedeli non l'avevano, e hanno creduto: bastò loro la parola di quel Dio per cui mille anni sono come il giorno di ieri che e passato ( Sal 90,4 ). A rischio di cadere in qualche ripetizione, chiedo il permesso d'insistere un poco ancora sopra un argomento così importante. La scienza morale puramente umana, appunto perche scienza umana, è naturalmente defettiva e incompleta. Perciò il Creatore, che abbandonò l'altre alle dispute, dei figlioli degli uomini ( Qo 3,11 ), volle per questa, non dirò eminente tra tutte, ma unica; per questa che, avendo per fine, non solo d'accrescere cognizione all'intelletto, ma di dirigere la volontà in ogni suo atto, riguarda tutto l'uomo ( Qo 12,13 ); volle, dico, aggiungere al lume della ragione con cui l'aveva distinto da tutte le creature terrestri, un soprannaturale e positivo insegnamento; e se, riguardo all'altre scienze, gli aveva dato con la ragione medesima un mezzo di discernere, di raccogliere e d'ordinare un certo numero di verità, volle, riguardo a questa, rivelare al mondo tutta la verità ( Gv 16,13 ). Quindi la morale religiosa, chi non voglia negarla, non si può concepire altrimenti che come il perfezionamento della morale naturale. E appunto perchè l'illustre autore, lunge dal negare la relazione di questa con la religione, la pone espressamente, quella conseguenza viene necessariamente dalle sue parole. Infatti, il dire, che c'e un nesso intimo tra la religione e la morale, è dire ( per quanto la formola sia astratta ) in primo luogo, che tra di esse non c'è opposizione, giacché nella proposizione stessa sono date implicitamente come vere tutt'e due; è dire in secondo luogo, che una di esse ha qualcosa che manca all'altra; giacché, se comprendessero tutt'e due un ugual complesso di cognizioni morali, non sarebbe nesso, ma identità. Dicendo poi: « una di esse », bisogna intendere una sola di esse, la quale e abbia qualcosa che l'altra non ha, e abbia tutto ciò che l'altra ha; o, in altri termini, la comprenda in se tutta quanta; giacche, se si volesse intendere che ognuna delle due abbia qualcosa di proprio e di speciale, che manchi all'altra, s'avrebbe a supporre, o che dipendano da due diversi princìpi, il che è evidentemente falso, quando hanno lo stesso oggetto; o che non fossero se non due parti diverse, due applicazioni parziali e circoscritte e, per dir così, due diversi frammenti d'una scienza che contenesse il principio supremo della morale, e fosse insomma la vera e universale scienza della morale: supposizione, anche questa, che non si può enunciare, se non per escluderla. Per conseguenza, ciò che una di quelle due, alle quali si dà ugualmente il nome di morale, deve avere più dell'altra, è niente meno che l'integrità, l'essere completo di scienza morale: l'altra non può essere appunto, che una parte e come un frammento di questa. Il dar poi a tutt'e due ugualmente il nome di morale può essere senza errore e senza inconveniente, quando non gli si attribuisca un valore uguale nei due casi tanto disuguali: quando, cioè, per l'una s'intenda la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata, d'alcune verità morali; per l'altra, la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l'ordine intiero. Posto ciò, che, come dicevo, discende per necessità logica da quella proposizione: c'è un nesso intimo tra la religione e la morale; a quale di queste due si dovrà egli attribuire quell'integrità, quel contener tutta l'altra, e, per conseguenza, la facoltà di darle il compimento che le manca nella cognizione umana? La risposta è troppo ovvia; poiché, independentemente da ogni esame e da ogni paragone, sarebbe asurdo a priori il supporre che Dio, con l'aggiungere all'uomo delle cognizioni soprannaturali, non gli abbia dato che una parte di ciò che gli avesse già dato interamente per mezzo della ragione, o di ciò che con questo mezzo l'uomo potesse acquistar da sé. Dunque una religione rivelata da Dio, impadronendosi della morale, non leva nulla alla ragione data all'uomo da quel Dio medesimo, i doni del quale non sono soggetti a pentimento ( Rm 11,29 ). Non fa altro che darle, darle abbondantemente, darle il tutto, darle, in una certa maniera, anche quel tanto che essa aveva già, col renderlo compito e inconcusso. Di quelle sante e solenni parole che sono come la parte essenziale del vocabolario morale di tutti i tempi e di tutti i luoghi - giustizia, dovere, virtù , benevolenza, diritto, coscienza, premio, pena, bene, felicità, - quale, Dio bono! è stata cancellata o lasciata fuori dalla Chiesa? La Chiesa non fa altro, che aggiunger loro la pienezza e, con questo, la chiarezza e la stabilità del significato. Il mondo le ripeteva a una a una come piene di verità, con una fiducia più fondata di quello che intendesse lui medesimo; ma, troppo spesso, invece della naturale concordia tra le verità che quelle parole esprimono, gli pareva di vedere un contrasto doloroso, un escludersi a vicenda, e la luce d'una eclissare quella d'un'altra, o annebbiarsi scambievolmente. La scienza poi, non che comporre il dissidio e dissipare l'oscurità, l'accresceva per lo più, cambiando in altrettanti sistemi quelle tristi oscillazioni delle menti, e sacrificando a una verità arbitrariamente prediletta dell'altre verità, e qualche volta impiegando tutto lo sforzo della riflessione, e l'apparato del ragionamento a negare le più nobili e le più sante. La dottrina evangelica, compimento della legge data a un popolo eletto ( Mt 5,17 ); questa dottrina affidata dal Messia alla Chiesa, per essere da lei conservata e predicata fino alla consumazione dei secoli, ha rinfrancate e messe d'accordo tutte le verità morali, rivelando l'ordine intero dove appariscono, come sono, indivisibili: dimanierachè ciò ch'era un problema insolubile per i dotti, è diventata una cognizione evidente anche per gl'idioti. Dottrina, per possedere la quale, tutti coloro a cui, per inestimabile grazia è annunziata, non hanno a far altro che credere e amare. E questa credenza sia pure da alcuni chiamata cieca e materiale. Cieca e materiale credenza davvero, l'aderire con un assenso risoluto e fermo a tutte le diverse verità morali, non per quella sola luce, dirò così, parziale, con cui si presentano alla mente ciascheduna da se, ma per la loro relazione con una verità suprema, nella quale tutte si riuniscono! Cieca e materiale credenza l'intendere che il vero male per l'uomo non è quello che soffre, ma quelo che fa; e intenderlo per la cognizione d'un ordine universale, in cui tra la vera giustizia e la vera e finale felicità non ci può esser contrasto, per esser quest'ordine prestabilito dall'Essere infinitamente giùsto, sapiente e potente; e il saper quindi che c'è un'armonia dove il ragionamento che si separa dalla fede non sa spesso far altro che accusare una contradizione! Cieca e materiale credenza l'intendere che i piaceri temporali non sono veri beni; e intenderlo, non solo per quella sproporzione col nostro desiderio di godere, e per quella instabilità e caducità che l'esperienza ci sforza, per dir così, a riconoscere volta per volta in ciascheduno di essi; ma per la nozione e per il paragone d'un bene perfetto e inamissibile nozione che ha istruito l'uomo intorno alla sua intima natura più di quello che nessuna speculazione scientifica potesse mai fare; poiché, concepita l'essenza d'un tal bene, l'uomo potè intendere e, dirò così, avvedersi che solo un bene di quel genere, o piuttosto quel solo bene fuori d'ogni genere, era capace di soddisfare un essere dotato, come lui, d'intelligenza e di volontà; nozione, la quale sola può render ragione di quell'esperienza medesima, appunto perchè la trascende infinitamente! Cieca e materiale credenza quella che, facendo intendere che i beni temporali non sono il fine dell'uomo, li fa con ciò stesso conoscere come mezzi; e nella quale trovano per conseguenza una ragione evidente del pari e il giusto disprezzo e la giusta stima di essi; il procurargli agli altri, e il trascurarli per se, quando il trascurarli sia un mezzo più conducente al fine, che il possederli; e la pazienza senza avvilimento, e l'attività senza inquietudine! Dunque ancora, l'essere la filosofia morale distinta dalla teologia ( la quale non è altro che la scienza della religione ), non è punto una condizione appartenente all'essenza della morale: è solamente un fatto possibile, e troppo spesso reale. E il voler convertire un tal fatto in un principio, il volere cioè che la scienza morale deva rimanere assolutamente distinta dalla teologia, sarebbe, non dico un condannarla a rimanere in uno stato d'imperfezione, ma un costituirla nell'errore; perchè, quantunque sia possibile ( giova ripeterlo ) il formare coi soli elementi somministrati dalla cognizione naturale, una scienza morale mancante bensì di verità importantissime, ma immune da errori; pure l'escludere scientemente e di proposito tali verità, è già per sé un errore capitale, ed è insieme una cagione perenne d'errori. Sarebbe un voler perpetuare, in mezzo alla luce del Vangelo, l'oscurità e l'incertezza del gentilesimo; e con tanto più tristo effetto, quanto il rifiutare la verità allontana da essa più che l'ignorarla. Dunque finalmente, anche secondo i soli argomenti della ragione, la Chiesa, impadronendosi della morale, non ha fatto altro che adempire una condizione essenziale alla vera religione. A una che si desse per tale, e non asserisse di possedere l'intera e perfetta morale, la ragione medesima potrebbe, anzi dovrebbe dire; - Quando protesti di non essere la custode perpetua, la maestra suprema della morale, non posso non crederti; perchè il non riconoscere in se una tale autorità e il non averla, è una stessa cosa. Ma per ciò appunto non posso crederti quando pretendi d'esser la vera religione. Non posso nemmeno ammettere la possibilità di trovarti tale, quando avessi esaminati i tuoi argomenti. Per ammettere una tale possibilità, dovrei supporre dimostrabile una di due cose ugualmente assurde: o una religione priva d'una dottrina morale; o una morale rivelata da Dio, e inferiore ( uguale, sarebbe assurdo in un'altra maniera ) alle cognizioni e ai ritrovati degli uomini. Dobbiamo in ultimo render conto di un'omissione che sarà facilmente notata dai lettori più riflessivi. Avendo in questo troppo lungo capitolo avuto a considerare la morale sotto diversi aspetti, e in diverse sue applicazioni, non abbiamo però mai fatta menzione dei doveri dell'uomo verso Dio, i quali sono certamente una parte ( lasciamo star quanta ) della morale: chi non voglia dire, o che l'uomo non abbia alcun dovere verso Dio, o che ci siano dei doveri estranei alla morale. Non occorre avvertire che non abbiamo inteso con questo d'aderire all'opinione, o piuttosto alla consuetudine non ragionata e puramente negativa di quelli che restringono la morale alle relazioni degli uomini tra di loro. Solamente abbiamo creduto che, anche rimanendo in quest'ordine di fatti e d'applicazioni, si potesse trattare la questione senza mutilarla; giacche una verità, per quanto le si restringa arbitrariamente il campo, si manifesta tutt'intera all'osservazione, anche in quel piccolo spazio che le è lasciato; appunto perchè è tutta in ogni sua parte; e, se ciò non fosse, non sarebbe possibile il fare di essa la minima applicazione. Il dimostrare che le relazioni degli uomini tra di loro sono ben lontane dall'esaurire e dall'adeguare il concetto intero della moralità, avrebbe senza dubbio somministrati degli argomenti più immediati contro la proposta separazione della morale dalla teologia; ma ci avrebbe condotti ancora più in lungo, e non si sarebbe potuto fare senza ripetere cose già dette molto bene da altri. Abbiamo dunque presa la questione dov'è confinata da molti, e dove, del rimanente, era stata lasciata dall'illustre autore; e abbiamo procurato, per quanto lo promettevano le nostre forze, di far vedere come, anche nella parte che riguarda le sole relazioni degli uomini tra di loro, la morale puramente filosofica sia naturalmente defettiva; come ogni volta che cerca d'arrivare col ragionamento quella perfezione che pure la ragione intravvede, il ragionamento, dopo inutili sforzi, vada, per dir così, a morire in un desiderio, e come questo giusto e nobile desiderio sia appagato dalla morale rivelata, e non lo possa essere che da questa; come il concetto della più eminente virtù dell'uomo verso gli uomini trovi la sua desiderata e manifesta ragione nel regno di Dio e nella sua giustizia ( Mt 6,33 ). Perfino il nome non l'ha se non in questa dottrina quella virtù medesima, quand'è eminente davvero. Non già un nome tutto suo, fatto per essa, e proprio esclusivamente di essa. Sarebbe poca cosa, e non potrebbe significar nulla d'eminente; poiché il suo concetto, non riferendosi che agli uomini, rimarrebbe necessariamente circoscritto nei limiti di questo oggetto medesimo, e non andrebbe al di là di ciò che agli uomini può esser dovuto per la loro natura. Quello che una tal virtù riceve dalla dottrina evangelica è il nome sovrumano di Carità, il quale, unendo con l'amor di Dio l'amor degli uomini, lo fa in qualche maniera partecipare della ragione infinita di quello; nome che contempla in essi, non la sola natura quale si può riconoscere per mezzo della ragione; ma l'origine, che li fa essere figlioli di Dio; ma l'umanità assunta dal Verbo, che li fa essere fratelli di Gesù Cristo; ma la natura medesima quale è interamente manifestata dalla fede, e che li fa essere a immagine e similitudine dell'ineffabile Trinità. L'Uomo-Dio ha detto: Ogni volta che avete fatto qualche cosa per uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l'avrete fatta a me ( Mt 25,40 ). Quale filosofia avrebbe mai potuto scoprire nel bene fatto agli uomini un tal valore, promettergli una tale riconoscenza? Capitolo IV Sui decreti della Chiesa - sulle decisioni dei Padri - e sui casisti Essa ( la Chiesa ) sostituì l'autorità dei suoi decreti e le decisioni dei Padri ai lumi della ragione e della coscienza, lo studio dei casisti a quello della filosofia morale La Chiesa fonda la sua autorità sulla parola di Gesù Cristo: essa pretende d'essere depositaria e interprete delle Scritture e della Tradizione; e protesta, non solo di non aver mai insegnato nulla che non derivi da Gesù Cristo, ma d'essersi sempre opposta, e di volersi sempre opporre a ogni novità che tentasse introdursi; d'esser pronta a cancellare, appena scritto, ogni iota che una mano profana osasse aggiungere alle carte divine. Non ha mai preteso d'avere l'autorità d'inventare princìpi di morale essenziale; anzi la sua gloria è di non averla; di poter dire che ogni verità le è stata insegnata fino dalla sua origine, che ha sempre avuti gli insegnamenti e i mezzi necessari per salvare i suoi figli; d'avere un'autorità che non può crescere, perchè non è mai stata mancante. Afferma, in conseguenza, che i suoi decreti sono conformi al Vangelo, e che non riceve le decisioni dei Padri, se non in quanto gli sono pure conformi, e sono una testimonianza della continuazione della stessa fede e della stessa morale. Se la Chiesa afferma il vero, non si potrà dire che sostituisca questi decreti e queste decisioni ai lumi della ragione e della coscienza; come non si può dire sostituita alla legge una sentenza che ne spieghi lo spirito, e che ne determini l'esecuzione. Si dovrà anzi confessare ch'essa regola l'una e l'altra con una norma infallibile, come è quella del Vangelo. Che se non si vuol credere a questa asserzione della Chiesa, si dovrà dire quali siano le massime di morale proposte dalla Chiesa, che non vengano dal Vangelo, che siano contrarie, o anche solamente indifferenti al suo spirito. Questa ricerca non farà altro che mettere sempre più in chiaro la maravigliosa immutabilità della Chiesa nella sua morale perpetuamente evangelica, e l'infinita distanza che passa tra essa e tutte le scole filosofiche, o anteriori alla Chiesa, o che si dichiarano independenti da essa; nelle quali non s'è fatto altro che edificare e distruggere, affermare e disdirsi; nelle quali i più savi sono stati stimati quelli che più hanno confessato di dubitare. In quanto ai casisti, principio dal confessare di non averli letti, non dico tutti, che dev'essere l'occupazione d'una vita intera, ma neppur uno; e di non averne altra idea, e d'alcuni solamente, se non per le confutazioni d'altri scrittori, e per le censure inflitte da autorità ecclesiastiche a varie loro proposizioni. Ma la cognizione delle loro opere non è necessaria per stabilire il punto che interessa la Chiesa a loro riguardo; ed è, che alla Chiesa non si possono attribuire le dottrine dei casisti: essa non si fa mallevadrice dell'opinioni dei privati, nè pretende che alcuno dei suoi figli non possa errare: questa pretesa contradirebbe alle predizioni del suo Fondatore divino. Essa non ha mai proposto i casisti come norma di morale: era anzi impossibile il farlo, perchè le decisioni loro devono essere un ammasso d'opinioni non di rado opposte. La storia della Casistica può dar luogo a due osservazioni importanti. L'una, che le proposizioni inique fino alla stravaganza, che sono state messe fuori da qualche casista, sono motivate sopra sistemi arbitrari e independenti dalla religione. Alcuni di loro s'erano costituiti e divisi in scole di filosofi moralisti profani, e si perdevano a consultare e citare Aristotele e Seneca dove aveva parlato Gesù Cristo. Questo è lo spirito che il Fleury notò nei loro scritti: Si sono trovati infine, dei casisti che hanno fondato la loro morale piuttosto sul ragionamento umano che sulla Scrittura e Tradizione. Come se Gesù Cristo non ci avesse insegnato ogni verità tanto in ordine ai costumi, quanto in ordine alla fede: come se noi ne andassimo ancora in cerca come gli antichi filosofi. L'altra osservazione è che gli scrittori e le autorità che nella Chiesa combatterono o condannarono quelle proposizioni, opposero ad esse costantemente le Scritture e la Tradizione. Gli eccessi d'una parte dei' casisti vennero dunque dall'essersi essi allontanati dalle norme che la Chiesa segue e propone; e a queste si dovette ricorrere per mantenere la morale nei suoi veri princìpi. Capitolo V Sulla corrispondenza della morale cattolica coi sentimenti naturali retti La morale nelle mani dei casisti fu assolutamente cangiata di natura; diventò estranea tanto al cuore quanto alla ragione; perdette di vista il dolore che ogni nostro fallo poteva cagionare a qualche nostra creatura, per non avere altre leggi che le supposte volontà del Creatore: rigettò la base che la natura le aveva data nel cuore di tutti gli uomini, per formarsene una affatto arbitraria. Benché non abbiamo né il desiderio di difendere i casisti in monte, come sono presentati nel testo che esaminiamo, né le cognizioni per difenderne neppur uno, crediamo di poter appellar francamente da una condanna che li comprende tutti. Una tal condanna é evidentemente, non solo altrettanto arbitraria, ma meno ragionevole di quello che sarebbe una giustificazione ugualmente generale. Indipendentemente da ogni altra considerazione, e secondo le sole probabilità umane, come pensare che, tra tanti scrittori di quella materia, alcuni dei quali noti per sapere e per santità di vita, non ce ne siano di quelli che abbiano rettamente e utilmente applicata la morale cristiana ai casi particolari di cui trattavano? Ma siccome la Chiesa è poco sopra accusata d'aver sostituito lo studio dei casisti alla filosofia morale; e siccome il non tenere altra norma, che le volontà ( non supposte ma rivelate ) del Creatore non è una massima privata dei casisti, ma universale della Chiesa, così queste censure vengono a ricadere sopra di essa. A ogni modo, credo bene d'esporre lo spirito della Chiesa su questo punto, per mostrare che ciò che viene da lei è sapientissimo, e per impedire che le si attribuisca ciò che non è suo. Che se l'intenzione dell'illustre autore non è stata di censurare la Chiesa, tanto meglio: io avrò avuto il campo di renderle omaggio, senza contradire a nessuno. La Chiesa non ha poste le basi della morale, ma le ha trovate nella parola di Dio: Io sono il Signore Dio tuo ( Es 20,2 ): questo è il fondamento e la ragione della legge divina, e per conseguenza della morale della Chiesa. Il principio della sapienza è il timor di Dio ( Sal 111,10 ) Ecco le basi sulle quali sole la Chiesa doveva edificare. Ma col far questo ha essa potuto distruggere le basi naturali della morale, cioè i sentimenti retti, ai quali tutti gli uomini hanno una disposizione? Tutt'altro, giacche questi sentimenti non possono mai essere in contradizione con la legge di Dio, dal Quale vengono anch'essi. La legge è fatta anzi per dar loro una nuova autorità e una nuova luce, onde l'uomo possa discernere nel suo core ciò che Dio ci ha messo da ciò che il peccato ci ha introdotto. Perchè, queste due voci parlano in noi; e troppo spesso, tendendo l'orecchio interiore, l'uomo non sente una risposta distinta e sicura, ma il suono confuso d'una triste contesa. Di più ( e quanto di più! ) la legge divina ha estesi quei sentimenti al di là della natura; gli ha sollevati di nuovo al loro oggetto infinito, dal quale il peccato gli aveva sviati. Conformare la morale a questa legge, è dunque un farla essere conforme al core retto e alla ragione perfezionata. E questo ha fatto la Chiesa; ed essa sola può farlo, come interprete infallibile e perpetua di questa legge. Perchè, cosa giova che il regolo sia perfetto, se a chi lo tiene trema la mano? A che varrebbe la santità della legge, se l'interpretazione ne fosse abbandonata al giudizio appassionato di chi ci si deve assoggettare? se Dio non l'avesse resa independente dalle fluttuazioni della mente umana, affidandola a quella Chiesa che ha promesso d'assistere? Se dunque il riguardo al dolore degli altri, se il dovere di non contristare un'immagine di Dio, è uno di questi sentimenti stampati da Dio nel cuore dell'uomo, la Chiesa non l'avrà certamente perduto di vista nel suo insegnamento morale, perchè non l'avrà perduto di vista la legge divina. Così è infatti. È insegnamento catechistico universale, che i peccati si aggravano in proporzione del danno che con essi si fa volontariamente al prossimo. La Chiesa insegna esser peccati una quantità d'azioni, alle quali non si può assegnare altra reità, che il torto che con esse si fa a degli altri. L'intenzione d'affliggere un uomo è sempre un peccato: l'azione più lecita, l'esercizio del diritto più incontrastabile diventa colpevole, se sia diretto a questo orribile fine. La Chiesa ha dunque tenuto di vista un tal sentimento; e ci ha poi aggiunta la sanzione, insegnando che il dolore fatto agli altri, diventa infallibilmente un dolore per chi lo fa; il che la natura non insegna; né la ragione potrebbe acquistarne la chiara e piena certezza, senza l'aiuto della rivelazione. La Chiesa vuole che i suoi figli educhino l'animo a vincere il dolore, che non si perdano in deboli e diffidenti querele; e presenta loro un esemplare divino di fortezza e di calma sovrumana nei patimenti. Vuole i suoi figli severi per loro; ma per il dolore dei loro fratelli li vuole misericordiosi e delicati; e per renderli tali, presenta loro lo stesso esemplare, quell'Uomo-Dio che pianse al pensiero dei mali che sarebbero piombati sulla città dove aveva a soffrire la morte più crudele ( Lc 19,41 ) Ah! certo, non lascia ozioso il sentimento della commiserazione quella Chiesa che, nella parola divina di carità, mantiene sempre unito e, per dir così, confuso l'amore di Dio e degli uomini: quella Chiesa che manifesta il suo orrore per il sangue, fino a dichiarare che anche quello che si sparge per la difesa della patria, contamina le mani dei suoi ministri, e le rende indegne d'offrire l'Ostia di pace. Tanto le sta a core che si veda che il suo ministero è di perfezione; che se ci sono delle circostanze dolorose, nelle quali può esser lecito all'uomo di combatter l'uomo, essa non ha istituiti dei ministri per far ciò che è lecito, ma ciò che è santo; che quando si creda di non poter rimediare ai mali, se non con altri mali, essa non vuole averci parte; essa il cui solo fine è di ricondurre i voleri a Dio; essa che riguarda come santo il dolore, solamente quand'è volontario, quand'è una espiazione, quand'è offerto dall'animo che lo soffre. Capitolo VI Sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali La distinzione fra peccati mortali e peccati veniali cancellò quella che noi trovavamo nella nostra coscienza fra le colpe più gravi e più perdonabili. Si videro collocati gli uni accanto gli altri i delitti che ispirano il più profondo orrore insieme coi falli che la nostra debolezza riesce a mala pena ad evitare. Si può credere che l'illustre autore ammetta in sostanza, con la Chiesa cattolica, la distinzione dei peccati in mortali e veniali di loro natura; poiché divide le offese in più gravi e in più perdonabili. È noto che questa distinzione fu apertamente rigettata da Lutero e da Calvino; i quali ritennero invece i due vocaboli, ma dandogli un tutt'altro significato, repugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica. Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l'essere alcuni veniali e da attribuirsi alla grazia di Dio. E, in termini non meno espliciti, il secondo: Tengano i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale; perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione, dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe dei santi sono veniali, non di loro natura, ma perche ottengono il perdono dalla misericordia di Dio. La censura dell'illustre autore non cade dunque che sull'applicazione della massima, cioè sulla classificazione dei peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza. Su di che mi fu lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un'autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un'altra. Al sentire che la distinzione dei peccati mortali dai veniali cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l'offese più gravi e le più condonabili, parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, ne abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua. Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all'applicazione, il giudizio della coscienza era ( come s'è osservato più volte ) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl'individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino ( e non erano i meno pensatori ) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo. La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perchè questa non era ne incorrotta, ne unanime, ne infallibile, non può esser citata al suo tribunale. Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe? Certo, la parola di Dio. Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant'Agostino, osserva che: alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non fare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe. Non prendiamo, dice anche altrove, non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggero; ma prendiamo la bilancia divina delle Scritture, e pesiamo in essa ciò che è colpa grave, o per dir meglio, riconosciamo il peso che Dio ha dato a ciascheduna. Perchè, il vero appello è dalla coscienza alla rivelazione, cioè dall'incerto al certo, dall'errante e dal tentato all'incorruttibile e al santo. Che se, con questa coscienza riformata e illuminata dalla rivelazione, osserviamo quello che la Chiesa c'insegna sulla gravità delle colpe, non troveremo che da ammirare la sua sapienza, e la sua fedeltà alla parola divina, della quale è interprete e depositaria. Vedremo che quelle cose che essa ascrive a peccato grave, vengono tutte da disposizioni dell'animo contrarie direttamente al sentimento predominante d'amore e d'adorazione che dobbiamo a Dio, o all'amore che dobbiamo agli uomini, tutti nostri fratelli di creazione e di riscatto; vedremo che la Chiesa non ha messo tra le colpe gravi nessun sentirnento che non venga da un core superbo e corrotto, che non sia incompatibile, con la giustizia cristiana, nessuna disposizione che non sia bassa, carnale o violenta, che non tenda ad avvilir l'uomo, a stornarlo dal suo nobile fine, e a oscurare nella sua anima i segni divini della somiglianza col Creatore; e sopra tutto nessuna disposizione per la quale non sia espressamente intimata nelle Scritture l'esclusione dal regno dei cieli. Ma, specificando queste disposizioni, la Chiesa ha ben di rado enumerati gli atti in cui si trovino al punto di renderli colpe gravi. Sa e insegna che Dio solo vede a qual segno il core degli uomini s'allontani da Lui; e fuorché nei casi in cui gli atti siano un'espressione manifesta dall'essersi il core ritirato da Lui, essa non ha che a ripetere: Chi è che conosca i delitti? ( Sal 19,12 ) Oltre le disposizioni, ci sono delle azioni per le quali nelle Scritture è pronunziata la morte eterna: sulla gravità di queste non può cader controversia. Oltre di queste ancora, la Chiesa ha dichiarate colpe gravi alcune trasgressioni delle leggi stabilite da essa con l'autorità datale da Gesù Cristo. Non c'è alcuna di queste leggi che tema l'osservazione d'un intelletto cristiano, spassionato e serio; alcuna che non sia, in un modo manifesto e diretto, conducente all'adempimento della legge divina. Non sarà qui fuori del caso di discuterne una brevemente. È peccato mortale il non assistere alla Messa in giorno festivo. Chi non sa che la sola enunciazione di questo precetto eccita le risa di molti? Ma guai a noi, se volessimo abbandonare tutto ciò che ha potuto essere soggetto di derisione! Quale è l'idea seria, quale il nobile sentimento, che abbia potuto sfuggirla? Nell'opinione di molti non può esser colpa se non l'azione che tenda direttamente al male temporale degli uomini; ma la Chiesa non ha stabilite le sue leggi secondo questa opinione sommamente frivola e improvida: la Chiesa insegna altri doveri; e quando essa regola le sue prescrizioni secondo tutta la sua dottrina, bisogna prima confessare che è consentanea a sé stessa; e se le prescrizioni non paiono ragionevoli, bisogna provare che tutta la sua dottrina è falsa; non giudicare la Chiesa con uno spirito che non è il suo, e che essa riprova. È notissimo che la Chiesa non ripone l'adempimento del precetto nella materiale assistenza dei fedeli al Sacrificio, ma nella volontà d'assisterci: essa ne dichiara disobbligati gl'infermi e quelli che sono trattenuti da un'occupazione necessaria; e ritiene trasgressori quelli che, presenti con la persona, ne stanno lontani col core: tanto è vero che, anche nelle cose più essenziali, vuole principalmente il core dei fedeli. Posto ciò, vediamo quali disposizioni certe supponga la trasgressione di questo precetto. La santificazione del giorno del Signore è uno di quei comandamenti che il Signore stesso ha dati all'uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d'apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l'uomo al suo Creatore. Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più nella maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità, e stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato degli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro altri oggetti dei quali si disingannerà quando gli abbia posseduti; l'uomo prostrato dalla sventura, è l'uomo inebbriato da un prospero successo; l'uomo ingolfato negli affari, e l'uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine, e l'importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali, per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti; giorni dell'uomo indòtto nello studio il più alto, e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d'eterno contento a cui aneliamo, e di cui l'anima nostra sente d'esser capace: in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le, comuni preghiere, rammentandoci le comuni miserie ed i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive ai suoi figli la maniera d'adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il cristiano che volontariamente si astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio, può mai essere un giusto che viva della fede? ( Rm 1,17 ) Può far vedere più chiaramente la non curanza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel core un'avversione al cristianesimo? non ha rinunciato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell'aria mortale del gentilesimo. Capitolo VII Degli odii religiosi. I casisti presentarono all'esecrazione degli uomini, in prima fila, tra i più colpevoli, gli eretici, gli scisnialici, i bestemmiatori. Qualche volta riuscirono ad eccitare contro di essi l'odio più violento). Certo, ci sono poche cose che corrompano tanto un popolo, quanto l'abitudine dell'odio: così questo sentimento non fosse fomentato perpetuamente da quasi tutto ciò che ha qualche potere sulle mentì e sugli animi. L'interesse, l'opinione, i pregiudizi, le verità stesse, tutto diventa agli uomini un'opportunità per odiarsi a vicenda: appena si trova alcuno che non porti nel core l'avversione e il disprezzo per delle classi intere dei suoi fratelli: appena può accadere ad alcuno una sventura che non sia cagione di gioia per altri; e spesso non per alcun utile che ne venga loro, ma per un interesse ancora più basso, quello dell'odio. Confesso di veder con meraviglia messi tra i pervertitori d'una nazione, in questo senso, e come in capo di lista, i casisti, ai quali finora non avevo sentito dare altro carico, che di voler giustificare quasi ogni opera e ogni persona, che d'insegnare a non odiare nemmeno il vizio. Ma siano i casisti, o sia qualunque si voglia, che ispiri agli uomini odio contro i loro fratelli, li fa essere omicidi (1 Gv 3,15 ); va direttamente contro il secondo precetto, che è simile al primo, che non ne ha alcun altro sopra di se ( Mc 12,31 ); va direttamente contro l'insegnamento perpetuo della Chiesa, che non ha mai lasciato di predicare che il segno di vita e l'amare i fratelli ( 1 Gv 3,14 ). Sia però lecito d'osservare che, tra le cagioni che possono aver cambiato il carattere degli Italiani, questa, se ci fu, deve aver certamente operato assai poco; giacche non c'è forse nazione cristiana dove i sentimenti d'antipatia col pretesto della religione abbiano avuto meno occasione di nascere e d'influire sulla condotta degli uomini. In verità, riguardando a questa parte della storia, noi troviamo piuttosto da piangere su quella Francia e su quella Germania che ci vengono opposte. Ah! tra gli orribili rancori che hanno diviso l'Italiano dall'Italiano, questo almeno non si conosce; le passioni che ci hanno resi nemici non hanno almeno potuto nascondersi dietro il velo del santuario. Purtroppo noi troviamo a ogni passo nei nostri annali le nemicizie trasmesse da una generazione all'altra per miserabili interessi, e la vendetta anteposta alla sicurezza propria; ci troviamo a ogni passo due parti della stessa nazione disputarsi accanitamente un dominio e dei vantaggi, i quali, per un grande esempio, non sono rimasti nè all'una né all'altra; ci troviamo la feroce ostinazione di volere a schiavi pericolosi quelli che potevano essere amici ardenti e fedeli; ci troviamo una serie spaventosa di giornate deplorabili, ma nessuna almeno simile a quelle di Cappel, di Jarnac e di Praga. Purtroppo da questa terra infelice sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione, assai poco. Poco dico, in confronto di quello che lordò l'altre parti d'Europa: i furori e le sventure dell'altre nazioni ci danno questo tristo vantaggio di chiamar poco quel sangue; ma il sangue d'un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra. Non si può a meno, in quest'occasione, di non riflettere sull'ingiustizia commessa da tanti scrittori nell'attribuire ai cattolici soli questi orribili senitimenti d'odio religioso, e i loro effetti: ingiustizia che appare a chiunque scorra appena le storie di quelle dissenzioni. Ma questa parzialità può essere utile alla Chiesa; il grido l'orrore che i secoli alzano contro di quelle, essendo principalmente rivolto contro i cattolici, questi devono averlo sempre negli orecchi, e sentirsi richiamati alla mansuetudine e alla giustizia, non solo dalla voce della Chiesa, ma anche da quella del mondo. Io so che è stato detto da molti, che queste avversioni e queste stragi, benché abborrite dalla Chiesa, le possono essere imputate, perchè, insegnando a detestare l'errore, dispone l'animo dei cattolici a estendere questo sentimento agli uomini che lo professano. A ciò si potrebbe rispondere che, non solo ogni religione, ma ogni dottrina morale, o vera o falsa, insegna a detestare gli errori contro i doveri essenziali dell'uomo, o quelli che pretende esser tali. Tutti coloro che, scindendo il Cristianesimo, fondarono delle sette separate dalla Chiesa, qual altro mezzo adoprarono, che di rappresentare come errori detestabili i suoi insegnamenti? È comune alla verità e all'errore, in tali materie, il detestare il suo contrario; e n'è la conseguenza naturale l'insegnare a detestarlo. E siccome poi l'errore non potrebbe nemmeno prendere una forma apparente, né proporre per simbolo altro che delle negazioni, se non s'attaccasse a qualche verità; siccome, per conseguenza, ogni setta che si dice cristiana conserva qualche parte della verità cristiana; così non c'è alcuna che non riguardi come detestabili ( e in questo caso rettamente ) gli errori opposti a quel tanto di verità che conserva. Protestare, come fanno alcuni, di venerare come sacre e rivelate da Dio, alcune verità, e di non avere altro che indifferenza per l'errore che le nega e le disprezza, è un accozzo di parole contradittorie, che contraffà una proposizione. Ma, per giustificare la Chiesa, non è mai necessario ricorrere a degli esempi: basta esaminare le sue massime. È dottrina perpetua della Chiesa, che si devano detestare gli errori, e amare gli erranti. C'è contradizione tra questi due precetti? Non credo che alcuno voglia affermarlo. - Ma è difficile il far distinzione tra l'errore e la persona; è difficile detestare quello, e nutrire per questa un amore non di sola apparenza, ma vero e operoso ( 1 Gv 3,18 ). - È difficile! ma qual'è la giustizia facile all'uomo corrotto? ma donde questa difficoltà di conciliare due precetti, se sono giusti ugualmente? È cosa giusta il detestar l'errore? Sì, certo; e non c'era nemmeno bisogno di prove. È cosa giusta l'amare gli erranti? Sì, ancora; e per le ragioni stesse per cui è giusto d'amar tutti gli uomini: perchè Dio, da cui teniamo tutto, da cui speriamo tutto, Dio a cui dobbiamo tutto dirigere, gli ha amati fino a dare per essi il suo Unigenito ( Gv 3,16 ); perchè è cosa orribile il non amare quelli che Dio ha predestinati alla sua gloria; ed è un giudizio della più rea e stolta temerità l'affermare d'alcun uomo vivente, che non lo sia, l'escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze delle misericordie di Dio. I testimoni che stavano per scagliare le prime pietre contro Stefano, deposero le loro vesti ai piedi d'un giovinetto, il quale non si ritirò inorridito, ma, consentendo alla strage di quel giusto, rimase a custodirle ( At 7,57-59 ). Se un cristiano avesse allora accolto nel suo cuore un sentimento d'odio per quel giovinetto, di cui la tranquilla ferocia contro i seguaci del Giusto, di Quello in cui solo e salute ( At 4,12 ), poteva parere un segno così manifesto di riprovazione; se avesse mormorata la maledizione che pare così giusta in bocca degli oppressi, ah! quel cristiano avrebbe maledetto il Vaso d'elezione ( At 9,15 ). Donde adunque la difficoltà di conciliare questi precetti, se non dalla nostra corruttela, da cui vengono tutte le guerre tra i doveri? E questa difficoltà è appunto il trionfo della morale cattolica: poiché essa sola può vincerla; essa sola, prescrivendo con la sua piena autorità tutte le cose giuste, non lascia dubbio su alcun dovere; e, per troncare la serie di quelle false deduzioni con le quali si finisce a sacrificare un principio a un altro principio, li consacra tutti, e li mette fuori della discussione. Se, andando di ragionamento in ragionamento, s'arriva a un'ingiustizia, si può esser certi d'aver ragionato male; e l'uomo sincero è avvertito dalla religione stessa d'essere uscito di strada; perchè dove comparisce il male, si trova in essa una proibizione e una minaccia. Nessun cattolico di bona fede può mai credere d'avere una giusta ragione per odiare il suo fratello: il Legislatore divino, ch'egli si vanta di seguire, sapeva certo che ci sarebbero stati degli uomini iniqui e provocatori, e degli uomini nemici della Fede; e nulladimeno gli ha detto senza fare eccezione veruna: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso. È uno dei più singolari caratteri della morale cattolica, e dei più benefici effetti della sua autorità, il prevenire tutti i sofismi delle passioni con un precetto, con una dichiarazione. Così, quando si disputava per sapere se uomini di colore diverso dall'europeo dovessero essere considerati come uomini, la Chiesa, versando sulla loro fronte l'acqua rigeneratrice, aveva imposto silenzio, per quanto era in lei, a quella discussione vergognosa; li dichiarava fratelli di Gesù Cristo, e chiamati a parte della sua eredità. Di più, la morale cattolica rimove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini, proscrivendo la superbia, l'attaccamento alle cose della terra, e tutto ciò che strascina a rompere la carità. E ci somministra i mezzi per essere fedeli all'uno e all'altro; e questi mezzi sono tutte quelle cose che portano la mente alla cognizione della giustizia, e il core all'amore di essa; la meditazione sui doveri, la preghiera, i sacramenti, la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio. L'uomo educato sinceramente a questa scuola, eleva la sua benevolenza a una sfera dove non arrivano i contrasti, gl'interessi, l'obiezioni; e questa perfezione riceve anche nel tempo una gran ricompensa. A tutte le vittorie morali succede una calma consolatrice; e amare in Dio quelli che si odierebbero secondo il mondo, è, nell'anima umana, nata ad amare, un sentimento d'inesprimibile giocondità. Ci fu però uno scrittore, e non di poca fama certamente, il quale pretese che il conciliare la guerra all'errore e la pace con gli uomini sia una cosa non diffìcile, ma impossibile. La distinzione fra la tolleranza civile e la tolleranza teologica è puerile e vana. Queste due tolleranze sono inseparabili e non si può ammettere l'una senza dell'altra. Gli angeli stessi non vivrebbero in pace con gli uomini qualora li considerassero come nemici di Dio. Quali conseguenze da una tale dottrina! I primi cristiani non dovevano dunque credere che adorare gli idoli e sconoscer Dio rendesse l'uomo nemico a Lui. Hanno dunque fatto male a combattere il gentilesimo; perchè è un'impresa almeno imprudente e pazza il predicare contro una religione che non rende nemici di Dio quelli che la professano. E quando san Paolo, per accrescere la riconoscenza e la fiducia dei fedeli, rammentava la misericordia usata loro da Dio, nel tempo ch'erano suoi nemici ( Rm 10,5 ), proponeva loro un'idea falsa e antisociale. Vivere in pace con degli uomini che si hanno pei nemici di Dio, non sarà possibile a quelli che credono che Dio stesso glielo comanda? a quelli che non sanno se siano essi medesimi degni d'amore o d'odio ( Qo 9,1 ), e che sanno di certo che diverrebbero nemici di Dio essi medesimi, rompendo la pace? a quelli i quali pensano che un giorno si chiederebbe loro se la fede gli era stata data per dispensarli dalla carità, e con che diritto aspettano la misericordia, se, per quanto era in loro, l'hanno negata agli altri? a quelli che devono riconoscere nella fede un dono, e tremare dell'uso che ne fanno? Queste e altre ragioni si sarebbero potuto addurre a chi avesse fatta una tale obiezione al cristianesimo, quando apparve; ma, ai tempi del Rousseau, essa riesce stranissima, poiché impugna la possibilità d'un fatto di cui la storia del cristianesimo è una lunga e non interrotta testimonianza. Quello che ne diede il primo esempio era, certo, al di sopra degli angeli; ma era anche un uomo; ma, nei disegni della sua misericordia, volle che la sua condotta fosse un modello che ognuno dei suoi seguaci potesse imitare; e pregò morendo per i suoi uccisori. Quella generazione durava ancora, quando Stefano entrò il primo nella carriera di sangue che l'Uomo-Dio aveva aperta. Stefano che, con sapienza divina, cerca d'illuminare i giudici e il popolo, e di richiamarli a un pentimento salutare; quando poi è oppresso, quando sta per compirsi sulla terra l'atto sanguinoso della sua testimonianza, dopo aver raccomandato il suo spirito al Signore, non pensa a quelli che l'uccidono, se non per dire: Siqnore, non imputar loro questa cosa a peccato. E detto questo, s'addormentò nel Signore ( At 7,59 ). Tale fu, per tutti quei secoli in cui gli uomini persistettero nella così cieca perversità di venerare gl'idoli fatti da loro, e di far morire i giusti, tale fu sempre la condotta dei cristiani: la pace orribile del gentilesimo non fu mai disturbata nemmeno dai loro gemiti. Cosa si può fare di più per conservarla con gli uomini, che amarli e morire? Convien dire che questa dottrina sia ben concorde con se stessa, e ben chiara agl'intelletti cristiani, poiché i fanciulli stessi la trovavano intelligibile: fedeli agli ammaestramenti delle madri, sorridevano ai carnefici; quelli che sorgevano imitavano quelli ch'erano caduti prima di loro; primizie dei santi, fiori rinascenti sotto la falce del mietitore. Ma la storia del cristianesimo non ha forse esempi d'odi e di guerre? Ne ha pur troppo; ma bisogna chieder conto a una dottrina delle conseguenze legittime che si cavano da essa, e non di quelle che le passioni ne possono dedurre. Questo principio, vero in tutti i tempi, si può ai nostri giorni allegarlo con maggior fiducia d'essere ascoltati, dacché molti di quelli che lo contrastavano alla religione, sono stati costretti a invocarlo per altre dottrine. La memorabile epoca storica nella quale ci troviamo ancora, si distingue per il ritrovamento, per la diffusione e per la ricapitolazione d'alcuni princìpi politici, e per gli sforzi fatti affine di metterli in esecuzione; da ciò sono venuti dei mali gravissimi; i nemici di quei princìpi pretendono che i princìpi ne siano stati la cagione, e che siano, per conseguenza, da rigettarsi. A questo i loro sostenitori vanno rispondendo che è cosa assurda e ingiusta proscrivere le verità, per l'abuso che gli uomini ne hanno potuto fare; che, lasciando di promulgarle e di stabilirle, non si leveranno però dal mondo le passioni; che, mantenendo gli uomini in errori, si lascia viva una cagione ben più certa e diretta di calamità e d'ingiustizie; che gli uomini non diventano migliori, ne più umani, con l'avere opinioni false. La notte di S. Bartolomeo non fece proscrivere il cattolicismo, ha detto a questo proposito un celebrato ingegno; e certo nessuna conseguenza sarebbe stata più stolta e ingiusta. La memoria di quell'atrocissima notte dovrebbe servire a far proscrivere l'ambizione e lo spirito fazioso, l'abuso del potere e l'insubordinazione alle leggi, l'orribile e stolta politica che insegna a violare a ogni passo la giustizia per ottenere qualche vantaggio, e quando poi queste violazioni accumulate abbiano condotto un gravissimo pericolo, insegna che tutto è lecito per salvar tutto; a far proscrivere l'insidie e le frodi, le provocazioni e i rancori, l'aividità della potenza che fa tutto tramare e tutto osare, e l'ingiusto amore della vita che fa sorpassare ogni legge per conservarla; perchè queste e altre simili furono le vere cagioni della strage per cui quella notte è infame. Quando, all'opposto, si trovano nella storia esempi d'influenza benefica e misericordiosa della dottrina cattolica, non c'è bisogno di ricercare come mai, per quali giri di ragionamenti, per quali singolari disposizioni degli animi, i suoi seguaci siano arrivati a trovare in essa tali consigli, a riceverne tali impulsi. È evidentemente una causa che produce il suo effetto proprio. In tempi di violente provocazioni e di feroci vendette, s'alza una voce a proclamare la tregua di Dio: è la voce del Vangelo; e suona per la bocca dei vescovi e dei preti. Sant'Ambrogio spezza e vendae i vasi sacri per riscattare gli schiavi illirici, la più parte Ariani: san Martino di Tours intercede per i Priscillianisti presso Massimo imperatore in una parte dell'occidente; e considera come scomunicato Itacio e gli altri vescovi che l'avevano mosso a infierire contro di quelli: sant'Agostino supplica il proconsole d'Africa per i Donatisti, dai quali ognuno sa che travaglio avesse la Chiesa. Non avere a sdegno, dice, che imploriamo da te la vita di quelli, dei quali imploriamo da Dio il ravvedimento. E lasciando stare tanti altri fatti simili, di cui abbonda la storia ecclesiastica di tutti i tempi, giova rammentarne uno tra i meno antichi, anche perchè è stato tentato ( e pur troppo, non senza effetto presso di molti ), non solo di rapirne la gloria alla Chiesa, ma di cambiarla in ignominia: ed è la condotta del clero cattolico in America. L'ira contro ogni resistenza, l'avarizia resa incontentabile dalle promesse di fantasie riscaldate, il timore che nasce anche negli animi più determinati e li rende crudeli, quando non sono fortificati dall'idea d'un dovere, e quando gli offesi sono molti, tutte insomma le passioni più inesorabili della conquista, avevano snaturati affatto gli animi degli Spagnoli; e gli Americani non ebbero quasi altri avvocati che gli ecclesiastici; e questi non ebbero altri argomenti in favor loro che quelli del Vangelo e della Chiesa. Citiamo qui il giudizio del Robertson, giudizio importantissimo, e per l'imparzialità certa dello storico, e per la quantità e l'accuratezza delle ricerche sulle quali è fondato. « Con ingiustizia ancor maggiore è stato da molti autori rappresentato l'intollerante spirito della Romana Cattolica Religione come la cagione dell'esterminio degli Americani, ed hanno accusati gli ecclesiastici spagnoli d'aver animati i loro compatriotti alla strage di quell'innocente popolo come idolatra ed inimico di Dio. Ma i primi missionari che visitarono l'America, benché deboli ed a ignoranti, erano uomini pii. Essi presero di buon'ora la difesa dei nazionali, e li giustificarono dalle calunnie dei vincitori, i quali descrivendoli come incapaci d'essere istruiti negli uffici della vita civile, e di comprendere le dottrine della Religione, sostenevano esser quelli una razza subordinata d'uomini, e sopra cui la mano della natura aveva posto il segno della schiavitù. Dalle relazioni che ho già date dell'umano e perseverante zelo dei missionari spagnoli nel proteggere l'inerme greggia a loro commessa, eglino compariscono in una luce che aggiunge lustro alla loro funzione. Eran ministri di pace che procuravano di strappare la verga dalle mani degli oppressori. Alla potente loro interposizione doverono gli Americani ogni regolamento diretto a mitigare il rigore del loro destino. Negli stabilimenti spagnoli il clero sì regolare che secolare è ancor dagli Indiani considerato come il suo naturai protettore, cui ricorrono nei travagli e nelle esazioni, alle quali troppo frequentemente sono essi esposti ». Qual è questa religione, in cui i deboli, quando sono pii, resistono alla forza in favore dei loro fratelli! in cui gli ignoranti svelano i sofismi che le passioni oppongono alla giustizia! In una spedizione, dove non si parlava che di conquiste e d'oro, quelli non parlavano che di pietà e di doveri; citavano al tribunale di Dio i vincitori, dichiaravano empia e irreligiosa l'oppressione. Il mondo, con tutte le sue passioni, aveva mandato agl'Indiani dei nemici che essi non avevano offesi; la religione mandava loro degli amici che non avevano mai conosciuti. Questi furono odiati e perseguitati; furono costretti qualche volta a nascondersi; ma almeno raddolcirono la sorte dei vinti; ma coi loro sforzi e coi loro patimenti, prepararono alla religione un testimonio, che essa non è stata nemmeno un pretesto di crudeltà; che queste furono commesse malgrado le sue proteste. Ah! gli avari crudeli avrebbero voluto passare per zelanti, ma i ministri della religione non gli hanno permesso di mettersi al viso questa maschera; gli hanno costretti a cercare i loro sofismi in ogni altro principio, che in quello della religione; gli hanno costretti a ricorrere alle ragioni di convenienza, d'utilità politica, d'impossibilità di stare esattamente alla legge divina; gli hanno costretti a parlare dei gran mali che sarebbero venuti, se gli uomini fossero stati giusti, a dire ch'era necessario opprimer gli uomini crudelmente, perchè altrimenti diveniva impossibile l'opprimerli. Un solo ecclesiastico disonorò il suo ministero, eccitando i suoi concittadini al sangue; e fu il troppo noto Valverde. Ma, esaminando la sua condotta, come è descritta dal Robertson, si vede chiaro al mio parere, che costui era mosso da tutt'altro che dal fanatismo religioso. Pizzarro aveva formato il perfido disegno d'impadronirsi dell'Inca Atahualpa, per dominare nel Perù, e per saziarsi d'oro. Adescato con pretesti di amicizia Tinca a un abboccamento, questo si risolvette in un'allocuzione del Valverde, nella quale i misteri e la storia della santa e pura religione di Cristo non erano esposti che per venire all'assurda conseguenza, che Tinca doveva sottomettersi al re di Castiglia, come a suo legittimo sovrano. La risposta e il contegno di Atahualpa servirono di pretesto al Valverde per chiamare gli Spagnuoli contro i Peruviani. « Il Pizzarro » cito ancora il Robertson, « che nel corso di questa lunga conferenza aveva con difficoltà trattenuti i soldati impazienti d'impadronisi delle ricche spoglie ch'essi vedevano allora sì da vicino, diede il segno all'assalto ». Il Pizzarro stesso, ch'era venuto a quel fine, fece prigioniero Tinca; il quale poi, con un processo atrocemente stolto, fu condannato a morte; e il Valverde commise anche il delitto d'autorizzare la sentenza con la sua firma. Ora, chi non vede che a degli uomini deliberati a un'azione ingiusta, a degli uomini forti contro uomini ricchi, ogni pretesto era bono? che il Valverde stesso fu istrumento orribile, ma non motore dell'ingiustizia? che la sua condotta svela piuttosto la bassa connivenza all'ambizione e all'avarizia di Pizzarro, che il fanatismo religioso? Il solo bon senso fa vedere che non è nella natura dell'uomo, per quanto sia fanatico, il concepire un odio violento contro degli uomini che non professano il cristianesimo, perchè l'ignorano. Difatti, se la disposizione degli ecclesiastici spagnoli era tale che dalla religione dovessero ricevere impulsi di questa sorte, perchè tutti gli altri parlarono e operarono, non solo diversamente, ma all'opposto? E se la condotta del Valverde era conforme al modo di sentire dei suoi concittadini in fatto di religione, perchè è stata censurata da tutti i loro storici, come osserva il Robertson? Del resto, la religione oltraggiata dal Valverde è stata ben vendicata, non solo da quasi tutti gli ecclesiastici delle diverse spedizioni, ma anche da quelle migliaia di missionari che, portando la fede ai selvaggi e agl'infedeli d'ogni sorte, ci andarono e ci vanno senza soldati, senz'armi, come agnelli tra i lupi ( Lc 10,3 ), e col core diviso tra due sole passioni, quella di condurre molti alla salute, e quella del martirio. Se il rappresentare l'intolleranza persecutrice come una conseguenza dello spirito del cristianesimo, è una calunnia smentita dalla dottrina della Chiesa, è una singolare ingiustizia il rappresentarla come un vizio particolare ai cristiani. Erano le verità cristiane che rendevano intolleranti gli imperatori gentili? Sono esse che hanno creata quella crudeltà senza contrasto e senza rimorso, che sparse il sangue di tanti milioni, non dirò d'innocenti, ma d'uomini che portavano la virtù al più alto grado di perfezione? Sono esse che hanno scatenato il mondo contro quelli di cui il mondo non era degno? ( Eb 11,38 ). Sul principio del secondo secolo, un vecchio fu condotto in Antiochia davanti l'imperatore. Questo, dopo avergli fatte alcune interrogazioni, l'interpellò finalmente se persisteva a dichiarare di portar Gesù Cristo in core. Al che avendo il vecchio risposto di sì, l'imperatore comandò che fosse legato e condotto a Roma, per essere dato vivo alle fiere. Il vecchio fu caricato di catene; e, dopo un lungo tragitto, arrivato in Roma, fu condotto all'anfiteatro, dove fu sbranato e divorato, per divertimento del popolo romano. Il vecchio era sant'Ignazio, vescovo d'Antiochia. Discepolo degli Apostoli, la sua vita era stata degna d'una tale scola. Il coraggio che mostrò al sentire la sua sentenza, l'accompagnò per tutta la strada del supplizio; e fu un coraggio sempre tranquillo, e come uno di quei sentimenti ultimi che vengono dalla più ponderata e ferma deliberazione, in cui ogni ostacolo è stato preveduto e pesato. Al sentire il ruggito delle fiere, si rallegrò: il supplizio, quella morte senza combattimento e senza incertezza, la presenza della quale è una rivelazione di terrore per gli animi i più preparati, che dico? un tal supplizio non aveva nulla d'inaspettato per lui: tanto lo Spirito Santo aveva rinforzato quel core, tanto egli amava! L'imperatore era Traiano. Ah! quando alla memoria d'un cristiano si può rimproverare che, per uno zelo ingiusto e erroneo, abbia usurpato il diritto sulla vita altrui, sia pure stato, in tutto il resto, pio, irreprensibile, operoso nel bene; a ogni sua virtù si contrappone il sangue ingiustamente sparso: una vita intera di meriti non basta a coprire una violenza. E perchè nel giudizio tanto favorevole di Traiano non si conta il sangue d'Ignazio e dei tanti altri innocenti, che pesa sopra di lui? perchè si propone come un esemplare? perchè si mantiene ai suoi tempi quella lode che dava loro Tacito, che in essi fosse lecito sentire ciò che si voleva, e dire ciò che si sentiva? Perchè noi riceviamo per lo più l'opinione fatta dagli altri; e i gentili, che stabilirono quella di Traiano, non credevano che spargere il sangue cristiano togliesse nulla all'umanità e alla giustizia d'un principe. È la religione che ci ha resi difficili a concedere il titolo d'umano e di giusto; è essa che ci ha rivelato che nel dolore d'un'anima immortale c'è qualche cosa d'ineffabile; è essa che ci ha istruiti a riconoscere e a rispettare in ogni uomo l'immagine di Dio, e il prezzo della Redenzione. Quando si ricordano gli uomini condannati alle fiamme col pretesto della religione, se alcuno, per attenuare l'atrocità di quei giudizi, allega che i giudici erano fanatici, il mondo risponde che non si deve esserlo; se alcuno allega ch'erano ingannati, il mondo risponde che non bisogna ingannarsi quando si pretende disporre della vita d'un uomo; se alcuno allega che credevano di rendere omaggio alla religione, il mondo risponde che una tale opinione è una bestemmia. Ah! chi ha insegnato al mondo, che Dio non s'onora che con la mansuetudine e con l'amore, col dar la vita per gli altri e non col levargliela, che la volontà libera dell'uomo è la sola di cui Dio si degna ricevere gli omaggi? Per spiegare le persecuzioni contro i cristiani, si sarebbe quasi indotti a supporre che il rispetto alla vita dell'uomo fosse ignoto ai gentili, che sia un altro mistero rivelato dal Vangelo. In quelle si vedono crudeltà incredibili commesse senza un forte impulso; si vedono principi senza fanatismo secondare il trasporto del popolo per i supplizi, non per timore, non per ira, ma direi quasi per indifferenza; perchè la morte crudele di migliaia d'uomini non era forse un oggetto che meritasse un lungo esame. Non si fa torto a supporre quest'animo a quelli che facevano scannare migliaia di schiavi per una festa. La famosa lettera di Plinio a Traiano, e la risposta di questo, sono un esempio notabile d'un tale spirito del gentilesimo. Plinio, legato propretore in Bitinia, consulta l'imperatore sulla causa dei cristiani, espone la sua condotta antecedente, parla d'una lettera cieca, per mezzo della quale ne ha scoperti alcuni, e chiede istruzioni. L'imperatore approva la condotta del legato, proibisce di far ricerca dei cristiani, e prescrive di punirli se sono denunziati e convinti; a quelli che neghino d'esserlo, e diano di ciò la prova di fatto, adorando gli dei, vuole che si perdoni, in grazia del pentimento. Finalmente ordina che, delle accuse anonime, non si faccia caso per nessun delitto; essendo, dice, cosa di pessimo esemplo, e indegna del nostro secolo. Ma, in fatto di barbarie, qual cosa mai poteva essere indegna d'un secolo in cui un magistrato, celebre per coltura d'ingegno e per dolcezza di carattere, domanda per sua regola, se è il nome solo di cristiano che s'abbia a punire, quantunque senza alcun delitto, o i delitti che porta con sé questo nome; se si deva far distinzione d'età, o trattare ugualmente i fanciulli, per quanto teneri siano, e gli adulti? d'un secolo in cui quest'uomo racconta d'aver fatti condurre al supplizio quelli che, denunziati a lui come cristiani, erano stati duri per tre volte nel confessarsi tali; non dubitando, dice, che qualunque fosse la cosa che confessavano, la loro inflessibile ostinazione dovesse esser punita? E raccontando poi che altri, i quali dissero d'essere stati cristiani, ma di non esserlo più, e maledissero il Cristo, e adorarono l'immagine dell'imperatore e i simulacri degli dei, affermavano però, che, col professar quella fede, non s'erano impegnati a veruna cosa iniqua, ma, anzi, a non commetter mai ne furti, né latrocini, ne adultèri, a non mancar di fede, a non negare il deposito; non lascia vedere la più piccola inquietudine per quegli ostinati che aveva fatti morire? Qual cosa poteva essere indegna d'un secolo in cui un principe più celebre àncora, e celebre per sapienza e per mansuetudine, non trova che dire a dei giudizi di questa sorte? e senza farsi carico dei dubbi del magistrato, e riguardo all'età degli accusati, e intorno a ciò che costituisca il delitto, gli rimanda per unica spiegazione la parola Cristiani; e proibisce che se ne faccia ricerca, prescrivendo insieme, che, scoperti, si puniscano, qualunque poi sia per essere la pena? E s'è visto qual'era quella che il magistrato ordinava. Ma che dico? d'un secolo, in cui un vecchio divorato dalle fiere era un passatempo per il popolo, e un tal principe dava al popolo un tal passatempo? Purtroppo i secoli cristiani hanno esempi di crudeltà commesse col pretesto della religione; ma si può sempre asserire che quelli i quali le hanno commesse, furono infedeli alla legge che professavano; che questa li condanna. Nelle persecuzioni gentilesche, nulla può essere attribuito a inconseguenza dei persecutori, a infedeltà alla loro religione, perchè questa non aveva fatto nulla per tenerli lontani da ciò. Con questa discussione parrà forse che ci siamo allontanati dall'argomento; ma essa non sarà affatto inutile, se potrà dare occasione d'osservare che molti scrittori hanno adoprato due pesi e due misure per giudicare dei cristiani e dei gentili; se potrà servire a rimovere sempre più dalla morale cattolica l'orribile taccia di sangue, che tante volte le è stata data, a rammentare che la violenza esercitata in difesa di questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito, come è stato professato senza interruzione in tutti i secoli dai veri adoratori di Colui che con tanta autorità gridò i discepoli che invocavano il foco del cielo sulle città che ricusavano di ricevere la loro salute, di Colui che comandò agli Apostoli di scuotere la polvere dei loro piedi ( Mt 10,14 ), e d'abbandonare gli ostinati. Onore a quegli uomini veramente cristiani che, in ogni tempo, e in faccia a ogni passione e a ogni potenza, predicarono la mansuetudine; da quel Lattanzio che scrisse doversi la religione difendere col morire, e non con l'uccidere, fino agli ultimi che si sono trovati in circostanze in cui ci volesse coraggio per manifestare un sentimento così essenzialmente evangelico. Onore a essi, giacche noi non possiamo più averne onore, in tempi e in luoghi in cui non si può sostenere il contrario senza infamia; in cui, se gli uomini non hanno ( così avessero! ) rinunziato agli odi, hanno almeno saputo vedere che la religione non può accordarsi con quelli; se ammettono troppo spesso il pretesto dell'utile e delle gran passioni per bona scusa di vessazioni e di crudeltà, confessano che la religione è troppo pura per ammetterlo, che la religione non vuol condurre gli uomini al bene se non per mezzo del bene. Capitolo VIII Sulla dottrina della penitenza La dottrina della penitenza fu causa di un nuovo sovvertimento nella morale, già sconvolta dalla distinzione arbitraria dei peccati. Senza dubbio era promessa consolante per il ritorno alla virtù, la promessa del perdono celeste; e questa opinione è talmente conforme ai bisogni e alle debolezze dell'uomo, che ha fatto parte di tutte le religioni. Ma i casisti avevano snaturata quella dottrina con imporre forme precise alla Penitenza, alla confessione ed all'assoluzione. Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato sufficiente per cancellare una lunga lista di delitti. Non avendo l'erudizione necessaria per discutere l'asserzione dell'illustre autore, che la promessa del perdono celeste per il ritorno alla virtù è un'opinione comune a tutte le religioni, la lascio da una parte. Da quel poco che ho raccolto nei libri, sulle varie religioni e sulla pagana in ispecie, m'è rimasta l'idea che alcune avessero delle cerimonie, per mezzo delle quali si potessero espiare le colpe, senza che ci abbisognasse il ritorno alla virtù; e che l'idea della conversione si deva, non meno che la parola, alla religione cristiana. A ogni modo una tale questione, quantunque importante, non ha una relazione necessaria con l'argomento; e si può, senza toccarla, difendere pienissimamente la dottrina cattolica sulla penitenza dalle censure che qui le vengono fatte: anzi queste saranno un'occasione per mettere in chiaro la sua somma ragionevolezza e perfezione. Tre sono principalmente queste accuse: che l'avere imposte forme precise alla penitenza ne abbia snaturata la dottrina; che i casisti abbiano imposte queste forme; che un atto di fede e di fervore sia stato dichiarato bastante a cancellare i delitti. Noi le esamineremo partitamente, non seguendo però l'ordine con cui sono presentate, ma quello che ci pare più adattato all'intento d'esporre la vera dottrina della Chiesa su questo punto. 1. Chi abbia imposte forme precise alla penitenza. Dall'essere nel Vangelo espressamente data ai ministri l'autorità di rimettere e di ritenere i peccati, ne segue la necessità di forme per esercitarla; ma chi ha potuto imporre queste forme? Se i casisti si fossero arrogato un tale diritto, avrebbero alterata tutta l'economia del governo spirituale; ma come si può supporre che i casisti, i quali non costituiscono un corpo, e non hanno alcun mezzo di deliberare in comune, si siano intesi a stabilire queste forme con gli stessi princìpi, e in una stessa maniera? Come si può supporre che tutte le chiese le abbiano ricevute da persone senza autorità, che le autorità stesse ci si siano assoggettate, di maniera che nessuna se ne crede esente? che i papi stessi si siano lasciati imporre da loro una legge, per la quale si confessano ai piedi d'un loro inferiore, e ne implorano l'assoluzione, e ne ricevono le penitenze? Oltre di che, come mai si può supporre che i Greci, pur troppo divisi, e divisi qualche secolo prima che si parlasse di casisti, abbiano poi accettate da questi le forme della penitenza, che hanno comuni con noi in tutte le parti essenziali? In che tempo i casisti hanno commesso quest'atto d'usurpazione? Finalmente, come si esercitava l'autorità di sciogliere e di legare prima che venissero i casisti a inventarne le forme? Le forme della penitenza, della confessione e dell'assoluzione sono state imposte dalla Chiesa fino dalla sua origine, come lo attesta la sua storia: né poteva essere altrimenti; giacché senza di esse è impossibile l'esercizio dell'autorità d'assolvere e di ritenere i peccati; ed é impossibile immaginarne di più semplici e di più conformi allo spirito di quest'autorità; come è impossibile immaginare chi, se non la Chiesa, avrebbe potuto ingerirsi a regolare un tale esercizio. 2. Condizioni della penitenza secondo la dottrina cattolica. Veniamo ora alla dottrina che è tacciata d'aver corrotta la morale; e vediamo se è quella della Chiesa. Un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato bastante a cancellare una lunga lista di delitti. Di questa opinione, una parte è stata condannata; l'altra parte, né la proposizione intera, non è stata insegnata mai. In quanto alla prima, basti per ora ricordare che il concilio di Trento proscrisse la dottrina che l'empio sia giustificato con la sola fede, e la chiamò vana fiducia e aliena da ogni pietà. In quanto alla proposizione intera, non solo nessun concilio, nessun decreto pontificio, nessun catechismo, ma, ardirei dire, nessun libricciolo di divozione ha dettto mai che un atto di fede e di fervore basti a cancellare i peccati. È bensì dottrina della Chiesa che possono esser cancellati dalla contrizione, col proposito di ricorrere, appena si possa, alla penitenza sacramentale. Chi credesse che questa sia una questione di parole s'ingannerebbe di molto: è questione di idee quanto nessun'altra. Fervore non significa altro che intensità e forza d'un sentimento: suppone bensì per l'ordinario un sentimento pio, ma non ne individua la qualità; contrizione invece esprime un sentimento preciso. Attribuire quindi al fervore l'effetto di cancellare i peccati, sarebbe proporre un'idea confusa e indeterminata, e che non ha una relazione immediata con quest'effetto; attribuirlo alla contrizione, è specificare quel sentimento che, secondo le Scritture e le nozioni della ragione illuminata da esse, dispone l'animo del peccatore a ricevere la giustificazione. Per avere dunque un'idea giusta della fede cattolica in questa materia, bisogna cercare cosa sia la contrizione, e cercarlo nelle definizioni della Chiesa: « La contrizione è un dolore dell'animo, una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccar più … Dichiara il Santo Sinodo che questa contrizione contiene, non solo la cessazione dal peccato, e il proponimento e il principio d'una vita nova, ma l'odio della passata … Insegna inoltre che, quantunque avvenga qualche volta, che questa contrizione sia perfetta di carità, e riconcilii l'uomo a Dio, prima che questo sacramento ( della penitenza ) sia ricevuto in fatto, non si deve attribuire la riconciliazione alla contrizione, senza il voto del sacramento, che è inchiuso in essa ». La ragione sola non poteva certamente trovare questa dottrina, perchè il suo fondamento è nella carità, la quale è fondata essa medesima in quella più elevata e più pura cognizione di Dio, e delle relazioni dell'uomo con Dio, che non poteva venirci se non dalla rivelazione. Ma quando questa dottrina le sia annunziata, la ragione è costretta, o ad approvarla, o a rinnegare le sue proprie e più evidenti nozioni. L'uomo che trasgredisce i comandamenti di Dio, gli diviene nemico, e si rende ingiusto. Ma quando riconosce i suoi falli, ne è dolente, li detesta e, ciò che viene di conseguenza, propone di non commetterne più; quando propone di ritornare a Dio per quei mezzi che, nella sua misericordia, Dio ha instituiti a ciò; quando propone di soddisfare alla giustizia divina, di rimediare, per quanto può, al mal fatto, allora non è più, per dir così, lo stesso uomo, non è più ingiusto; tanto è vero che, non solo del peccato in generale, ma dei suoi propri in particolare, ha un sentimento dello stesso genere che ne ha Dio, fonte d'ogni giustizia. È dunque sommamente ragionevole che quest'uomo così mutato sia riconciliato a Dio. Ma la conseguenza immorale di questa dottrina, è stato detto tante volte, è che molti credono che sia facile l'aver questo sentimento di contrizione, e s'incoraggiscono a commettere il male, per la facilità del perdono. Perchè lo credono? Chi gliel ha detto? Se credono alla Chiesa quando insegna che la contrizione riconcilia a Dio, perchè non le credono quando insegna che l'effetto naturale del peccato è l'indurimento del core, che il ritorno a Dio è un dono singolare della sua misericordia, che il disprezzo delle sue chiamate lo rende sempre più diffìcile? Se, a ogni conseguenza storta che gli uomini deducono dalle dottrine della Chiesa, essa avesse voluto abbandonare una verità, per evitare un tale abuso, la Chiesa le avrebbe da gran tempo abbandonate tutte. Essa s'oppone bensì a questo miserabile traviamento, con l'inculcarle tutte; e in questo caso singolarmente, chi può non riconoscere la sua cura materna nelle precauzioni che usa affinchè il peccatore non inganni se medesimo, e non cambi in ira i doni della misericordia? Di queste precauzioni parleremo or ora, trattando dell'amministrazione della penitenza. Ci si permetta intanto d'osservar qui un esempio dell'instabilità, anzi della contraddizione che si trova non di rado nell'accuse fatte alla dottrina della Chiesa. Ciò potrà servire, dei resto, a provare in un'altra maniera la verità di quella di cui si tratta. Quelli tra i novatori del secolo XVI, ch'ebbero più seguito, combatterono appunto, quasi dal principio, la dottrina cattolica della penitenza, e sopratutto la parte che la contrizione deve avere in questa. E con quali argomenti? Forse come una dottrina che lusingasse le passioni, che offrisse al vizioso un mezzo tanto illusorio in effetto, quanto facile in apparenza, di cancellare una lunga lista di delitti? Tutt'altro, anzi l'opposto. La combatterono come dura, come tirannica, come tale che imponesse arbitrariamente alle coscienze una legge impossibile ad adempirsi. È un'ingiuria al Sacramento, e un strumento di disperazione, il non credere efficace l'assoluzione, se non è certa la contrizione, disse Lutero nelle sue tesi. Per la ricerca della verità e per consolare le coscienze aggravate. Calvino accusò ugualmente la dottrina cattolica che richiede la contrizione per la remissione dei peccati, di tormentare e d'agitare stranamente le coscienze, di ridurle a dibattersi con se stesse, e ad affannarsi in lunghi contrasti, senza trovar mai un porto, dove finalmente posarsi. E quale dottrina vollero poi sostituire alla cattolica, così riprovata da loro? Quella appunto che abbiam visto essere, così a torto, attribuita ai cattolici, e che i cattolici non conoscono, se non per la condanna della Chiesa, cioè che il peccatore sia giustificato per la sola fede. E si noti che, attribuendo alla fede l'efficacia, non solo sufficiente, ma unica e esclusiva, di cancellare i peccati, intendevano per fede il credere ognuno, con intera sicurezza, che i suoi peccati gli siano rimessi, in virtù della promessa del Redentore. Ecco alcuna delle proposizioni di Lutero su questo proposito. È certo che i peccati ti sono rimessi, se li credi rimessi; perche è certa la promessa di Cristo Salvatore. - Vedi quanto sia ricco l'uomo cristiano a battezzato, che, anche volendo, non può perdere la sua salvezza, con quanti peccati si sia, solo che non voglia lasciar di credere; poiché nessun peccato lo può dannare, se non la sola incredulità. - Secondo l'ordine istituito da Cristo, non c'è altro peccato che l'incredulità, ne altra giustizia che la fede. - La sola fede in Cristo c'è necessaria per esser giusti. - Calvino affermò ugualmente, e sostenne che l'Vuomo è giustificato per la sola fede, intesa nella stessa maniera, cercando poi d'eludere alcune delle conseguenze naturali d'una tale dottrina. E su cosa si fondava poi l'accusa che facevano alla dottrina cattolica d'imporre alla penitenza una condizione impossibile? Unicamente sulla autorità di questo loro domma medesimo, cioè sulla supposizione, che per ottenere la remissione dei peccati sia necessario credere, con certezza di fede, che siano rimessi; e che sia, per conseguenza, necessario il credere, con uguale certezza, d'avere adempita la condizione richiesta. E non c'è dubbio che, posta una legge simile, la condizione voluta dalla dottrina cattolica sarebbe, in regola generale, impossibile a adempiersi; giacché qual uomo, senza una particolare rivelazione, senza che l'infallibile Conoscitore dei nascondigli del core gli abbia detto: Tu hai amato molto, e perciò ti sono rimessi i tuoi peccati (Lc 7,47-48 ), qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, d'avere una contrizione adequata delle sue colpe? Senonchè, con una legge simile, non la sola contrizione, ma qualunque condizione sarebbe impossibile; giacché qual uomo può conoscere, con certezza assoluta e di fede, la perfezione e, dirò così, l'adequatezza d'un suo sentimento qualunque? E quindi impossibile anche la condizione predicata dai due novatori, come unica e sufficiente, cioè la fede. Ho qui il vantaggio di potermi servire di parole del Bossuet: « Ma ( risponde a Lutero ) il fedele può dire: io credo, e così la sua a fede gli riesce sensibile; come se lo stesso fedele non potesse nello stesso modo dire: io mi pento, e non avesse lo stesso mezzo d'assicurarsi del proprio pentimento. Che se poi si rispondesse che gli resta sempre il dubbio di essersi pentito davvero, io direi altrettanto della fede; e tutto finisce nel concludere che a il peccatore si tiene sicuro della propria giustificazione, senza poter esser sicuro di aver compito, come abbisogna, la condizione che Dio esigeva da lui per ottenerla ». E non si prenda questo per un semplice argomento ad hominem, col quale si possa bensì render comune la difficoltà all'avversario, ma senza levarla da sé. La difficoltà cade tutta quanta sulla dottrina che vuol imporre quella legge; non tocca appunto la dottrina cattolica, la quale non l'ha mai ne immaginata, né accettata; e secondo la quale, il fedele, applicando la fede al suo oggetto proprio, escludendola da ciò che non lo é, né lo può essere, crede la remissione dei peccati, e, pentito, spera d'averla ottenuta, per i meriti del Redentore. E di qui chiunque rifletta è condotto a vedere che in questa dottrina sola può trovare il suo luogo la speranza; essendo una cosa d'immediata evidenza, che la certezza l'esclude, e che non si può, senza la più aperta contradizione, applicar l'una e l'altra a un fatto medesimo. La quale abolizione virtuale della speranza è più manifesta nella dottrina di Calvino, il quale, o estendendo, o applicando più logicamente quel novo domma ( il che non occorre qui di ricercare ), pronunziò che, non solo della sua attuale giustificazione, ma della sua perseveranza finale, e della sua eterna salute, deva il fedele avere un'assoluta certezza. Una bella fiducia, dice, ci rimane della nostra salvezza, se, in quanto al presente, non abbiamo che una congettura morale d'essere in grazia, e non sappiamo ciò che potrà essere nel futuro. E più espressamente ancora in un altro luogo: In conclusione, non e veramente fedele, se non chi affidato alle promesse della divina benevolenza verso di lui, aspetta anticipatamente, con piena certezza la sua eterna salute. E dovendo però ritenere la parola « speranza », tanto solenne e tanto ripetuta nelle Scritture, non lo potè fare, se non levandole il suo significato essenziale, e cambiandolo in una contradizione. La speranza, disse, non è, in conclusione, altro che l'aspettativa di ciò che la fede ha creduto esser veramente promesso da Dio. Ma l'intimo senso e il senso comune replicano, a una voce, che l'aspettativa d'un bene che uno avesse la certezza assoluta di possedere, sarebbe desiderio, non sarebbe speranza. Ogni uomo, infatti, senza eccezione, conosce per propria esperienza e, se ce ne fosse bisogno, per un consenso non mai contradetto, uno stato dell'animo relativo a un bene desiderato e, più o meno, probabile, che è quanto dire, non certo. Ed è appunto questo stato dell'animo, che è significato dal vocabolo « speranza »; vocabolo che ha, senza dubbio, un equivalente in tutti i linguaggi; giacché, come supporre una società d'uomini, nella quale non si senta il bisogno di significare uno stato dell'animo così universale, così frequente, così inevitabile? Quanto non sarebbe assurdo il dire: Credo, con certezza di fede, che possederò la vita eterna, e spero d'ottenerla! Eppure sarebbe la vera e unica maniera d'esprimere in atto la speranza cristiana, secondo quella dottrina. E sarebbe assurdo ne più né meno il dire: Credo, con certezza di fede, la resurrezione dei morti, e spero che i morti risorgeranno. Applicare la certezza a una promessa condizionata, e la speranza a una predizione assoluta e infallibile, sono due forme d'un assurdo medesimo, cioè della confusione di queste due distintissime essenze. Dopo tali premesse, non c'è da maravigliarsi, per quanto la cosa sia strana, che Calvino accusi di contradizione la dottrina del Concilio di Trento, appunto perchè c'è mantenuta la distinzione tra la speranza e la certezza. Non vogliono, dice, che alcuno si riprometta da Dio, con certezza assoluta, la perseveranza, quantunque non disapprovino il riporre in Dio una speranza fermissima. Ma, prima di tutto, ci facciano vedere con qual cemento si possano fare stare insieme due cose tanto repuganti tra di loro, una speranza fermissima, e un'aspettativa sospesa. Cemento tra due idee, una delle quali è inclusa nell'altra? Perchè, di nuovo, chi non sa che la sospensione o, vogliam dire, la non certezza, è un elemento essenziale della speranza? che questa non è altro appunto, che l'aspettativa non certa d'una cosa desiderata? Ma dove gli par di cogliere la contradizione, è in quel « fermissima »; tanto una preoccupazione, principalmente quando è superba, può far dimenticare ciò che è impossibile d'ignorare! Chi non sa che la speranza, come ogni altro affetto umano, è capace di gradi indefiniti? Il linguaggio ha, per dii così, esauriti tutti gli aggiunti, è andato in cerca di tutte le figure che potessero servire, in qualche maniera, a distinguerli e a determinarli. E, essendo poi la speranza cristiana, non un semplice affetto umano, ma una virtù soprannaturale, come non sarà desiderabile che arrivi al più alto grado? Perciò il Concilio non si restringe a non disapprovare ( espressione che fa parer quasi una concessione quello che è un precetto ) che si riponga nell'aiuto di Dio una fermissima speranza; dice che tutti lo devono. E la ragione del precetto è evidente. Ogni speranza d'un bene promesso condizionatamente ( e qual promessa più espressamente e ripetutamente condizionata, di quella della salute eterna? ) si fonda, da una parte, sulla fedeltà e sulla potenza dell'autore della promessa, e dall'altra, sulla fedeltà di chi deve adempire la condizione. Quindi la speranza cristiana dev'esser fermissima, senza paragone con nessun altro sentimento possibile dello stesso genere, in quanto si fonda sull'infallibilità e sull'onnipotenza dell'Autore della promessa; è speranza e nulla più, o, per parlar più esattamente, speranza e null'altro ( giacche la certezza non è un ultimo e supremo grado della speranza, ma un'altra essenza, e incompatibile con essa ), in quanto l'adempimento della condizione dipende dalla libera volontà dell'uomo. Ma speranza fermissima con tutto ciò, perchè quella promessa, data per un'infinita carità, e per i meriti infiniti del Redentore, non ha per unico oggetto la ricompensa. Imponendoci la condizione Dio non ci ha abbandonati alle sole nostre forze per adempirla; ma ha promesso ugualmente d'aiutare ogni nostro sforzo, purché sincero, e d'accordare alla preghiera tutto, senza eccezione, ciò che possa esser necessarlo a quell'adempimento. E perchè la cognizione più elevata della verità fa trovare una concordia tra quelle verità subordinate che, a prima vista, possono parere opposte, il fedele istruito da Dio, per mezzo della Chiesa, sa che quell'incertezza la quale rimane nella speranza cristiana, anzi ne è una condizione, quell'incertezza che non ha altra ragione, che nella nostra debolezza, non solo è necessaria a mantenere l'umiltà e la vigilanza; ma ha la virtù di render più ferma la speranza medesima. In altri termini, intende che la diffidenza di noi medesimi, se il core è veramente cristiano, serve a fortificare e accrescere la nostra fiducia in Dio. Infatti, quanto più l'uomo conosce che debole, che incerto, che sproporzionato assegnamento possa fare sulle sue proprie forze, e insieme sa e crede che gli è, non già permesso, ma comandato di sperare; tanto più si sente mosso a volgersi e, direi quasi, a buttarsi, con un lieto abbandono, da quella parte dove tutto è forza, tutto è fedeltà, tutto è previdenza, tutto è assistenza. Nelle speranze che hanno per oggetto i beni temporali, quei due opposti e costitutivi sentimenti, fiducia e diffidenza, fanno unicamente il loro ufizio naturale, che è di combattersi, senza mai concorrere, né direttamente né indirettamente, a uno stesso fine. Nella speranza cristiana, ogni atto di diffidenza porta con sé la ragione d'un atto prevalente di fiducia, rimanendo la prima sempre viva e sempre vinta. La debolezza finita, senza mai né sconoscersi, né scusarsi, anzi per l'umile confessione di sé medesima, si sente insieme e superata da un'infinita bontà, e sostenuta da un'infinita forza; avverandosi anche in questo senso il detto dell'Apostolo, che la potenza divina arriva, al suo fine per mezzo della debolezza ( 2 Cor 12,9 ). Così la religione, che innalza al grado di virtù un affetto naturale, qual'è la speranza, dandogli per motivo la suprema Verità, e per termine il supremo Bene, ci manifesta poi, in questo caso, come in tant'altri, ciò che la ragione stessa trova necessario, anche senza conoscerne il modo; cioè che un elemento essenziale d'una virtù ( come l'incertezza lo è della speranza ) non può essere opposto alla perfezione di essa. Oso credere che, se la dottrina della giustificazione per la sola fede fosse proposta in questi tempi, per la prima volta, con qualsiasi apparato di ragiomenti, e con qualsiasi impeto d'eloquenza, troverebbe difficilmente qualche seguace, non che tirarsi dietro l'intere popolazioni. E credo ugualmente che ognuno sarà ora facilmente d'accordo con l'illustre autore nel riguardarla come naturalmente sovvertitrice della morale. Credo ancora, che non avrebbe maggior seguito l'altra dottrina, o conseguente o analoga, della certezza della salute. Ogni errore, per entrar nelle menti, ha bisogno d'un concorso particolare di circostanze, quantunque possa durare, anche mutate queste; e quantunque possano durare i suoi effetti, anche quando abbia perduta, o affatto o in gran parte, la sua forza; come durano purtroppo le dolorosissime separazioni, delle quali quei novi dommi furono quasi le prime cagioni, e, per qualche tempo, cagioni attive e potenti. 3. Spirito e effetti delle forme imposte alla penitenza. Quali sono poi finalmente queste forme penitenziali. La confessione delle colpe, per dare al sacerdote la cognizione dell'animo del peccatore, senza la quale è impossibile ch'egli eserciti la sua autorità; l'imposizione dell'opere di soddisfazione; la formula dell'assoluzione. Io non mi propongo di farne l'apologia; giacché come può mai trovarsi a ridire in esse, che non sono altro che il mezzo più semplice, più indispensabile, più conforme all'istituzione evangelica, per applicare la misericordia di Dio, e il Sangue della propiziazione? Farò bensì osservare, non già tutti gli effetti di questa istituzione divina ( rimettendomi alle molte opere apologetiche che ne ragionano, e alle lodi che ha avute anche da molti di quelli che non l'hanno conservata ), farò osservare principalmente quegli effetti che sono in relazione col ritorno alla virtù per i traviati, e col mantenimento della virtù nei giusti. L'uomo caduto nella colpa ha purtroppo una tendenza a persisterci; e l'essere privato del testimonio della buona coscienza l'affligge senza migliorarlo. Anzi è una cosa riconosciuta, che il reo aggiunge spesso colpa a colpa, per estinguere il rimorso; simile a coloro che, nella perturbazione e nel terrore dell'incendio, buttano nelle fiamme ciò che vien loro alle mani, come per soffogarle. Il rimorso, quel sentimento che la religione con le sue speranze fa diventar contrizione, e che è tanto fecondo in sua mano, è per lo più o sterile o dannoso senza di essa. Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell'altra più terribile ancora: non potrai esserlo più; e riguardando la virtù come una cosa perduta, sforza l'intelletto a persuadersi che se ne può far di meno, che è un nome, che gli uomini l'esaltano perchè la trovano utile negli altri, o perchè la venerano per pregiudizio; cerca di tenere il core occupato con sentimenti viziosi che lo rassicurino, perchè i virtuosi sono un tormento per lui. Ma per lo più quelli che vanno dicendo a sé stessi che la virtù è un nome vano, non ne sono veramente persuasi: se una voce interna annunziasse loro autorevolmente, che possono riconquistarla, la crederebbero una verità, o, per dir meglio, confesserebbero a se stessi d'averla, in fondo, creduta sempre tale. Questo fa la religione in chi vuole ascoltarla: essa parla in nome d'un Dio che ha promesso di buttarsi dietro le spalle le iniquità del pentito: essa promette il perdono, e offre il mezzo di scontare il prezzo del peccato. Mistero di sapienza e di misericordia! mistero che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell'ammirarlo; mistero che, nell'inestimaftilità del prezzo della redenzione, dà un'idea infinita e dell'ingiustizia del peccato e del mezzo d'espiarlo, un'immensa ragione di pentimento, e un'immensa ragione di fiducia. Ma la religione non fa solamente questo; essa rimuove anche gli altri ostacoli che gli uomini oppongono al ritorno alla virtù. Il reo sfugge la società di quelli che non lo somigliano, perchè li teme superbi della loro virtù: aprirà egli il suo core a loro, che ne profitteranno per fargli sentire che sono da più di lui? Che consolazione gli daranno essi, che non possono restituirgli la giustizia? essi che stanno lontani da lui, per parere incontaminati? che parlano di lui con disprezzo, perchè si veda sempre più che disprezzano il vizio? essi che lo sforzano così a cercare la compagnia di quelli che sono colpevoli come lui, e che hanno le stesse ragioni per ridersi della virtù? La giustizia umana ha purtroppo con sé l'orgoglio del Fariseo che si paragona col Pubblicano, che prende un posto lontano da lui; che non s'immagina che quello possa diventare un suo pari; che, se potesse, le terrebbe sempre nell'abiezione del peccato. Ma questa divina religione d'amore e di perdono ha istituiti dei conciliatori tra Dio e l'uomo. Li vuole puri, perchè la loro vita accresca autorità alle loro parole, perchè il peccatore, con l'accostarsi a loro, si senta ritornato nella compagnia dei virtuosi; ma li vuole umili, e perchè possano esser puri, e perchè quello possa ricorrere a loro, senza temere d'esserne respinto. Egli s'avvicina senza ribrezzo a un uomo che confessa d'esser peccatore anche lui, a un uomo che, dal sentire le di lui colpe, ricava anzi fiducia che chi le rivela sia caro a Dio, e venera nel ravveduto la grazia di Colui che richiama a sé i cori; a un uomo che riguarda in quello che gli sta ai piedi la pecora cercata e portata sulle spalle del pastore, l'oggetto della gioia del cielo; a un uomo che tocca le sue piaghe con compassione e con rispetto, che le vede già coperte di quel Sangue che invocherà sopra di esse. Sapienza mirabile della religione di Cristo! Essa impone al penitente delle opere di soddisfazione, che diventano per lui un testimonio consolante del suo cambiamento, e con le quali si rinfranca nell'abitudini virtuose e nella vittoria di se stesso; con le quali mantiene la carità, e compensa, in certa maniera, il mal fatto. Perchè, non solo la religione non gli accorda il perdono, se non a condizione che ripari, potendo, i danni fatti al prossimo; ma, per ogni sorte di colpe, lo assoggetta alla penitenza, la quale non è altro che l'aumento di tutte le virtù, e quella che fa dell'offensore di Dio un ministro umile e volontario della sua giustizia. Essa prescrive ai suoi ministri, che s'assicurino il più che possono della realtà del pentimento e del proposito; indagine che tende, non sole a impedire che s'incoraggisca il vizio con la facilità del perdono, ma a dare una più consolante fiducia all'uomo che è pentito davvero: tutto è sollecitudine di perfezione e di misericordia. E i ministri che riconciliassero leggermente chi non fosse realmente mutato, essa li minaccia che, invece di scioglierlo, saranno legati essi medesimi; tanta è la sua cura perchè l'uomo non cambi in veleno i rimedi pietosi che Dio ha dati alla nostra debolezza. Chi, con queste disposizioni, è ammesso alla penitenza, è certamente nella strada della virtù; chi s'è sentito dire dal ministro del Signore, che è assolto, si trova come ristabilito nel retaggio dell'innocenza, e principia di nuovo a battere quella strada con alacrità, con tanto più di fervore quanto più si rammenta che frutti amari ha colti in quella del vizio, quanto più sente che gli atti e i sentimenti virtuosi sono i mezzi che la religione gli presenta per crescere nella fiducia che le sue tracce su quella trista strada siano cancellate. La religione ha ricevuto dalla società un vizioso, e le restituisce un giusto: essa sola poteva fare un tal cambio. Chi avrebbe tentato, chi avrebbe pensato d'istituire dei ministri per aspettare il peccatore, per invitarlo, per insegnar la virtù, per richiamare a quella chi ricorre a loro, per parlargli con quella sincerità che non si trova nel mondo, per metterlo in guardia contro ogni illusione, per consolarlo a misura che diventa migliore? Il mondo si lamenta che molti esercitino un cosi alto ufizio come un mestiere; e con questa parola gli rende omaggio senza avvedersene, riconoscendo che ogni mira di guadagno, di vantaggio temporale, anche onestissima in ogni altra professione, è sconveniente nell'esercizio di esso. Ma forse che sono cessati i ministri degni d'un tale ufizio? No, Dio non ha abbandonata la sua Chiesa: Egli mantiene in essa uomini che non hanno, che non vogliono altro mestiere che sacrificarsi per la salute dei loro fratelli, e in questa vedono un vero premio dei pericoli, dei patimenti, della vita più laboriosa; qualche volta della morte, del supplizio, e più spesso d'un lento martirio. Ma il mondo che si lamenta degli altri, guarderà dunque questi con venerazione e con riconoscenza; in ogni ministro zelante, umile e disinteressato vedrà un uomo grande; si rammenterà con tenerezza e con ammirazione quei sacerdoti che scorrono i deserti dell'America per parlare di Dio ai selvaggi; al sentire la fine di quei soldati della Chiesa, che, andati alla Cina per predicar Gesù Cristo, senza una speranza terrena, ci hanno recentemente sofferto il martirio, il mondo se ne glorierà, come fa di tutti quelli che disprezzano la vita per un nobile fine. Se non lo fa, se deride quelli che non può censurare, se li dimentica, o li chiama intelletti deboli, miseri, pregiudicati, si può credere che il mondo odii, non i difetti dei ministri, ma il ministero. Ma la penitenza sacramentale non è utile e necessaria solamente a quelli che hanno scosso il giogo della legge divina, e aspirano a riprenderlo: lo è non meno ai giusti. In guerra continuamente con le prave inclinazioni interne, e con tutte le potenze del male, essi sono chiamati dalla religione a ripensare nell'amarezza del core le loro imperfezioni, a vegliare sulle loro cadute, a implorarne il perdono, a compensarle con atti di virtuosa abnegazione, a proporre di cambiar sempre in meglio la loro vita. La penitenza è quella che distrugge in essi i vizi, al loro nascere, e in vasi di creta conserva il tesoro ( 2 Cor 4,7 ) della giustizia. Un'istituzione che obbliga l'uomo a formare un giudizio severo sopra sé stesso, a misurare le sue azioni e le sue disposizioni col regolo della perfezione, che gli dà il più forte motivo per escludere da questo giudizio ogni ipocrisia, insegnando che sarà riveduto da Dio, è una istituzione sommamente morale. Come mai una tale istituzione ha potuto essere mal intesa da tanti scrittori? Come mai le è stato tante volte attribuito uno spirito perfettamente opposto al suo? Non si può a meno di non provare un sentimento doloroso per ogni verso quando, in uno scritto che spira amore per la verità, e per il perfezionamento, in uno scritto, dove le riflessioni le piùi pensate sono ordinate al sentimento morale, e questo al sentimento religioso, si trova questa proposizione: che il cattolicismo fa comprare l'assoluzione con la manifestazione delle colpe. Qui non si tratta, né d'induzioni, ne d'influenze recondite e complicate; si tratta d'un fatto. Ognuno può informarsi da qualunque cattolico, se la manifestazione qualunque delle colpe basti a ottenere l'assoluzione; qualunque cattolico risponderà di no, qualunque cattolico ripeterà col Concilio di Trento: « Anatema a chi nega che alla perfetta remissione dei peccati si richiedano tre atti del penitente, quasi materia del sacramento, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione ». ( Conc. Trento ) Di più, ricevere questo sacramento senza quelle disposizioni è un sacrilegio, un nuovo orribile peccato. E tanto è vero che l'assoluzione non si compra con la confessione materiale, che qualche volta l'assoluzione può esser negata dopo quella confessione, e qualche volta si dà senza di essa, come ai moribondi, i quali non siano in caso di confessarsi, e diano segni d'esserci disposti. Si consideri un momento lo spirito della Chiesa nella dottrina dei sacramenti, e si vedrà come tutta l'economia di essi sia diretta alla santificazione del cuore, si vedrà quanto essa sia aliena dal sostituire le pratiche ai sentimenti. L'insegnamento cattolico fa nei sacramenti una distinzione non meno propria che importante, chiamandone alcuni sacramenti dei vivi, e altri dei morti. Gli uni e gli altri sono istituiti da Gesù Cristo, e tutti per santificare; ma ai primi non è lecito accostarsi se non in stato di grazia: perchè? Perchè, secondo la Chiesa, il primo passo, il passo indispensabile a ogni grado di santificazione è il ritorno a Dio, l'amore della giustizia, l'avversione al male. C'è pur troppo negli uomini una tendenza, superstiziosa insieme e mondana, che li porta a confidare nelle nude pratiche esterne, e a ricorrere a cerimonie religiose per soffogare i rimorsi, senza riparare ai mali commessi, e senza rinunziare alle passioni: il gentilesimo, credo, li serviva in ciò secondo i loro desideri. Ma qual è la religione che essenzialmente, perpetuamente e manifestamente si oppone a questa tendenza? La religione cattolica senza alcun dubbio. Essendo tutti i sacramenti mezzi efficaci di santificazione, perchè non sarebbe lecito ricorrere indistintamente a tutti i sacramenti, se le pratiche del culto fossero ammesse a compensare i delitti? Qual mezzo di santificazione potrebbe parere più facile del sacramento dell'Eucaristia, il quale comunica realmente la Vittima Divina, e unisce all'uomo la santità stessa? Eppure la Chiesa dichiara, non solo inutile, ma sacrilego il ricevere questo sacramento per chi non sia in stato di grazia: il Propiziatore stesso diventa condanna in un core ingiusto. Essa obbliga i peccatori che vogliono arrivare a quelle più alte fonti di grazia, a passare per i sacramenti che riconciliano a Dio; cioè la penitenza, alla quale non è lecito avvicinarsi senza dolore del peccato e senza proposito di nova vita, e il battesimo che negli adulti esige le stesse disposizioni. Poteva la Chiesa mostrare più ad evidenza, che non conta, che anzi ricusa le pratiche esterne, quando non siano segni d'un amore sincero della giustizia? Ma donde può essere nata una opinione tanto contraria allo spirito della Chiesa? Io credo da un equivoco. Essendo la confessione la parte più apparente del sacramento di penitenza, ne è venuto l'uso di chiaare impropriamente confessione tutto il sacramento. Ma s'avverta che quest'inesattezza di parole non ne ha corrotta l'idea; perchè la necessità del dolore, del proponimento e della soddisfazione è tanto universalmente insegnata, che si può affermare non esserci catechismo che non la inculchi, né ragazzo ammesso alla confessione che l'ignori. Capitolo IX Sul ritardo della conversione La virtù, invece d'essere lo sforzo costante di tutta la vita non fu più che un conto da liquidarsi in punto di morte. Non vi fu peccatore cosi accecato dalle passioni, che non proponesse di consacrare, prima di morire, qualche giorno alla cura della propria salvezza; ed in questa fiducia sciolieva il freno alle sue sregolate tendenze. I casisti avevano oltrepassato il loro scopo, alimentando una tale fiducia; invano predicarono allora contro il ritardo della conversione, essi stessi erano gli autori di questa disordine spirituale, sconosciuto agli antichi moralisti; l'abitudine di considerar la morte soltanto, e non la vita del peccatore, era ornai presa e diventò universale. Quest'ultima obiezione contro la dottrina cattolica della penitenza viene a dire, che essa ha proposto un mezzo di remissione tanto facile, tanto a disposizione del peccatore in ogni momento, che questo, sicuro per così dire del perdono, è stato indotto a continuar nel vizio, riservando la penitenza all'ultimo; e che, in questa maniera, non solo tutta la vita è stata resa independente dalla sanzione religiosa, ma questa stessa è divenuta un incoraggiamento al mal fare, e la morale è stata, per conseguenza, rovinata. Un tale tristissimo effetto vien qui, per quanto mi pare, attribuito promiscuamente alla dottrina, all'opinioni del popolo, e all'insegnamento del clero: e queste sono infatti le cose da considerarsi nella questione presente. Noi le esamineremo partitamente, per presentarle secondo quello che ci pare il loro vero aspetto. Ma prima sarà ben fatto d'accennare le proposizioni che noi crediamo dovere essere il resultato di questo esame. 1. La dottrina - è la sola conforme alle Sacre Scritture - è la sola che possa conciliarsi con la ragione e con la morale. 2. L'opinioni venute dall'abuso della dottrina - sono pratiche e non speculative -— sono individuali e non generali - non possono esser distrutte utilmente, che dalla cognizione e dall'amore della dottrina. 3. Il clero ( preso non nella totalità fisica, ma nella unanimità morale ) - non insegna la dottrina falsa - non dissimula la vera. 1. Della Dottrina Dobbiamo qui rammentar di novo; che, in ogni questione intorno al merito d'una dottrina morale, è necessario, prima di tutto, esaminar questa dottrina direttamente e in sé. Una dottrina morale qualunque, è necessariamente o vera o falsa; o consentanea o opposta alla rivelazione e alla ragione. Prescindere da una tale ricerca, e volerla giudicare puramente dagli effetti, o per parlar più esattamente, da alcuni fatti che possano aver luogo insieme con essa, sarebbe lasciar da una parte il vero e unico mezzo di giudicarla con cognizione di causa, e prenderne uno, non solo inadequato, ma essenzialmente fallace. Perchè, oltre l'impossibilità di conoscere tutti quei fatti, e la difficoltà di stimare imparzialmente quei tanti che si possono conoscere, il riguardarli addirittura come effetti della dottrina, sarebbe un attribuire ad essa ciò che sicuramente non è tutto suo, e che può non esser suo per nulla. Una dottrina morale può bensì essere, ed è ordinariamente, una cagione di fatti; ma non n'è mai la sola; anzi è, in quanto cagione, condizionata e subordinata a un'altra, cioè alla volontà dell'uomo. E chi non sa, che in virtù di questa libera volontà, l'uomo può rivolgersi al male, anche dopo aver ricevuta in massima la dottrina più propria a dirigere al bene? Una dottrina che promettesse di rendere infallibilmente buoni tutti gli uomini, col solo esser promulgata, potrebbe giustamente esser rigettata sulla semplice prova degli inconvenienti che sussistono con essa. Ma siccome la dottrina cattolica non fa una tale promessa, questa prova non basterebbe per farne un giudizio fondato. Bisogna esaminarla: se gli effetti cattivi hanno origine da lei, il vizio si troverà in lei stessa. Ma se, all'opposto, non ci troviamo altro che rettitudine e sapienza, potremo dire anche qui, che a lei non si devono attribuire altri effetti che i buoni. A lei, dico, non come a cagione immediata, ne efficiente per se, ma come a un motivo potente, e a una guida, in parte, necessaria; cioè in quella parte della moralità, che eccede la cognizione naturale, e che non ci poteva esser nota, se non per la rivelazione. Richiamando la questione alla dottrina, non intendiamo di decimare quella del fatto; ma bensì d'adempire una condizone necessaria per trattarla con cognizione di causa e utilmente. Il che noi cercheremo di fare con tutta quella precisione che può comportare un fatto così molteplice e così vario e composto, ma, certo, con ogni sincerità: poiché, se il nostro scopo fosse d'illudere o noi medesimi o gli altri, il solo guadagno che potremmo ricavare sarebbe quello d'essere o ciechi volontari, o impostori: due poveri guadagni. Il punto della questione, per ciò che riguarda la dottrina, è questo: Può l'uomo, fin che vive, di peccatore diventar giusto, detestando i suoi peccati, chiedendone perdono a Dio, risolvendo di non più commetterne, di ripararne il danno, per quanto potrà, e di farne penitenza, e confidando per la remissione di essi nella misericordia di Dio, e nei meriti di Gesù Cristo? Quando il peccatore sia così giustificato, è egli in istato di salvezza? La Chiesa dice di sì: consultiamo la Scrittura, consultiamo la ragione, cerchiamo i princìpi e le conseguenze legittime di questa dottrina, e della dottrina contraria. Lasciando per brevità da una parte la connessione essenziale di questa dottrina con tutta la Scrittura, e i passi nei quali è sottintesa, ne riportiamo uno solo, ma formale. « La giustizia del giusto non lo libererà in qualunque giorno pecchi; e l'empietà dell'empio non gli nocerà più in qualunque giorno si converta … Se avrò detto all'empio: tu morrai; ed egli farà penitenza del suo peccato, e farà opere rette e giuste; se restituirà il pegno, e renderà quello che ha rapito, e camminerà nei comandamenti di vita, e nulla farà d'ingiusto; vivrà e non morrà. Tutti i peccati che ha commessi, non gli saranno imputati: ha fatto opere rette e giuste, vivrà ( Ez 33,12-16 ) » Tutti i princìpi e tutte le conseguenze di questa dottrina ricadono dunque sulla Scrittura; ad essa bisogna chiederne conto, o, per dir meglio, ad essa dobbiamo la cognizione certa e distinta d'una verità così salutare e, del resto, così legata con l'altre ugualmente rivelate, per le quali la nostra mente è stata sollevata al concetto soprannaturale, che è quanto dire, al concetto intero della moralità. Infatti ( siamo costretti dall'argomento a toccar di nuovo alcune cose già dette nel capitolo antecedente ) infatti, se la giustizia consiste nella conformità dell'inteletto e della volontà e, per una conseguenza necessaria, dell'azione con la legge di Dio, il peccatore che, per la misericordia e con la grazia di Lui, diventa conforme a quella, fino a condannar se medesimo, diventi giusto. Se la giustizia è uno stato reale dell'anima umana; se la conversione, se il perdono ottenuto per i meriti del Mediatore non sono parole vane; l'uomo che, in qualunque giorno, è entrato in questo stato, è attualmente amico di Dio, e quindi chiamato alla sorte che Dio ha preparata ai suoi amici. Se il tempo della prova è in questa vita; se il premio e la pena dipendono da questo tempo ( e tutti i precetti della morale cristiana hanno la loro sanzione in questo domma; e quanti filosofi, anche nemicissimi della religione, non l'hanno riguardato come un suo gran benefizio, come un supplimento ai mezzi umani per accrescer il bene morale, e diminuire il male! ); se il tempo della prova è in questa vita, l'uomo che, al finir della prova, è in stato di giustizia, è necessariamente in stato di salvezza. E quali sono le conseguenze legittime di questi princìpi, riguardo alla condotta di tutta la vita? È evidente che, per fare con cognizione di causa una tale ricerca, bisogna osservare il complesso della dottrina di cui essi non sono che una parte. A chi, nel pericolo prossimo d'un'inondazione, domandasse, se trascurando di mettersi in salvo in quel momento, sarebbe certo di perire, cosa si dovrebbe rispondere? No: non è assolutamente certo che perirete trattenendovi in un tale pericolo. Una cagione impreveduta può svoltare il corso dell'acqua; l'acqua stessa può mandarvi vicina una tavola che vi porti a salvamento. Ma voi ponete male la questione, considerando unicamente, in una deliberazione di tanta importanza, una possibilità debole e lontana, e lasciando da una parte la difficoltà; che ogni momento di ritardo rende più grave. Lo stesso è nell'affare della salvezza dell'anima. È sempre possibile il convertirsi, dice la Chiesa, e non può dire altrimenti; ma è difficile, ma questa difficoltà cresce a misura che il tempo passa, che i peccati s'accumulano, che l'abitudini viziose si rinforzano, che s'è stancata la pazienza di Dio, restando sordi alle sue chiamate; quindi la difficoltà è massima appunto al momento d'abbandonare la vita. E la Chiesa, non solo non lusinga i peccatori che potranno superare queste difficoltà, ma non cessa di rammentar loro, che non sanno nemmeno se potranno affrontarla; giacché il momento e il modo della morte sono ugualmente incerti. Dunque bisogna vivere in ogni momento in maniera di poter con fiducia presentarsi a Dio; dunque la conversione è necessaria in ogni momento ai peccatori, la perseveranza in ogni momento ai giusti: tali e simili sono le conseguenze che un uomo ragionevole ( e la religione, come tutte le dottrine vere, intende parlare alla ragione ) possa dedurre da quella dottrina. Conseguenze, delle quali nulla si può pensare di più morale, e di più applicabile a ogni azione, a ogni pensiero; e che tutte si riducono a quell'avvertimento lasciatoci dal Maestro medesimo: State preparati, perche, nell'ora che meno pensate, verrà il Figliolo dell'uomo ( Lc 12,40 ). Quindi quella dottrina, lungi dal portar gli uomini a non considerare che la morte, è sommamente propria a dirigere tutta la vita. « Ma cos'importa, si dirà, che le conseguenze immorali siano legittime o no, quando sono state dedotte, quando gli uomini hanno regolata la loro vita su queste conseguenze? Voi dite che i cattolici viziosi hanno ragionato stortamente: sia pure; ma questa dottrina è sempre stata per loro un'occasione di ragionar così; e hanno vissuto nel male, con la fiducia e per la fiducia di morir bene ». Suppongo il fatto, e domando: come rimediarci? O bisogna provare che gioverebbe alla morale il lasciar gli uomini senza una dottrina sul ritorno a Dio, sui suoi giudizi, sulle pene e sui premi della vita futura; o trovarne una diversa dalla rivelata, e che non abbia né questi inconvenienti, ne dei peggiori. Venga un uomo che s'arroghi di farlo, non avrà la Chiesa la ragione di fermarlo e di dirgli: Perchè gli uomini hanno cavate delle conseguenze viziose da una dottrina santa e vera, voi volete darne loro una arbitraria? Come! le loro inclinazioni non si sono raddrizzate con la regola infallibile; a quale pervertimento non arriveranno con una regola falsa? Ma supponiamo che quest'uomo non dia retta alla Chiesa, e che, passando sopra una tale difficoltà, argomenti in questa maniera. « È stato insegnato ai cattolici, che il peccatore può, fin che vive, convertirsi ed esser giustificato. È vero che s'è anche sempre detto loro, che il rimetter la conversione alla morte è una doppia temerità, un'enorme insensatezza. Ma malgrado ciò, non ci fu peccatore cosi accecato dalle passioni, che non proponesse di consacrare, prima di morire, qualche giorno alla cura a della sua salvezza; e con questa fiducia scioglieva il freno alle sue inclinazioni sregolate. Ci vuol dunque un rimedio e non un palliativo; bisogna estirpare la radice del male, cioè una dottrina necessariamente male interpretata, una dottrina che, data la natura dell'uomo, opera certamente un effetto così malefico. In queste cose non si può stare senza una dottrina qualunque; una dottrina media non ci sarebbe su che fondarla. Dunque è necessario stabilire e promulgare la dottrina opposta, cioè: non è vero che l'uomo possa convertirsi a Dio; giacché, se s'ammette la possibilità, essa si applica da sé e necessariamente tutti i momenti della vita, e, per conseguenza, anche agli ultimi ». È stato ugualmente insegnato ai cattolici, che l'uomo è giudicato nello stato in cui si trova all'uscire di questa vita. È vero che s'è anche detto che la morte è ordinariamente la conseguenza della vita; che una bona morte è un tal dono, che la vita tutta intera deve essere impiegata a implorarla e a meritarla; che non solo non è promessa agli empi, ma sono minacciati di morire in peccato; che il mezzo d'avere una giusta speranza di ben morire, è di ben vivere, e altri simili correttivi: ma con tutto ciò, s'è presa l'abitudine di considerar solamente la morte del pfeccatore, e non la vita; e quest'abitudine divenne universale. S'insegni dunque che l'uomo non sarà giudicato nello stato in cui si troverà all'uscire di questa vita ». Ci si insegni questa dottrina, e si dica quali ne saranno le conseguenze applicabili alla condotta morale. L'uomo non può convertirsi a Dio; dunque al peccatore non rimane che la disperazione: stato incompatibile con ogni sentimento pio, umano, dignitoso; stato orribile, in cui l'uomo, se potesse durarci e esser tranquillo, non potrebbe farsi altra regola, che di procurarsi il più di piaceri finche può, a qualunque costo. L'uomo non può convertirsi a Dio; dunque non più pentimento, non più mutazione di vita, non più preghiera, né speranza, né redenzione, né Vangelo; dunque il dire a un peccatore di diventar virtuoso per motivi soprannaturali, sarebbe fargli una proposta assurda. L'uomo non è giudicato nello stato in cui si trova all'uscire di questa vita; dunque non c'è stato di giustizia né d'ingiustizia; poiché, cosa sarebbe una giustizia che non rimettesse l'uomo nell'amicizia di Dio? e cosa sarebbe un'amicizia di Dio che lasciasse l'uomo nella pena eterna? Dunque non sarà vero che ci siano premi e pene per l'azioni di questa vita, non essendoci in questa vita uno stato in cui l'uomo possa esser degno né degli uni né dell'altre; dunque non ci sarà una ragione certa e preponderante d'operar bene in tutti i momenti della vita. Ma, tra l'opinioni, tante purtroppo, e diverse e strane, che il senso privato ha potuto produrre, e ha tentato di sostituire alla dottrina della Chiesa, non credo che una simile sia mai stata messa in campo. Non se n'è qui fatto cenno, se non per mostrare che a quella dottrina non se ne può opporre che o una assurda, o nessuna. 2. Dell'opinioni abusive. Se dunque il viver male per la presunzione di morir bene, non può, in nessuna maniera, esser riguardato come un effetto della dottrina cattolica, quale ne sarà la vera cagione? Quella da cui provengono e tutte le dottrine false, e tutti gli abusi delle vere: le passioni. L'uomo che vuol vivere a seconda di queste, e insieme non osa negare a sé stesso l'autorità della dottrina che condanna, si sforza di conciliare in apparenza queste due disposizioni inconciliabili, per darla vinta a quella che vuol far prevalere in effetto. E questa infelicissima frode se la fa col mezzo della sofistica ordinaria delle passioni; cioè spezzando, per dir così, la dottrina, prendendone quel tanto che gli conviene, e non curandosi del rimanente: che è quanto dire, riconoscendola e negandola nello stesso tempo. La religione gli dice che Dio fa misericordia al peccatore, in qualunque giorno questo ritorni a Lui; egli aggiunge di suo, e contro l'avvertimento espresso della religione, che questo giorno sarà sempre in poter suo. Quest'illusione, abbiamo detto, costituisce un errore pratico e non speculativo; e, tra questi due caratteri, corre una gran differenza. Intendo per errori pratici quelli che l'uomo crea a se stesso per la circostanza, per giustificare in qualche modo alla sua ragione il male a cui è già determinato; e per errori speculativi, quelli a cui uno aderisce abitualmente, anche quando non ci sia spinto da un interesse estraneo e accidentale. Questi, quando riguardino la morale, alterano la coscienza nell'intimo, scambiando il male in bene, e il bene in male; e sono, per sé, cagioni iniziali e permanenti d'azioni viziose, e spesso anche d'azioni perverse, le quali, senza la loro funesta autorità, non sarebbero state pensate, non che seguite. Invece, l'errore di cui si tratta non trova adito che nelle menti già sedotte da altre passioni, non dura che nella perturbazione cagionata da esse, non è un principio di ragionamenti qualunque, ma piuttosto una formula per troncare ogni ragionamento. Difatti, se l'uomo si ferma a ragionare sulla conversione, è condotto dalla logica alla necessità di convertirsi immediatamente. Per non arrivare a una conclusione odiosa al senso, dice a se stesso: mi convertirò in un altro tempo: non segue la serie di queste idee, e cerca una distrazione. Di qui nasce un'altra differenza importante. Gli errori di questo genere sono individuali, e non generali: voglio dire che non si trasmettono per via di discussione, non diventano precetti e parte di scienza comune. All'uomo affezionato al disordine basta d'avere un argomento qualunque, per dir così, a suo uso, non si cura di farne parte agli altri; e sopratutto non vuole entrare in ragionamenti, e perchè non è inclinato a queste considerazioni, e perchè sente che il suo argomento non potrebbe reggere alla prima obiezione. Quindi questo errore non si propaga per proselitismo: ci sono degli erranti in questa materia, ma non dei falsi maestri, né dei discepoli illusi. Finalmente non può esser distrutto utilmente che dalla cognizione e dall'amore della dottrina. Per distruggere utilmente gli abusi, bisogna metter le cose in migliore stato di quello che fossero con essi. Spero d'aver dimostrato che sostituire alla dottrina cattolica della conversione qualunque altra, sarebbe creare una sorgente d'errori peggiori e certi e universali. Il solo mezzo, per conseguenza, di diminuire quelli che ci possono essere, è di diffondere, di studiare e d'amare quella religione che comanda la virtìi e l'insegna, e che indica e apre tutte le strade che conducono ad essa. Ricorrendo un momento col pensiero al complesso delle massime di questa religione, si vede in che profondo d'ignoranza, d'obblìo o d'accecamento deva esser caduto un uomo, per viver male, con la presunzione di pentirsi quando gli piaccia. Non basta far violenza alla Scrittura e alla Tradizione, per tirarle a favorire una tal presunzione. Bisogna assolutamente prescindere dall'una e dall'altra, dimenticarle: l'una e l'altra la combattono sempre, la maledicono sempre. Appena un uomo s'avvicina ad esse, con l'intelletto e col core, sente immediatamente che non c'è fiducia se non nell'impiegare secondo la legge di Dio ognuno di quei momenti, dei quali tutti si darà conto a Dio; che non ce n'è in tutta la vita uno solo per il peccato; che è sempre di somma necessità il camminar cautamente, non da stolti, ma da prudenti ricomperando il tempo ( Ef 5,15-16 ); che l'unica condotta ragionevole e di studiarsi di render certa la propria vocazione ed elezione con l'Vopere bone ( 2 Pt 1,10 ). 3. Dell'insegnamento. Il clero non insegna la dottrina falsa - non dissimula la vera. Ognuno vede che i documenti sono troppo voluminosi per essere portati in giudizio; ma si possono francamente chiamare in testimonio tutte le istruzioni del clero, tutte le prediche, tutti i libri ascetici, meno alcune rarissime eccezioni che accenneremo più tardi. Trascriviamo qui alcuni passi di tre uomini celebri, per saggio dell'insegnamento in questa materia. Ma saremo noi molto contenti di una penitenza incominciata all'agonia, che non sarà mai stata preparata, di cui non si sarà mai veduto alcun frutto; d'una penitenza imperfetta, d'una penitenza nulla, dubbia, se pur volete; senza forze, senza riflessioni, senza comodità di ripararne i difetti? Questi peccatori inveterati muoiono come sono vissuti. Sono vissuti nel peccato e muoiono nel peccato. Son vissuti nell'odio di Dio, e muoiono nell'odio di Dio. Son vissuti da pagani, e muoiono da riprovati: ecco quello che c'insegna l'esperienza. Il pretendere che abiti contratti per tutta la vita si distruggano all'avvicinarsi della morte, e che in un momento possa allora formarsi un altro spirito, un altro cuore, un'altra volontà, egli è, o cristiani, il più grossolano di tutti gli errori. Di tutti i tempi quello, in cui la penitenza vera e più difficile, e il tempo della morte il tempo di cercarlo questo Dio di misericordia e la vita; il tempo di trovarlo è la morte. Voi siete vissuti impudichi, e tali morrete; siete vissuti ambiziosi, e morrete senza che muoia in cuor vostro l'amor del mondo e dei suoi vani onori; voi siete vissuti nelle mollezze senza vizi e senza virtù, e vilmente e senza compunzione morrete. Io so bene che tutto il tempo della presente vita è tempo di salute e di propiziazione; che sempre noi possiamo far ritorno a Dio; che in qualsiasi ora che il peccatore si converta al Signore, il Signore si converte a lui; e che niuna piaga è incurabile sino a tanto che il serpente di bronzo sta levato in alto. Questa è verità di fede; ma so bene ancora che ogni grazia speciale, di cui voi abusate, può esser l'ultima della vostra vita. Imperocché voi vi ripromettete non solo la grazia della conversione, quella cioè che muta il cuore, ma altresì quella che ci fa morire nella santità e nella giustizia; la grazia che compie la santificazione di un'anima, la grazia della perseveranza finale; ma questa è la grazia dei soli eletti, è il più grande di tutti i doni, è il colmo di tutte le grazie, è l'ultimo tratto della benevolenza divina, è il frutto d'un'intiera vita d'innocenza e di pietà, è la corona serbata a coloro che avranno legittimamente combattuto E presumete voi che il più segnalato di tutti i benefizi sia per esser la mercede della più ingrata di tutte le vite? Che potete voi desiderare di meglio in punto di morte, che d'avere il tempo, e di essere instato di cercar Gesù Cristo, e di cercarlo difatti, e d'offrirgli le lagrime del dolore e della penitenza? Questo è tutto ciò che voi possiate mai ripromettervi di più favorevole in quell'ultimo momento. Eppure ( oh terribile verità che mi fa tremare! ) eppure che cosa vi permette Gesù Cristo di sperare dalle vostre stesse ricerche e dalle vostre lacrime, se voi le differite sino a quel punto? « Voi mi cercherete, e voi morrete nel vostro peccato ». Quaeretis me et in peccato vestro moriemini Tutto quello ch'io so, è che i sacramenti di salute amministrati allora al peccatore compiono forse la sua riprovazione tutto quello ch'io so, e che tutti i Padri che hanno parlato della penitenza dei moribondi, ne parlarono con accenti che fanno tremare. Massime predicate così affermativamente, così risolutamente, da tali uomini, costituiscono certamente l'insegnamento esclusivo della Chiesa in questa materia. Non si opponga che questi sono scrittori francesi, che qui si tratta degli effetti della religione cattolica in Italia. È affatto a proposito il citare scrittori francesi, perchè si veda che questo disordine di spirito, come benissimo lo chiama l'illustre autore, ha bisogno d'esser combattuto anche fuori d'Italia. Ma se si vuole un Italiano, sentiamo, tra mille, il Segneri: « Che dunque mi state a dire, non aver voi punto fretta di convertirvi, giacche voi sapete benissimo, che a salvarsi non è necessario di fare una vita santa, ma solo una morte buona? Oh vostra mente ingannata! oh ciechi consigli! oh pazze risoluzioni! E come mai voi vi potete promettere una tal morte, se quegli stesso a cui spetta di riarvela, ve la nega, e a note chiare, e con parole apertissime si protesta che voi morrete in peccato? In peccato vestro moriemini ». Si dirà forse che l'illustre autore non ignora, e non nega che si predichi così; afferma bensì che questo è un prendersela con gli effetti, dopo aver creato la causa. Invano, dice, predicarono allora contro il ritardo della conversione: essi stessi erano gli autori di questo disordine di spirito sconosciuto agli antichi moralisti. Allora? Ma a che tempo ci porteremo, per trovar l'origine di questa predicazione? Ma, se tra gli antichi moralisti contiamo i Padri, questo disordine non era certamente sconosciuto a quelli di loro, che nei primi secoli della Chiesa, declamarono tanto contro i clinici. Ma in un libro molto più antico dei casisti, dei clinici e dei Padri, sta scritto: « Non tardare a convertirti al Signore, e non differire da un giorno all'altro ». Infatti, al momento che è stata data agli uomini l'idea della conversione, essi hanno potuto aggiungerci quella della dilazione. Invano predicarono contro il ritardo della conversione. Invano? perchè? Non predicarono forse cose conformi alla ragione? Hanno o non hanno provato che il tardare a convertirsi è un delirio? Si può fare a loro discorsi un'obiezione sensata? Sarà sempre invano che si dirà agli uomini la verità più importante per loro? Ma si può credere che non sia sempre stato invano. Certo, la semenza della parola può cadere nella strada e sulle pietre e tra le spine, ma trova anche qualche volta la bona terra; e credere che delle verità tanto incontrastabili e tanto gravi siano state sempre predicate invano, sarebbe un disperare della grazia di Dio, e della ragione dell'uomo. Erano essi medesimi gli autori di questo disordine di spirito: Ah! se i cristiani che vivono in quello facessero loro un tal rimprovero, non avrebbero essi ragione di rispondere: « Noi? È dunque col predicarvi la conversione, che v'abbiamo portati a vivere nel peccato, e a differirla? È dunque col parlarvi delle ricchezze della misericordia, che v'abbiamo animati a disprezzarle? Noi v'abbiamo detto: Venite, adoriamo, prosterniamoci e preghiamo; v'abbiamo detto: Oggi che udite la sua voce, non vogliate indurire i vostri cori ( Sal 95,6-8 ); e voi pensate un domani che noi non v'abbiamo mai promesso, un domani del quale cerchiamo di farvi diffidare; e siamo noi gli autori del vostro indurimento? Certo, noi siamo mondi del vostro sangue » ( At 20,26 ). Così potrebbero rispondere, se ci fosse un linguaggio per giustificare la predicazione del Vangelo in faccia al mondo. O potrebbero anche opporre a quest'accusa l'accuse che si fanno loro, di spaventare gli uomini con l'idee truci e lugubri di morte e di giudizio, per eccitarli alla conversione. Ma, se la Chiesa ha così poca fiducia nelle conversioni in punto di morte, perchè si fa vedere così sollecita nell'assistere il peccatore moribondo? Appunto perchè la sua fiducia è poca, essa riunisce tutti i suo sforzi; appunto perchè l'impresa è difficile, impiega tutta la carità del suo core e delle sue parole. Un filo di speranza di salvare un suo figlio basta alla Chiesa per non abbandonarlo; ma con questo insegna forse ai suoi figli, a ridursi a un filo di speranza? Quegli uomini benemeriti che amministrano i soccorsi a chi è cavato da un fiume, con poca o nessuna apparenza di vita, possono forse esser tacciati d'incoraggiar gli uomini a affogarsi. Si osservi a questo proposito, che la Chiesa pare quasi che abbia due linguaggi su questa materia; poiché cerca d'ispirar terrore ai peccatori che, nel vigore della salute, si promettono confusamente nell'avvenire il tempo di peccare e di convertirsi; e cerca d'ispirar fiducia ai peccatori moribondi. Nel che non c'è contradizione, ma prudenza e verità. I peccatori, tanto nell'uno che nell'altro stato, sono disposti a guardar fissamente una parte sola della questione: la Chiesa fa loro presente la parte che dimenticano. I primi sono pieni dell'idea della possibilità; ed è utile rappresentar loro la difficoltà; gli altri sono portati a veder questa sola così vivamente, che, per loro, uno dei maggiori ostacoli al convertirsi è appunto il diffidare della misericordia di Dio. Abbiamo parlato dell'insegnamento generale; e forse non si troverà un solo esempio di chi abbia nella Chiesa insegnato direttamente il contrario; ma la verità vuole che s'accenni il come l'errore è stato qualche volta indirettamente favorito. Tra i molti inconvenienti dello spirito oratorio ( come è inteso dai più ), inconvenienti, per i quali è spesso in opposizione con la logica e con la morale, uno dei più comuni è quello d'esagerare o il bene o il male d'una cosa, dimenticando il legame che essa ha con dell'altre: si viene così a indebolire un complesso di verità, e a sostituire un errore a quella medesima che si vuole ingrandire. Un tale spirito, che piace a molti i quali vedono potenza d'ingegno dove non c'è altro che debolezza e impotenza d'abbracciare tutte le relazioni inportanti d'un oggetto, un tale spirito ha traviato alcuni, i quali, per magnificare qualche pratica religiosa, sono arrivati ad attribuirle la facoltà d'assicurare ai peccatori la conversione in punto di morte. Assunto falso e pernicioso, gioco d'eloquenza male a proposito chiamata popolare, perchè popolari s'hanno a dire quelle cose che tendono a illuminare e a perfezionare il popolo, non a fomentare le sue passioni e i suoi pregiudizi. È bensì vero che coloro i quali s'abbandonarono qualche volta a questa miserabile intemperanza d'ingegno, non mancarono per lo più di immischiarci dei correttivi; ma questo metodo attesta il male senza levarne le conseguenze; giacché l'egro fanciullo, al quale credono così a torto di presentare una medicina, è troppo inclinato a lambire il miele che copre gli orli del vaso, e a lasciar l'assenzio salutare. Ma s'osservi che questi pochi, oltre all'essere stati sempre contradetti, o direttamente o implicitamente, dagli altri, venivano a essere in contraddizione anche con sé stessi, essendo tutto il loro insegnamento incompatibile con questa loro particolare dottrina; giacché, se avessero seriamente tenuta questa, e l'avessero applicata a tutti i casi, non avrebbero potuto più predicare il Vangelo: esso diventava inutile. Si può sperare che, ai nostri giorni, questo disordine sia quasi del tutto cessato. Per mostrare l'effetto dell'abitudine di non considerare che la morte del peccatore, adduce l'autore una prova di fatto, che riferiamo con le sue parole. La funesta influenza di questa dottrina si fa sentire in Italia in modo straordinario ogni volta che un gran reo è condannato alla pena capitale. La solennità del giudizio e la certezza della pena destano sempre nei più induriti il terrore e poi il pentimento. Non v'è incendiario, assassino, avvelenatore, che salga al patibolo senza aver fatto, con una profonda compunzione, una buona confessione, una buona comunione, poi una buona morte. Il suo confessore manifesta la ferma fiducia che l'anima del penitente abbia già presa la via verso il cielo, e la plebaglia, ai piedi del patibolo, si disputa le reliquie del nuovo santo, del nuovo martire, i cui delitti l'Vavean forse da anni e anni agghiacciata di terrore. Di quest'uso stranissimo io non avevo mai sentito parlare prima di legger questo passo; ma, essendo lontano dal dare la mia ignoranza per risposta a un asserto, me ne rimetto a quelli che conoscono meglio di me le circostanze di questa Italia. Il fatto è dei più facili a chiarirsi. Osservo però in massima, che, in qualunque parte possa esistere questa superstizione, non ci fu mai la più contraria all'insegnamento della Chiesa. Essa accoglie, è vero, il reo cacciato violentemente dalla società e dalla vita; il suo ministro si mette tra il giudice e il carnefice; sì, tra il giudice e il carnefice, perche ogni posto dove si possa santificare un'anima e consolarla, dove ci sia una repugnanza da vincere, una serie di sentimenti penosi che non finisca con una ricompensa temporale, è per un ministro della Chiesa il posto d'onore. Chi può dire quale sia l'angoscia d'un uomo che ha davanti agli occhi il patibolo, e nella coscienza la memoria del delitto di colui che aspetta la morte, non per una nobile causa, ma per dei tristi fatti? E la Chiesa trascurerebbe di render utile un tanto dolore all'infelice che è costretto a gustarlo! E ci sarebbe un caso in cui non avesse misericordia da promettere in cui anch'essa abbandonasse un uomo! Essa gli apre le braccia; non dimentica che il Sangue di Gesù Cristo è stato sparso anche per lui; e fa di tutto perchè non sia stato per lui sparso invano. Ma la certezza, non la dà né a lui, ne agli altri; e chi la prende, va direttamente contro il suo insegnamento. Capitolo X Delle sussistenze del clero considerate come cagione d'immoralità Io non parlerò del traffico scandaloso delle indulgenze, e del prezzo ignominioso che il penitente pagava per ottenere l'assoluzione del prete. Il Concilio di Trento si adoperò, è vero, per diminuire l'abuso: tuttavia anche oggidì il prete vive dei peccati del popolo e dei suoi terrori. Il peccatore moribondo prodiga, per pagare messe e rosari, il denaro che se esso accumulò con mezzi iniqui; calma a prezzo d'oro la sua coscienza, e si crea agli occhi del volgo la riputazione di pietà. Ammettiamo per ora il fatto ( sul quale però ragioneremo in seguito ), ammettiamolo riguardo al tempo presente, e all'Italia; giacché estenderlo a tutti i tempi e a tutti i luoghi, sarebbe dire che la religione di Gesùi Cristo non ha portato in terra, che un aumento di perversità e di superstizione: proposizione che sarebbe ancor più assurda che empia. E sarebbe oltrepassare la tesi dell'illustre autore, che vuol parlare degli effetti della religione cattolica solamente in Italia. Ammesso dunque per ora il fatto, supponiamo, alfine di cavarne un resultato utile, e non un argomento di declamazione, che si desse a un uomo l'incarico di proporre i rimedi per un così tristo stato di cose. Quali ricerche dovrà fare quest'uomo? La prima sarà senza dubbio d'informarsi se questa costumanza venga da una legge, o sia un abuso. So che questa distinzione è ricantata; ma bisogna pure riproporla ogni volta che è il mezzo di non fare di due questioni una sola, che è come cambiar due strade in un labirinto. Se si dirà che è effetto d'una legge, si dovrà allegarla: assunto impossibile e riconosciuto implicitamente falso dall'autore, il quale, rimproverando questa condotta all'Italia, in confronto con la Francia e con la Germania, viene a concedere che si può esser cattolici senza tenerla, che dunque non è fondata su una legge. Se si dirà che è un abuso, allora l'uomo che abbiamo supposto non dovrà più cavarne conseguenze contro la legge, ma cercare il vizio nella trasgressione di essa; e la discussione muta affatto specie. Dovrà cercare quali siano gli ostacoli che impediscono l'effetto naturale della legge, e quali i mezzi per farla eseguire. Ammesso dunque il fatto, ne resulterebbe che quest'inconveniente esiste in Italia, perchè gl'Italiani non sono abbastanza cattolici; che, per levarlo di mezzo, bisogna fare in maniera che diventino più esattamente cattolici, come si suppongono quelli di Francia e di Germania. Se nell'ordine civile si tenesse per regola generale d'abolire tutte le leggi che non sono universalmente eseguite, si terrebbe una regola pessima: benché, in molti casi, la trasgressione della legge possa arrivare al segno di renderla inutile e dannosa, e essere un ragionevole motivo di abolirla. Ma, nelle cose della religione, la regola sarebbe ben più falsa, perchè le leggi essenziali della religione non sono calcolate sugli effetti parziali e temporari, ne si piegano alle circostanze, ma intendono di piegar tutto a se; sono emanate da un'autorità inappellabile, ed è impossibile all'uomo il sostituirne delle più convenienti. Il ministero ecclesiastico istituito da Gesù Cristo, è una di tali leggi; e il peggiore abuso che gli uomini possano fare di questo ministero, è quello di distruggerlo per quanto è in loro, col farlo cessare in qualche luogo, e per qualche tempo. Il sistema della Chiesa non è, ne dev'essere, d'estirpare gli abusi a qualunque costo, ma di combinare la conservazione di ciò che è essenziale, con l'estirpazione, o con la possibile diminuzione degli abusi: essa non imita l'artefice imperito e impaziente che spezza l'istrumento, per levarne la ruggine. Perchè ci sono abusi? Perchè gli uomini sono portati al disordine delle passioni. E perciò appunto Gesù Cristo ha data l'autorità alla Chiesa, ha istituito il ministero; perciò appunto il ministero è indispensabile. Quello che la Chiesa vuole evitare prima di tutto, è il male orribile d'un popolo senza cristianesimo, e l'assurdità d'un cristianesimo senza ministero. È necessario che i ministri abbiano di che vivere; e per questo fine ci sono due mezzi. L'uno sarebbe di scegliere esclusivamente i ministri tra gli uomini provvisti di beni di fortuna: mezzo irragionevole e temerario, che, restringendo arbitrariamente la vocazione divina a una sola classe d'uomini, sconvolgerebbe affatto l'ordine del governo ecclesiastico; l'altro è d'ordinare che il ministero dia di che vivere a chi lo esercita: mezzo tanto ragionevole, che è stato stabilito in legge dal principio del cristianesimo; poiché il prete, servendo all'altare, s'inabilita ad acquistarsi il vitto altrimenti. Dunque i fedeli devono somministrare il mantenimento ai ministri dell'altare: ecco la legge. Ma, tra i ministri, che sono uomini, non mancherà chi, rivolgendo all'avarizia ciò che è destinato al bisogno, usi illegittimamente del diritto certo di ricevere, estendendolo a cose a cui non è applicabile; ma tra i fedeli non mancherà chi, dall'idea vera, che è un'opera bona il provvedere al mantenimento dei ministri, passi a dare a quest'opera un valore che non ha, attribuendo ad essa gli effetti che appartengono esclusivamente ad altre opere indispensabili, e sia generoso per dispensarsi d'essere cristiano: ecco l'abuso. E siccome quest'abuso è contrario allo spirito e alla lettera dell'istituzione, così il vero mezzo di levarlo, sarà di ricorrere all'istituzione stessa. Così hanno fatto tante volte quelli a cui è confidata l'autorità di farlo direttamente. La storia ecclesiastica attesta a ogni passo i loro sforzi, e spesso le riuscite: per non andar lontano, l'esempio del concilio di Trento citato qui ne è una prova; molti papi e molti vescovi misero una cura particolare a questo loro dovere; quanto non ha fatto in questa parte il solo san Carlo, stando sempre attaccato alla Chiesa? Mai insomma non sono mancati nel clero cattolico gli uomini zelanti e sinceri che alzassero la voce contro questi abusi, e li correggessero dove potevano. Tutti i fedeli finalmente possono in qualche parte rimediare agli abusi d'ogni genere, se non altro con l'essere essi medesimi più, vigilanti, osservatori della legge divina; perchè è indubitabile che gli abusi nascono dove gli uomini li desiderano, e che gli uomini li desiderano quando sono corrotti, e, non amando la legge, se ne fìngono un'altra che chi riforma sé stesso coopera alla riforma dell'intero corpo a cui appartiene. Abbiamo ammesso il fatto, alfine di provare che non ragionerebbe chi da esso concludesse contro la religione; ma ora converrà esaminarlo. « Il prete, dice l'illustre autore, vive dei peccati e dei terrori del popolo; il peccatore moribondo prodiga, per pagar messe e rosari, il denaro accumulato spesso per mezzi iniquissimi; accheta a prezzo d'oro la sua coscienza, e si crea presso il volgo la riputazione d'uomo pio ». Osservo di passaggio che, per quanto io sappia, non s'è mai parlato di retribuzioni per rosari; e, del rimanente, non essendo la recita di questi una parte del ministero ecclesiastico, se ci fossero retribuzioni, non verrebbero necessariamente ai preti. S'osservi poi, cosa molto più importante, che non solo è dottrina cattolica, che, a scontare il peccato d'avere accumulato danaro per mezzi iniqui, è condizione necessaria la restituzione, quando sia possibile, e che rivolgerlo ad altri usi, per quanto santi possano essere, è un inganno, è un persistere nell'ingiustizia; ma ancora, che questa dottrina è universalmente predicata e conosciuta in Italia. Non oso affermare che non ci possa essere alcun ministro prevaricatore, il quale insegni il contrario ma, se ne esiste alcuno, è certamente un'eccezione tanta rara, quanto deplorabile. È noto quante restituzioni si facciano per mezzo dei sacerdoti. Quante restituzioni e riparazioni non sa fare la Confessione presso i cattolici!. Quei sacerdoti inducono allora un uomo ad acchetare la sua coscienza a prezzo d'oro; ma quest'oro, il quale non fa che passare per le loro mani, è un testimonio che, lungi dall'alterare la purità della religione per appropriarselo, insegnano che non può diventar mezzo d'espiazione, se non ritornando donde era stato ingiustamente levato. È vero che il prete, il quale faccia il dover suo cerca d'eccitare nei fedeli il terrore dei giudizi divini, quel terrore, da cui, per la portentosa nostra debolezza, tutto ci distrae: terrore santo, che ci richiama alla virtù; terrore nobile, che ci fa riguardare come sola vera sventura quella di fallare la nostra alta destinazione; terrore che ispira il coraggio, avvezzando chi lo sente a nulla temere degli uomini. Ma, dopo avere eccitato questo terrore con le sue istruzioni, c'è forse un prete il quale insegni che il mezzo di viver sicuri, è di largheggiare coi preti? C'è chi n'abbia sentito uno solo? O non dicono tutti piuttosto: Lavatevi, mondatevi, levate dagli occhi di Dio la malvagità dei vostri pensieri, cessate di mal fare: imparate a far del bene, cercate quello che è giusto, soccorrete l'oppresso, proteggete il pupillo, difendete la vedova? ( Is 1,16 ) Certo, non si vuol dire che l'avarizia non possa vedere un oggetto di lucro nelle cose più pure, più sacre, e più terribili, e ( non lo dirò con parole mie, ma con quelle che proferiva raccapricciando un vescovo illustre ) fare del sangue adorabile di Gesù Cristo un traffico infame; e per quanta la Chiesa dovesse aver ribrezzo a suppore una tale prevaricazione, ha dovuto parlarne per prevenirla, e per renderla difficile e rara, se non impossibile. Il concilio di Trento, dopo aver professata la dottrina perpetua della Chiesa intorno al Purgatorio, al giovamento che l'anime in esso ritenute ricevono dai suffragi dei fedeli, e principalmente dall'accettevole sacrifizio dell'altare, dopo aver prescritto ai vescovi d'insegnare e di mantenere questa dottrina soggiunge: « quelle cose che vengono da una certa curiosità o da superstizione, o sanno di turpe guadagno, le proibiscano come scandali e inciampi dei fedeli ». Non è qui il luogo d'indicare quest'inciampi, e di riprendere quelli che li mettono nella strada della salute: nò ciò forse si converrebbe a uno a cui manca ogni genere d'autorità. Negare quelli che esistono, o giustificarli con ragioni speciose, presentare come necessario alla Chiesa ciò che è la sua desolazione e la sua vergogna, non si conviene né a me, ne ad alcuno, come cosa vile, menzognera, e quindi irreligiosa. E non credo di mancare all'argomento col passarli sotto silenzio: credo anzi d'averlo trattato, toccando le ragioni per le quali mi pare che si possa affermare che, tra gli abusi purtroppo reali, non esiste ( moralmente parlando ) l'abuso orribile di sostituire le largizioni ai doveri, e d'acchetare la coscienza a prezzo d'oro. Ha però sempre parlato la Chiesa per mezzo dei concili, dei sommi pontefici, dei vescovi: un esempio, tra mille, di zelo e di sincerità, in questa materia, si può vedere nei discorsi sinodali del vescovo citato dianzi, di quel Massillon che fu un tanto eloquente, val a dire un fedele interprete della legge divina. Il nemico più ardente e più sottile della Chiesa non svelerà mai con più veemenza e con più acume gli orribili effetti dell'avarizia che entra nel core d'un ministro del santuario; e nessun figlio più docile e più tenero della Chiesa non li deplorerà con più gemito, con più umiltà, con più vivo desiderio di veder levata da essa questa deformità. Ma noi non crediamo che sia facile l'avere questo spirito d'imparzialità; crediamo piuttosto che, nel giudicare i difetti dei sacerdoti, è troppo facile il cedere alle prevenzioni; e che queste vengono da un principio d'avversione che tutti abbiamo pur troppo al loro ministero. Quelli che ci additano la strada stretta della salute, che combattono le nostre inclinazioni, che, col loro abito solo, ci rammentano che c'è un ministero di sciogliere e di legare, che c'è un giudice di cui essi sono i ministri, un modello, per annunziare il quale essi sono istituiti; ah! è troppo preziosa al senso corrotto l'occasione di renderli sospetti, per lasciarla sfuggire: è troppa l'avversione della carne e del sangue alla legge, perchè non s'estenda anche a quelli che la predicano, perchè non si desideri di poter dire ch'essi stessi non la seguono, e che quindi può tanto meno obbligar noi che l'ascoltiamo da loro. Ed è, in gran parte, quest'avversione, che ci move a rovesciare in biasimo di tutti il male che vediamo in alcuni di loro, a dire che nulla sarebbe più rispettabile del ministero, se ci fosse chi lo esercitasse degnamente, e a chiuder poi gli occhi quando ci si presenta chi degnamente lo eserciti, o a malignare sulle virtù che non possiamo negare. Quindi, se nella condotta zelante d'un prete non si può supporre avarizia, perchè la povertà volontaria e la generosità sono troppo evidenti, si spiega quella condotta col desiderio di dominare, di dirigere, di influire, di essere considerato. Se la condotta è tanto lontana dagli intrighi, tanto franca e tanto semplice, che non dia luogo neanche a quest'interpretazione, ci si suppone il fanatismo, lo zelo inquieto e intollerante. Se la condotta spira amore, tranquillità e pazienza, non resta più che attribuirla, a pregiudizi, a piccolezza di mente, a scarsezza di lumi: ultima ragione con la quale il mondo spiega ciò che è la perfezione d'ogni virtù e d'ogni ragionamento. Sì, ci sono dei preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali annunziano la vanità e il pericolo; dei preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero, e che si spogliano invece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso di repugnanza, e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare che presto l'apriranno per rimettere al povero quella moneta che è tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo, e sentono i suoi scherni sull'ingordigia dei preti; li sentono, e potrebbero alzar la voce, e mostrar le loro mani pure, e il loro core desideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma ( Mt 6,20 ), avaro solo della salute dei loro fratelli; ma tacciono, ma divorano le beffe del mondo, ma si rallegrano d'esser fatti degni di patir contumelia per il nome di Cristo ( At 5,41 ). Capitolo XI Delle indulgenze Ma le indulgenze gratuite furono considerate come le meno abusive, quelle cioè che, in forza delle concessioni di papi si ottengono con qualche atto esteriore di pietà: però non si saprebbe conciliarne l'esistenza con nessun principio di moralità. Quando, per esempio, si vedono duecento giorni d'indulgenza promessi per ogni, bacio dato alla croce che s'alza in mezzo al Colosseo, quando si vedono in tutte le chiese d'Italia tante indulgenze plenarie cosi facili a lucrarsi, come conciliare o la giustizia di Dio o la sua misericordia, con il perdono accordato a una si lieve penitenza, o con il castigo riservato a colui che non e in grado di acquistarlo con un mezzo sì facile? Qui si presentano naturalmente quattro questioni. 1° Cos'è l'Indulgenza ecclesiastica? 2° Ci può essere eccesso nelle concessioni d'indulgenze? 3° Le concessioni eccessive d'indulgenze vanno contro i princìpi della moralità? 4° Se non producono quest'effetto, qual effetto producono? Per risolvere queste questioni, in quanto è richiesto dall'argomento, non abbiamo a far altro che rammentare in compendio ciò che è insegnato universalmente nella Chiesa per l'istruzione dei fedeli che vogliono profittare dell'Indulgenze, e ciò che è deciso da essa, per la regola di quelli a cui è data dal suo divin fondatore la potestà di concederle. 1. Cos'è l'indulgenza ecclesiastica? Ne prendo la definizione dal catechismo della diocesi di Milano, che concorda con tutti i catechismi approvati dalla Chiesa. L'indulgenza è una remissione di penitenze o pene temporali, che rimangono da scontare per i peccati già rimessi quanto al reato della colpa e della pena eterna ». 2. Ci può essere eccesso nelle concessioni d'indulgenze? Senza dubbio: il IV concilio di Laterano e quello di Trento hanno parlato di quest'eccesso, e ne hanno o prescritti o indicati i rimedi. 3. Le concessioni eccessive d'indulgenze vanno contro i princìpi della moralità? No, di certo. La maniera di dispensar l'indulgenze, dice il Bossuet, riguarda la disciplina. Posto ciò, le concessioni eccessive saranno bensì un abuso; ma gli abusi di fatto non possono alterare i princìpi della moralità, i quali non appartengono alla disciplina, ma alla fede. Essendo ogni principio di moralità un domma, non può esser contradetto che da un errore dommatico. Vediamo ora, più in particolare, come i princìpi della moralità rimangano intatti, anche con ogni possibile eccesso di concessioni d'indulgenze. La cosa essenziale, in primo grado, a ristabilire la moralità dell'uomo caduto nella colpa, è la rettitudine, o piuttosto il raddirizzamento della volontà e, per conseguenza, dell'opere, quando e fin dove ci sia la possibilità d'operare. E questa cosa essenziale, l'indulgenza, non che essere un mezzo di farne di meno, la suppone e l'esige, poiché non è concessa se non a chi è stata rimessa la colpa, cioè all'uomo che sia in stato di grazia; parole che significano: amor di Dio e dei suoi comandamenti, dolore e detestazione dei peccati commessi, avversione al peccato di qualunque sorte, amor degli uomini senza eccezione, perdono dell'offese ricevute, riparazione dei torti fatti, adempimento di tutti i doveri essenziali, insomma la conformità dell'animo e dell'azioni alla legge divina. Dico cose note al cattolico, anche il più rozzo, purché sia capace di confessarsi; giacché l'assoluzione, per la quale il peccatore è rimesso in stato di grazia, non è data, o non é valida, se non a queste condizioni. E dico insieme cose che importano una moralità sconosciuta ai più acuti e profondi pensatori del gentilesimo; quella moralità manifestata dalla rivelazione, e che s'estende, come oggetto, a tutto il bene, e come regola, a tutto l'uomo. Con questa osservazione è levato di mezzo l'equivoco che potrebbe nascere da quelle parole: Come conciliare la giustizia di Dio col perdono accordato a una così debole penitenza? Le opere alle quali è annessa l'indulgenza, non servono punto a ottenere il perdono della colpa, per la quale il peccatore é riconciliato con Dio. Questo perdono è anzi, come s'è visto, un preliminare necessario all'acquisto dell'indulgenza; e si ttiene per quei mezzi eminentemente e soprannaturalmente morali, di cui s'è discorso in un capitolo antecedente. L'indulgenza dunque non s'applica, come s'è visto ugualmente, se non alla soddisfazione della pena porale, dovuta per il peccato alla giustizia divina, anche dopo rimessa la colpa, e la pena eterna. Ed è la Chiesa che insegna ( certo, non senza oppositori ) che al peccatore riconciliato rimane un tal debito; e mette per un'altra condizione essenziale al ristabilimento nelle stato di grazia ( cioè in uno stato di moralità soprannaturale ) il riconoscimento del debito medesimo, e il sincero e fermo proposito di scontarlo, per quanto possa, in questa vita, con opere penitenziali, sia ingiunte, sia liberamente scelte, e con l'accettar pazientemente i castighi temporali che gli possono essere mandati da Dio. Non già che le nostre opere abbiano alcun valore a ciò, né che noi possiamo, in maniera veruna, scontar di nostro il debito contratto con la giustizia infinita offesa da noi; ma i meriti infiniti dell'Uomo-Dio, i quali ci ottengono il perdono della colpa, sono anche quelli che danno alle nostre opere penitenziali un valore che le rende atte a scontarne la pena. E la Chiesa, o prescrivendo o proponendo alcune di queste opere, applica ad esse, in maniera particolare, un tal valore, per l'autorità conferitale da Quello stesso, da cui procede ogni merito. Ma intende forse, con questo, di restringere a tali opere tutto l'obbligo e tutto il lavoro della penitenza? Per immaginarsi una cosa simile, bisognerebbe non aver cognizione veruna del suo insegnamento su questa materia. Cito dinuovo, come un saggio di questo universale insegnamento il catechismo citato dianzi; il quale alla domanda: « Con quale spirito ho da procurare l'acquisto dell'indulgenze? risponde: Fate prima dalla parte vostra tutto ciò che potete per soddisfare a Dio coll'esercitarvi in ogni opera salutare, e massime in quelle di mortificazione e di misericordia verso i prossimi. Poi, conoscendo di non poter soddisfare abbastanza per i vostri peccati, né colle penitenze imposte dal confessore, né colle vostre spontanee, e ben sapendo di non aver tollerati colla debita pazienza e rassegnazione i flagelli, coi quali Dio v'ha amorosamente visitato a questo fine, procurate con ogni studio d'acquistar l'Indulgenze, profittando così dello spirito caritatevole della Chiesa nel dispensarle » Ed ecco come, col richiedere per condizioni indispensabili, la conversione del core, e il desiderio di soddisfare, per quanto si possa, alla giustizia divina, desiderio che non è sincero, se non s'accompagna con una vita penitente; ecco, dico, come, non solo l'indulgenza in genere, ma la più ampia indulgenza concessa alla più piccola opera si concilii con tutti i princìpi della moralità. Ma come conciliare la misericordia di Dio col castigo riservato a chi non è in caso di guadagnare il perdono per questa strada così facile? Si osservi che è quasi impossibile il caso di un fedele, a cui sia chiusa ogni strada di ricorrere all'indulgenze della Chiesa. Ma supponendo questo caso, la Chiesa è ben lungi dall'asserire che a questo fedele si riservi gastigo. Essa dispensa i mezzi ordinari di misericordia che Dio le ha confidati; ma è ben lungi dal voler circoscrivere questa misericordia infinita; dal pensare che Quel che leva e quando e cui gli piace non possa concedere la somma indulgenza al sommo desiderio d'ottenerla per mezzo della Chiesa, quando sia chiusa la strada di chiederla per questo mezzo. 4. Se le concessioni eccessive d'indulgenze non vanno contro i princìpi della moralità, qual altro effetto producono? Un effetto dannoso certamente, come tutti gli eccessi e non occorre affaticarsi a cercarlo, poiché ce lo indica il concilio di Trento. L'effetto è di snervare la disciplina. « Il Sacrosanto Sinodo desidera che, nel concedere l'indulgenze, s'usi moderazione, secondo la consuetudine antica e approvata dalla Chiesa, acciocché con la troppa facilità non si snervi la disciplina ecclesiastica ». Infatti, « essendo le pene soddisfattorie, come un freno al peccar dinuovo, e avendo l'efficacia di rendere i penitenti più cauti e vigilanti nell'avvenire … e di distruggere gli abiti viziosi con l'opposte azioni virtuose », come insegna il medesimo concilio; l'eccessiva diminuzione di queste pene, vien quasi a far loro perdere questo vantaggio; e la stessa ragione di previdente misericordia per cui sono imposte, non solo come espiazione, ma anche come rimedio e aiuto, consiglia la moderazione nel concederne la remissione. Ma l'eccesso si trova egli negli esempi citati e accennati dall'autore? Non tocca a me a deciderlo, ne importa qui il deciderlo, essendosi dimostrato come l'indulgenze s'accordino coi princìpi della moralità: che era appunto la questione. Non sarà invece fuor di proposito l'osservare un altro esempio d'accuse che si contradicono. Quella che s'è esaminata, cadeva sulla leggerezza delle penitenze imposte per soddisfare alla giustizia divina: accusa nella quale è supposto e l'obbligo che ne rimane al peccatore, anche riconciliato, e l'attitudine a ciò dell'opere penitenziali. Obbligo e attitudine, che furono dai novatori citati sopra, e da Calvino principalmente, dichiarati una vana immaginazione, anzi una esecrabile bestemmia, un rapire a Cristo l'onore che Gli appartiene d'esser Lui solo oblazione, espiazione, soddisfazione per i peccati. Rapir l'onore a Cristo, il dire che opere per sé morte, e patimenti sterili per l'eterna salute, possano, dalla sua gloriosa vittoria sopra il peccato, acquistar vita e virtù! Come se non fosse questo medesimo un confessar la sua infinita potenza, non meno che l'infinita sua bontà; o come se la Chiesa attribuisse a quell'opere e a quei patimenti altro valore che quello che hanno da Lui, nel quale viviamo, nei quale meritiamo, nel quale soddisfacciamo! Come se non fosse un effetto, dirò così, naturale dell'accordo operato dalla Redenzione, tra la giustizia e la misericordia, il commettere la vendetta dell'offesa all'offensore medesimo, e far della punizione un sacrifizio volontario! E si veda come la verità strascini qualche volta verso di se anche chi le volge risolutamente le spalle, e lo sforzi ad avvicinarsele, se non a riconoscerla intera qual è. Calvino medesimo, interpretando quel luogo di san Paolo: Do compimento nella mia carne a ciò che rimane dei patimenti di Cristo ( Col 1,24 ); dopo aver pronunziato che ciò non si riferisce a espiazione ne a soddisfazione di sorte veruna, ma a que' patimenti coi qtiali conviene che i membri di Cristo, ciac i fedeli, siano provati, finche rimangono nella carne, spiega così questo pensiero: Dice ( san Paolo ) che ciò che rimane dei patimenti di Cristo, e il patire che fa di continuo nei suoi membri, dopo aver patito una volta in se stesso. Di tanto onore Cristo ci fa degni, da riguardar come suoi i nostri patimenti! È Cristo che patisce nei suoi membri e questi patimenti rimangono sterili, e non hanno alcuna virtù d'espiare! Cristo si degna di riguardarli come suoi; e il Padre ne rigetta l'offerta, come ingiuriosa a Cristo! ed è una esecrabile bestemmia il dire che, per questa e per questa sola ineffabile degnazione, possono essere uniti coi suoi, e partecipar così del loro merito infinito! Del rimanente, anche quest'argomento dei novatori contro la dottrina cattolica non avrebbe forza che contro la loro, se n'avesse veruna. Infatti, per mantenere intero e illibato a Cristo l'Vonore che gli appartiene, dissero forse che la soddisfazione offerta da Lui alla giustizia divina, per i peccati, s'applichi da se a tutti i peccatori? Non già; ma ai soli giustificati, e giustificati per la loro fede nella promessa. E, cosa strana! non avvertirono mai, in dispute così lunghe, e in tanta ripetizione dello stesso argomento, che il credere è un atto umano, ne più ne meno dell'operare, e che, col farne una condizione riguardo all'effetto, facevano anch'essi dipendere, per una parte, dall'uomo, cioè da ogni uomo in particolare, l'esser quella soddisfazione applicata a lui: che era la sola cosa in questione; giacche l'efficacia intrinseca, la perfezione, la pienezza, la sovrabbondanza di essa non fu mai messa in questione nella Chiesa; per l'insegnamento della quale, ne avevano, di certo, avuta cognizione essi medesimi, prima di trovarla nelle Scritture. Quella condizione, dico, rapirebbe davvero l'onore a Cristo, se l'onor di Cristo dovesse consistere, com'essi pretesero, nel non lasciar nulla a fare all'uomo, al quale ha dato di poter tutto in Lui. La Chiesa, lontana del pari e dall'insegnare una cosa simile, e da n'attribuire all'uomo alcun onore che abbia principio da lui, riconosce da Cristo ugualmente e la fede e il valore dell'opere; e lo glorifica e lo benedice d'aver, col suo onnipptente sacrifizio, rinnovato tutto l'uomo, e fatto che, siccome tutte le facoltà di questo avevano potuto servire alla disubbidienza e alla perdizione, così potessero tutte diventare istrumento di riparazione e di merito. Capitolo XII Sulle cose che decidono della salvezza e della dannazione Il potere attribuito al pentimento, alle cerimonie religiose, alle itidulgenze, tutto contribuiva a persuadere il popolo che la salute, o la dannazione eterna, dipendono dall'assoluzione del prete; e questo fu forse il colpo più, funesto dato alla morale. Il caso, e non più la virtù, fu chiamato a decidere della sorte eterna dell'anima del moribondo. L'uomo più virtuoso, colui la cui vita era stata più pura, poteva essere colpito da morte improvvisa, nel momento in cui la collera, il dolore, la sorpresa, gli avevano strappata di bocca una di ( quelle parole profane, che l'abitudine ha reso così comuni, e che, per le decisioni della Chiesa non si possono pronunciare senza cadere in peccato mortale: allora la sua dannazione era eterna, perchè un prete non si era trovato presente per accogliere il suo pentimento, ed aprirgli le porte del cielo. L'uomo più perverso, più lordo di delitti, poteva, al contrario, provare uno di quei momentanei ritorni alla virtù, che non sono estranei ai cuori più depravati; poteva fare una buona confessione, una buona comunione, una buona morte, ed essere certo del Paradiso. Queste obiezioni ricadono, la più parte, sulla dottrina che è stata difesa o spiegata nel Capitolo IX; al quale, per conseguenza, ci rimettiamo. Qui non si farà altro che ragionare sopra alcune supposizioni. L'opinione erronea, che la salvezza e la dannazione eterna dipendano dall'assoluzione del prete, è sconosciuta in Italia, dove si tiene, come in tutta la Chiesa, che la salvezza dipenda dalla misericordia di Dio e dai meriti di Gesù Cristo applicati all'anima che ha conservata l'innocenza acquistata nel battesimo, o che l'ha recuperata con la penitenza. L'autorità del prete, d'assolvere dai peccati è tanto chiaramente fondata nelle parole del Vangelo, che ripeterle è attestarla a evidenza: Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete ( Gv 20,21 ). Ma nessuno ha mai inteso che dall'assoluzione dipenda la salvezza, in maniera che non possa sperarla chi è impossibilitato a ricevere quest'insigne beneficio. Oltre che l'uomo può conservare per tutta la vita l'innocenza, non commettendo alcuna di quelle colpe che lo rendono nemico di Dio ( e quantunque il mondo non li discerna, non sono cessati i giusti che ci passano senza partecipare alle sue opere ), la Chiesa insegna, e tutti i cattolici credono, che la penitenza a cui manca l'assoluzione, ma non il desiderio di essa, ne la contrizione, è accetta a Dio. Dando ai ministri l'autorità d'assolvere, avrebbe Egli mai voluto rendere in certi casi impossibile il perdono? e i doni fatti alla Chiesa possono mai essere a scapito della sua onnipotenza e della sua misericordia? e perchè si degna impiegare la mano dell'uomo, la sua ne sarà accorciata, sicché Egli non possa salvare quelli che ha convertiti a sé? Quando poi fosse nata questa falsa persuasione essa non poteva certo venire dalla prima, né dalla terza delle ragioni qui addotte. Non dal potere attribuito al pentimento, perchè questo potere renderebbe anzi meno necessaria l'assoluzione a un'anima già ritornata a Dio; non dal potere attribuito all'indulgenze, perchè, come già s'è dovuto parlarne, nessuno attribuì mai ad esse quello di salvare dalla dannazione eterna. Quanto alle cerimonie religiose, non ne parlo, non sapendo a quali precisamente si voglia qui alludere. La Chiesa è tanto lontana dal sospettare che il caso, e non la virtù, possa decidere della sorte eterna dell'anima del moribondo, che non conosce nemmeno questa parola caso ( hasard ). Non ripete dal caso né l'essere o no in stato di grazia, né il morire in un momento piuttosto che in un altro. Se l'uomo virtuoso cade in peccato, non è effetto del caso, ma della sua volontà pervertita; se more in peccato, è un terribile e giusto giudizio. La Chiesa non suppone che alcun peccato mortale sia compatibile con la conservazione della virtù: quindi se il giusto diventa peccatore, è appunto la virtù, cioè l'avere abbandonata la virtù, che decide della sorte dell'anima sua. La giustizia del giusto non lo libererà, in qualunque giorno pecchi. Ma non s'intende il vero spirito della Chiesa, non si dà nemmeno, mi pare, un'idea giusta della natura dell'uomo, se si suppone che decada così facilmente dalla giustizia realmente acquistata; se si vuol credere che la conseguenza naturale della vita più pura sia una morte impenitente e la dannazione eterna. Certo, il giusto può cadere: la Chiesa glielo rammenta, perchè vegli e perchè sia umile, perchè tema e perchè speri, perchè è una verità. Se non potesse cadere, sarebbe questa una vita di prova? Se non potesse esser vinto, dove sarebbe il combattimento? Se non avesse in tutti i momenti bisogno dell'aiuto divino, che? non dovrebbe più pregare. Ma la Chiesa vuol levare al giusto la presunzione, non la fiducia. Come! essa che non parla ai peccatori, che di conversione e di perdono, di penitenza e di consolazione, che rammemora loro i giorni felici che si passano nella casa del Padre, vorrebbe poi contristare gl'innocenti rappresentando il loro stato come uno stato senza fermezza e senza appoggio? La Chiesa, come già s'è dovuto osservare, non consiglia la speranza, ma la comanda. Dice a tutti operar la salute con timore e tremore ( Fil 2,2 ): ma dice anche che Dio e fedele, e non permetterà che siano tentati oltre il loro potere ( 1 Cor 10,13 ); ma non cessa di ripetere ai giusti, che chi ha principiata in loro l'opera bona, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù ( Fil 1,6 ). Le decisioni della Chiesa, che si cada in peccato mortale pronunziando certe parole profane che l'uso ha rese così comuni, non sono qui citate, né io le conosco: e bisognerebbe conoscerle per ragionarne. La Chiesa è tanto guardinga in queste distinzioni di peccati, il suo linguaggio è così castigato, che importerebbe molto di vedere come abbia potuto discendere a questi particolari, e trattarli con l'autorità e con la dignità che le conviene. A ogni modo, il giusto della Chiesa, nutrito dei pensieri santi e generosi dell'altra vita, avvezzo a vincer gl'impeti sensuali d'ogni sorte, intento a regolare con la ragione e con la prudenza ogni suo atto, il giusto della Chiesa ha la guardia alla bocca ( Sal 150,1 ). Nei tempi di calma e di silenzio delle passioni, fortifica l'animo contro la collera, contro il dolore; prega alfine d'esser sempre tanto presente a sé stesso, che non ci sia sorpresa per lui; se cade, ne prende argomento d'umiltà, e di nuova e più instante preghiera. Io non so chi possa insegnare che una di quelle parole profane distrugga il regno di Dio in un'anima; è però certo che, dove Dio regna, il linguaggio è puro e misurato, e che la Chiesa non vuole educare gli uomini ne a far ciò che un'abitudine qualunque abbia reso comune, né a servirsi d'espressioni appassionate, senza sapienza, senza scopo e senza dignità. Quanto poi al ritorno momentaneo dell'uomo perverso alla virtù, se n'é ragionato abbastanza, e forse troppo, nel Capitolo IX. Capitolo XIII Sui precetti della Chiesa Ciò non bastò. La Chiesa pose i suoi precetti accanto alla gran tavola delle virtù e dei vizi, la cui cognizione è stata scolpita nel nostro cuore. Essa non li avvalorò con una sanzione così formidabile come hanno fatto i comandamenti di Dio, essa non fece dipendere la salute eterna dalla loro osservanza; ma nel tempo stesso essa attribuì loro una potenza che non poterono ottenere le leggi della morale. L'omicida, ancora coperto del sangue poco prima versato, osserva divotamente la legge del magro, pur meditando un nuovo assassinio perchè più ogni uomo vizioso fu puntuale nell'osservare i precetti della Chiesa, più in cuor suo si sente dispensato dall'osservanza di quella morale celeste, a cui sarebbe necessario che sacrificasse le sue prave inclinazioni. Esaminiamo brevemente le due asserzioni preliminari; quindi parleremo delle relazioni di questi precetti ecclesiastici con le leggi della morale. 1° La Chiesa pretende di non dare un precetto che non prescriva un'azione per se virtuosa, che non sia un mezzo per purificare, elevare, santificare l'animo, per adempire insomma la legge divina. Se questo si nega, bisogna addurre i precetti o viziosi o indifferenti della Chiesa; se si concede, che cosa si può dire dell'aver essa messi i suoi precetti a fianco della gran tavola dei vizi e delle virtù? Che gli ha messi nell'ordine che conveniva. Che poi la cognizione della gran tavola delle virtù e dei vizi sia inserita nei nostri cori, è una questione incidente in questo luogo e, del rimanente, posta in termini non abbastanza chiari, come è per lo più di quelle che sono espresse per mezzo di metafore. Presa nel senso più ovvio, una tal proposizione parrebbe voler dire che l'uomo abbia dalla natura ( qualunque ne sia il mezzo e il modo ) una cognizione lucida, intera, inalterabile, di ciò che sia virtù e di ciò che sia vizio. Ammessa la qual cosa, ogni dottrina soprannaturale e rivelata, su questa materia, sarebbe superflua, e quindi falsa; e sarebbe quindi senza fondamento, come senza motivo, ogni precetto religioso: giacche, avendo ogn'uomo nel cor suo, quella gran tavola, a che prò, e con quale autorità, quelle medesime del Sinai? Ma una tale supposizione è apertamente rinnegata dal fatto, non meno che dalla rivelazione, come, se n'è discorso a lungo in un capitolo antecedente. Se, poi s'intende semplicemente, che ci sia nell'uomo, dotato com'è d'intelletto e di volontà, una potenza di discernere il bene e il male morale; potenza però non solo limitata di sua natura, ma ( d'onde che ciò sia avvenuto ) indebolita e guasta a segno, e di prender troppo spesso il male per bene, il bene per male, e d'attaccarsi al male, e rifuggire dal bene, anche conoscendoli, come il fatto purtroppo dimostra; e se si ammette insieme, che ci sia una religione istituita da Dio, appunto per dirigere e aiutar l'intelletto nel discernimento del bene e del male, e la volontà nella scelta; allora bisognerà dire che uno dei caratteri essenziali e indispensabili di questa religione, dev'essere il promulgare dei comandamenti, e promulgarli con un'autorità soprannaturale, come la sua origine. 2° E cosi ha fatto la Chiesa: ha muniti i suoi comandamenti della stessa sanzione che hanno i comandamenti di Dio, perchè è da Dio essa medesima; e facendo altrimenti, diffiderebbe dell'autorità conferitale da Colui che disse: Chi non ascolta la Chiesa sia riguardato come un pagano e un pubblicano ( Mt 18,17 ) E cosa sarebbero dei comandamenti senza sanzione? o qual altra sanzione si potrebbe dare a dei comandamenti che riguardano anche, anzi principalmente, la volontà? La Chiesa dunque fa dipendere, come s'è già detto altrove, la salvezza dall'osservanza dei suoi comandamenti, la trasgressione dei quali non può venire che da un cuore indocile e noncurante di quella vita, che è data a chi l'apprezza, a chi la sospira, a chi la cerca coi mezzi ordinati da Gesù Cristo. Questa è la sua dottrina perpetua, tanto manifesta e universale, che ogni cattolico può darne testimonianza quando si sia. Ma l'essenziale da esaminarsi è l'effetto attribuito a questi comandamenti, d'esser quasi un orribile supplemento alle leggi eterne della morale, una scusa per trasgredirle senza rimorso: questo è il punto di vista, è l'unico punto di vista dal quale sono osservati nel testo. Due cose sono qui da considerarsi: il fatto, e la dependenza di esso dai princìpi costitutivi della Chiesa. Il fatto è una parte importantissima di statistica morale. Ora ecco quali sono, al parer mio, le massime da aversi di mira, e le ricerche da farsi, per venire alla cognizione di esso. La religione non comanda che cose sante: credo questo punto fuori di controversia. Quindi la vera e intera fedeltà alla religione è incombinabile con qualunque delitto; quindi l'uomo che vuol esser vizioso, non potendo conciliare le sue azioni con la religione quale è, tende ad abbandonarla o ad alterarla, tende all'irreligione o alla superstizione. Nel primo caso, la sua avversione ai precetti che non vuole osservare lo porta a desiderare che siano mere finzioni umane; e la rabbia d'averli violati cambia qualche volta il desiderio in persuasione. Ma può anche cadere in un'altra specie d'accecamento. Sa che il delitto lo esclude dalla parte dei giusti; ma non può lasciar di credere alla promessa, e non ci vorrebbe rinunziare; si sforza di dimenticare che chi ha violato un precetto ha violata tutta la legge ( Gc 2,10 ), e vorrebbe esser fedele in quelle parti che non gl'impongono il sacrificio della sua più forte passione. Sa ancora che è un atto di dovere l'eseguire certi comandamenti; e eseguendoli si persuade confusamente di non esser affatto fuori dell'ordine, e di tenere ancora un piede nella strada della salvezza: gli pare di non essere affatto abbandonato da Dio, poiché fa alcuni atti che Dio gli comanda. E l'oscuramento della sua mente può qualche volta arrivare al segno ( poiché a che non va l'intelletto soggiogato dalle passioni? ) che quegli atti, quantunque scompagnati dall'amore della giustizia, gli paiano una specie d'espiazione; e prenda per un sentimento di religione quello che non é altro che un'illusione volontaria dell'empietà. Ora, per decidere se tra i delinquenti di mestiere in Italia sia più frequente il disprezzo della religione, o questa superstizione, ognuno vede quali ricerche converrebbe aver fatte: visitare le prigioni, vedere se coloro che ci stanno per gravi delitti nutrono sentimenti di rispetto per la Chiesa, o se ne parlano con derisione, chiederne a quelli che, per ufficio, gli esaminano e gli osservano, chieder ai parrochi ( qualora non si volesse averli per sospetti di parzialità ) se coloro che si sono abbandonati al mal vivere si distinguevano nell'osservanza dei precetti ecclesiastici; prendere insomma le più esatte informazioni. Le quali non essendo io in caso di prendere, non posso che esprimere un'opinione, quella che mi son fatta, per la tendenza che abbiamo tutti a formarci un giudizio generale sui fatti di uno stesso genere, quantunque le notizie che ne abbiamo non siano, né in quel numero, né di quella certezza che si richiederebbe a dimostrarne la verità. Sono dunque di parere, che, tra quelli che corrono in Italia la deplorabile carriera del delitto, ci sia, ai nostri giorni, poca o nessuna superstizione, e molta noncuranza, o ignoranza di tutte le cose della religione. E non basta a farmi rinunziare a questa opinione, che l'illustre autore abbia manifestata l'opposta; perchè, per quanto peso abbia la sua autorità, una decisione sopra un complesso di fatti non si riceve se non con molte prove e con molti ragionamenti. So bene che molti stranieri fanno un'eccezione per l'Italia, adottando senza esame tutto ciò che le si possa attribuire, in fatto di superstizione; ma non sono persuaso della bontà di questo metodo. Non pretendo quindi di proporre agli altri la mia opinione, ma la sottopongo al giudizio di quelli che hanno potuto fare delle osservazioni sufficienti su questo fatto. Quantunque però qui non si tratti di difendere l'Italia, ma la religione, non si può a meno di non protestar di passaggio contro l'interpretazione che potranno dare all'esempio addotto dall'autore quegli stranieri appunto che sono avvezzi a credere anche al di là del male che loro vien detto di questa povera Italia; e i quali, sentendo parlare d'assassini che mangiano di magro, potranno farsi subito l'idea, che l'Italia sia piena d'uomini che vivano così tra il sicario e il certosino. Se mai, per un caso strano, questo libricciolo capitasse alle mani d'alcuno di loro, vedano se è troppa pretensione il chiedere che si facciano dell'altre ricerche, prima di formarsi una tale idea d'una nazione. Ma, per venire alla relazione di questi fatti coi princìpi della Chiesa, l'impressione che, per l'onore della verità e della religione, importa sopra tutto di distruggere, è quella che può nascere contro i precetti della Chiesa e contro il suo spirito, dal veder questi precetti presentati come in contrasto con le leggi della morale; dal veder messi insieme astinenza e assassinio, e ( negli altri esempi che ho creduto inutile di trascrivere ), culto dell'immagini e libertinaggio, digiuno ecclesiastico e spergiuro, come se queste cose fossero in certo modo cause e effetti; dal veder supposta nel cuore dell'uomo vizioso quasi una progressione parallela di fedeltà ai precetti ecclesiastici, e di scelleratezza. No, non c'è alcuna connessione tra queste cose; sono idee e nomi repugnanti; non c'è lato per cui si tocchino, c'è tra di esse la distanza che separa il bene dal male. No, la Chiesa non ha mai proposti i suoi precetti in sostituzione delle leggi della morale: non si potevano ideare precetti che fossero più conducenti alla vera, all'intera, all'eterna morale: credersi dispensato da essa, osservando esteriormente alcuni di quei precetti, non può essere nella mente del cristiano che una demenza irreligiosa; e una demenza di questo genere dev'essere sempre stata rara. Perchè, altro è che degli uomini perversi, calpestando quei gravissimi comandamenti, dai quali dipende la conservazione del viver sociale, abbiano mantenuta una fedeltà esteriore a quelli che sono dati dalla Chiesa per facilitare l'adempimento d'ogni giustizia; altro è che questa fedeltà stessa gli abbia incoraggiti a calpestare i primi. Hanno osservata la parte più facile della legge; hanno commesse quelle sole colpe che non sapevano rifiutare alle loro inclinazioni corrotte; non hanno aggiunto il disprezzo d'alcuni precetti alla violazione degli altri, perchè questo disprezzo non aveva per loro un'attrattiva bastante da farli diventar rei anche in questo: ecco tutta la storia del loro, animo. Che se c'è pure l'uomo vizioso che si senta dispensato dalla morale quanto più e regolare nell'osservare i comandamenti della Chiesa, si trovi nelle massime e nei precetti della Chiesa il fondamento di questo suo sistema, s'indichi in essi il punto donde s'è mosso per arrivare a un tale delirio; si dica quali istituzioni potrebbero esser atte a ritenere nell'ordine una mente e un cuore, quali si suppongono a quest'uomo. L'assassino mangia di magro con divozione! Ah! quanto è lontano questo sentimento, che riunisce il sacrificio e l'amore, dal cuore dove è risoluta la morte di un fratello! Egli mangia di magro! Ma quando la Chiesa gli ha detto: sii temperante, rinunzia in certi giorni a certi cibi, per vincere la bassa inclinazione della gola, per mortificare il tuo corpo, gli ha poi soggiunto: e con questo tu potrai uccidere? O perchè c'è chi vuol esser omicida, la Chiesa non comanderà a tutti d'essere astinenti? Non imporrà più delle penitenze, per timore d'incoraggiare al peccato? Cosa importa che due comandamenti siano diversi, quando non si contradicono? È impossibile figurarsi una morale, una regola di vita, in cui non ci siano dell'obbligazioni di vario genere e di diversa importanza: la morale perfetta sarà quella in cui tutte l'obbligazioni vengano da un principio, siano dirette a un solo fine, e questo sia santissimo: e tale appunto è la morale della Chiesa. È egli poi da credersi che questo fine la Chiesa non l'ottenga mai? Nel testo che osserviamo non è accennata che una delle possibili relazioni dei comandamenti ecclesiastici con la morale; l'osservanza di questi combinata con la persistenza nel delitto. Un complesso di discipline meditate, promulgate, venerate da una società come la Chiesa, non meriterebbe attenzione, se non per l'ubbidienza di qualche omicida, di qualche prostituta, di qualche spergiuro! I cattolici virtuosi non sono dunque osservatori dei comandamenti? O se lo sono, una tale osservanza non avrà alcun effetto sulla loro condotta? Ne l'astinenza così efficace a liberar l'animo dalle tendenze sensuali; ne il culto dell'immagini, che, per applicarlo alle cose celesti, si prevale della prepotenza stessa dei sensi, così forte per sé a sviamelo; né l'ubbidienza volontaria e dignitosa che, facendo preferire ciò che é prescritto a ciò che si sceglierebbe, avvezza mirabilmente l'uomo a comandare a sé stesso, non produrebbero mai gli effetti avuti in mira dal legislatore, e così connaturali a tali cagioni! Non ci sarebbe cattolico che fosse più fedele a quella morale celeste alla quale si devono sacrificare l'inclinazioni corrotte, quanto più è regolare nell'osservare i comandamenti della Chiesa! Ma il mondo stesso attesta che ce ne sono, se non altro col ridersi dei loro scrupoli; il mondo che li compatisce ugualmente per il timore che hanno di far danno a qualcheduno con un fatto o con una parola, di mancare a un piccolo dovere di carità, come per quello di far uso d'un cibo proibito. Levate i comandamenti della Chiesa; avrete meno delitti? No, ma avrete meno sentimenti religiosi, meno opere independenti da impulsi e da fini temporali, e dirette all'ordine di perfezionamento per cui l'uomo è creato, a quell'ordine che avrà il suo compimento nell'altra vita, e verso il quale ognuno è tenuto d'avanzarsi nella presente. La storia è piena di scellerati ch'erano ben lontani dall'osservare questi comandamenti. e dal praticare alcun atto di pietà. Gli esempi che ci si trovano, d'una vita mescolata d'azioni perverse e d'atti di religione mossi da un sentimento qualunque, e non da fini umani, hanno una celebrità particolare. E con ragione; perchè l'unione di cose tanto contrarie, come perversità e pratiche cristiane, la durata d'un certo rispetto a quella religione, che non comanda se non il bene, in un cuore che sceglie di fare il male, è sempre una contradizione notabile, un tristo fenomeno di natura umana. Luigi XI onorava superstiziosamente, come dice il Bossuet, un'immagine della Madonna: chi non lo sa? Ma se Luigi XI, come per furore di dominare, violò tante leggi divine e ecclesiastiche, d'umanità, di giustizia e di buona fede, fosse anche diventato trasgressore di tutte le leggi puramente ecclesiastiche, è da credere che sarebbe diventato migliore per questo? Avrebbe perduto un incoraggimento al male, o non forse un ultimo ritegno? Non avrebbe con ciò forse votato il suo cuore d'ogni sentimento di pietà, d'ordine, di suggezione, di fratellanza? Alcuni storici asseriscono che facesse avvelenare il duca di Guienne suo fratello; e si racconta che sia stato sentito chiederne perdono a quell'immagine. La qual cosa non proverebbe altro, se non che la vista d'un'immagine sacra risvegliava in lui il rimorso; ch'egli si trovava in quel momento trasportato alla contemplazione d'un ordine di cose, in cui l'ambizione, la ragione di stato, la sicurezza, l'offese ricevute, non scusano i delitti; che davanti all'immagine di quella Vergine, il di cui nome desta i sentimenti più teneri e più nobili, sentiva cos'è un fratricidio. Se c'è, tra cento, qualche omicida che mangi di magro, ebbene è un uomo che spera ancora nella misericordia; avrà qualche misericordia nel cuore. È un resto di terrore dei giudizi di Dio, è un lato accessibile al pentimento, una rimembranza di virtù e di cristianesimo. Lo sciagurato pensa qualche volta che c'è un Dio di ricompense e di castighi: se risparmia un supplichevole, se fa volontariamente qualche tregua ai suoi delitti, e soprattutto se un giorno ritorna alla virtù, è a questo pensiero che si dovrà attribuirlo. Dobbiamo qui prevenire un'obiezione. La superstizione che fa confidare nell'adempimento di certi precetti, o nell'uso di certe pratiche pie, come supplimento ad altri doveri essenziali, è un argomento frequentissimo di lagnanza e di rimprovero nell'istruzioni dei pastori cattolici: il male, si dirà, esiste dunque, ed è molto comune. Per sentire la gran differenza che passa tra il male che questi combattono, e quello di cui s'è parlato finora, bisogna distinguere due gradi o, per dir meglio, due generi di bontà: quella di cui si contenta il mondo, e quella voluta dal Vangelo, e predicata dai suoi ministri. Il mondo, per il suo interesse e per la sua tranquillità, vuole degli uomini che s'astengano dai delitti ( senza rinunziare ad approvar quelli che possano giovare ad alcuni ), e esercitino virtù utili temporalmente agli altri: il Vangelo vuol questo e il cuore. Non sono i disordini evitati, ma bensì le virtù del Vangelo praticate, che costituiscono i cristiani: non sono i costumi irreprensibili agli occhi degli uomini, ma e lo spirito di Gesù Cristo Crocifisso. È contro la mancanza di questo spirito che declamano i preti cattolici, e contro la persuasione che possa esser supplito da pratiche esterne di religione; che vivendo per il mondo, e non si curando o non ricordandosi del fine soprannaturale che deve animare l'azioni del cristiano, s'abbia ragione di credersi tale per il semplice adempimento di certi precetti, i quali non hanno valore che dal cuore. Ma quelli a cui sono rivolti questi rimproveri, son uomini dei quali il mondo non ha che dire; sono i migliori tra i suoi figli. E se la Chiesa non è contenta di loro, è perchè mira a un ordine di santità che il mondo non conosce; è perchè, non avendo altro interesse che la salute degli uomini, vuole le virtù che perfezionano chi le esercita, e non solamente quelle che sono utili a chi le predica. Non basta alla Chiesa che gli uomini non s'uccidano tra di loro; vuole che abbiano un core fraterno l'uno per l'altro, vuole che s'amino in Gesù Cristo: davanti ad essa nulla può supplire a questo sentimento; ogni atto di culto che venga da un core privo di carità, è ai suoi occhi, superstizioso e menzognero. Ma la superstizione che concilia l'omicidio e lo spergiuro con l'ubbidienza ai precetti, è una mostruosità che, ardirei dire, non ha bisogno d'esser combattuta. Che se pure se ne incontrasse qualche esempio, quali riflessioni utili ci si potrebbero far sopra? qual sentimento dovrebbero ispirare i precetti della Chiesa, quand'anche li vedessimo scrupolosamente osservati dall'uomo più reo? Si può indicarlo con piena fiducia, perchè c'è stato insegnato da chi non può errare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, che pagate la decima della menta e dell'aneto e del cumino, e avete trascurato il più essenziale della legge, la giustizia, e la misericordia, e la fede. Così rimproverava il Figliuolo di Dio: e qual contrasto tra l'importanza dei precetti disprezzati e degli eseguiti! Ma si veda qual è l'insegnamento che dà a quegl'ingannati. Non mostra di disprezzare il piccolo comandamento ( anzi lo scrupolo minuto nell'adempimento di esso ), quantunque lo metta a confronto di ciò che la legge ha di più grave: anzi, perchè la considerazione della giustizia, della misericordia e della fede non faccia concepire noncuranza per quello; perchè si veda che il male sta nella trasgressione e non nell'ubbidienza, che tutto ciò che è comandato è sacro, che tutto ciò che è pio è utile, aggiunge: Queste cose bisognava fare, senza ometter quelle ( Mt 23,23 ). Capitolo XIV Della maldicenza La morale propriamente detta non ha tuttavia mai cessato d'essere l'oggetto delle predicazioni della Chiesa; ma l'interesse sacerdotale nell'Italia moderna ha corrotto tutto quello che ha toccato. La reciproca benevolenza è il fondamento delle virtù sociali; il casista, nel ridurla a precetto, ha dichiarato che si pecca dicendo male del prossimo; ha impeedito a ciascheduno d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; ha imposto silenzio alla voce della verità; ma avvezzando in tal modo a considerare le parole come non esprimenti il pensiero, non ha fatto che accrescere la segreta diffidenza di ciascun uomo a riguardo di tutti gli altri. La dottrina che proibisce di dir male del prossimo, è tanto manifestamente della Chiesa, che, in questo, i casisti che l'hanno professata, possono francamente chiamarla mallevadrice. Che se alla Chiesa si domandano le ragioni che l'hanno determinata a farne un precetto, risponderà che non l'ha fatto, ma l'ha ricevuto; che, oltre all'esser consentaneo a tutta la dottrina evangelica, questo precetto è intimato espressamente e spesso nei due Testamenti. Eccone, per brevità, una sola prova: Non vi ingannate … i maledici non possederanno il regno di Dio ( 1 Cor 6,9-10 ). Ma questa sentenza ha ella bisogno d'esser giustificata? E chi vorrebbe sostener la contraria? Un carico le vien fatto qui; ed è che impedisce a ciaschechmo d'esprimere il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio; impone silenzio alla verità, e accresce la diffidenza tra gli uomini. Ma l'illustre autore non vorrà certo che si consideri da un lato solo una questione complessa e multiforme. Quand'anche un precetto fosse d'ostacolo a qualche bene, è giusto di pesare tutti i suoi effetti, e di mettere in bilancia il male che previene: perchè sarebbe troppo singolare che una proibizione, la quale ha per oggetto di portar gli uomini a risparmiarsi l'uno con l'altro, non fosse d'impedimento che a cose utili. L'amore della verità, il desiderio di fare un giusto discernimento tra la virtù e il vizio, sono forse il motivo principale e comune che determina a dir male del prossimo? E l'effetto ordinario ne è forse di mettere la verità in chiaro, la virtù in onore, e il vizio in abbominazione? Un semplice sguardo alla società ci convince subito del contrario, facendoci vedere i veri motivi, i veri caratteri e gli effetti comuni della maldicenza. Perchè, nei discorsi oziosi degli uomini, dove la vanità di ciascheduno, che vorrebbe occupare gli altri di se, trova un ostacolo nella vanità degli altri che tendono allo stesso fine; dove si combatte destramente, e qualche volta a forza aperta, per conquistare quell'attenzione che si vorrebbe così di rado accordare; perchè riesce tanto facilmente a conciliarsela colui che, con le prime parole, annunzia che dirà male del prossimo? se non perchè tante passioni se ne promettono un tristo sollievo? E quali passioni! È l'orgoglio, che tacitamente ci fa supporre la nostra superiorità nell'abbassamento degli altri, che ci consola dei nostri difetti col pensiero che altri ne abbiano dei simili o dei peggiori. Miserabile traviamento dell'uomo! Bramoso di perfezione, trascura gli aiuti che la religione gli offre a progredire verso la perfezione assoluta, per la quale è creato, e s'agita dietro una perfezione comparativa; anela, non a esser ottimo, ma a esser primo; vuol paragonarsi, e non divenire. È l'invidia, inseparabile dall'orgoglio, l'invidia che si rallegra del male come la carità del bene, l'invidia che respira più liberamente quando una bella riputazione sia macchiata, quando si provi che c'è qualche virtù o qualche talento di meno. È l'odio, che ci rende tanto facili sulle prove del male: è l'interesse che fa odiare i concorrenti d'ogni genere. Tali e simili sono le passioni per le quali è così comune il dire e l'ascoltare il male: quelle passioni che spiegano in parte il brutto diletto che l'uomo prova nel ridere dell'uomo e nel condannarlo, e la logica indulgente e facile sulle prove del male, mentre spesso s'istituisce un giudizio così severo prima di credere una bona azione o l'intenzione retta e pura d'una bona azione. Non c'è da maravigliarsi che la religione non sappia che fare, di queste passioni, e di ciò che le mette in opera: materiali fradici e repugnanti a ogni connessione, come entrerebbero nell'edifizio d'amore e d'umiltà, di culto e di ragione, ch'essa vuol innalzare nel core di tutti gli uomini? C'è nella maldicenza un carattere di viltà che la rende simile a una delazione segreta, e fa risaltare anche da questa parte la sua opposizione con lo spirito del Vangelo, che è tutto franchezza e dignità, che abbomina tutte le strade coperte, per le quali si nuoce senza esporsi; e che, nei contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizia, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio. ( Lc 17,3 ) Il censurare gli assenti è le più volte senza pericolo di chi lo fa; sono colpi dati a chi non si può difendere; è non di rado un'adulazione, tanto più ignobile quanto più ingegnosa, verso chi ascolta. Non parlerai male di un sordo, è una delle pietose e profonde prescrizioni mosaiche: e i moralisti cattolici che l'applicarono anche all'assente, hanno fatto vedere che entravano nel vero spirito d'una religione, la quale vuole che quando uno è costretto a opporsi, lo faccia conservando la carità, e fuggendo ogni bassa discortesia. La maldicenza, si dice da molti, è una specie di censura che serve a tenere gli uomini nel dovere. Sì, come un tribunale composto di giudici interessati contro l'accusato, dove l'accusato non fosse ne confrontato, ne sentito, dove chi volesse prendere le sue difese fosse per lo più scoraggito e denso, dove per lo più tutte le prove a carico fossero fatte buone; come un tal tribunale sarebbe adattato a diminuire i delitti. È una verità troppo facile a osservarsi, che si presta fede alle maldicenze sopra argomenti che, se s'avesse un interesse di esaminarne il valore, non basterebbero a produrre nemmeno una piccola probabilità. La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta; e per lo più anche chi n'è l'oggetto. Quando colpisce un innocente ( e per quanto sia grande il numero dei falli, quello dell'accuse ingiuste è superiore di molto ), qual tentazione non è questa per lui! Forse, percorrendo a stento la strada erta della probità, si proponeva per fine l'approvazione degli uomini, era pieno di quell opinione, tanto volgare quanto falsa, che la virtù è sempre conosciuta e apprezzata: vedendola sconosciuta in sé, principia a credere che sia un nome vano; l'animo suo, nutrito dell'idee ilari e tranquille d'applauso e di concordia, principia a gustare l'amarezza dell'odio; allora l'instabile fondamento sul quale era stabilita la sua virtù, cede facilmente: felice lui, se questo invece gli fa pensare che la lode degli uomini non è ne una mercede sicura, né la mercede. Ah! se la diffidenza regna tra gli uomini, la facilità del dir male ne é una delle principali cagioni. Colui che ha visto un uomo stringere la mano a un altro, col sorriso dell'amicizia sulle labbra, e che lo sente poi farne strazio dietro le spalle, come non sarà portato a sospettare che in ogni espressione di stima e d'affetto, possa esser nascosta un'insidia? La fiducia crescerebbe al contrario, e con essa la benevolenza e la pace, se la detrazione fosse proscritta: ognuno che, abbracciando un uomo, potesse star sicuro di non esser l'oggetto della sua censura e della sua derisione, lo farebbe naturalmente con un più puro e più libero senso di carità. Si crede da molti, che la repugnanza a supporre il male nasca da eccessiva semplicità o da inesperienza; come se ci volesse una gran perspicacia a supporre che ogni uomo, in ogni caso, scelga il partito più tristo. E, invece, la disposizione a giudicare con indulgenza, a pesare l'accuse precipitate, e a compatire i falli reali, richiede l'abitudine della riflessione sui motivi complicatissimi che determinano a operare, sulla natura dell'uomo e sulla sua debolezza. Quello a cui vien riferita la mormorazione fatta contro di lui ( e i rapportatori sono la discendenza naturale dei maledici ), ci vede spesso un'ingiustizia che lui solo può conoscere, ma della quale tutti possono, e quindi tutti devono, riconoscere il pericolo. Ha operato in circostanze delle quali lui solo abbraccia il complesso: il censore non se n'è fatto carico, ha giudicato nudamente un fatto con delle regole di cui non può giustamente misurare l'applicazione; forse biasima un uomo, solamente perchè non ha fatto ciò che farebbe lui, forse perchè non ha le sue stesse passioni. E quand'anche il censurato sia costretto a confessare a sé stesso che la maldicenza è affatto esente da calunnia, non ne è portato per lo più al ravvedimento, ma allo sdegno; non pensa a riformarsi, ma si volge a esaminare la condotta del suo detrattore, a cercare in quella un lato debole e aperto alla recriminazione: l'imparzialità è rara in tutti, ma più negli offesi. Così si stabilisce una miserabile guerra, una continua faccenda nell'esaminare e propalare i difetti altrui, che accresce la noncuranza dei propri. Quando poi gl'interessi ci mettono a fronte l'uno dell'altro, qual maraviglia che l'ire e le percosse siano così pronte, che ci facciamo tanto male a vicenda? L'averne tanto pensato e tanto detto, ci ha preparati a ciò; siamo avvezzi a non perdonarci nel discorso, a godere dell'abbassamento altrui, a straziare quegli stessi coi quali non abbiamo contrasti; trattiamo gli sconosciuti come nemici: come mai ci troveremo tutto ad un tratto disposti alla carità e ai riguardi nei momenti appunto che la cosa è più diffìcile, e richiede un animo che ci sia esercitato di lunga mano? Perciò la Chiesa, che vuol fratellanza, vuole anche uomini che non pensino il male, che ne gemano quando lo vedono, che parlino degli assenti con quella delicata attenzione che l'amor proprio ci fa ordinariamente usare verso i presenti. Per regolare l'azioni, frena le parole, e, per regolar queste, mette la guardia al cuore. Si separano spesso, e si condannano due specie di prescrizioni religiose, che si dovrebbero invece mettere insieme e ammirare. Della prima specie è la preghiera continua, la custodia dei sensi, il combattimento perpetuo contro ogni attacco eccessivo alle cose mortali, il riferir tutto a Dio, la vigilanza sul primo manifestarsi d'ogni sentimento disordinato, e altre tali. Di queste si dice che sono miserie, vincoli che restringono l'animo senza produrre alcun effetto importante, pratiche claustrali. Della seconda specie sono le prescrizioni dure, ma giuste e inappellabili, che in certi casi richiedono dei sacrifici ai quali il senso repugna, dei sacrifizi che chiamiamo eroici, per dispensarci dall'esaminare se non siano doverosi. E a queste s'oppone che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere cose perfette da una natura debole. Ma la religione, appunto perchè conosce la debolezza di questa natura che vuol raddirizzare, la munisce di soccorsi e di forza; appunto perchè il combattimento è terribile, vuole che l'uomo ci si prepari in tutta la vita; appunto perchè abbiamo un animo che una forte impressione basta a turbare, che l'importanza e l'urgenza d'una scelta confondono di più, mentre gli rendono più necessaria la calma; appunto perchè l'abitudine esercita una specie di dominio sopra di noi, la religione impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente. La religione è stata, fino nei suoi primi tempi, e dai suoi primi apostoli, paragonata a una milizia. Applicando questa similitudine, si può dire che chi non vede o non sa apprezzare l'unità delle sue massime e delle sue discipline, fa come chi trovasse strano che i soldati s'addestrino ai movimenti della guerra, e ne sopportino le fatiche e le privazioni, quando non ci sono nemici. Le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti: non fanno nulla per educar l'animo al bene difficile, prescrivono solo azioni staccate, vogliono spesso il fine senza i mezzi; trattano gli uomini come reclute, alle quali non si parlasse che di pace e di divertimenti, e che si conducessero alla sprovvista contro dei nemici terribili. Ma il combattimento non si schiva col non pensarci; vengono i momenti del contrasto tra il dovere e l'utile, tra l'abitudine e la regola; e l'uomo si trova a fronte una potente inclinazione da vincere, non avendo mai imparato a vincere le più fiacche. Sarà forse stato avvezzo a reprimerle per motivi d'interesse, per una prudenza mondana; ma ora l'interesse è appunto quello che lo mette alle prese con la coscienza. Gli è stata dipinta la strada della giustizia come piana e sparsa di fiori; gli è stato detto che non si trattava se non di scegliere tra i piaceri, e ora si trova tra il piacere e la giustizia, tra un gran dolore e una grande iniquità. La religione, che ha reso il suo allievo forte contro i sensi, e guardingo contro le sorprese, la religione, che gli ha insegnato a chieder sempre dei soccorsi che non sono mai negati, gl'impone ora un grande obbligo, ma l'ha messo in caso di adempirlo; e avergli chiesto un gran sacrifizio, sarà un dono di più che gli avrà fatto. La religione, chiedendo all'uomo cose più perfette, chiede cose più facili; vuole che arrivi a una grand'altezza, ma gli ha fatta la scala, ma l'ha condotto per mano: le filosofie umane, contentandosi che tocchi un punto molto meno elevato, pretendono spesso di più; pretendono un salto che non è della forza dell'uomo. Credo di dover dichiarare che sono lontano dal pensare che l'illustre autore non veda gl'inconvenienti della maldicenza, e voglia quasi farne l'apologia; ma ho dovuto mostrare che è eminentemente evangelico e morale l'insegnamento della Chiesa, che dir male del prossimo è peccato. Ma il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio, vuol forse impedirlo? No, certamente: vuol impedire le superbe, leggere, ingiuste, inutili accuse, il giudizio dell'intenzioni, nelle quali Dio solo vede anche ciò che è sentito confusamente nel cuore stesso dove si formano; ma il testimonio dell'azioni, vuol regolarlo, non levarlo di mezzo; lo comanda anzi quasi in tutti i casi in cui non lo condanna, cioè quando non ci porti a darlo la voglia di deprimere o di disonorare, ma dovere d'uficio o di carità; quando si tratti di preservare il prossimo dall'insidie dei maligni; quando insomma sia richiesto da giustizia e da utilità. Certo, in questi casi, è necessaria tutta la prudenza cristiana, ma la religione c'insegna i mezzi d'ottenerla. Con essa l'uomo può governarsi nelle difficili circostanze, nelle quali il parlare e il tacere hanno qualche apparenza di male; in cui si deve opporsi a un maligno, e nello stesso tempo potersi render testimonianza di non esserci condotti da malignità. Il gemito dell'ipocrita che sparla di colui che odia, le proteste che fa d'essere addolorato dei difetti dell'uomo che denigra, di parlar per dovere, sono un doppio omaggio e alla condotta e ai sentimenti che la religione prescrive. La Chiesa è tanto aliena dall'imporre silenzio alla voce della verità, quando sia mossa dalla carità; è tanto aliena dal trascurare alcun mezzo per cui gli uomini possano migliorarsi a vicenda, che condanna i rispetti umani. E quest'espressione medesima è sua; è una di quelle che il mondo non avrebbe sapute trovare, perchè intende e accenna un obbligo e un motivo soprannaturale di non tacer la verità in certi casi. Così ha prevenuto l'animo debole contro il terrore che la forza, che la moltitudine, che la derisione, che il possesso delle dottrine mondane, gli sogliono incutere, così ha resa libera la parola in bocca all'uomo retto. Essa ha anche comandata la correzione fraterna: mirabile tempra di parole, in cui, all'idea di correzione, che urta tanto il senso, è unita immediatamente l'idea di fraternità, che rammenta i fini d'amore, e la comune debolezza, e la disposizione a ricever la correzione in chi la fa agli altri. La Chiesa non impedisce alcuno dei vantaggi che possono venire dalla sincera e spassionata espressione della verità, e dal fondato e giusto discernimento tra la virtù e il vizio. Mi si permetta di collocar qui una riflessione che è sottintesa in molti luoghi di questo scritto, e che sarà espressamente riprodotta e svolta in qualche altro. Ogni qual volta si crede trovare nella religione un ostacolo a qualche sentimento o a qualche azione o a qualche istituzione giusta e utile, generosa e tendente al miglioramento sociale, si troverà, esaminando bene, o che l'ostacolo non esiste, e la sua apparenza era nata dal non avere abbastanza osservata la religione, o che quella cosa non ha i caratteri e i fini ch'era parso alla prima. Oltre l'illusioni che possono venire dalla debolezza del nostro intendimento, c'è una continua tentazione d'ipocrisia, dirò così, verso noi medesimi, dalla quale non sono esenti gli animi più puri e desiderosi del bene; di una ipocrisia che associa subito l'idea di un bene maggiore, l'idea di una inclinazione generosa ai desideri delle passioni predominanti: dimanierachè ognuno, chiamando a esame se stesso, non può qualche volta esser certo dell'assoluta rettitudine dei fini che lo movono; non può discernere che parte ci abbia, o l'orgoglio o la prevenzione. Se allora condanniamo le regole della morale perchè ci paiono più corte dei nostri ritrovati, serviamo a dei sentimenti riprovevoli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, o che forse combattiamo in noi; ma che non s'estinguono interamente in questa vita. S'osservi finalmente che, se l'aumento della diffidenza fosse un effetto della proibizione di parlar male, siccome questa proibizione è intimata in tutto il mondo cattolico, così ne verrebbe, o che la diffidenza ne è accresciuta pertutto, o che in Italia i precetti sono più osservati che altrove: la qual cosa sarebbe invece un indizio d'un migliore stato morale. Io non so se noi Italiani siamo più diffidenti degli altri Europei; so che ci lamentiamo di non esserlo abbastanza; so che ( come, del resto, tutte l'altre nazioni ) diciamo invece di peccare di troppa credulità e buona fede. Se però la diffidenza fosse universale tra di noi, mi pare che converrebbe darne la colpa a tutt'altro che al non mormorare; giacché siamo lontani dall'aver perduta quest'abitudine. Capitolo XV Sui motivi dell'elemosina La carità è la virtù per eccellenza del Vangelo; ma il casista ha insegnato a dare al povero per il bene dell'anima propria, e non per sollevare il suo simile. Dare al povero per il bene dell'anima propria, non è suggerimento di casisti, ma insegnamento della Chiesa. Escludere dall'elemosina il fine di sollevare il prossimo, è un raffinamento anti-cristiano, il quale non so se sia mai stato dottrinalmente insegnato da alcuno: ma credo che non ce ne sia vestigio in Italia. Per ciò che riguarda il proporsi, in quella come in ogn'altra opera, il bene dell'anima propria, la Chiesa non fa altro che insegnare ciò che ha imparato dal suo Fondatore. E non c'è forse nel Vangelo verun altro precetto, al quale vada così spesso unita la promessa della ricompensa. Nel Vangelo, l'elemosina è un tesoro che uno s'ammassa nel cielo: è un amico che ci deve introdurre nei padiglioni eterni; nel Vangelo, il regno è promesso ai benedetti del Padre, i quali avranno satollati, vestiti, ricoverati, visitati coloro, che il Re, nel giorno della manifestazione gloriosa, non sdegnerà di chiamare suoi fratelli ( Mt 19,21 ), memore d'avere avute comuni con loro le privazioni e i patimenti, d'esser passato, anche lui, come uno sconosciuto, davanti agli sguardi distratti dei fortunati del mondo. « Tutta la Scrittura parla cosi: Non avrà bene chi non fa elemosina ( Sir 12,3 ). Che più? le parole stesse che qui si dannò come un insegnamento di casisti, sono quelle della Scrittura: il misericordioso fa del bene all'anima sua ( Pr 19,17 ). Questo motivo va unito a tutti i comandamenti: la sanzione religiosa non si fonda che su di esso. Dopo di ciò, non c'è bisogno certamente di giustificare, su questo punto, la dottrina della Chiesa. Non sarà però fuori di proposito l'osservare come una tale dottrina sia superiore bensì, ma insieme consentanea alla ragione, e quanto sia opposto ad essa il supporre che il motivo d'una ricompensa, di qualunque genere sia, possa, per sé, detrarre alla perfezione e al merito dell'azioni virtuose. Illusione, nella quale sono caduti anche degl'ingegni tutt'altro che volgari; e dalla quale, se è lecito il dirlo, è venuto il rimprovero fatto dall'illustre autore all'insegnamento cattolico sui motivi dell'elemosina. La virtù, si dice, è tanto più pura, più nobile, più perfetta, quanto più è disinteressata. Sentenza verissima, quando alla parola « disinteresse » s'applichi un concetto giusto e preciso. Per disinteresse s'intende in astratto, e un poco in confuso, la disposizione a rinunziare a delle utilità. E cos'è che fa riguardare come bella questa disposizione, e come ignobile, o meno nobile, la disposizione contraria? In primo luogo, l'essere, in molti casi, un'utilità d'un uomo opposta a un'utilità d'un altro, o d'altri; dimanierachè il rinunziare a quella sia posporre un godimento privato alla benevolenza; sentimento più nobile, per consenso universale; anzi il solo dei due, al quale s'attribuisca questa qualità. L'altra cagione è il consenso divenuto comune dopo il Cristianesimo ( quantunque più o meno avvertito e ragionato ), che tutte l'utilità nelle quali è unicamente contemplato il godimento di chi le acquista, sono d'un prezzo inferiore a quello della virtù: d'onde viene che il non proporsi alcuna di esse, o in altri termini alcuna ricompensa, come motivo, nemmeno accessorio, d'un'azione virtuosa, è avere una giusta stima della virtù, e riconoscere col fatto, che essa è un motivo sufficiente, anzi soprabbondante, di qualunque azione. Ragioni vere, ma che non sono intrinseche all'idea stessa di ricompensa; e non si possono quindi applicare a ogni genere di ricompensa, se non per uno di quei sofismi che scappano così facilmente nelle conclusioni precipitate. Considerata in astratto, l'idea di ricompensa non è altro che quella d'un bene dato al merito, cioè l'idea d'una cosa, non solo buona e giusta, ma la sola buona e giusta: nel caso, s'intende, d'un vero merito e d'una vera ricompensa. Si supponga quindi una ricompensa, contro la quale non militi ne l'una né l'altra di quelle due ragioni; e il proporsela per motivo non potrà levar nulla alla nobiltà dell'azioni e dei' sentimenti; il non proporsela ( senza cercare ora come deva qualificarsi ), non potrà meritare l'onorevole qualificazione di disinteresse. Di questo genere appunto, anzi l'unica di questo genere, è la ricompensa di cui si tratta. Essendo infinita, non può essere da verun uomo ceduta a verun altro, come il goderla non può mai essere a scapito di verun altro. E non può nemmeno essere inferiore in dignità alla virtù, poiché non è altro che il più perfetto esercizio della virtù medesima. Infatti, cosa intende il cristiano per il bene dell'anima sua? Riguardo all'altra vita, intende una felicità di perfezione, un riposo che consisterà nell'esser assolutamente nell'ordine, nell'amar Dio pienamente, nel non avere altra volontà che la sua, nell'esser privo d'ogni dolore, perché privo d'ogni inclinazione al male. Beati, disse la Sapienza incarnata, quelli che hanno fame e sete della giustizia; perchè saranno satollati! che è quanto dire: saranno eternamente giustissimi. E riguardo alla vita presente, il cristiano intende una felicità di perfezionamento, che consiste nell'avanzarsi verso quell'ordine. Felicità non intera, certamente; ma la maggiore, come la più nobile, che si possa godere in questa vita; felicità che nasce da quella stessa fame e sete, accompagnata dalla speranza che conforta, e dalla carità che fa pregustare. Così la pietà è l'utile a tutto, avendo con se la promessa della vita presente e della, futura ( 1 Tm 4,8 ). Posto ciò, si dovrà dire che, in quelli a cui una tale ricompensa è stata annunziata, il non proporsela per motivo, non che aggiunger perfezione alla virtù, non può nascere che dal disprezzo di questa perfezione medesima, essendo essa inseparabile dalla ricompensa medesima, cioè dal gaudio celeste; il quale, per ripeter la cosa con parole e più autorevoli e migliori delle mie, non è altro che il colmo, la soprabbondanza, la perfezione dell'amor di Dio, val a dire della virtù che sovrasta a tutte, e le comprende tutte. Che, tra i gentili, i quali non avevano cognizione di questo Bene, ma solo dei beni temporali, alcuni abbiano pensato che ogni ricompensa sia indegna della virtù, non c'è da meravigliarsene. È piuttosto una cosa degna d'osservazione, che, col solo lume naturale, siano arrivati a vedere la verità, sulla quale formarono questo loro errore. Nel confuso, tronco e, dirò così, acefalo concetto che avevano della virtù, videro, dico, una relazione speciale di questa con l'infinito; e ne dedussero che nessun bene finito poteva esser per essa materia di compensazione. E, dopo averla spogliata così d'ogni premio, dovendo però riconoscere che premio e virtù sono idee correlative, e che ciò che forma questa relazione tra di loro è l'idea di giustizia, troncarono il nodo col dire che la virtù è premio a sé stessa. Parole più vere del pensiero che esprimevano; perchè, nella loro generalità, comprendono il concetto intero, e di virtù e di premio, che non era nella mente di chi le metteva insieme; cioè il concetto di quella virtù e di quel premio, che non si realizzano se non nell'altra vita, e per il possesso di Dio. Potrebbe bensì parer più strano, che, anche nella luce del Vangelo, alcuni abbiano potuto immaginarsi una maggior perfezione della virtù, e della virtù cristiana, nell'escludere dai suoi motivi ogni ricompensa. Ma l'ingegno umano può abusare delle verità rivelate, come di quelle che conosce naturalmente. Essendo l'annegazione, e il disprezzo dei piaceri, il precetto continuo, e lo spirito del Vangelo, s'è potuto voler estendere quest'annegazione anche alla vita futura, applicando, con un accecamento volontario, le qualità dei beni che Gesù Cristo c'insegna a disprezzare, al bene proposto da Gesù Cristo medesimo. Una dottrina così opposta alla sua e, per necessità, alla retta ragione, fu, come doveva essere, condannata dalla Chiesa. La ragione dice e, per dir così, sente che il desiderio della felicità è naturale all'uomo; la religione, nella quale ( non sarà mai ripetuto abbastanza la ragione trova il suo compimento, insegna che il desiderio della felicità eterna, inseparabile dalla santità, è un dovere. All'amor di se, che i sistemi di morale puramente umana si studiano, ora di combattere, ora di soddisfare, e sempre con mezzi insufficienti, la religione apre una strada verso l'infinito, nella quale può correre con l'illimitata sua forza, senza mai urtare il più piccolo dovere, senza offendere alcun nobile sentimento. Per questa strada, essa ha potuto condur l'uomo al massimo grado di vero disinteresse, e far che disprezzi i beni della terra, appunto perche mira alla ricompensa ( Eb 11,26 ). Essa ha potuto farle rinunziare, non solo ai piaceri che sono direttamente dannosi agli altri, ma a molti ancora, che la morale del mondo, economa imprevidente, approva o permette. Perciò Gesù Cristo, dove appunto dà il motivo dell'elemosina, comanda non solo l'azione, ma il segreto; e levando la sanzione umana dell'amor della lode, ci sostituisce quella della vita futura. Il tuo Padre, che vede nel segreto, te ne darà egli la ricompensa ( Mt 6,4 ). Non vuol guarire l'avarizia con la vanità; non vuole che l'uomo si prenda nello stato presente le ricompense riservate all'altro, e colga, nella stagione in cui deve solo attendere a coltivarla, una messe, che, recisa, s'inaridisce e non riempie la mano ( Sal 139,7 ); non vuol solamente dei poveri sollevati, ma degli animi liberi, illuminati e pazienti. Cos'importa, dice spesso il mondo, da che fine provengano l'azioni utili, purché ce ne siano molte; Domanda inconsiderata quanto si possa dire, e alla quale è troppo facile rispondere che importa di non distrarre gli uomini dal loro fine, di non ingannarli, di non avvezzarli all'amore di quei beni per i quali si troveranno un'altra volta in contrasto tra di loro; di quei beni che, goduti, accrescono bensì la sete di possederli, ma non la facoltà di moltiplicarli. Questa facoltà ammirabile non appartiene se non ai beni spirituali, che sono beni assolutamente veri, anche in questa vita, e perchè partecipano del Bene sommo e infinito, e perchè conducono a possederlo eternamente. S'è fatto più volte alla morale cattolica un rimprovero opposto; cioè che non si faccia carico dell'amore di sé, quando prescrive la negazione, e l'amare il prossimo come sé stesso. Ma annegazione non vuol dire rinunzia alla felicità: vuol dire resistenza all'inclinazioni viziose nate in noi dal peccato, le quali ci allontanano dalla vera felicità. E in quanto al precetto d'amare il prossimo come sé stesso, ciò che ha potuto farlo parere ad alcuni eccessivo, ineseguibile, contrario alla natura dell'uomo, non è altro che l'ignorare o lo sconoscere quel bene che si può volere agli altri come a sé, perchè, essendo infinito può riempire ciascheduno, senza esser mai né esaurito, né diminuito da alcuno. L'amor permanente, irresistibile, incondizionato di sé, è certamente una legge naturale d'ogni anima umana: non amar gli altri come sé, non é punto una conseguenza di questa legge, ma un'aggiunta arbitraria, fondata unicamente sulla supposizione, che non ci siano per l'uomo altri beni fuori di quelli, il possesso dei quali ha per condizione che gli altri ne siano privi. La religione, per chi vuole ascoltarla, ha levata di mezzo questa, supposizione; e, con la sua scorta, é anche facile il riconoscere che amare il prossimo come sé stesso, non é altro che un precetto di stretta giustizia; perché la ragione di questi due amori é uguale, anzi la stessa. Qual'é, infatti, la ragione d'amare, non l'uno o l'altro o alcuno dei nostri simili, ma il nostro prossimo, cioè ognuno dei nostri simili, independentemente da ogni nostra particolare inclinazione, da ogni sua particolare qualità, e da ogni suo merito verso di noi? Dove si può, dico, trovar la ragione di questo amore per tutti gli uomini, se non in ciò che é comune a tutti gli uomini, e insieme degno d'amore, cioè la natura umana medesima, l'essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio, e capace di conoscerlo, d'amarlo e di possederlo, val a dire d'un'altissima perfezione morale? Così il precetto divino, non che essere in opposizione col vero e giusto amore di noi medesimi, ce ne fa trovar la ragione nell'amore dovuto a tutti gli uomini: ragione, senza la quale questo invincibile amore di noi medesimi potrebbe parere nulla più che un cieco istinto. Se l'uomo avesse bisogno d'un insegnamento per amarsi, lo troverebbe sottinteso e implicito in questo precetto, che gl'impone d'amar l'umanità intera. Ne ha però bisogno, e quanto! per amarsi rettamente; e lo trova, come in tutti i precetti divini, così anche in questo, il quale, prescrivendogli d'amare il prossimo come se stesso, gl'insegna ad amar sé stesso come il prossimo, cioè a volere a se quel bene che deve, e può ragionevolmente, volere agli altri: il bene sommo e assoluto, prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possano esser mezzo a quello. Ora, come mai da questa dottrina d'amore, di comunione e, dirò così, d'assimilazione tra gli uomini, potrebbe venire che s'abbia a escludere dall'elemosina il motivo di sollevare il suo simile? Certo, non è impossibile che ciò sia entrato in qualche mente, come c'entrano tant'altre contradizioni; ma oso asserir dinuovo, che non fa parte dell'insegnamento religioso in Italia, e che il Segneri ha parlato il linguaggio comune di quest'insegnamento, quando ha detto che « due solamente sono alla fine le porte del cielo: l'una, quella del patire, l'altra, quella del compatire ». I ministri del Vangelo, quando inculcano di soccorrere i poveri, rappresentano sempre l'angosce del loro stato; e, nella trascuranza di questo dovere, condannano espressamente la durezza e la crudeltà, come disposizioni ingiuste e anti-evangeliche. Quando Gesù Cristo moltiplicò i pani, per satollare le turbe che, con tanta fiducia, correvano dietro alla parola, l'opera dell'onnipotenza fu preceduta da un ineffabile movimento di commiserazione nel cure dell'Uomo-Dio. Ho pietà di questo popolo, perchè sono già tre giorni, che non si distaccano da me, e non hanno niente da mangiare; e non voglio rimandarli digiuni, perche non svengano per la strada ( Mt 15,32 ). La Chiesa ha ella potuto cessare un momento di proporre per modello i sentimenti di Gesù Cristo? Bisognerebbe domandare a quei parrochi zelanti e misericordiosi i quali, girando per le case affollate dell'indigenza, e dopo aver soddisfatto, con lacrime di tenerezza e di consolazione, a degli estremi bisogni, ne trovano ancora dei nuovi, e non possono altro che mischiare le loro lacrime con quelle del povero, bisognerebbe domandar loro se, quando ricorrono al ricco per avere i mezzi di saziare la loro carità, non gli parlano che dell'anima sua, se non gli dipingono le miserie e i patimenti e i pericoli del bisognoso, e se quelli a cui sono rivolte preghiere così sante e così generose, le ascoltano con una fredda insensibilità; se l'immagine del dolore e della fame è esclusa dai sentimenti che li movono a convertire in un mezzo di salute quello ricchezze le quali sono così spesso un inciampo, un mezzo di piaceri che portano alla dimenticanza, e fino all'avversione per l'uomo che patisce. San Carlo, che si spogliava per vestire i poveri, e che, vivendo tra gli appestati per dar loro ogni sorte di soccorso, non dimenticava che il suo pericolo; quel Girolamo Miani, che andava in cerca d'orfani pezzenti e sbandati, per nutrirli e per disciplinarli, con quella premura che metterebbe un ambizioso a diventar educatore del figlio d'un re, non pensavano dunque che all'anime loro? E l'intento di sollevare i loro simili non entrava per nulla in una vita tutta consacrata a loro? L'uomo che vive lontano dallo spettacolo delle miserie, sparge qualche lacrima sentendole descrivere; e quelli che un'irrequieta carità spingeva a cercarle, a soccorrerle, ci avrebbero portato un cuore privo di compassione? Certo, non occorre di far qui un'enumerazione degli atti di carità di cui è piena la storia del cattolicismo: ne scelgo uno solo, insigne per delicatezza di commiserazione; e lo scelgo perchè, essendo recente, è un testimonio consolante dello spirito che c'è sempre vivo. Una donna che abbiamo veduta in mezzo a noi, e di cui ripeteremo il nome ai nostri figli, una donna cresciuta tra gli agi, ma avvezza da lungo tempo a privarsene, e a non vedere nelle ricchezze che un mezzo di sollevare i suoi simili, uscendo un giorno da una chiesa di campagna, dove aveva ascoltata un'istruzione sull'amore del prossimo, andò al casolare d'un'inferma, il di cui corpo era tutto schifezza e putredine; e non si contentò di renderle, com'era solita, quei servizi purtroppo penosi, coi quali anche il mercenario intende di fare un'opera di misericordia, ma trasportata da un soprabbondante impeto di carità, l'abbraccia, la bacia in viso, le si mette al fianco, divide il letto del dolore e dell'abbandono, e la chiama più e più volte col nome di sorella. Ah! il pensiero di sollevare una creatura umana, non era certamente estraneo a quei nobili abbracciamenti. Mangiare il pane della liberalità altrui, ottener di che raddolcire i mali del corpo, e prolungare una vita di stenti, non è il solo bisogno dell'uomo sul quale pesa la miseria e l'infermità. Sente d'esser chiamato anche lui a questo convito d'amore e di comunione sociale: la solitudine in cui è lasciato, il pensiero di far ribrezzo al suo simile, il riguardo con cui gli si avvicina quel medesimo che gli porge soccorso, il non veder mai un sorriso, è forse il più amaro dei suoi dolori. E il core che pensa a questi bisogni, e li soddisfa, che vince la repugnanza dei sensi, per veder solamente l'anima immortale che soffre e si purifica, è il più bel testimonio per le dottrine che l'hanno educato, è una prova che queste non mancano mai all'ispirazioni più ardenti e ingegnose della carità universale. Donde è dunque potuta venire un'opinione così arbitraria e opposta al fatto, come quella che s'è esaminata nel presente capitolo? Se non m'inganno, da un'estensione affatto abusiva, anzi dall'alterazione manifesta di quell'insegnamento, non italiano, ma veramente cattolico, che il solo motivo di sollevare il suo simile non basta a render cristiana e santa l'elemosina, e a darle un merito soprannaturale. Mi servirò anche qui d'alcune parole del Segneri, che esprimono questo sentimento, senza contradire, ne punto nè poco, all'altre sue citate dianzi: « Se non che, avvertite che non basta a un vero limosiniere quella pietà naturale, con la quale si compatisce un uomo perch'egli è uomo. Fin qui sanno anche giungere gl'infedeli. Troppo più alto prende però la mira l'occhio d'un limosiniere fedele, qual noi cerchiamo. Non solo ha egli compassione del povero, ma gliel'ha per amor di Dio. Anticamente, sopra il fuoco che s'era acceso a bruciar la vittima, pioveva Iddio un altro fuoco più segnalato e più sacro che, giunto al primo, desse compimento più nobile al sacrificio. Or figuratevi che così faccia la carità sopra quelle fiamme di compassion naturale, per se lodevole: aggiunge ella anche altre fiamme d'amor cristiano, per cui si compisce l'olocausto in odore di soavità ». Ora, se quella falsa credenza ha avuta occasione da quest'insegnamento ( e non saprei immaginarmi da cos'altro ) basterà, se non è superfluo, l'osservare la differenza, anzi la diversità, che passa tra l'insegnare che l'elemosina dev'esser fatta, non solo per sollevare il suo simile, e l'insegnare che non dev'esser fatta per sollevare il suo simile. E d'altra parte, chi può non vedere quanto sia cosa giusta per se, e independentemente da qualunque altro riguardo, il riferire ogni nostro sentimento verso qualunque creatura, all'Autore di tutte? chi non riconosce in questo una condizione essenziale e universale del culto medesimo? giacche, quali nostri sentimenti si dovranno riferire a Dio, se non tutti? Che parte fargli? Quali cose amare per Lui, dipendentemente da Lui, e relativamente a Lui, e quali altre per loro medesime, come nostro fine, come ultimo e unico termine dal nostro affetto? È dunque verissimo che, per un insegnamento essenziale del cristianesimo, depositario della vera nozione di Dio e delle creature, e non già per un ritrovato di casisti, l'intento di sollevare il suo simile, si trova subordinato a un intento superiore. Ma è forse a scapito di quella compassione naturale per se lodevole? Quando mai un buon sentimento qualunque ha potuto perdere la sua giusta attività, per esser collocato nel suo ordine? E nel caso presente, chi non vede quanto l'inclinazione naturale a sollevare il suo simile ( naturale bensì, ma da quante inclinazioni opposte combattuta! ) deve acquistar di forza, di prevalenza, d'universalità, dall'amarlo per Dio, e in Dio, come fatto a di Lui immagine, redento da Lui, come quello nel quale Egli ama d'abitare come in suo tempio? Perchè, tale è la sublime estensione data dal cristianesimo alla significazione di quel simile, così ristretta, e, per conseguenza, così poco efficace e feconda, nel solo senso naturale. In un animo dove regni veramente l'amor di Dio, non può aver luogo l'indifferenza per i patimenti del prossimo. Signore, esclama il Bossuet, se io vi amassi con tutte le mie forze, con lo stesso amore amerei il mio prossimo come me stesso. Ma io sono così insensibile ai suoi mali, mentre sono così sensibile al più piccolo dei miei. Io sono così freddo a compiangerlo, così lento a soccorrerlo, così debole a consolarlo; in una parola, così indifferente ai suoi beni ed ai suoi mali. Non è raro il trovar degli uomini che si lamentino d'esser troppo sensibili ai mali altrui. Tra questo querulo vanto di sentir troppo, e quell'umile confessione di non sentire abbastanza, qual è che annunzi una contentatura più difficile, e, per conseguenza, un principio più imperioso e più attivo? Capitolo XVI Sulla sobrietà e sulle astinenze, sulla continenza e sulla verginità La sobrietà, la continenza, sono virtù domestiche, le quali conservano le facoltà degli individui, e assicurano la pace delle famiglie. Il casista ha posto in loro luogo i cibi di magro, i digiuni, le vigilie, i voti di verginità e di casfità; e accanto a queste virtù monacali la ghiottoneria e l'impudicisia possono mettere radice nei cuori. L'istituzioni relative all'astinenza sono di quelle che il mondo s'è ingegnato a render ridicole; per cui molti di quei medesimi che le venerano in cuor loro, parlano in loro difesa con timidi riguardi, non osano quasi adoprare i nomi propri, e lasciano credere che la ragione, rispettandole, non faccia altro che sottomettersi ciecamente a una sacra e incontrovertibile autorità. Ma chi cerca sinceramente la verità, invece di lasciarsi spaventare dal ridicolo, deve sottoporre a un libero esame il ridicolo stesso. Quello di cui si tratta qui, ha una causa e un pretesto. La causa è l'avversione del mondo per la mortificazione del senso, e conseguentemente per tutto ciò che la prescrive, in una forma qualunque. Ma, per non allegar questa vera causa ( che sarebbe un confessarsi schiavo del senso ), il mondo procura di darsi a intendere che ciò che gli repugna in queste prescrizioni, è qualcosa di contrario alla ragione. E a questo fine, dimentica o finge di dimenticare il loro spirito e i loro motivi: che è certamente il mezzo più spiccio di farle comparire stravaganti. Non si vergognerà, per esempio, di continuar per dei secoli a domandare cosa importi a Dio, che gli uomini usino certi cibi, piuttosto che certi altri, e di mettere in campo altri argomenti di simil peso. Ciò poi che dà un'occasione, o meglio un pretesto, di ridere di queste prescrizioni, è la maniera con cui sono eseguite da dei cattolici. Le Scritture e la tradizione rappresentano il digiuno come una disposizione di staccatezzà e di privazioni volontarie, della quale, l'astenersi dal cibo, per un dato tempo, è una parte, un modo naturale, una conseguenza necessaria. In uomini affaccendati nella ricerca dei contenti mondani d'ogni genere, nemici d'ogni umiliazione e d'ogni patimento, questa sola parte di penitenza, eseguita farisaicamente, produce una dissonanza, nella quale il mondo trova quello che basta a lui per ridere, e del fatto e dell'istituzione insieme. L'astinenza poi da certi cibi in certi giorni, è anch'essa una specie di digiuno, un mezzo prescritto dalla Chiesa, per unire la penitenza e la privazione anche con l'uso necessario degli alimenti. Se alcuni hanno saputo convertirlo in un mezzo di raffinamento, certo che una mostra illusoria e, per dir così, una millanteria di penitenza, che si vede uscire tutt'a un tratto da una vita tutta di delizie e di passioni, presenta un contrasto strano tra l'intenzione della legge e lo spirito dell'ubbidienza, tra la difficoltà e il merito. E il mondo ne profitta per ridere anche della legge. Ma, per levarne ogni occasione a chiunque voglia riflettere ( giacche Ci sono degli uomini i quali non lasciano più di ridere d'una cosa che hanno una volta concepita come ridicola ), basta distaccar l'astinenze da quel complesso d'idee, nel quale fanno contraddizione, e rimetterle in quello che loro è proprio, e nel quale furono collocate dalla legislazione religiosa. Basta osservarle insieme coi fini che la Chiesa ha avuti di mira nell'ordinarie; e insieme non dimenticare i casi nei quali producono i loro effetti; allora, non solo svanirà il ridicolo, ma comparirà la bellezza, la sapienza e l'importanza di queste leggi. La sobrietà, come ha detto benissimo l'illustre autore, conserva le facoltà degi individui. Ma la religione non si contenta di quest'effetto, né di questa virtù, conosciuta anche dai gentili; e avendo fatti conoscere i mali profondi dell'uomo, ha dovuto proporzionare ad essi i rimedi. Nei piaceri della gola che si possono conciliare con la sobrietà, vede una tendenza sensuale, che svia dalla vera destinazione; e dove non è ancor principiato il male, segna il pericolo. Prescrive l'astinenza come una precauzione indispensabile a chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra; la prescrive come espiazione dei falli in cui l'umana debolezza fa cadere anche i migliori; la prescrive ancora per ragione di carità e giustizia; perchè le privazioni dei fedeli devono servire a soddisfare ai bisogni altrui, e compartire così tra gli uomini le cose necessarie al vitto, e fare scomparire dalla società cristiana quei due tristi opposti, di profusione a cui manca la fame, e di fame a cui manca il pane. Queste prescrizioni, essendo così necessarie all'uomo in tutti i tempi, hanno dovuto principiare con la promulgazione della religione; e così è infatti. Nel solo popolo che avesse una civilizzazione fondata sopra idee di giutizia universale, di dignità umana e di progresso nel bene, cioè sopra un culto legittimo, si trovano esse fino dai primi tempi del suo passagio solenne dallo stato di schiavitù, dov'era ritenuto dalla prepotenza e dalla mala fede, allo stato di nazione; e la tradizione del digiuno discende da Mosè fino ai nostri giorni, come un rito di penitenza e un mezzo d'innalzar la mente al concetto delle cose di Dio, e di mantenersi fedeli alla sua legge. Al tempo di Samuele, gl'Israeliti prevaricano; ma quando ritornano al Signore pentiti, quando cessano d'adorare le richezze della terra, e levano di mezzo a loro gli dei visibili degli stranieri, offrono olocausti al Signore, e digiunano ( 1 Sam 7,4 ). L'idolatria era il culto della cupidigia, la festa dei godimenti terreni: per rompere l'abitudine della servitù dei sensi, per ritornare a Dio, bisognava principiare dalle privazioni volontarie. E quando i figli d'Israele ritornano dalla terra dei padroni stranieri. Quando sono per rivedere Gerusalemme, il magnanimo Esdra loro condottiere, li prepara al viaggio col digiuno e con la preghiera ( Esd 8,21 ), per rifare così un popolo religioso e temperante, segregate dalle gioie tumultuose e servili delle genti. Il digiuno accompagna senza interruzione il primo testamento; Giovanni, precursore del nuovo, l'osserva e lo predica; e Quello che fu l'aspettazione e il compimento dell'uno, il fondatore e la legge dell'altro, e la salute di tutti. Gesù Cristo, la comanda, la regola, ne leva l'ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l'attornia d'immagini socievoli e consolanti ( Mt 6,16-18 ), ne insegna lo spirito, e ne dà Lui stesso l'esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d'altra autorità, per render ragione d'averlo conservato. Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l'imposizione delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti ( At 13,3 ); e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell'astinenze. D'allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d'intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova purtroppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re i vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra cristiani. Fruttuoso, vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo che non era passata l'ora del digiuno. Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrificio, e che per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n'era vissuto imitatore? Ma, prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d'un cristiano, il digiuno e l'astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di piìi puro. Si veda un uomo giusto, fedele ai suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro l'ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell'astinenza non sono in armonia con una tale condotta. San Paolo paragona il cristiano all'atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente ( 1 Cor 9,25 ). L'agilità e il vigore che ne veniva al suo corpo, era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti al fine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne maravigliava; e noi, educati alle idee spirituali del cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quelle istituzioni che tendono a render l'animo desto e forte contro l'inclinazioni del senso? Questo è il punto di vista vero e importante dell'astinenze; questi sono i loro effetti naturali. E se il mondo non se n'avvede, è perchè quelli che le praticano in spirito di fedeltà, si nascondono, e il mondo non si cura di ricercarli, e non fa per lo più attenzione all'astinenze, se non quando presentano un contrasto col resto della condotta. Ci sono, anche nella Chiesa, dell'istituzioni transitorie, il fine delle quali è solamente di preparare e di condurre gli uomini d'un tempo o d'un luogo a un ordine più elevato; ce ne sono dell'altre, che la Chiesa mantiene stabilmente, perchè affatto connaturali al suo ordine intrinseco e perpetuo. Esse attraversano delle generazioni ribelli o noncuranti, rimangono immobili in mezzo a un popolo dimentico o derisore, aspettando le generazioni ubbidienti e riflessive; perchè sono fatte per tutti i tempi. Tali sono, non dico il digiuno, che è d'istituzione divina, ma la più parte delle leggi ecclesiastiche che ne prescrivono delle speciali applicazioni: tali sono, per esempio, le vigilie. Celebrare la commemorazione dei gran misteri, e degli avvenimenti ai quali dev'essere rivolta tutta la considerazione del cristiano, e prepararsi con la penitenza e con le privazioni, è un'istituzione tanto essenzialmente cristiana, che si confonde con l'origine della religione, e non ha avuto un momento di sospensione. L'astinenza da certi cibi è, come abbiamo detto, un'altra applicazione dello stesso principio. Se ci sono di quelli che combinano l'esecuzione materiale di questo precetto con l'intemperanza e con la gola; e se ci sono degli altri che prendono da ciò il pretesto di farsene beffe, la Chiesa non ha creduto per questo di dover abolire una memoria vivente dell'antica semplicità e dell'antico rigore, di dover cancellare ogni vestigio di penitenza, e levare a tanti suoi figli un mezzo d'esercitarla ubbidendo. Perchè, non mancano dei ricchi che osservano sinceramente, e per spirito di penitenza, una legge di penitenza; e, tra i poveri, non sono mancati coloro che, forzati a una sobrietà che rendono nobile e volontaria con l'amarla, trovano il mezzo d'usar qualche maggior severità al loro corpo, nei giorni in cui una particolare afflizione è prescritta dalla Chiesa. Essa li considera come il suo più bell'ornamento, e come i suoi figli prediletti. Tutte queste pratiche non possono dirsi sostituite alla sobrietà: non ne dispensano; la suppongono invece, e ne sono un perfezionamento. Lo stesso si dica dei voti di verginità e di castità, in relazione con la continenza. Come chiamarle una sostituzione a questa, se ne sono l'esercizio più eminente? È inutile dire che la verginità, lodata e consigliata da san Paolo ( 1 Cor 7,25-27 ), che ne diede l'esempio, lodata e disciplinata dai Padri, non è un'invenzione dei casisti. Che se l'impudicizia può metter radice nei cori, malgrado il voto di verginità, e la gola, malgrado l'astinenze, vorrà dire che tanta è la corruttela dell'uomo, che i mezzi stessi proposti dall'Uomo-Dio non la estirpano totalmente; che sono bensì armi per poter vincere, ma che non dispensano dal combattere: ma chi potrà supporre che ci possano essere dei mezzi migliori? Opporre alla Chiesa, la quale consiglia o comanda l'esercizio più perfetto d'una virtù, che questo può qualche volta essere scompagnato dal sentimento di quella virtù, non può, per quello ch'io vedo, condurre ad alcuna utile conseguenza. Perchè quest'obiezione avesse forza, converrebbe poter asserire che, una religione la quale si limitasse a proporre la sobrietà e la continenza, estirperebbe dal cuore degli uomini la radice dell'inclinazioni contrarie. Capitolo XVII Sulla modestia e sulla umiltà La modestia è la più amabile fra le qualità dell'uomo superiore: non esclude affatto però un giusto orgoglio, che a lui serve di appoggio contro le sue proprie debolezze, e di consolazione nelle avversità. Il casista vi ha sostituito l'umiltà, che va unita col più insultante disprezzo per gli altri. Io non difenderò qui i casisti dall'accusa di aver sostituita alla modestia, e, per dir così, inventata l'umiltà. Essa è tanto espressamente e ripetutamente comandata nelle Scritture, che una simile proposizione non par che possa esser presa a rigor di termini. Esporrò invece qualche osservazione sulla natura di queste due virtù, affine di dimostrare che la modestia senza l'umiltà o non esiste o non è virtù; e che chi loda la modestia, o pronunzia una parola senza senso, o rende omaggio alla verità della dottrina cattolica; perchè gli atti e i sentimenti che s'intendono sotto il nome di modestia non hanno la loro ragione che nell'umiltà, quale è proposta da questa dottrina. Qui è necessario risalire a un principio generali della morale religiosa; in essa le virtù hanno per fondamento delle verità assolute e necessarie. Non credo che ci sia bisogno di giustificare questo principio. Si può, eccome! non farsene carico nei giudizi pratici, e anche nel fabbricare dei sistemi di morale; ma chi vorrebbe asserire formalmente che il buono possa essere opposto al vero, o, ciò che non sarebbe meno strano, ne opposto, ne conforme? Applicando ora alla modestia questo principio, vedremo che questa, per esser virtù, deve avere due condizioni: esser l'espressione d'un sentimento non finto ma reale, e d'un sentimento fondato sopra una verità; dev'esser sincera e ragionata. Cos'è la modestia? Non credo facile il dirlo. Per definire, s'intende per lo più specificare il senso unico e costante che gli uomini attribuiscono a una parola: ora, se gli uomini variano nell'applicazione d'una parola, come trasportare nella definizione un senso unico che non esiste nei concetti? È celebre l'osservazione del Locke: che la più parte delle dispute filosofiche è venuta dalla diversa significazione attribuita alle stesse parole. Sono pochi, dice, quei nomi d'idee complessi: che due uomini adoprino a significare precisamente la stessa collezione d'idee. Questa maggiore o minor varietà di significato, si trova più specialmente nei vocaboli destinati a esprimere disposizioni morali. È certo, nondimeno, che gli uomini s'intendono tra di loro, se non con precisione, almeno approssimativamente, quando adoprano o ascoltano alcuna di queste parole: non potrebbero anzi disputare, se non andassero d'accordo in qualche parte sul significato della parola che è l'oggetto, o piuttosto il mezzo necessario della loro disputa. Questo si spiega, se non m'inganno, osservando che ognuna di queste parole esprime un'idea riconosciuta per l'ordinario, quantunque sia o meno distintamente, da ognuno; ma che, in troppi casi, ora l'uno, ora l'altro, ora molti, cessiamo di riconoscere, conservando però tenacemente la parola. E questo accade per più cagioni; ma forse la più attiva e la più frequente, è l'affetto a opinioni o a giudizi arbitrari, coi quali quell'idea non potrebbe accomodarsi; anzi li dovrebbe correggere, che è ciò che non vogliamo. Ora, nei sentimenti, nei pensieri, nelle azioni, nel contegno, a cui si applica la parola modestia, l'idea predominante mi par che sia: confessione d'una maggiore o minor distanza dalla perfezione. Posto ciò, l'uomo a cui si dà lode di modesto, perchè dimostra un sentimento della propria imperfezione, o è persuaso, o non lo è. Se non lo è, la sua è tanto lontana dall'esser virtù, che è anzi vizio; è finzione, ipocrisia. Che se è persuaso, o lo è con ragione, o no. In questo secondo caso, sarebbe ignoranza, inganno: ora, non è virtù quel sentimento che un esame più giudizioso, una maggior cognizione della verità, un aumento di lumi, ci farà abbandonare. Altrimenti bisognerebbe dire che ci siano delle virtù opposte alla verità; in altri termini, che la virtù è un concetto falso. Se dunque, quando si loda la modestia d'uno, non si vuol dire che quest'uomo sia o un impostore, o uno sciocco, si dovrà dire che la modestia suppone la cognizione di sé stesso, e che nella cognizione di sé stesso l'uomo deve sempre trovar la ragione d'esser modesto. Ho detto sempre, perchè altrimenti ci sarebbero dei casi in cui l'uomo potrebbe ragionevolmente avere il sentimento opposto a questa virtù. Anzi, quanto più uno diventasse virtuoso, dovrebbe esser meno modesto; giacché è certo che si sarebbe avvicinato alla perfezione; e così il miglioramento dell'animo condurrebbe logicamente alla perdita d'una virtù; il che è assurdo. Ora, questa ragione perpetua, e senza eccezione, d'esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data di noi stessi, e sulla quale è fondato il precetto dell'umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sé stesso. E questa idea è, che l'uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sé, è un dono di Dio: dimanieraché ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sé stesso: Che hai tu, che non abbi ricevuto? e se l'hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l'avessi ricevuto? ( 1 Cor 4,7 ). Per questa sola ultima ragione, Gesù Cristo, quantunque perfetto, anzi perciò appunto, ha potuto essere sovranamente umile; perché conoscendo in eccellente grado sé stesso, e non essendo accessibile ad alcuna delle passioni che fanno errare l'uomo che giudica sé stesso, ha veduto in eccellente grado, che l'infinite perfezioni che aveva nella sua natura umana, erano doni. E per riguardo a tutti gli uomini, si darà un'idea chiara e ragionata della modestia, chiamandola l'espressione dell'umiltà, il contegno d'un uomo il quale riconosce d'esser soggetto all'errore e al traviamento, e riconosce ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza e per la sua corruttela. Se non ci supponiamo quest'idea, la modestia è o scempiaggine o impostura: se ce la supponiamo, è ragione e virtù: con quest'idea si spiega l'uniformità del sentimento degli uomini in favore di essa; e questa sentimento diventa un raziocinio. Noi lodiamo l'uomo modesto, non solo perchè, abbassandosi e tenendosi in un canto, lascia a noi un po' più di posto per elevarci e per comparire; non lo lodiamo solo come un concorrente che si ritira. Certo, l'interesse delle nostre passioni ha una parte, che noi stessi non sappiamo sempre discernere, nelle nostre approvazioni e nei nostri biasimi; ma ognuno, esaminandosi, trova in se stesso una disposizione ad approvare, independente da quest'interesse, e fondata sulla bellezza di ciò che approva. Si potrebbe dimostrare con degli esempi la realtà di questa disposizione; ma ognuno la sente, è un fatto. Non lodiamo la modestia solamente come una qualità rara e diffìcile: ci sono delle abitudini perverse a cui pochi uomini arrivano, e non ci arrivano, se non per gradi, e facendo violenza a se stessi; e nessuno le approva. Non lodiamo neppure la modestia solo perchè riunisca questi due caratteri d'utilità e di difficoltà. Il Vecchio della montagna ricavava un vantaggio dalla credulità e dalla devozione dell'uomo pronto a buttarsi nel precipizio, a un suo cenno, e doveva riconoscere uno sforzo diffìcile in quest'obbidienza; eppure non poteva trovar degno di stima quest'uomo, ch'egli conosceva meglio di ogni altro, come un miserabile zimbello della sua impostura. Noi approviamo e lodiamo l'uomo modesto, perchè, malgrado l'inclinazione fortissima di ogni uomo a stimarsi eccessivamente, è arrivato a fare un giudizio imparziale e vero di se stesso; e perchè è arrivato a farsi una legge di rendere alla verità questa testimonianza difficile e dolorosa. La modestia insomma piace come utilità e come difficoltà, ma prima di tutto come verità. Si ripassino pure tutti i concetti ragionevoli intorno alla modestia; tutti verranno a combinare con questo. La modestia è una delle più amabili doti dell'uomo superiore. Verissimo; anzi s'osserva comunemente che la modestia cresce in proporzione della superiorità: e questo si spiega benissimo con l'idee della religione. La superiorità non è altro che un grande avanzamento nella cognizione e nell'amore del vero: la prima rende l'uomo umile, e il secondo lo rende modesto. Quest'uomo teme le lodi e le sfugge: ma le lodi sono gradevoli, e non c'è un'ingiustizia apparente nel cercar d'ottenerle spontanee: eppure il suo contegno è approvato da tutti quelli che apprezzano la virtù. Ciò accade perchè quel contegno è ragionevole. L'uomo modesto vede che le lodi non gli ricordano che una parte di sé, e quella appunto che è già più inclinato a considerare e a ingrandire, mentre, per conoscersi bene, ha bisogno di considerare tutto sé stesso; vede che le lodi lo trasportano facilmente ad attribuire a sé ciò che è dono di Dio, a supporre in sé un'eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolmente. Perciò le sfugge, perciò nasconde le sue belle azioni, perciò conserva i suoi sentimenti più nobili nella custodia del suo cuore; avvertito appunto dallo studio sincero di se medesimo, che tutto ciò che lo porta a farne mostra, è un desiderio superbo d'esser distinto, osservato, stimato, non quello che è, ma il meglio possibile. Ma, se la verità e la carità lo richiedono, anche l'uomo modesto lascia apparire il bene che è in lui, se ne rende testimonianza. Ne è uno splendido modello la condotta di san Paolo, quando l'utile del suo ministero l'obbliga a rivelare ai Corinti i magnifici doni di Dio. Costretto a parlare di ciò che lo può elevare agli occhi altrui, ne restituisce a Dio tutta la gloria, e confessa spontaneamente le miserie più umilianti in un apostolo, in cui la dignità della missione par che escluda l'idea, non solo della caduta, ma della tentazione. Nell'animo sublimato alla intelligenza delle arcane parole che non e lecito a un uomo di proferire ( 2 Cor 12,4 ), chi avrebbe ancora supposta viva la guerra dell'inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell'arena dei combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt'intero per esser tutto conosciuto. Se la modestia è l'umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l'orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L'uomo che si compiace di sé stesso, che non riconosce in sé quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente ( Rm 7,23 ), l'uomo che osa promettere a sé stesso, che, per la sua forza, sceglierà il bene nelle occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l'uomo che s'antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s'intende riconoscere la verità del bene che s'è fatto, senza attribuirlo a sé, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l'umiltà non l'esclude, ma è l'umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poiché chi crede che, facendo un giusto giudizio di sé, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, é un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perchè questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poiché la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell'umiltà, e in chi non l'ha, importa di conservare il suo senso alla parola che é appunto destinata a specificare il sentimento. L'orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, né un sostegno alla debolezza umana, né una consolazione nell'avversità. Questi sono frutti dell'umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; è l'umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l'aiuto ( Sal 71,1 ). E nelle avversità, le consolazioni sono per l'animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d'un Dio che perdonerà, e non come colpi d'una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino ad amare l'avversità stesse, perchè lo rendono conforme all'immagine del Figliolo di Dio (Rm 8,29 ); e invece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sé stesso, non troverebbe che il gemito dell'abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l'orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito ( Sal 89,11 ), l'orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l'orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare, e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l'uomo, in questa vita, è nella corcordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n'è più lontano che l'orgoglioso, quando è percosso? L'orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s'agita e si consuma a dimostrar che le cose non dovrebbero essere come Dio l'ha volute: se si chiude in se, il suo silenzio è amaro, sprezzante, imposto dal sentimento della propria impotenza, e per fino dal timore della commiserazione altrui. Quelle vantate consolazioni dell'uomo che, nell'avversità, afferma di trovare un compenso in se, quando questo compenso non sia rassegnazione e speranza, non sono, per lo più, se non un artificio dell'orgoglio stesso, che rifugge dal lasciar vedere uno stato d'abbattimento, che potrebb essere un grato spettacolo all'orgoglio altrui. Dio sa quali siano queste consolazioni; e basta leggere le Confessioni dell'infelice Rousseau per averne un'idea per vedere quale sia lo stato d'un cuore che, ammalato d'orgoglio, cerca nell'orgoglio il suo rimedio. Nella solitudine, dove s'era promessa la pace, ritorna coi pensiero sull'umiliazioni sofferte nella compagnia degli uomini, ne rammemora le più piccole circostanze. Colui che aveva parlato e scritto tanto sulla corruttela dell'uomo sociale, non aveva un animo preparato all'ingiustizia: quando n'è colpito, non se ne può dar pace. Si paragona con quelli che l'offesero, che lo trascurarono; si trova tanto dappiù di essi, e si rode pensando che questi appunto l'abbiano offeso o trascurato. Le parole, gli sguardi, il silenzio, tutto ripensa nell'amaritudine dell'anima sua: i patimenti del suo orgoglio si possono misurare dall'avversione che prova per coloro che l'hanno irritato: come li giudica, come li dipinge! Può esser certo d'aver comunicato all'animo di migliaia di lettori l'odio e il disprezzo che lo tormentano; e quando pare che sia vendicato, esclama: Ciò non intesi e non intenderò ancora. Eppure, se, ci fu mai, secondo il mondo, un giusto orgoglio; se un ingegno lodato anche dagli avversari; se una parola che si fa sentire pertutto dove c'è qualche coltura, una parola che agita, sorprende, comanda; se una fama che, levando alla folla degli scrittori anche il pensiero della rivalità, soffoga in essi l'invidia, e la fa nascere in quei provetti, che credevano di non aver più altro a fare che incoraggire il merito nascente, senza timore di competenze; se l'esser, non solo mostrato a dito, ma spiato, appostato da una curiosità ammiratrice, ricercato, nella più umile fortuna, da quelli che sono ricercati per la loro fortuna, sono titoli d'un giusto orgoglio, chi n'ebbe di maggiori? E, tra tanti motivi, non dirò di consolazione, ma di trionfo, quali sono poi finalmente i suoi dolori? È un amico del mondo, che vuol fargli l'uomo addosso, e prescrivergli ciò che deve fare; è un altro che, protetto da lui altre volte, vuol parere il suo protettore, e gli leva il posto alla tavola d'un'altra amica dello stesso genere. Ah! certo non bisogna usar parsimonia nel dispensare la compassione, né pesare sulla nostra bilancia i dolori degli altri: l'uomo che soffre, sa lui quello che soffre; e se è la debolezza dell'animo suo, che ingrandisce il male, questa debolezza, comune a tutti, è quella appunto che merita una maggior compassione. Ma, quando si pensa all'ingiustizie sofferte dai grandi del cristianesimo; quando si pensa alle persecuzioni, alle calunnie, ai disprezzi di cui furono colmati i santi, e alla gioia con cui li sopportarono, alla pazienza con cui aspettarono la manifestazione della verità, senza pretenderla in questa vita, alla delizia che provavano a sfogarsi soli con Dio, e che i loro sfoghi erano azioni di grazie, e tutto ciò perchè erano umili; allora si riconosce dove l'uomo possa trovar davvero un sostegno contro la sua propria debolezza, e una consolazione nell'avversità. Ah! se nella vita che ci resta a percorrere, ci sono preparati dei passi difficili e dolorosi, se per noi s'avvicina il momento della prova, preghiamo che ci trovi nell'umiltà, che il nostro capo sia pronto a chinarsi sotto la mano di Dio, quando sia per passarci sopra. Da ciò che s'è detto intorno all'umiltà viene di conseguenza che, se c'è sentimento che distrugga il disprezzo insultante per gli altri, è l'umiltà certamente. Il disprezzo nasce dal confronto di sé stesso con gli altri, e dalla preferenza data a sé stesso: ora, come mai questo sentimento potrà prender radice nel cuore educato a considerare e a deplorare le proprie miserie, a riconoscere da Dio ogni suo merito, a riconoscere che potrà trascorrere a ogni male, se Dio non lo trattiene? Capitolo XVIII Sul segreto della morale, sui fedeli scrupolosi, e sui direttori di coscienze La morale è diventata non solamente la loro scienza, ma anche il loro segreto ( dei dottori dommatici ). Il deposito di essa è interamente nelle mani dei confessori e dei direttori delle coscienze. Se i confessori in Italia hanno fatto della morale un segreto, si sono dunque dimenticati che il Salvatore e Maestro di tutti aveva detto agli apostoli: Dite in fieno giorno quello che io vi dico all'oscuro, e predicate sui tetti quello che v'è stato detto in un orecchio ( Mt 10,27 ); si sono dimenticati che, negli ultimi momenti del suo soggiorno sulla terra, aveva rinnovato un tal precetto, con quelle solenni parole: Istruite tutte le genti insegnando loro d'osservare tutto quello ch'io v'ho comandato ( Mt 28,19-20 ). Ma quali sono tra di noi i libri riservati ai soli dottori dommatici? Come si trasmettono essi questo segreto? Non ha detto poco sopra l'illustre autore, che la morale propriamente detta non ha cessato di essere l'oggetto delle predicazioni della Chiesa? Di cosa parlano i parrochi dall'altare, di cosa parlano tutti i trattati di morale, che ognuno può consultare? Il fedele scrupoloso deve, in Italia, abdicare alla più bella facoltà dell'uomo, quella di studiare e conoscere i suoi doveri. Ma il clero in Italia non cessa di gridare contro la negligenza nell'istruirsi in quella legge sulla quale saremo giudicati; ma inculca ai parenti l'obbligo d'ammaestrare i loro figli in tutti i loro doveri; ma, lungi dal far abdicare ad alcuno la facoltà di conoscerli, intima a tutti, che essa diverrà la condanna di chi non avrà voluto usarla. Gli si raccomanda ( al fedele scrupoloso ) di interdirsi un pensiero che potrebbe fuorviarlo un orgoglio umano che potrebbe sedurlo. Chi vorrà discolpare su questo punto il clero italiano? Se così è, non resta a desiderare altro se non che sia sempre così, e che queste raccomandazioni siano universali, costanti, figlie della scienza e della carità, che il clero non abbia mai altro linguaggio; poiché quello del Vangelo. Del resto, al fedele scrupoloso ( intendendo questo termine nel suo stretto senso ) si raccomanda in Italia, come altrove, d'interdirsi l'eccessive e lunghe considefermarsi sull'idee ilari e confortevoli di fiducia in Dio, razioni sopra ogni azione e sopra ogni pensiero, e di e della sua misericordia. Non sarà qui fuori di proposito l'osservare come questa malattia morale attesti nello stesso tempo, e la miseria dell'uomo, e la bellezza della religione. Lo scrupoloso ci mette del suo l'incertezza, la trepidazione, la perturbazione, la diffidenza, disposizioni purtroppo naturali all'uomo, e che in alcuni sono predominanti a segno che governano, o piuttosto intralciano tutte le loro operazioni. Ma è una cosa molto notabile, che quell'angustia che l'avaro mette nella conservazione della roba, l'ambizioso nel mantenimento e nell'aumento della sua potenza, quella penosa e minuta sollecitudine che tanti hanno, per gli oggetti delle loro passioni, si eserciti da alcuni cristiani, intorno a che? all'adempimento dei loro doveri. ia tendenza alla perfezione è tanto propria alla religione, che si manifesta perfino ne' traviamenti e nelle miserie dell'uomo che la professa. Un animo occupato dal timore di non essere giusto abbastanza, fino a perderne la tranquillità, potrebbe quasi parere un miracolo di virtù, se la religione stessa, tanto superiore al discernimento umano, non ci facesse vedere in quell'animo delle disposizioni contrarie alla fiducia, all'umiltà e alla libertà cristiana; se non ci desse l'idea d'una virtù da cui è escluso ogni movimento disordinato, e la quale, quanto più si perfeziona, tanto più si trova vicina alla calma e alla somma ragione. E ogni volta che egli ( lo scrupoloso ) incontra un dubbio, ogni volta che la sua posizione diviene difficile, deve ricorrere alla sua guida spirituale. Così la prova dell'avversità, che è fatta per elevare l'uomo, lo rende sempre più servo. Non c'è forse scoperta più amara all'orgoglio, che l'accorgersi d'essere stato, per troppa semplicità, un cieco istrumento d'un'astuta dominazione, d'avere ubbidito a dei voleri ambiziosi, credendo di seguire dei consigli salutari. A quest'idea, le passioni compagne dell'orgoglio si sollevano con tanto più di veemenza, in quanto trovano un appoggio nella ragione. Perchè, è certo che Dio vuole che la mente si perfezioni nella considerazione dei suoi doveri, e nella libera scelta del bene e l'uomo che si lascia rapire arbitrariamente il governo della sua volontà, rinunzia alla vigilanza delle sue azioni, delle quali non renderà meno conto per ciò. Il solo sospetto di questa debolezza può quindi portar l'uomo ai pensieri più inconsiderati, e fargli dire senza cagione, e a suo gran danno: Spezziamo le loro catene, e buttiamoci d'addosso il loro giogo. Importa perciò sommamente di separare la voce dell'orgoglio da quella della ragione, perchè unite non ci facciano forza, e d'esaminare tranquillamente quale deva essere, in questa parte, la condotta ragionevole e dignitosa d'un cristiano. Si possono considerare nel sacerdozio due sorte d'autorità: quella che viene da Dio, e forma l'essenza della missione, l'autorità d'insegnare, di sciogliere e di legare; e un'altra autorità che può esser data volontariamente, in riguardo della prima, da questo e da quel fedele, a questo o a quel sacerdote, per una venerazione e per una fiducia speciale. In quanto alla prima, essa è essenziale al cristianesimo: il sottomettercisi non è servitù, ma ragione e dignità. Non c'è atto di questa, che non sia un atto di servizio, in cui il sacerdote non comparisca come ministro di un'autorità divina, alla quale è sottomesso anche lui, come tutti i fedeli; non ce n'è alcuno che offenda la nobiltà del cristiano. Sì, noi, cioè tutti i cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal papa, c'inginocchiamo davanti a un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un sacerdote, fremendo in spirito della sua indegnità e dell'altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell'alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da' suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà. C'eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerata una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s'è trattato tra di noi, che d'una miseria comune a tutti, e d'una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati ai piedi d'un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l'animo alla bassezza, il giogo delle passioni, l'amore delle cose passeggiere del mondo, il timore dei suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi, e di figlioli di Dio ( Sal 2,3 ). In quanto all'autorità del secondo genere, essa è fondata su un principio ragionevolissimo; ma può avere e ha purtroppo i suoi abusi. Per non giudicare precipitosamente in ciò, un cristiano deve, a mio credere, non perder mai di vista due cose: una, che l'uomo può abusare delle cose più sante; l'altra, che il mondo suol dare il nome d'abuso anche alle cose più sante. Quando siamo tacciati di superstizione, di fanatismo, di dominazione, di servilità, riconosciamo pure, che la taccia può purtroppo esser fondata; ma esaminiamo poi se lo sia, giacché queste parole sono spesso impiegate a qualificare l'azioni e i sentimenti che prescrive il Vangelo. Ricorrere, per consiglio, alla sua guida spirituale, nei casi dubbi, non è farsi schiavo dell'uomo; è fare un nobile esercizio della propria libertà. Ed è forse superfluo l'osservare che una tal massima e una tal pratica non sono punto particolari all'Italia, ma comuni ai cattolici di qualunque paese. L'uomo che deve esser giudice in causa propria, e che desidera d'operare secondo la legge divina, non può a meno di non accorgersi che l'interesse e la prevenzione inceppano la libertà del suo giudizio; ed è savio se ricorre a un consigliere, il quale, e per istituto e per ministero, deve aver meditata quella legge, e esser più capace d'applicarla imparzialmente; a un uomo che dev'esser nutrito di preghiera, e che, avvezzo alla contemplazione delle cose del cielo, e al sagrifizìo di se stesso, deve sapere, in particolar maniera, stimar le cose col peso del santuario. Ma del consiglio che gli vien dato, è sempre giudice lui: la decisione dipende dal suo convincimento; tanto è vero, che gli sarà chiesta ragione, non solo di questa, ma della scelta medesima del consigliere. E non s'è mai lasciato di predicare nella Chiesa, che se un cieco ne guida un altro, tutte due cadono nella fossa ( Mt 15,14 ). Purtroppo, quelle due miserabili e opposte tendenze di servilità e di dominazione hanno radice l'una e l'altra nel nostro cuore indebolito dalla colpa. Pigri e irresoluti, buttiamo volentieri sugli altri il peso dell'anima nostra, e siamo facili a contentarci di tutto ciò che ci risparmia una deliberazione. E dall'altra parte, quando un uomo confidi in noi, rincorati dal suffragio, superbi d'estendere il dominio della nostra piccola volontà, siamo subito tentati di servire a questa più che all'utilità degli altri, siamo tentati di dimenticare che l'uomo è nato a un ben più alto esercizio delle sue facoltà, che a signoreggiare le altrui. Queste debolezze della natura umana possono purtroppo produrre degl'inconvenienti nell'uso del consiglio; e ciò dev'essere per tutti i cristiani un soggetto di confusione e di vigilanza. Ma abbandonare le guide che Dio ci ha date, ma buttar via il sale della terra ( Mt 5,13 ), ma privarsi d'un aiuto necessario perchè può aver con sé dei pericoli, ma non vedere altro che dominatori e che intriganti, tra tanti pastori zelanti e disinteressati, che tremano nel dare il consiglio, e che si riputerebbero stolti, se volessero usurpare un'autorità eccessiva, e esporsi con ciò a un giudizio spaventoso; lungi da noi questi pensieri che ci condurrebbero a rendere in parte inutile il ministero istituito per noi. E quegli stesso che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe render conto delle regole che egli sì e imposte. I precetti del Decalogo, le massime e lo spirito del Vangelo, le prescrizioni della Chiesa, ecco le regole che il cattolico virtuoso si propone, e delle quali può rendersi conto quando voglia. Capitolo XIX Sulle obiezioni alla morale cattolica dedotte dal carattere degli italiani Cosi sarebbe impossibile dire fino a qual grado sia stata funesta una falsa istruzione religiosa alla morale in Italia. Non v'è in Europa un popolo che sia più costantemente occupato nelle sue pratiche religiose, e che a queste sia più, universalmente fedele. Non ve n'è alcuno che osservi meno i doveri e le viriti prescritte da quel cristianesimo, al quale sembra tanto affezionato. Ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d'astuzia con essa; ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell'indulgenze, con delle restrizioni mentali, con dei progetti di penitenza, e con la speranza d'una prossima assoluzione; e lungi dall'essere il massimo fervore religioso una garanzia di probità, più si vede un uomo scrupoloso nelle sue pratiche di pietà, più si ha ragione di concepire diffidenza contro di lui. Ecco in poche parole una condanna tanto assoluta, quanto forte. Il popolo italiano è il meno fedele ai doveri e alle virtù del cristianesimo, e quindi il peggior popolo d'Europa. E in esso i peggiori sono quelli che osservano più scrupolosamente le pratiche di divozione. Come s'è accennato fino dal principio, non è nostra intenzione di confutare un tal giudizio, ne di far l'apologia dell'Italia, e molto meno un'apologia comparativa: assunto d'un genere che richiede o piuttosto richiederebbe due condizioni, una delle quali difficilissima, per non dire impossibile, cioè la cognizione dei fatti necessaria al confronto; l'altra, diffìcile anch'essa non poco, se si deve argomentare da quello che si vede, cioè l'imparzialità necessaria al giudizio. Si potrebbe, con molto maggior facilità, e senza metterci nulla del nostro, opporre affermazioni ad affermazioni, sentenze a sentenze, raccogliendo anche una piccola parte di quelle che da scrittori di ciascheduna parte d'Europa sono state pronunziate contro ciaschedun'altra. Qual è la qualità bassa, ridicola, scellerata, che non sia stata attribuita o all'una o all'altra, o anche a ognuna? Qual è il termine di disprezzo, la formula d'esecrazione, che non sia stata adoprata a un tal uso? Qual è il popolo d'Europa, che non sia stato qualche vqjta, e più d'una volta, chiamato il peggio d'Europa? Ma il cielo ci guardi dal rimestare una materia simile. Sono giudizi suggeriti dalle passioni; e tra queste, anche quando non è l'unica, ha sempre una bona parte l'orgoglio, che ci fa trovare la nostra esaltazione nell'abbassamento altrui: tanto sente, suo malgrado, il bisogno di cercar qualche aiuto al di fuori. Lasciamo questi giudizi, così vasti e così turbolenti per noi, e nei quali siamo sempre giudici non abbastanza informati, e quasi sempre parte appassionata, lasciamoli a Quello che, conoscendo ogni cosa, e non avendo bisogno d'innalzarsi per mezzo dei paragoni, ne d'accattar lustro da nessuna compagnia, giudica i popoli nell'equità ( Sal 67,5 ). Del resto, il giudizio di cui si tratta qui specialmente, è espresso in termini tali, che l'accettarlo qual è sarebbe, di certo, oltrepassar l'intenzione dell'autore. Perchè, di certo, dicendo che, in Italia ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d'astuzia con essa; che ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell'indulgenze, con delle restrizioni mentali, con dei progetti di penitenza, e con la speranza di una prossima assoluzione, non ha voluto dire ciò che dicono queste parole. Non ci sarebbe tra di noi uno solo che ubbidisca sinceramente alla sua coscienza ! Nessuno di noi potrebbe sperare d'avere un amico virtuoso, d'esserlo lui medesimo! E le gioconde emozioni della stima e della fiducia, e la gioia che è dato all'uomo di provare, allorché, stringendo la mano dell'uomo, sente con sicurezza che un cuore risponde al suo, non sarebbe concessa a nessuno di noi! Nel passo medesimo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando, si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, parole che non permettono d'intendere, senza contraddizione, quest'ultime nel loro significato proprio e naturale. Il dire che tra i cattolici d'Italia, anche l'uomo che e stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe recidersi conto delle regole che s'è imposte, è dire indirettamente, ma espressamente, che, anche in Italia, e tra i fedeli scrupolosi d'Italia, ci può essere, se Dio vuole, qualche uomo veramente e puramente virtuoso, e del quale, per conseguenza, sarebbe troppo strano che s'avesse ragione di diffidare in un grado speciale. Ma ciò che importa non è di vedere qual sia, secondo una o un'altra opinione, lo stato morale dell'Italia, in paragone di quello degli altri popoli d'Europa. Ciò che importa o, possiam dire, ciò che importava, era di vedere se, di quel tanto o quanto male morale che c'è sicuramente in Italia, cioè anche in Italia, sia stata cagione un'influenza speciale della religione cattolica. Ora, in questo forse troppo lungo esame, abbiamo visto che, delle dottrine citate come cagione dell'asserito speciale pervertimento. 1° Alcune, veramente opposte alla morale, non hanno, né ebbero mai corso in Italia, nulla più che tra i cattolici dell'altre nazioni; 2° Altre, che furono e sono insegnate in Italia, lo furono e lo sono ugualmente in tutti i paesi cattolici, come parte essenziale di questa religione. E abbiamo veduto che queste sono consentanee al Vangelo, e, per naturai conseguenza, consentanee insieme e superiori alla ragione. Sull'autorità della religione in punto di morale, sulla distinzione dei peccati in mortali e veniali, sulla dottrina e sulle forme della penitenza, sull'efficacia del pentimento, sulla forza e sulla sanzione dei comandamenti della Chiesa, sui motivi dell'elemosina, sull'astinenza, sull'umiltà, su tutti i punti insomma, ch'erano allegati come prova di differenza, l'esame ci ha fatto trovare unità di fede e d'insegnamento. E torna qui a proposito il rammentare una cosa che s'è accennata da principio, cioè che, nel testo medesimo che abbiamo esaminato, la cagione di quello speciale pervertimento è attribuita, più d'una volta, non già a dottrine particolari all'Italia, ma alla Chiesa nominatamente. La Chiesa, è detto in quello, s'impadronì della morale, come di cosa tutta sua, e sostituì l'autorità dei suoi decreti e le decisioni dei Padri ai lumi della ragione e della coscienza, lo studio dei casisti a quello della filosofia, un'abitudine servile al più nobile esercizio dello spirito. La Chiesa collocò i suoi precetti accanto alla gran tavola delle virtù e dei vizi e diede loro un potere, che le leggi della morale non poterono ottener mai. Accuse, delle quali, con poverissime forze, ma col potentissimo aiuto della verità, abbiamo cercato di far vedere l'insussistenza: ma che, anche senza essere esaminate, si manifestano da sé come incapaci di dimostrare l'effetto speciale e d'eccezione, ch'era proposto a dimostrare. Il resto poi della colpa è attribuito quasi sempre ai casisti; i quali non sono certamente la Chiesa, ma non sono nemmeno una classe d'uomini particolare all'Italia. E in quanto agli abusi nell'applicazione della dottrina cattolica, che possono esistere in Italia, abbiamo visto che non vengono dall'insegnamento, poiché questo non è altro che l'insegnamento cattolico; il quale li denunzia e li combatte, e gli avrebbe levati di mezzo affatto e per sempre, se l'uomo non avesse il terribile potere d'alterare a se stesso la verità, e di piegar le dottrine alle passioni. E abbiamo visto che, gli abusi, come vengono da queste cagioni, umane pur troppo e non italiane, così è stato ed è necessario il denunziarli e il combatterli in altri paesi cattolici; e che il rimedio a questo, come a tutti i mali morali, è per tutti la cognizione della dottrina, e l'amore di essa, che è il mezzo sicuro d'intenderla rettamente. Appendice al capitolo terzo Del sistema che fonda la morale sull'utilità Nella prima edizione, si contenevano alcuni cenni intorno a questo sistema, per ciò che riguarda la sua applicazione, o piuttosto la sua applicabilità, alla pratica. Ma erano cenni rapidi e leggieri; ed essendo questo il più accreditato tra i sistemi che vogliono distinta affatto, e separata per principio la morale dalla teologia, abbiamo creduto che non sarebbe fuori di proposito il farci sopra qualche osservazione più estesa. Ci limiteremo però, per quanto sarà possibile, a considerarlo da quell'aspetto solo; perchè, da una parte, il suo vizio più essenziale e più immediato, cioè l'assoluta mancanza di moralità, è già stato messo da altri in piena luce; e dall'altra il chiarirlo inapplicabile ( logicamente, s'intende ) è un'altra maniera di dimostrarlo falso. Questo sistema pone che la vera utilità dell'individuo s'accorda sempre con l'utilità generale, dimanierachè l'uomo, giovando agli altri, procaccia il maggior utile a sé stesso. E da ciò vuol che si deva ricavare la regola morale delle deliberazioni umane. Il nostro assunto principale è d'esaminar se si possa. Supponiamo dunque, prescindendo da ogni altra considerazione, un uomo persuaso della verità di questo principio, e disposto sinceramente a uniformarcisi nella pratica; supponiamolo, dico, alla scelta d'un'azione, in una cosa dove sia interessata la moralità. qual'è il criterio che il sistema gli potrà somministrare per far questa scelta? Fatto non già unico, ma notabile certamente! due criteri invece d'uno, non dirò somministra, ma implica questo sistema. Dico due criteri d'uguale autorità, e indipendenti l'uno dall'altro; giacche, se l'interesse individuale s'accorda sempre con l'interesse generale, è evidente che trovarne uno è averli trovati l'uno e l'altro; e che, per conseguenza, farebbe una fatica assurdamente superflua chi, dopo essersi persuaso che l'azione intorno alla quale delibera sarà utile a lui, si mettesse, per assicurarsi della moralità di essa, a cercare se sarà utile anche agli altri, e viceversa. Ma questa abbondanza apparente non è, ne potrebbe essere altro, che una mancanza reale. Ogni duplicità non ha la sua ragione e la sua concordia, che in un'unità superiore, la quale in questo sistema manca affatto, anzi n'è esclusa; giacché, né esso pretende di dare, ne avrebbe di che dare, una ragione per la quale l'utilità dell'individuo operante deva necessariamente accordarsi con l'utilità generale. Appunto perchè non può somministrare un unico, supremo, assoluto criterio, come la ragione richiede, ne implica, come s'è detto dianzi, due d'ugual valore, cioè ugualmente congetturali; e ciò per effetto della loro comune natura. Cos'è infatti l'utilità avvenire, sia individuale, sia generale, riguardo alla cognizione umana, se non una cosa di mera congettura? Perchè, non è essa punto una qualità che l'osservazione possa riconoscere come inerente, e no, all'azione da farsi, o da non farsi, alla quale il criterio dev'essere applicato; è un effetto che potrà venire, o non venire da quell'azione, dipendentemente dall'operazione eventuale d'altre cagioni. E quindi, proporre l'utilità per criterio primario, anzi unico, della moralità dell'azioni umane come fa quel sistema, è proporre un criterio, non dirò ingannevole, ma inapplicabile, tanto nell'una, che nell'altra maniera. Che se, in una cosa tanto evidente, potesse parer necessaria una più particolare dimostrazione, si veda, di grazia, come mai un uomo qualunque possa giudicare anticipatamente con certezza, se una data azione sia per riuscire più utile che dannosa a lui medesimo; che, delle due ricerche, può parere, a prima vista, la meno diffìcile. Ha forse l'avvenire davanti a sé? Conosce gli effetti degli effetti, le circostanze independenti dalla sua azione, e che opereranno sopra di lui in conseguenza di quella? le determinazioni ch'essa potrà suggerire ad altri uomini, noti, ignoti a lui, a seconda di loro interessi, di loro opinioni, di loro capricci? Conosce il cambiamento possibile dei suoi sentimenti stessi? la durata della sua vita, da cui può dipendere che un'azione la quale, fino a un certo tempo, aveva portato utile, porti danno, e viceversa? Quale sarà la guida che possa condurlo al termine d'una tale ricerca? L'esperienza, dicono. Guida eccellente, senza dubbio, ma fin dove può arrivare essa medesima. L'autorità dell'esperienza, riguardo ai fatti contingenti avvenire, è fondata sulla supposizione tacita ( che la riflessione poi dimostra ragionevolissima ) d'un ordine che comprende ugualmente i fatti che sono stati e quelli che sono, e quelli che saranno; e del quale, per conseguenza, i primi, cioè quelli tra i primi, che possiamo conoscere, sono per noi una certa qual manifestazione limitata e parziale, e quindi un indizio dei futuri. Se poi anche il sistema deduca da quest'ordine l'autorità dell'esperienza, e se possa ammetterlo senza rinnegar se medesimo; o su che altro fondi quell'autorità, e se ci sia altro su di che fondarla, non occorre qui di farne ricerca. Basta al nostro assunto quella verità innegabile, che dall'esperienza non si può ricavare, riguardo al futuro, nulla più che un indizio di maggiore o di minor probabilità. E l'esperienza medesima, facendoci, per dir così, passar davanti agli occhi tanti e tanti fatti prodotti da cagioni imprevedute e imprevidibili, attesterebbe, se ce ne fosse bisogno, che non si può da essa ricavare una regola certa dell'utile o del danno individuale che possa resultare da un'azione; e non occorre aggiungere: dell'utile e del danno generale. Anzi, a prima vista, come ho già accennato, questa seconda scoperta può parere la più difficile. Ma chi appena ci rifletta deve vedere che non si tratta qui di maggiore o minor difficoltà: sono due scoperte ugualmente impossibili. A far conoscere il futuro l'esperienza è inetta per chi non conosce il tutto, superflua per Chi lo conosce. All'uomo non basta; Dio non n'ha bisogno. Ma, replicano, quando mai ci siamo noi sognati di chiedere e d'attribuir tanto alla previsione umana? Chi non sa che l'esperienza non può condurre alla cognizione assolutamente certa del futuro? che l'utile e il danno avvenire non possono esser altro che materia di probabilità? E appunto perchè l'uomo non possiede l'onniscienza, deve contentarsi della semplice probabilità. Se fossero veramente persuasi di ciò, non si vede come potrebbero credere che ci sia una scienza della morale: e lo credono però certamente, poiché dicono d'averne trovato il vero fondamento. Cosa sarebbe infatti una scienza fondata su un principio, e armata d'un criterio, volendo applicare il quale, non si trovasse a ogni immaginabile quesito altra risposta che: forse sì, e forse no? Cosa sarebbe, non dico una scienza, nell'applicazione della quale l'uomo potesse qualche volta rimaner dubbioso ( che questa è una condizione di tutte le scienze, o piuttosto dell'uomo ) ; ma una che, al dubbio di chi ricorre ad essa, non potesse mai rispondere se non col dubbio? Per avere delle nozioni certe, non è punto necessaria l'onniscienza, basta l'intelligenza; anzi non ci sarebbe intelligenza senza di questo. E si noti che, nell'altre scienze, il dubbio, oltre all'essere solamente parziale, anzi per questo esser solamente parziale, è anche relativo al momento in cui viene espresso. Finora, si dice in quei casi, non s'è potuto, su questo e su quel punto, arrivare ad altro che a dell'opinioni più o meno probabili. Delle nove e più attente osservazioni, una qualche accidentale e felice scoperta, una di quelle occhiate penetranti di qualche gran d'ingegno, potranno sostituire all'opinióni una cognizione certa, da aggiungere a quelle che già la scienza possiede. - La sola scienza della morale avrebbe per sua condizione universale e perpetua la probabilità! vale a dire, sarebbe condannata al dubbio su tutti i punti e per sempre! Ma se fosse tale, il chiamarla scienza non sarebbe altro che una contradizione. Il dubbio parziale e accidentale limita la scienza: il dubbio universale e necessario la nega. Ma, come accennavo, non credono davvero loro medesimi che nella morale non ci sia altro che probabilità; e quando mettono in campo una così strana sentenza, non lo fanno già per esserci stati condotti da una serie d'osservazioni e di ragionamenti; ma perchè è l'unica replica che possano fare a chi oppone al loro sistema la mancanza d'un criterio assoluto. Allegando da principio l'esperienza, non avevano pensato ad esaminare la natura e i limiti della sua autorità. Tenendola per una buona guida, com'è tenuta universalmente, e com'è infatti, dentro quei limiti, supponevano gratuitamente e in confuso, che dovesse bastare al loro intento. Quando poi si sentono opporre che l'esperienza non può somministrare altro che un criterio di probabilità, dicono che la probabilità sola deve bastare. È l'usanza dell'errore, darsi ad intendere d'avere scelto il posto dov'è stato cacciato, e chiamare inutile o impossibile ciò che non può dare. Ma non ne sono veramente persuasi, nemmeno dopo averlo detto. E se paresse una temerità il voler così entrare nella mente degli altri, non c'è nulla di più facile che il far dichiarare la cosa a loro medesimi, e con risolutezza, anzi con emozione. Domando infatti a qualsiasi di loro, se, per esempio, uccidere l'ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, sia o non sia un'azione che cada sotto un giudizio della moralità. E sottintesa la risposta, che non può esser dubbia, ragiono così: O il criterio della morale non può farci arrivare che a un giudizio di mera probabilità; e si dovrà dire che uccidere l'ospite addormentato, per impossessarsi del suo denaro, è un'azione probabilmente, nulla più che probabilmente, contraria alla morale; e che, per conseguenza, c'è anche una probabilità, piccola quanto si vuole, ma una probabilità, che possa essere un'azione morale; o Ma non mi lascia finire: non può sentire senza indegnazione enunciar come problematico un tale giudizio. Eppure, per avere il diritto d'enunciarlo assolutamente, il diritto di dire: no, non c'è, ne ci può essere probabilità, ne grande, ne mezzana, né mirnma, che una tale azione sia conforme alla morale, non c'è altro mezzo che dire; l'utilità futura, essendo materia di mera probabilità, non può essere il criterio della morale. O rinunziare al sistema, o rinunziare all'indegnazione. Ma, dicono ancora, cos'altro facciamo noi, che osservare i fatti, e fatti essenziali della natura umana, e esporli? Siamo forse noi che abbiamo suggerito agli uomini d'appetire l'utilità, e di procurarsela? Siamo noi che abbiamo inventata l'usanza di prenderla per motivo nella scelta dell'azioni, e di crederla un motivo legittimo e ragionevole? E una condizione della natura umana il pensare, prima di tutto, al proprio interesse. Prendetela con la natura umana, prendetela col senso comune, che la nostra teoria non ha fatto altro che interpretare, riducendo i suoi giudizi uniformi e costanti a una sintesi precisa e fedele. Andate a dire a tutti gli uomini, che il criterio di cui si servono perpetuamente per la scelta delle loro azioni, è immorale e antilogico. Non ci vuol molto a scoprir qui un falso ragionamento fondato sull'alterazione d'un fatto. Altro è che l'utilità sia un motivo, cioè uno dei motivi per cui gli uomini si determinano nella scelta dell'azioni, altro è che sia, per tutti gli uomini, il motivo per eccellenza, l'unico motivo delle loro determinazioni. Non hanno osservato quei filosofi, o piuttosto sono riusciti a dimenticarsi ( giacche è un'osservazione che non hanno potuta non fare migliaia di volte, e non solo sugli altri, ma sopra loro medesimi ) che, per gli uomini che si propongono d'operar moralmente ( e la questione, essendo sulla moralità, non contempla se non questi ), l'utilità è bensì un motivo, ma un motivo subordinato e secondarlo; e che, lungi dall'esser presa per criterio in una questione di moralità, la suppone già sciolta, o che non ci sia neppure il bisogno d'esaminarla. È verissimo che, in molte, anzi in moltissime deliberazioni, anche questi uomini non considerano altro che l'utilità. Ma quando e perchè? Quando si tratti di scegliere tra delle azioni, ognuna delle quali sia, riguardo alla moralità, conosciuta eleggibile, e conosciuta tale per un criterio affatto diverso, e che contempla, non gli effetti possibili e ignoti dell'azioni, ma la loro essenza medesima; cioè per la nozione della giustizia. Un galantomo che deliberi intorno al comprare una cosa qualunque, nelle circostanze che rendono legittima una tale azione, potrà bilanciar lungamente l'utile dell'acquisto e l'inconveniente della spesa, senza che gli venga neppure in mente che ci sia una moralità al mondo. Ma qual meraviglia che una considerazione non entri dov'è sottintesa? che la mente non cerchi in un'azione la qualità ch'era già associata ad essa? che la prudenza parli sola, quando la giustizia non ha che dire? Ecco dove l'esperienza è una buona guida: dove basta ciò che essa può far trovare, e che non si troverebbe senza il suo aiuto: cioè una maggiore probabilità. Ecco fin dove è tenuta tale dal senso comune, al quale, così a torto, s'appella il sistema. L'errore, inetto a scoprire, non ha che l'abilità d'alterare; e qui ha preso al senso comune il metodo d'applicare il criterio dell'utilità e i dati dell'esperienza a una categoria, e categoria subordinata, di deliberazioni; e, per farne una cosà sua, e dargli una nova forma apparente, non ha fatto altro, che trasportarlo a tutte le deliberazioni; da un posto secondario, dove aveva la sua ragion d'essere, al primo, anzi a un unico posto, dove non n'ha veruna. Ma oltre i casi, frequentissimi senza dubbio, nei quali la considerazione della moralità non dà nell'occhio, perchè sottintesa, ce ne sono, eccome! di quelli in cui entra esplicitamente, sia per riprovare un'azione come ingiusta, sia per esaminare se un'azione sia giusta o ingiusta, lecita o illecita. E in questi casi, l'utilità, non che esser presa ( s'intende sempre dagli uomini che si propongono d'operar moralmente ) né per il solo, né per il preponderante criterio, non é nemmeno presa in considerazione. So bene che i propugnatori del sistema dell'utilità dicono che questa è una mera illusione; che, in fatto, ciò che si considera, anche in quei casi, é l'utilità e il danno; e che le parole « giusto » e « ingiusto » quantunque presentino in apparenza e confusamente un altro significato, tornano in ultimo a quel medesimo: cioè che « giusto » non significa in fondo, se non ciò che porta più utile che danno; e « ingiusto », ciò che, quando pure paresse avere, o avesse anche con sé una qualche utilità immediata, porta alla fine un danno superiore ad essa. Ma questo è evidentemente sostituire all'esame del fatto un'induzione, e un'induzione, non dirò solamente forzata, ma opposta all'evidenza. Il fatto da esaminare, è se veramente gli uomini, per « giusto » intendano più utile, e, per « ingiusto » il contrario. Ma che dico, esaminare? e a chi verrebbe in mente che ce ne potesse esser bisogno, se a quei filosofi non fosse venuto in mente d'affermare una cosa simile? Come! Uno che non si curi o si curi poco della moralità, propone come utile un'azione a un altro, il quale non accetta il consiglio, dicendo che non la trova giusta; il primo, affine di persuarderlo, adduce nuovi argomenti d'utilità; l'altro ripete che non si tratta di questo, che lui non va a cercare se l'azione porterà utile o danno, che, per astenersene, gli basta che non sia giusta; e quest'uomo vuol dire: l'azione che mi proponete non è abbastanza utile? In verità, la cosa è tanto forte, che uno a cui riuscisse nuova, avrebbe qualche ragione di domandare se c'è proprio stato qualcheduno che l'abbia detta espressamente, o se non siamo piuttosto noi che la facciamo dire al sistema, per via d'induzione. Eccola dunque detta espressamente dal Bentham, a proposito del giudizio dato da Aristide sul bel progetto di Temistocle, di dar fuoco alle navi dei Greci alleati d'Atene, che si trovavano riunite a Pagasa; e ciò affine di procurare agli Ateniesi il dominio sulla Grecia intera. Quelli, dice, che dalla lettura degli Ufizi di Cicerone e dei libri dei moralisti platonici hanno ricavata una nozione confusa dell'Utile, come opposto all'Onesto, citano spesso il detto d'Aristide sul progetto che Temistocle volle rivelare a lui solo. Il progetto di Temistocle è utilissimo, disse Aristide all'adunanza del popolo ateniese, ma e ingiustissimo. Credono di veder qui un'opposizione manifesta tra l'utile e il giusto. Errore: non c'è altro che un bilancio di beni e di mali. Ingiusto è una parola che presenta il complesso di tutti i mali che derivano da uno stato di cose, nel quale gli uomini non possano più fidarsi gli uni degli altri. Aristide avrebbe potuto dire: « Il progetto di Temistocle sarebbe utile per un momento, e dannoso per dei secoli: quello che ci farebbe acquistare non è nulla in paragone di quello che ci farebbe perdere ». A questo segno potè una preoccupazione sistematica far travedere un uomo d'ingegno, e osservatore diligente, quando voleva. Non s'avvide nemmeno che, essendo nella proposizione sulla quale argomentava, il progetto di Temistocle chiamato, non utile semplicemente, ma utilissimo, la sua interpretazione farebbe dire a Aristide: Il progetto di Temistocle è utilissimo, ma dannosissimo agli Ateniesi, per utilissimo, avrebbero dovuto intendere: utile per un momento, e dannoso per dei secoli! Che se, come accenna il Bentham, si vuol credere apocrifo il fatto, e considerarlo semplicemente come un esempio ipotetico, si può affermare senza esitazione, che a qualunque moltitudine avente una lingua, nella quale ci siano i vocaboli utile e giusto, fosse proposta la cosa in quei termini, intenderebbe che gli si vuol parlare di due qualità diverse. Per darsi a intendere che utilità e giustizia siano un concetto medesimo, con la sola differenza del più e del meno, ci vuole un lungo e ostinato studio di far parere a sé stesso ciò che non è, e di dimenticare ciò che è: studio, del quale una moltitudine non è capace. E se si domanda, con qual ragione una moltitudine qualunque o, in altri termini, il senso comune ammetta e tenga ferma questa distinzione tra i due concetti d'utilità e di giustizia, la risposta è inclusa nella domanda: sono due concetti, come sono due vocaboli. Uno è il concetto d'una legge de voleri e dell'azioni, fondata nella natura degli esseri; l'altro è il concetto d'un'attitudine delle diverse cose a produrre degli stati piacevoli dell'animo. E siccome questi concetti s'applicano moltissime volte da tutti gli uomini, e le più di queste separatamente e ognuno da se; siccome, dico, si può pensare, e si pensa effettivamente, alla giustizia di un'azione, senza pensare né punto né poco alla sua utilità, e viceversa; così non c'è nulla per il comune degli uomini ( come non c'è nulla di ragionevole per nessuno ), che porti a dubitare della duplicità di quei concetti, a perder di vista una distinzione tanto manifesta e tanto costante, tra due oggetti del pensiero. Ma se dicessimo che anche il Bentham l'intendeva in fondo come il popolo d'Atene e come ognuno che concepiva anche lui la giustizia come un'essenza distinta dall'utilità, e avente dei suoi attributi propri, che non appartengono a questa, sarebbe ora una temerità davvero? Meno che mai, perchè qui non c'è bisogno di presumere: ha detta la cosa lui medesimo in un momento di distrazione. Distrazione un po' forte, perchè venuta subito dopo aver affermato il contrario; ma non c'è da maravigliarsi che uno sia distratto facilmente da ciò che non ha davvero nell'animo. In una nota al luogo citato dianzi, dopo aver detto che uno storico inglese ha dimostrato falso l'aneddoto, aggiunge: Plutarco che voleva far onore agli Ateniesi, sarebbe stato impicciato bene a conciliare con questo nobile sentimento di giustizia la maggior parte della loro storia. Nobile sentimento di giustizia? Cosa salta fuori ora? Sentimento d'utilità, doveva dire, se non si trattava d'altro che d'un bilancio di beni e di mali. Ma allora cosa ci ha che fare la nobiltà del sentimento? Rifiutare un progetto che farebbe perdere incomparabilmente più di ciò che farebbe acquistare, è senza dubbio una determinazione giudiziosa; ma qual ragione di chiamarla nobile? Non voler comprare in grande una merce, quando si prevede che sia per rinviliare, l'avrebbe il Bentham chiamato un nobile sentimento? E se la giustizia, per chi non si lascia portar via dalle parole, ma ne indaga l'intimo significato, non vuol dir altro che utilità, perchè applicare a una denominazione la qualità che non s'applicherebbe all'altra? Singolare parola questa « giustizia », che, non volendo dir nulla per sé, e non essendo altro che un mezzo indiretto e improprio di significare una cosa, può ricevere un titolo bellissimo, che al nome vero della cosa non starebbe bene! un titolo che, in morale, non avrebbe significato veruno, non si sarebbe mai potuto pensare ad applicarlo a nessun sentimento, a nessuna azione umana, se la giustizia non fosse altro che utilità! Come si spiega un simile imbroglio? L'abbiamo detto. Il Bentham credeva in fondo che la giustizia ha un oggetto distinto dall'utilità, e che appunto per questo l'amore della giustizia è un sentimento nobile; e gli scappò fuori ciò che aveva in fondo. Habemus confitentem … virum boniim. È l'onesta natura e il senso retto dell'uomo, che scacciati dalla trista forca del sistema, tornano indietro di corsa. Che se paresse a qualcheduno, che questo sia quasi un cogliere un uomo in parole sfuggite senza considerazione, e non richieste nemmeno dall'argomento, risponderemmo che la contradizione che abbiamo notata, è bensì, riguardo al Bentham, un fatto accidentale; giacché non c'era nulla che lo costringesse a dire in una nota il contrario di ciò che voleva stabilire nel testo; ma è un fatto prodotto da una causa permanente e fecondissima, cioè dall'opposizione dell'assunto con ciò che attesta l'intimo senso: un fatto, per conseguenza, che si riprodurrà necessariamente ogni volta che quell'assunto sia messo a fronte dell'intimo senso. E nulla di più facile, diremo anche qui, che il farne la prova. Supponiamo dunque che un uomo si proponga, nelle circostanze più favorevoli che si possano immaginare, d'impiegare un grosso capitale nel dissodare un suo terreno, nel farci di gran piantagioni, e nel fabbricarci delle case, per stabilirci delle famiglie miserabili e chiedenti lavoro, con gli attrezzi e il bestiame necessario alla coltura; e che questo brav'uomo si rivolga a un seguace del sistema dell'utilità, e gli dica: credete voi che questo mio disegno sia conforme alla morale? - Non è egli vero che il filosofo si mette a ridere d'un dubbio di questa sorte? Supponiamo ora che l'altro soggiunga: - Vorrei anche sapere se, mettendo a esecuzione questo disegno, procurerò un vantaggio a me e agli altri. - Gli sarà risposto che, con quelle circostanze tanto favorevoli, e quando la cosa sia fatta a dovere, c'è tutto il fondamento di sperare un tal risultato. Ma se ( è un apologo che facciamo ) insiste e dice: - Vorrei che mi deste una sicurezza uguale a quella che mi avete data dianzi con quel ridere più significativo di qualunque parlare; perchè mi preme, è vero, sopratutto di non fare una cosa che non sia conforme alla morale; ma mi preme anche molto di fare una cosa utile. Ridete, di grazia, anche di questo mio dubbio; e assicuratemi in questa maniera, che è assurdo il supporre la possibilità d'un risultato contrario; - cosa risponde li filosofo? Ha riconosciuta la distinzione tra l'utilità e la moralità; in due volte, è vero, ma l'ha riconosciuta: si sente ora di ritrattarsi? Rispondo arditamente di no. Come una repugnanza morale non gli permise poco fa d'ammettere che la morale non sia capace se non d'un criterio di probabilità, così una repugnanza logica non gli permette ora d'attribuire all'utilità un criterio di certezza. E questo è un riconoscer dinuovo, che la questione della moralità, e quella dell'utilità sono due, non una sola espressa in diversi termini. Allunghiamo un pochino l'apologo, e supponiamo che, compiuta l'impresa, e al momento di raccogliere i primi frutti, venga un terremoto e subissi ogni cosa, salvandosi il padrone a stento, di mezzo alle rovine. Ognuno chiamerà disgraziata un'impresa che, invece dell'utile sperato, ha prodotto uno scapito effettivo: ci sarà alcuno che la chiami immorale? Eppure è il giudizio che ne dovrebbe portare chiunque fosse persuaso davvero che l'utilità è il criterio della morale, che il merito e il demerito dai nostri sentimenti e delle nostre azioni non dipendono dalle loro cause, ma dai loro effetti, per servirmi delle parole d'un celebre sostenitore di quella dottrina, smentita nobilmente dalla sua vita. Dico forse troppo? Vediamo; perchè non c'è dubbio che potrebbe benissimo esimersi dai proferire una così strana sentenza, dicendo invece: - Non precipitiamo il nostro giudizio. Il sistema prescrive di dedurlo dagli effetti; e possiamo noi dire di conoscere gli effetti di quell'impresa? Ne conosciamo alcuni, i più immediati ma alcuni effetti è forse lo stesso che gli effetti? Sappiamo noi quante sorte di consolazioni e di compenso potrà trovare quell'uomo? Non potrebbe dalla disgrazia medesima essere stimolato a tentare delle altre imprese e da successi più fortunati, dall'attività medesima impiegata a rifare il suo capitale, ricavare più soddisfazione, che non n'avrebbe avuta dal goderlo e dall'accrescerlo? Il piacere che può dar la ricchezza è forse necessariamente proporzionato alla quantità di essa? E in quanto a quelli che sono morti nella catastrofe, già è ciò che, o presto o tardi, gli doveva accadere; e chi può decidere se sia stato peggio o meglio per loro il morire quella volta piuttosto che un'altra, forse dopo malattie dolorosissime, forse in una qualche maniera più atroce? Riguardo poi a un interesse più generale, chi sa se l'esempio dato da quell'uomo, l'aver visto, anche per poco, tante campagne floride dove prima non c'era che una sodaglia, non possa eccitare un'emulazione, la quale porti un aumento di produzione e di prosperità, da compensare, da sorpassar di molto il capitale ingoiato dal terremoto? — Non c'è dubbio, ripeto, che, con questi e con altri argomenti dello stesso genere, potrebbe sospendere il suo giudizio; ma a condizione di tenerlo sospeso per sempre. Potrebbe schivar lo sproposito; ma a condizione di riconoscere che il criterio proposto dal sistema è inapplicabile. Conclusione alla quale s'arriva senza fatica, e quasi senza avvedersene, da qualunque parte si prenda a esaminarlo. Dicendo però che Aristide, in quella sua famosa sentenza, intese manifestamente d'opporre il giusto all'utile, come cose che possano essere qualche volta inconciliabili, abbiamo forse voluto anche dire che avesse ragione d'intenderla così? Tutt'altro. Crediamo anzi col Bentham, ma per una ragione affatto diversa dalla sua, e della quale faremo un cenno tra poco, che una tale opinione non possa venire, se non da nozioni confuse e dell'utile e del giusto. Dove Aristide, se il fatto è vero, l'intendeva bene, o dove, per andar più al sicuro, l'intese bene quella volta, fu nel rivendicare la ragione di criterio anteriore e supremo alla giustizia, lasciata fuori perversamente da Temistocle. Ma questa cosa buona, la fece male. Uno che avesse avute nozioni abbastanza chiare e del giusto e dell'utile, e, per conseguenza, della loro relazione necessaria, non avrebbe mai fatta quella strana concessione, che un progetto di quella sorte si potesse chiamare utilissimo. O avrebbe detto: La cosa che Temistocle vi dà per utilissima sarebbe ingiustissima; o fidandosi nella forza di questa seconda parola, nella repugnanza che gli uomini provano, per vergogna, anche quando non è per coscienza, a accettar la cosa quand'è chiamata col suo nome, si sarebbe contentato di cambiar la questione ( come si deve fare con le questioni piantate in falso ), e di dire semplicemente: Ciò che Temistocle propone sarebbe una grand'ingiustizia, o meglio, un'abbominevole scelleratezza. Ma altro è il dire che, tra la giustizia e l'utilità, non ci possa essere una vera e definitiva opposizione; altro è il dire che siano una cosa sola, cioè che la giustizia non sia altro che utilità. La prima di queste proposizioni esprime una di quelle verità che, più o meno distintamente e fermamente riconosdiute, fanno parte del senso comune; la seconda, è, diremo anche qui, un'alterazione, una trasformazione di questa verità che il sistema ha presa dal senso comune: perchè, col mezzo proposto da esso, non si sarebbe trovata in eterno. Infatti, se si domanda al sistema, come mai s'arrivi a conoscere che l'utilità è sempre d'accordo con la giustizia, o, per dirla con altri suoi termini, che l'azione utile al pubblico torna sempre utile al suo autore, e viceversa; se si domanda, dico, come s'arrivi a conoscere una tal cosa, con tanta certezza, da farne il fondamento e la regola della morale; il sistema risponde, come s'è visto, che ce l'insegna l'esperienza. Ma s'è anche visto che, dall'esperienza, per quanto sia vasta e oculata, non si può cavar nessuna conseguenza certa riguardo all'avvenire, e quindi nessuna regola certa per la scelta dell'azioni. E dopo di ciò, non è certamente necessario l'esaminare quale e quanta sia l'esperienza, sulla quale il sistema pretende fondare quello che chiama il suo principio. Ma, per vedere con qual leggerezza proceda in tutto, e per sua natural condizione, non sarà inutile l'osservare di quanto poco si contenti, anche dove sarebbe affatto insufficiente il molto, anzi tutto l'immaginabile di quel genere. Cos'è, dunque, l'esperienza posseduta, sia direttamente, sia per trasmissione, da quelli che credono di poterne ricavare una tal conclusione? e suppongo che siano gli uomini che ne possiedano il più. È la cognizione di un piccolissimo numero di azioni umane, relativamente a quelle che hanno avuto luogo nel mondo, e d'un numero dei loro effetti incomparabilmente minore; giacche chi non sa quanto numerosi mediati, sparsi, lontani, eterogenei, possano esser gli effetti d'un'azione umana? effetti, dei quali una parte Dio sa quanta e quale, non è ancora realizzata; giacché come s'è accennato dianzi, chi potrebbe dire che sia compiuta e chiusa la serie degli effetti d'un'azione antica quanto si voglia? E con un tal mezzo sarebbero arrivati a scoprire una legge relativa a tutte l'azioni passate, presenti e possibili? Che! non avrebbero nemmeno potuto pensare a cercarla; perchè il concludere dal particolare al generale, che è il paralogismo fondamentale del sistema, non sarebbe nemmeno un errore possibile, se l'uomo non avesse, per tutt'altro mezzo, l'idea del generale, che di là non potrebbe avere. Quella che pretendono d'aver ricavata dall'esperienza, è una verità che hanno trovata stabilita, e ab immemorabili, nel senso comune. Il senso comune tiene infatti, che l'utilità non possa, in ultimo, trovarsi in opposizione con la giustizia. E lo tiene, non già per mezzo d'osservazioni che non potrebbero mai arrivare all'ultimo; ma per una deduzione immediata, ovvia, e, direi quasi, inevitabile, dal concetto di giustizia. In questo concetto è compreso quello di retribuzione, cioè di ricompensa e di castigo; e il concetto di giustizia si risolverebbe in una contradizione mostruosa, o, per dir meglio, non sarebbe pensabile, se la retribuzione dovesse compirsi alla rovescia, e dall'opera conforme alla giustizia venir definitivamente danno, che è quanto dire castigo, al suo autore; e viceversa. Ma come poi, e con qual ragione, dal semplice concetto di questa retribuzione, il senso comune corre, con tanta fiducia, a concludere e a credere che deva realizzarsi nel fatto? Ciò avviene perchè il concetto di giustizia si manifesta alla cognizione come necessario; e quindi non può entrare nel senso comune che cessi d'esser tale, riguardo alla realtà, alla quale si riferisce, e si riferisce con uguale necessità; giacche si può ben pensare la giustizia, senza farne alcuna speciale applicazione, ma non si potrebbe pensarla come priva d'ogni applicabilità. E non già che il comune degli uomini riconosca riflessamente, e pronunzi espressamente, che ciò che è necessario in un modo non può mai diventar contingente in nessun altro; ma, appreso una volta un concetto come necessario, continua naturalmente e senza studio, senza aver nemmeno bisogno del vocabolo, a riguardarlo come tale nell'applicazioni che gli avvenga di farne. Si domandi a un uomo privo di lettere, ma non di buon senso, per qual ragione non si potrebbe supporre una combinazione di cose, per la quale, in un dato caso, dall'operare rettamente potesse resultare un danno stabile e definitivo, e dall'operare iniquamente uno stabile e definitivo vantaggio. Risponderà probabilmente: non può essere, perchè allora non ci sarebbe la giustizia. E sarà una risposta tanto concludente, quanto sarà stata irragionevole la domanda, domanda che sottintende non saprei dir quale di due cose ugualmente assurde: o che il concetto di giustizia non importi necessità; o che nella realtà possa avverarsi il contrario di ciò che è necessario per essenza. Questo non vuol dire certamente, che tutti gli uomini abbiano sempre presente una tal verità; che essa sia sempre stata e sia sempre la regola dei loro giùdizi; che sia stato un fenomeno straordinario il sentir un uomo chiamare ingiustissima e utilissima una cosa medesima. È, come tutte le verità morali, una verità esposta nella pratica alle passioni e all'incoerenze parziali e accidentali degli uomini. E non c'è quindi da maravigliarsi che i successi temporariamente prosperi di tante azioni ingiuste, e gli avversi di tante giuste, e anche eroiche, ci portino qualche volta a dubitare di questa verità, e fino a negarla iracondamente, dimenticando che, nell'idea di retribuzione, non c'è punto compreso che deva realizzarsi nel momento che può parere a noi. Ma è una di quelle verità che, esprimendo una relazione immediata e necessaria tra due oggetti dei più facilmente presenti a qualunque intelligenza, non lasciano a verun filosofo il carico né il tempo di ritrovarle, e non potrebbero esser perdute di vista dall'umanità, se non quando fossero da essa dimenticati gli oggetti medesimi. Finche i concetti di giustizia e d'utilità vivranno nelle menti degli uomini, il concetto della loro finale e necessaria concordia rimarrà, in mezzo a delle dimenticanze parziali, e a delle negazioni incostanti, perpetuo e prevalente nel senso comune. Ed è di qui, che il sistema cava tutta la sua forza apparente; come, del resto, ogni errore dalla verità che altera. Appoggiati a questo sentimento universale, i partigiani del sistema dicono ai suoi oppositori: Alle corte; o questa parola « giustizia », che vi preme tanto, e levata la quale, vi pare che scomparisca ogni idea di moralità, significa qualcosa di definitivamente e necessariamente utile; e allora perchè l'opponete all'utilità, proposta da noi per il vero criterio della morale? O credete che significhi qualcosa che possa in ultimo riuscire dannosa, ed è per questo, che volete separarla dall'utilità; allora siete voi che levate di mezzo davvero la moralità, mettendola in contradizione con la natura umana; perchè, se c'è una certezza al mondo, è questa, che l'uomo non può volere il suo proprio danno. Ma la risposta è facile. Che la giustizia sia utile o, in altri termini, che la giustizia dell'azioni sia causa d'utilità ai loro autori, eccome lo crediamo! Ma appunto per questo, appunto perchè non possiamo credere che la cosa e la sua qualità, che la causa e l'effetto, siano quel medesimo, non possiamo credere che la giustizia e l'utilità siano quel medesimo. E opponiamo la giustizia all'utilità, non come due cose inconciliabili: neppur per idea: l'opponiamo come la norma vera e razionale in questo caso, a una fuor di proposito. Non già che questa sia falsa in sé; che anzi è la vera e razionale norma della prudenza, la quale si contenta, e deve ostentarsi d'una mera probabilità. Ma è una norma falsissima quando s'applichi alla moralità, la quale rimane una parola vuota di senso, se non ha un criterio di certezza. Voi, supponendo affatto arbitrariamente, e solo perchè il vostro sistema ne ha bisogno, che, per giustizia, non si possa intendere che, o l'utilità, o qualcosa di contrario ad essa, c'intimate di scegliere tra codesta supposta identità, e codesta supposta opposizione. Ma noi passiamo in mezzo al vostro dilemma, col dire: né l'uno, ne l'altro; anzi il contrario dell'uno e dell'altro, cioè distinzione e concordia. Distinzione, perchè sono due nozioni; concordia, perchè sono nozioni aventi tra di loro una relazione necessaria. Ma a che parlare della cognizione d'una tal verità, quale gli uomini potevano averla dalla sola ragione? La concordia finale dell'utile col giusto, alla quale credevano in astratto, senza poterne vedere il modo, e come costretti solamente dalla forza di quell'essenze medesime; questa concordia è stata spiegata dalla rivelazione, la quale ha insegnato il come, per mezzo della vera giustizia, si possa arrivare alla perfetta felicità. E l'ha insegnato, non a qualche scuola di filosofi, ma ai popoli interi: ha messa, in una nuova maniera, questa verità nel senso comune; cioè in quella maniera unicamente sua, di render comunissime le cognizioni, rendendole elevatissime. Sicché il sistema, formato ( o riformato, che qui è tutt'uno ) nella mirabile luce del cristianesimo, ha trovata quella verità, non più sparsa e vagante, e come involuta, nel senso comune, ma espressa e ferma nell'insegnamento e, dirò così, nel senso comune cristiano. E, per appropriarsela, l'ha mutilata, staccandola dalla sua condizione essenziale. Ha levata dal conto la cifra della vita futura; e il conto non torna più, o, per dir meglio, non c'è più il verso di raccoglierlo. Perciò, nelle false religioni medesime, la tradizione d'una vita futura, nella quale abbia luogo una finale e infallibile retribuzione, s'è conservata forse più di qualunque altra, quantunque diversamente alterata. Era abbracciata, e, per dir così, tenuta stretta, in qualunque forma, come un aiuto potente al bisogno razionale di credere alla concordia dell'utilità con la giustizia: aiuto potente, e quasi necessario contro la forza di tanti fatti, che, nel corso ristretto delle vicende mondiali, può parere che la smentiscano apertamente. E un esempio notabile ce ne presenta un filosofo dell'antichità, il quale certamente avrebbe potuto, al pari di chiunque altro, o più di qualunque altro, far di meno d'un tale aiuto, se ce ne fosse stato il mezzo: voglio dire il Socrate di Platone, nel Gorgia. Dopo avere, con quella sua soda e profonda argutezza, con quel mirabile giro d'argomenti verso delle conclusioni tanto irrepugnabili quanto imprevedute, sostenuto successivamente contro tre avversari, che dall'ingiustizia non si può mai, in questo mondo, ricavare una vera utilità; e dopo averli ridotti, l'uno dopo l'altro, a non saper più cosa si dire, rimane sopra di se, come non soddisfatto lui medesimo della sua vittoria, e aggiunge che il discendere nelle tenebre con l'anima carica di iniquità, è l'estremo dei mali. E domandato all'ultimo interlocutore, se ne vuol saper la ragione, e rispostogli di sì, prosegue: Senti dunque, come si suol dire, una bellissima storia, la quale ho paura che a te parrà una favola; ma io la ho per una storia vera; e come tale te la racconto. E passa a raccontare quella per noi poverissima favola in effetto, ma che a uno privo del lume della rivelazione poteva ( direi quasi, con ragione, se ci fosse vera ragione fuori della verità ) parer meglio che nulla; cioè quella di Minosse, Radamanto e Eaco. E lui medesimo esprime questo sentimento, soggiungendo: Già, a te non pare altro che una novella da donnicciole, e non ne fai caso veruno: e non me ne meraviglierei se, a forza di cercare, si potesse trovar qualcosa di meglio e di più vero. Ho detto dianzi, che, levata dal conto la vita futura, non c'è il verso di raccoglierlo. E infatti, implica contradizione il voler far resultare la felicità, cioè uno stato identico e permanente dell'animo, dal bilancio di momenti diversi e successivi dell'animo. Fingiamo anche, per fare una strana ipotesi, che un uomo potesse riconoscere e ragguagliare i momenti piacevoli e i momenti dolorosi d'una vita intera, e trovasse i primi superiori ai secondi, e di numero e d'intensità. Avrebbe da questo ragguaglio una quantità riunita, un residuo netto, di momenti piacevoli: ma questa riunione veduta dalla mente, alla quale i diversi e separati momenti possono esser presenti insieme come oggetti ideali, e quindi immuni dalle leggi del tempo; dalla mente, che in essi contempla l'unità dell'essenza, in quanto sono piacevoli, e li riferisce all'unità del soggetto in cui sono avvenuti in un modo molteplice; questa riunione, dico, non sarebbe punto esistita nella realtà di quella vita, composta in effetto di momenti successivi, e in parte eterogenei. Dove dunque potrebb'esser collocata la felicità di una vita temporale, per quanto si volesse restringere, impiccolire, alterare insomma, il senso della parola « felicità? » Non nell'aggregato dei momenti piacevoli, che, in quanto aggregato, non è una realtà, ma relazioni vedute dalla mente; non in alcuno dei momenti reali, ognuno dei quali non sarebbe che una parte della felicità da trovarsi. La felicità non può esser realizzata fuorché in un presente il quale comprenda l'avvenire, in un momento senza fine, val a dire l'eternità. Senonchè la religione può darci una specie di felicità anche in questa vita mortale, per mezzo d'una speranza piena d'immortalità. ( Sap 3,4 ) Speranza che unifica, incerta maniera, in una contentezza medesima. ( Pr 10,28 ), i più diversi e opposti momenti, facendo vedere in tutti ugualmente un passo verso il Bene infinito; speranza che non può illudere, perchè congiunta con la carità infinita diffusa nei cuori ( Pr 5,5 ); la quale, quel Bene medesimo che promette nell'avvenire, lo fa sentir nel presente, in una misura limitata bensì, e come per saggio, ma con un effetto che nessun sentimento avente un termine finito può contraffare ( Fil 4,7 ). Così la giustizia misericordiosa di Dio predomina anche nel tempo, dove non si compisce: perchè, se è decreto di sapienza e di bontà, che la giustizia dell'uomo, non pura né perfetta in questa vita, soffra per mondarsi, e combatta per crescere, repugna che sia veramente infelice : repugna che l'aderire della volontà al Bene infinito comunicantesi all'anima, non partorisca un gaudio prevalente al dolore cagionato dalla privazione di qualunque altro bene ( 2 Cor 1,5 ). Cosa mirabile, dice il Montesquieu, la religione cristiana, la quale pare che non abbia altro oggetto, se non la felicità dell'altra vita, ci rende felici anche in questa. Riflessione ingegnosa, senza dubbio; ma una riflessione più prolungata da dire: Cosa naturale. Ci si opporrà qui probabilmente, che il sistema non ha mai messa in campo la pretensione di procurare agli uomini una felicità perfetta e immune dai mali prodotti dalle necessità fisiche; che il suo assunto, molto più modesto, non è altro che di dirigere le loro determinazioni al fine di conseguire la massima utilità, in quanto possa dipendere da loro; che, del rimanente, considerato in se, cioè lasciando da una parte l'opinioni particolari che l'uno o l'altro dei suoi partigiani gli possa attaccare, non nega punto la possibilità di una vita futura, nella quale l'opere fatte in questa ricevono un'altra retribuzione; e tanto non la nega, che non entra neppure in questa materia; che, per conseguenza, chi crede di dover ammettere, sia come opinione umana, sia come domma religioso, questa vita futura, il sistema glielo permette ampiamente. Strana parola in un sistema filosofico, permettere! Dico, permettere ciò che è inconciliabile con esso. Ma è uno degli esempi tanto comuni di quell'incertezza, di quella diffidenza di se, di quello scetticismo insomma, che, in tutte le dottrine morali che non tengon conto della rivelazione, si nasconde sotto il linguaggio più affermativo, e l'apparato più solenne della dimostrazione. La ragione, che non conosce tali condiscendenze, non permette che s'ammetta una vita futura, se non a patto di rifiutare il sistema. Infatti, ammettere una vita futura, nella quale l'azioni della vita presente siano e premiate e punite, è ammettere una legge morale, secondo la quale, e in virtù della quale, abbia luogo una tale retribuzione; e ammessa una tal legge, tutto il sistema va a terra nel momento. Non è più un calcolo congetturale d'utili e di danni possibili nella vita presente, che s'abbia a prendere per criterio della morale: è quella legge. Ammettere la vita futura è riconoscere che l'utilità e il danno definitivo, da cui il sistema vuole che si ricavi la norma dell'operare, sono fuori della vita presente; e quindi, che c'è contraddizione nel ragionare come se si trovassero in essa. È riconoscere che l'effetto più importante dell'azioni umane, riguardo ai loro autori, non ha luogo nel mondo presente; e quindi che è contradittorio un sistema, il quale, pretendendo fondarsi sul solo calcolo degli effetti, prescinde appunto dal più importante, anzi da quello che è importante in una maniera unica, poiché viene dopo tutti gli altri, e per non cessar mai. È dunque un'illusione il credere che un tale sistema possa conciliarsi con una tale credenza; e, volendo stare attaccato a quello, bisogna anche affermare che la vita futura non è altro che una falsa opinione. So bene, anche qui, che una tal conseguenza sarà rigettata con indegnazione dalla più parte dei seguaci del sistema. Ma non si può altro che dire anche qui: o rinunziare al sistema, o rinunziare all'indegnazione. L'idea però della moralità, quale l'ha rivelata il Vangelo, è tale che nessun sistema di morale venuto dopo ( meno forse quelli che negano apertamente la moralità stessa ) non ha potuto lasciar di prenderne qualcosa. Osserviamo brevemente un tal effetto in questo sistema medesimo che si separa dalla morale del Vangelo in due punti così essenziali, come sono il principio e la sanzione. I diversi sistemi morali dei' filosofi del gentilesimo non proponevano, almeno direttamente, a chi li volesse adottare e seguire, altra felicità che la sua propria. La virtù degli stoici era in fondo egoista come la quiete degli epicurei, e la voluttà dei cirenaici. Il sistema di cui trattiamo, formato, o riformato, come s'è detto, nella luce del cristianesimo, al suono di quelle divine parole: Amerai il tuo prossimo come te stesso, ( Mt 19,19 ) e: Fate agli altri ciò che volete che facciano a voi, ( Mt 7,12 ) fu avvertito e come forzato a estendere a tutti gli uomini il vantaggio che quelli restringevano ai discepoli, e a proporre all'individuo il bene altrui come condizione del proprio. Questo miglioramento parziale, se si può chiamar così, lungi dal dar consistenza al sistema, non può altro che farne risaltar piìi vivamente la contradizione intrinseca e incurabile. Infatti, perchè mai i suoi autori, dopo aver posto che l'utilità era il principio, la cagione sufficiente e unica della moralità ( e senza di ciò, il sistema non sarebbe più, nemmeno in apparenza ), non dissero poi che ogni utilità, senza cercar di chi sia, è morale di sua natura, come doveva venir di conseguenza? È egli mai venuto in mente a nessuno di quelli che vedono la moralità nella giustizia, di dire che la giustizia è o morale, o no, secondo a chi vien fatta? Perchè mai, dico, quegli autori distinsero, non due gradi, ma due generi d'utilità, una che non è punto morale da sé, cioè l'utilità dell'operante, e una che è necessaria per render morale la prima, cioè l'utilità generale? Dove trovavano nel loro principio la ragione, il pretesto, il permesso d'una tal distinzione? Non ci potevano trovare che il contrario; e questa distinzione la fecero perchè credevano anch'essi una cosa che, fuori del cristianesimo, potè esser messa in dubbio e anche negata, e da ingegni tutt'altro che volgari, ma che, dove regna il cristianesimo, non è, direi quasi, possibile di non credere; cioè che dall'uomo qualcosa è dovuta agli altri uomini. E sta bene; ma era un confessare tacitamente, e senza avvedersene, che l'utilità, per esser morale, deve prender la moralità d'altronde, e da qualcosa d'anteriore e di superiore ad essa; e che, per conseguenza, non può essa medesima essere il principio, la causa, il criterio della moralità. Non vogliamo qui certamente rifarci a domandare come mai un uomo possa conoscere ( cioè prevedere ) l'utilità generale, e la relazione di essa con l'utilità privata. Pare anzi, che i seguaci stessi del sistema abbiano trovata quell'espressione d'utilità generale, o troppo indeterminata, o troppo forte. Perchè, se, per quelle parole, non s'aveva a intendere l'utilità di tutti gli uomini presenti e futuri, non si sapeva di quali uomini s'avesse a intendere; se di tutti, s'aveva a intender l'impossibile. Non saprei almeno vedere altra ragione dell'aver sostituito, come fecero dopo qualche tempo, all'utilità generale, quella del maggior numero d'uomini possibile. A ogni modo, con questa trasformazione il sistema ha perduta in gran parte la sua apparenza di moralità; e l'impossibilità dell'applicazione ( s'intende sempre logica ) gli è rimasta, né più né meno. E in quanto al primo: che il riguardo all'utilità altrui, a un'utilità diversa da quella dell'operante, sia ciò che dà al sistema un'apparenza di moralità, oltre che è una cosa evidente per sé, si può dedurre dalla confessione medesima dei suoi seguaci. Infatti, a chi gli nega una tal qualità, perché non é fondato che sull'interesse, rispondono gli ultimi, come rispondevano i primi: Avreste ragione se il sistema non contemplasse che l'interesse di chi delibera sull'azione da farsi o no; ma attribuirgli questo solo intento, é un calunniarlo, mentre pone per condizione essenziale anche l'interesse degli altri. - Ora, chi sono quest'altri? Qual è la qualità che ha potuto determinare gli autori e i seguaci del sistema a farceli entrare? È evidente che, in quella tesi, è fatta astrazione da ogni qualità distintiva tra uomo e uomo, e non c'è contemplato altro che la qualità, o piuttosto l'essere d'uomo. E la formula « utilità generale », che nella sua indeterminatezza non comprende espressamente tutti gli uomini, ma non n'esclude espressamente nessuno, poteva far credere in confuso che quella condizione del riguardo dovuto a ogni uomo come uomo, fosse mantenuta nel sistema. Invece, il dire che ciò che costituisce la moralità d'un'azione, è il riguardo all'utilità del maggior numero d'uomini possibile, é dire che questo riguardo è dovuto ad essi, non in quanto son uomini, ma in quanto sono i più. È dire, per conseguenza, che ci sono degli uomini ai quali si può non aver riguardo di sorte veruna, e operar nondimeno moralmente purchè siano il minor numero. So bene che non fu questa l'intenzione di quelli che modificarono la formula del sistema. Fu solamente di levarne una condizione manifestamente ineseguibile, quando ci si voglia trovare un senso chiaro. Videro, o piuttosto badarono ( giacche è una di quelle cose, che non si può non vederle: si può bensì dimenticarle, principalmente nel fabbricare un sistema ), badarono, dico, che l'utilità temporali, le sole che il sistema contempli, sono di tal natura, che, in moltissimi casi, non possono gli uni goderne, senza che gli altri ne rimangano privi; e che, per conseguenza, l'aver riguardo all'utilità di tutti gli uomini sarebbe una cosa impossibile. Credettero quindi di levar quella contradizione ( che non era, del resto, la sola, né la principale ), col sostituire all'utilità generale quella dei più. E chi si trova tra i meno? Suo danno. Potrà strillare, se gli porta sollievo; ma, qualunque sia il danno che riceve, non potrà allegare alcun titolo per il quale, col farglielo soffrire, sia offesa la moralità. Anzi, se l'errore potesse esser consentaneo a se stesso fino all'ultimo, è a quel paziente che, secondo il sistema, si potrebbe dire: Siete voi che offendete la moralità col bestemmiare un'azione, nella quale, con l'utilità del maggior numero unita a quella dell'operante, è realizzata la moralità medesima. Tali sono le conseguenze necessarie e immediate di quella formula; e le migliori intenzioni del mondo non faranno mai che si possa stabilire per unica condizione della moralità l'utile del maggior numero, senza escludere ogni e qualunque altro titolo. Che se ne viene ammesso uno qualunque, il principio è andato, e il sistema con esso. O piuttosto, quello di cui il sistema ha fatto il principio supremo della morale, rimane ciò che era, è e sarà, cioè una verità secondaria, condizionata, e nota, del resto, quanto si possa dire. Infatti, chi dubita che il procurare l'utilità di quanti più uomini si possa, non sia un intento e un fatto conforme alla moralità? È una di quelle verità che non s'enunciano forse mai, appunto perchè si sottintendono sempre. Ma si sottintende anche sempre, che questa utilità si procuri senza fare ingiustizia e nessun altro. Si suppone adempita la condizione suprema della moralità; s'intende di lodare la beneficenza, non di verificare la moralità necessaria; s'intende che è una cosa morale, non che sia la morale. E con quella condizione, è messo interamente in salvo il riguardo dovuto a tutti gli uomini. Vuol forse dire che ogni uomo, per esser morale, deva esercitar la giustizia verso tutti gli uomini? Oh appunto! Una cosa simile non potrebbe mai entrare nei pensieri d'un uomo, non che nel pensar comune degli uomini. Vuol dire che ogni uomo deve esercitare la giustizia verso di quelli, coi quali si trovi in relazioni tali, da dovere per necessità essere verso di loro, o giusto o ingiusto, sia con azioni, sia con omissioni. E con questo, il riguardo dovuto a tutti è mantenuto interamente, come dicevamo; perchè, essendo la giustizia una e assoluta ( e non si potrebbe nemmeno pensare priva di questi attributi ), non può in nessun caso trovarsi in opposizione con sé stessa; e implica contraddizione, che, col dare a uno quanto è dovuto a lui, si possa sottrarre né punto né poco di ciò che sia, o sia mai per esser dovuto a degli altri: mentre l'utilità essendo relativa, non repugna punto alla sua essenza, che ciò che è utile a uno torni in danno d'un altro, anzi di lui medesimo, in un altro momento. In un'azione utile, c'è dell'utilità; in un'azione giusta, c'è la giustizia; direttamente e positivamente, riguardo a quelli che ci hanno un diritto; indirettamente e negativamente, riguardo a tutti gli altri, che non ce n'hanno veruno. E perciò, quando si vuol lodare l'intento di procurare l'utilità d'altri uomini, non si dice, e non s'ha bisogno di dire, come fa il sistema, l'utilità del maggior numero possibile. Per il senso comune, quanti più sono gli uomini a cui uno vuol procurare utilità, tanto più il suo intento è lodevole; ma è lodevole, o molti o pochi che siano, e fosse anche uno solo. E non ci vorrebbe che un pazzo, per dire: prima di lodar quell'intento bisogna vedere se contempli la metà degli uomini, più uno almeno. Ma questa osservazione medesima sarebbe rigorosamente a proposito, chi la facesse a un partigiano del sistema così modificato, perchè, secondo questo, da quella maggioranza numerica dipende, non già che l'intento sia più o meno bello, e l'azione più o meno utile, ma che sia o non sia morale. Risponderebbe forse, che questo è un rigore pedantesco, e che, dicendo il maggior numero, s'intende naturalmente a un di presso? Sarebbe un dir di novo, che la morale è una scienza di mera probabilità, cioè che non è una scienza, come s'è visto. E s'è visto anche, sia detto a onore dei seguaci del sistema, quanto sia facile il far loro disdire e detestare una tal proposizione. Non potrebbe, mi pare, rispondere se non che è un chiedere l'impossibile: ed è appunto la seconda cosa che abbiamo accennata; cioè che, con questa trasformazione, il sistema è rimasto inapplicabile né più ne meno. Il riconoscere l'interesse del maggior numero degli uomini non è punto più possibile che il riconoscere quello di tutti: anzi è la stessa cosa, con un'operazione di più; giacché, per riconoscere la maggior parte, è necessario separarla dal tutto, il che non si può fare senza averlo riconosciuto. Ma non c'è nemmeno bisogno di quest'argomento. L'impossibilità primitiva e intrinseca d'applicare il sistema, in questa come in quella, come in ogn'altra escogitabile forma viene dal mettere che fa il suo criterio in un'incognito; come abbiamo cercato di dimostrare, in diverse e forse troppe maniere. Eppure, tanto l'affetto a un sistema può far travedere uno dei vantaggi principali che gli utilitari attribuiscono al loro, è la facilità d'applicarlo, e d'applicarlo universalmente e concordemente. Sentiamo anche qui il più celebre, se non m'inganno, dei suoi autori, il Bentham. « Partigiano » dice « del principio dell'utilità quello che approva o disapprova un'azione privata o pubblica, in proporzione della tendenza di essa a produrre o dolori o piaceri; quello che adopra i termini giusto, ingiusto, morale, immorale, buono, cattivo, come termini collettivi che comprendono l'idee di certi dolori e di certi piaceri, senza dare a questi termini verun altro significato. E s'intende che queste parole, dolore e piacere, io le prendo nel loro significato volgare, senza inventar distinzioni arbitrarie per escludere certi piaceri, o per negar la realtà di certi dolori. Non sottigliezze, non metafisica: non c'è bisogno di consultare ne Platone, ne Aristotele. Dolore e piacere è ciò che ognuno sente come tale; il contadino come il principe, l'ignorante come il filosofo ». Cosa da non credersi, che un uomo d'ingegno e di studio, come fu quello, abbia potuto confondere, in una maniera tanto strana, il dolore e il piacere congetturato col dolore e col piacere sentito! Certo, per conoscere che quello che si sente è o dolore o piacere, non c'è bisogno né di Platone, né d'Aristotele. Ma per conoscer la somma dei dolori o dei piaceri che potranno venire in conseguenza di un'azione, affine di poterla chiamar giusta, morale, buona, o il contrario, non basta né Platone, né Aristotele, né tutte le scuole antiche, moderne e future, né l'umanità intera: la quale, del resto, non ha mai messa in campo una pretensione simile. Ha bensì sempre tenuto che la probabilità dell'utile o del danno che possa derivare da un'azione, sia materia e studio della prudenza: non ha mai pensato a fondarci sopra il criterio supremo della moralità. È manifesto in quel raziocinio del Bentham quel paralogismo che consiste nell'addurre tutt'altro che ciò che può servire alla dimostrazione della tesi. Questa richiedeva che si dimostrasse la possibilità di riconoscere effetti futuri; e l'autore allega la facilità, grandissima senza dubbio, di riconoscere uno stato attuale del proprio animo. Dove, invece, trova tutto oscurità, è nell'idea dell'obbligazione: oscurità, la quale, dice, non potrà esser dissipata, che dalla luce dell'utilità. Quale sia questa luce, se n'è parlato più che abbastanza; e in quanto a quell'oscurità, non ci sarà, credo, bisogno d'una lunga osservazione per scoprire nella prova che il Bentham intende di darne, un'altra evidente fallacia. Gioverà, per maggior chiarezza, riferire per intero il luogo dove tocca questo punto. « Chiunque, in tutt'altra occasione, dicesse: - È così, perchè lo dico io, - a nessuno parrebbe che avesse concluso gran cosa; ma, nella questione intorno alla norma della morale, si sono scritti di gran libri, nei quali non si fa altro, dal principio alla fine. Tutta l'efficacia di questi libri, e il credere che provino qualcosa, non ha altro fondamento, che la presunzione dello scrittore, e la deferenza implicita dei lettori. Con una dose sufficiente di ciò, si può far passare ogni cosa. Da questo arrogarsi un'autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo ( legare ); e tale è la nuvola di nebbiosa oscurità, in cui è ravvolta questa parola, che, per dissiparla, si sono scritti dei volumi intieri. L'oscurità rimane nondimeno fitta come prima; e non potrà esser dissipata, che col farci entrare la luce dell'utilità, coi suoi dolori e coi suoi piaceri, e con le sanzioni e i motivi che ne derivano ». In verità, ci volle anche qui tutta la prepotenza d'un sistema, per far cadere così un uomo tutt'altro che volgare in quell'errore volgarissimo, di fermar l'attenzione sopra alcuni fatti che escono dell'ordinario, e perciò danno più nell'occhio, senza farsi caso d'altri fatti innumerabili, che costituiscono appunto l'ordinario, e dei quali si deve intendere, quando si dice collettivamente: il fatto. Guardò fisso alle ricerche e alle dispute d'alcuni dotti intorno all'obbligazione, degli interi volumi scritti su quella materia; non badò ai milioni e milioni di consensi che hanno luogo ogni giorno nell'applicazione di quella parola, cioè del concetto che esprime; ai milioni e milioni di casi, nei quali dicendo uno: c'è obbligazione di fare o di non fare una tal cosa, gli altri ripetono: c'è obbligazione; non già perchè l'ha detto quello, ma perchè l'avrebbero detto loro ugualmente. Non badò ai casi, anche più frequenti, nei quali quel concetto è sottinteso da chi sente, come da chi parla. Che su quell'applicazione medesima nascano anche dei dubbi e dei dispareri, chi lo potrebbe o lo vorrebbe negare? Ma quest'incertezza di qualche volta, quest'oscurità parziale e occasionale nell'applicazione del concetto ai fatti, o al da farsi, è forse una condizione speciale del concetto d'obbligazione? No davvero: la condizione dell'uomo nell'applicazione di qualunque concetto. Non si saprebbe da dove prenderne a preferenza le prove, appunto perchè ce n'è pertutto; se non che ce ne somministrano una affatto a proposito i concetti del dolore e del piacere, messi in campo dal Benham. Certo, sono concetti chiari quanto si possa dire, è per tutti gli uomini ugualmente. Ma cosa accade poi nell'applicazione? Lo stesso per l'appunto, che in quella del concetto d'obbligazione; cioè che c'è un numero grandissimo d'effetti che gli uomini chiamano concordemente o piacevoli o dolorosi; ce ne sono alcuni, dove altri trovano piacere, altri dolore. Dolore e piacere e ciò che ognuno sente come tale; ma non sempre ognuno sente o dolore o piacere per le stesse cagioni. E del pari, obbligazione è ciò che ognuno intende come tale, quantunque non in tutti i casi ognuno intenda ugualmente che c'è obbligazione. E questi dispareri attestano, non meno dei consensi, che l'idea è intesa da tutti. Infatti, come mai si potrebbe discordare sul quando uno sia o non sia moralmente obbligato, se non s'avesse in comune l'idea d'obbligazione morale? Cosa non sa trovare la mala fede, per scapolare da un'obbligazione incomoda? Interpretazioni stiracchiate, falsi titoli d'eccezione, vane ragioni d'equità, impossibilità immaginarie, pretese obbligazioni opposte e prevalenti, e che so io? Ma non credo che a nessuno dei più sottili maestri di quell'arte sia mai venuto in mente di dire: - Voi mi parlate d'obbligazione: cosa vuol dire obbligazione? Si tratta di moralità; e se c'è una materia nella quale importi aprir gli occhi, è questa sopra tutte. Come volete che un galantomo par mio si regoli, in una tale materia, sull'autorità d'un termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità? Esaminiamo il caso alla luce dell'utilità; e quando m'avrete fatto vedere, non con l'autorità d'assiomi dottorali, ma con argomenti speciali e concludenti per questo caso, che il far io ciò che chiedete sarà con facente prima di tutto all'utile generale, o del maggior numero possibile, come vi piace, e poi anche al mio, com'è giusto, sarò prontissimo a compiacervi. - Al contrario, con quell'altre gretole che vanno cercando, confessano e attestano, se ce ne fosse bisogno, che sa che loro intendono a meraviglia cosa voglia dire obbligazione. Ecco come questa parola è oscura per il comune degli uomini. Ma quand'anche si voglia non contar questi per niente, e non considerar altro che gli autori e gli studiosi dei volumi interi che trattano dell'obbligazione, se ne potrà forse inferire quella pretesa oscurità? Niente di più. Infatti, le ricerche e le dispute di quei volumi s'aggirano, o anch'esse sull'applicazione, cioè su alcune applicazioni del principio di obbligazione, o sulla ragione fondamentale di essa; non già sulla sua essenza medesima, la quale è, all'opposto, il dato necessario delle questioni sull'applicazione, come abbiamo già osservato, e non meno di quelle che riguardano la ragione fondamentale. Non si fanno ricerche e dispute sul perchè e sul come l'uomo possa esser moralmente obbligato, se non in quanto s'ha in comune il concetto d'obbligazione morale: è una condizione indispensabile per i dotti, come per gl'ignoranti. Dire che il dubbio o il dissenso intorno a questo perchè, provano che non s'ha dell'obbligazione un concetto abbastanza chiaro, sarebbe quanto il dire che l'uomo non possa conoscer chiaramente, e posseder con certezza, e con legittima certezza, se non le verità delle quali abbia trovata e riconosciuta esplicitamente la ragione fondamentale. Il che implicherebbe una contradizione manifesta; giacché l'uomo così fatto avrebbe ad essere capace d'un'altissima riflessione, e incapace di cognizione sulle quali poterla esercitare. I libri sull'obbligazione, allegati dal Bentham, non provano l'oscurità di questo concetto, più di quello che i libri i quali trattano della natura e delle cagioni del piacere provino l'oscurità di quest'altro: libri nei quali ci potranno ugualmente essere delle sottigliezze; della metafisica poi ce ne sarà, di sicuro, in tutti. Che se, con un argomento derivato da quella filosofia sulla quale è fondato anche il sistema morale del Bentham, ci si dicesse che il paragone non quadra, perchè il vocabolo piacere esprime il concetto d'una cosa che si sente, e quindi è chiaro di necessità; risponderemmo che la chiarezza dei vocaboli non dipende dal significare oggetti d'una specie più che d'un'altra, ma dal significar degli oggetti, cioè degl'intelligibili di loro natura. E il Bentham, adoprando in uno dei passi citati dianzi, il vocabolo principio ( per non citarne che uno il quale non può dar luogo a controversia ), confidava di certo, e con tutta la ragione, che sarebbe inteso; quantunque un principio non sia una cosa che si possa sentire più d'un'obbligazione. Non possiamo qui lasciar di fare qualche osservazione anche sull'origine attribuita dal Bentham al concetto d'obbligazione morale, con quella proposizione già citata: a Da questo arrogarsi un'autorità è nata la parola obbligazione, dal verbo latino obligo ». E perchè questa proposizione s'intenda meglio, gioverà citare anche un passo che la precede quasi immediatamente, e al quale essa si riferisce. « Per disgrazia gli uomini si mettono a discutere delle questioni molto importanti, già determinati a scioglierle in un dato senso. Hanno, per dir così preso l'impegno con sé stessi di trovar che certi fatti saranno giusti, e cert'altri ingiusti. Ma il principio dell'utilità non permette questo sentenziar perentorio, e richiede che, prima di chiamar riprovevoli dei fatti, si dimostri che tornino a scapito della felicità degli uomini. Una tale ricerca non fa per l'istruttore dommatico; quindi egli non vorrà aver che fare col principio dell'utilità. Ne avrà invece un altro adattato ai fatti suoi. Dirà con un'asseveranza che basti: « Io pronuncio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste ». Quale argomento adduce il Bentham, per dimostrare che da questo arrogarsi un'autorità di sentenziare sulla giustizia o sull'ingiustizia di certe cose, sia nata la parola obbligazione, cioè sia entrato nelle menti il concetto d'obbligazione morale? Nessuno: lo dà per un fatto. È lui medesimo che, in questo caso, viene a dire: è così perchè io dico che è così. Eppure, se c'è qualcosa che abbia bisogno di prove, è certamente un fatto ( lasciamo da una parte l'entità speciale di questo, che riguarderebbe un concetto così importante, così comune e così causale ), è, dico, un fatto asserito per la prima volta da uno che sicuramente non ne fu testimone, e non ne potrebbe citar nessuno, ne vivo, né morto; giacche dove si trovano documenti o tradizioni d'un'epoca, in cui gli uomini non avessero il concetto dell'obbligazione morale? In mancanza d'ogni prova di questo genere, ha almeno il Bentham tentato di dimostrare la necessità logica di quella supposta origine? Neppure; anzi si può credere che, se avesse intrapresa una tale ricerca, avrebbe messa quella supposizione da una parte; perchè si sarebbe dovuto accorgere che implicava contradizione. Infatti, come mai, dall'aver sentiti degli uomini affermare, con quanta prosopopea si voglia, che le tali e le tali cose non erano giuste, avrebbero degli altri uomini, ligi quanto si voglia all'autorità di quelli, potuto inferire che c'era obbligazione di non farle, se non avessero veduta o creduta vedere, se par meglio, una relazione tra la giustizia e l'obbligazione morale? Che un dottorone, per un'autorità conferitasi da se medesimo, dica: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste; e degli uomini di testa debole ripetano docilmente: ergo non sono giuste; ci vedo un effetto possibilissimo del concorso di quelle due cause, presunzione degli uni, e deferenza degli altri. Ma perchè quest'altri vadano avanti e dicano: ergo c'è obbligazione di non farle, è proprio necessario l'intervento d'un'altra causa, cioè del concetto d'obbligazione morale, di cui questo ergo è un'applicazione, e di cui i dottoroni non avevano neppur fatto cenno. La deferenza, quando non è regolata dalla ragione, può produrre dei miserabili, e anche dei perniciosissimi effetti; ma non degli effetti per i quali si richieda un'altra causa. E il Bentham ( sia detto col riguardo dovuto al suo ingegno, ma con la libertà necessaria alla ricerca del vero ) ha voluto far nascere il concetto dall'applicazione del concetto medesimo ; che è quanto dire, l'istrumento dall'operazione, la possibilità dal fatto, la causa dall'effetto. Che il vocabolo obbligazione, in senso morale, sia un traslato del verbo latino, obligo, non ne può nascer dubbio. Ma perchè un traslato ottenga il suo effetto, che è di far pensare una cosa, col nominarne un'altra, bisogna assolutamente che gli elementi necessari a costituire il nuovo concetto, o si trovino indicati nell'espressione adoprata a quest'intento, o la mente gli abbia d'altronde. Ora il vocabolo legare non esprime che un'operazione, e sottintende, non solo qualcosa a cui quest'operazione si faccia, ma qualcosa che la faccia. E quindi nessuna mente potrebbe mai passare, per mezzo d'un tal vocabolo, a ideare l'effetto morale che s'intende per obbligazione, se non avesse l'idea di qualcosa che possa produrre quest'effetto nell'ordine della moralità. È evidente che l'autorità non è quest'idea, come suppone il Bentham. L'autorità, in quanto autorità, non fa altro che attestare: è una ragione estrinseca al concetto che pronunzia: potrà farlo accettare, a diritto o a torto, senza prove e senza dimostrazione; ma non può entrare a costituirlo. Se un dottore dommatico qualunque, col solo mezzo dell'Ipse dixit, e senza trovare preparato nelle menti l'elemento causale e necessario del concetto d'obligazione, avesse detto addirittura: - Io pronunzio che siete obbligati a fare, o a non fare, - avrebbe predicato nel deserto: non sarebbe stato creduto, perchè non sarebbe stato inteso; e non sarebbe stato inteso, per mancanza di materia intelligibile. Il vocabolo obbligazione, non trovando nelle menti il mezzo indispensabile per esser trasferito a un significato morale, non avrebbe destato in esse altro che il suo concetto proprio d'un legar materiale. Ma che dico? quest'ipotesi stessa è assurda: come mai sarebbe arrivato lui medesimo al concetto d'obbligazione morale, per imporlo agli altri, senza una causa relativa ad esso, e distinta e affatto diversa dalla sua persona? E si veda: l'autore stesso, mentre vuol far nascere, e immediatamente, quel concetto dall'autorità del dottore, gli fa dire: Io pronunzio che queste cose non sono giuste. Ci mette di mezzo, senza avvedersene, l'idea della giustizia; e con questo, viene, per una di quelle, direi quasi, insidie della verità, a riconoscere implicitamente quella che, come passiamo a osservar brevemente, è la vera generazione logica del concetto d'obbligazione. È un fatto, tanto manifesto quanto universale, che gli uomini applicano a un genere di cose l'idea di giustizia, e, per conseguenza, a un altro genere opposto l'idea negativa d'ingiustizia; e ciò per una speciale convenienza che trovano nell'une, e per una speciale repugnanza che trovano nell'altre. Trovano, per esempio, quella speciale convenienza, un naturale incontro, un affarsi e un comporsi tranquillamente di cose, nel mantenere i patti, nel rendere il deposito, nel rispettare la vita, la persona e la roba altrui, nel ricompensar il merito, e simili. Trovano quella speciale repugnanza e contradizione di cose nell'affermare ciò che si sa non esser vero, nel far suo l'altrui, o per forza o per arte, nel contraccambiare un benefizio con un'offesa, e simili. Quando poi tali cose si considerano in relazione col potere che l'uomo ha di farle o di non farle, di volerle o di rifiutarle, con atti del suo libero arbitrio, allora ciò che, riguardo all'intelletto, era semplicemente verità, cognizione, prende naturalmente, riguardo a quell'altra facoltà, la forma di legge. Ed ecco come. L'operazione alla quale l'uomo è eccitato in quei casi, è quella di scegliere. E tra quali cose? Tra una conosciuta dall'intelletto come giusta, e un'altra come ingiusta. Ora, c'è contradizione nel dire che una cosa la quale si manifesta all'intelletto come repugnante, possa diventar conveniente riguardo alla volontà; in altri termini, che una cosa muti la sua essenza, passando dall'esser semplicemente conosciuta, a essere appetita. Rimane dunque che, delle due determinazioni, tra le quali l'uomo è messo in quei casi, una sola può esser retta, quella cioè che è consentanea alla giustizia. Ed è appunto questo esser l'uomo ridotto a non si poter determinar giustamente, che in una sola maniera; questo essere aperta alla rettitudine una sola delle due strade aperte al libero arbitrio; questo trovarsi la volontà soggetta a un comando, a un divieto, che può esser trasgredito col fatto, ma che ha in sé una ragione assoluta; è questo, dico, che s'intende significare col termine d'obbligazione morale, o con quello di dovere, o con qualunque altro vocabolo, o forma verbale s'adoperi a significare il concetto medesimo. Ho detto, qualunque forma verbale, perchè a significare un concetto, o ( per non andar senza bisogno nelle generali ) a significar quello di cui si tratta, non è punto necessario un vocabolo che ne rappresenti l'essenza direttamente e in astratto, e sia per dir così, il suo nome proprio. Questo può esser nato molto tardi, da un'osservazione più avanzata, e per opera, sia dei filosofi, sia della filosofia che lavora segretamente anche nelle teste degli uomini che non ne fanno professione. È un vocabolo utile senza dubbio, ma, come dico, non necessario; e n'è la prova, che anche in lingue, dove pure c'è, e ce n'è più d'uno, si continua, in moltissimi casi, a esprimere il concetto, senza ricorrere a questi. Così è comune a diverse, e probabilmente a molte di queste lingue, il dire che una cosa non si può fare, per significare che non è lecita. E, certo, non si vuol dire che non si possa assolutamente, in nessuna maniera; anzi si dice in opposizione al potere che l'uomo ha di farla in effetto si vuol dire che non si può farla, e operar rettamente. Così, di chi abbia a scegliere tra due o più partiti diversi o anche opposti, ma nessuno dei quali sia opposto alla giustizia, si dice che è libero di prendere quello che più gli piace. E si vuol forse dire che l'uomo sia libero solamente in quei casi? Tutt'altro: si vuol dire che, in quei casi, non è legato dalla giustizia a non poter prendere rettamente che un partito solo. Così si dice che la giustizia vuole, esige, richiede, prescrive, comanda, permette o non permette, e simili: tutte locuzioni che equivalgono al dire: c'è obbligazione di fare, o di non fare. Questa è la ragione semplicissima, per cui il concetto di obbligazione morale è pensato, significato inteso per tutto dove s'intende che ci sono delle cose giuste e delle cose ingiuste; cioè per tutto dove ci son uomini. È un concetto che deriva da quello di giustizia; e non già, come in altri casi, da lontano, e per una lunga serie di concetti intermedi, dimanierachè potesse rimaner latente per un tempo indefinito, e finché venisse un qualche gran pensatore che, di deduzione in deduzione, arrivasse a cavamelo; ma se deriva immediatamente e, dirò così, ne scappa fuori da sé. Qual uomo ha potuto dire: non sono cose giuste, o sentir queste parole intendendole, senza trovarci dentro subito, che si deve non farle? Ma anche qui il Bentham non tarda a contradirsi, e nella stessa maniera che abbiamo osservata l'altra volta; cioè rinnegando implicitamente, per la forza del bon senso e del senso morale, ciò che aveva affermato per esser fedele al sistema. Poche righe dopo il passo che s'è esaminato ora, dice: Far risaltare la connessione tra l'interesse e il dovere, in tutte le occorrenze della vita privata degli uomini, e il nostro assunto. Quanto più addentro s'esaminerà il soggetto, tanto più manifesta apparirà la concordia tra l'interesse e il dovere. Ecco dunque quell'obbligazione ( giacché per dovere non si può qui intendere che la stessa cosa; e anche il Bentham fa vedere d'intenderla così, poiché usa promiscuamente i due vocaboli ), quel termine involto in una nuvola di nebbiosa oscurità, eccolo tutt'a un tratto, diventato chiaro quanto mai si possa desiderare; giacché, per poter riconoscere una connessione, una concordia manifesta tra due concetti, bisogna di necessità che siano chiari tutt'e due. Con un concetto tutto nuvole e nebbia non ci può essere né concordia, né contrasto, né nulla. Ma lasciamo pure da una parte l'obbligazione, atteniamoci alla parola dovere; e vediamo che strane contradizioni, riguardo al sistema, escano dall'averlo ammesso, come fa il Bentham in quella proposizione, qualunque sia poi il posto che gli ha dato. Quella proposizione implica necessariamente che il concetto del dovere sia, non solo chiaro, ma noto independentemente dal sistema; il quale, per cercar la moralità, non si serve punto di esso, anzi lo esclude, e non si serve, non parla d'altro, che dell'interesse. Quindi, per trovar la concordia del dovere con questo, bisogna aver già d'altronde la cognizione del dovere. E se, quanto più s'esamini, cioè quanto più chiunque esamini addentro il soggetto, tanto più gli appare manifesta una tal concordia, bisogna che la cognizione del dovere sia affatto comune. Quella proposizione implica ancora, che il concetto del dovere contenga la verità; altrimenti, come potrebbe trovarsi d'accordo con l'interesse, che è posto dal sistema come la suprema verità morale? Ora, chi dice dovere, dice una ragione di fare o di non fare: se si sottrae al vocabolo questo significato, non gliene rimane veruno. E dice di più una ragione morale; giacché, levato da quest'ordine d'idee, il vocabolo perde ugualmente ogni significazione. Avremo dunque, mettendo insieme quella proposizione col sistema, una ragione morale del fare e del non fare, chiara, nota, vera, e alla quale non si deve ricorrere per la scelta del fare e del non fare, in ciò che riguarda la moralità. Riguardo a questa s'ha a prendere una tutt'altra norma, quella dell'interesse: il dovere non c'è, che per trovarsi d'accordo con esso. La sua essenza è di prescrivere; e, tanto secondo il Bentham, quanto secondo la ragion delle cose, prescrive sempre ciò che è a proposito: secondo la ragion delle cose, perchè è un'applicazione diretta della giustizia, principio supremo della morale; secondo il Bentham, perchè concorda sempre con l'interesse, principio supremo della morale; e con tutto ciò, non s'ha a far caso nessuno delle sue prescrizioni. È una verità che non può essere applicata alla sua propria materia, una regola di condotta ( cos'altro sarebbe? ) che non potrà indi esser regola di condotta. In queste o simili contradizioni sono caduti necessariamente tutti gli altri scrittori che, ponendo per principio della morale l'utilità, non hanno poi potuto a meno di non dare un posto qualunque a dei vocaboli esprimenti qualcheduna di quell'idee che appartengono davvero all'essenza della moralità. Tali idee, che tra di loro formano un bellissimo e pacatissimo ordine, trasportate in un ordine artificiale e apparente di tutt'altre idee, ci portano uno scompiglio, una confusione stranissima; divengono inquiete, perturbatrici, in qualunque posto si mettano, perchè è della loro natura di volere il tutto. Vediamone un altro solo esempio. Chiunque ammette il principio dell'utilità, dice un altro celebre scrittore, ammette anche il principio del giusto e dell'ingiusto. Ecco, come dicevamo, ciò che accade naturalmente nel progresso della discussione, a chi pone per principio d'una scienza ciò che non lo è: ammetterne anche un altro, o degli altri; che è un contradire insieme e a se stesso e alle leggi della ragione. Per principio s'intende una verità che includa virtualmente un ordine, un complesso di verità relativamente secondarie, che si possano cavar da essa, come conseguenze. Ogni principio quindi contempla un tutto, e comprende una serie intiera di conseguenze ( quali e quante siano poi quelle che se ne ricavano in fatto ); e c'è contraddizione nel dire che due verità diverse possono essere insieme princìpi d'una scienza, cioè subordinare a sé tutte, e riguardo al numero, e riguardo all'essenza, le medesime conseguenze; giacché, appunto per essere verità diverse, deve ciascheduna includerne delle sue proprie, non già opposte, ma diverse da quelle dell'altra. So bene che alcuni negano che tutte le conseguenze d'un principio siano vere nell'applicazione, quanto il principio medesimo; e dicono che non ci sono princìpi senza eccezione. Ma una così strana sentenza non ha altro fondamento, o piuttosto non ha altra origine, che il ricavare il concetto della cosa dall'abuso di essa. Può accadere ( e se accade! ) che uno o alcuni o molti diano il nome e la forma apparente di principio a una massima più generale, più comprensiva di quello che la verità richieda e permetta. E che tali massime patiscano dell'eccezioni, non c'è dubbio. Ma su cosa cadono quest'eccezioni? Su un principio? Neppur per idea: cadono su una massima predicata arbitrariamente, e a torto, come un principio. E farebbe, di certo, un'opera molto utile chi prendesse a esaminare di proposito quella sentenza, e a metterne in chiaro partitamente e alla distesa l'erroneità. Ma per dimostrarne la fallacia radicale ( e il nostro argomento non richiede di più ) possono bastare poche parole. Si domanda dunque, se l'eccezioni che, secondo alcuni, patisce in pratica ogni principio, cadano su tutte le sue conseguenze, o sopra una parte solamente. Non potranno dire che sopra tutte; giacche allora sarebbe negazione d'ogni principio, non sarebbero eccezioni a ogni principio. Se dunque non cadono che sopra una parte, ne viene di necessaria conseguenza, che, fatte tutte l'eccezioni, rimanga qualcosa che non patisce eccezioni. E questo è appunto il principio, assoluto di sua natura, nella sua sfera legittima. Ammettere e adoprare il vocabolo, e negar questo attributo al concetto, è quanto dire che c'è verità nel predicare d'una totalità di cose ciò che non sia vero se non d'una parte di esse. Il preservativo naturale contro questo errore, che renderebbe impossibile il ragionamento, e che, non popotendo far tanto, riesce però a perturbarlo, e non di rado con incalcolabili conseguenze, sarebbe d'osservare, prima di proporre o d'accettare una massima, se abbia veramente quella ragione così generale che è espressa nei suoi termini. Ma ciò che impedisce di far uso, come si dovrebbe e si potrebbe, di questo preservativo, è che torna comodo alle volte di proporre o d'accettare come principio una sentenza dalla quale si possano cavare delle conseguenze che premono: sia poi, o non sia, nei limiti del vero, non importa. Quando poi vengono avanti degli altri che, avendo presa la sentenza più sul serio, richiedono che se ne cavino dell'altre conseguenze che non piacciono ai primi, come si fa? Rinnegare il principio, non conviene, perchè se n'ha bisogno per mantenere quelle tante, per amore delle quali s'era proposto o accettato. Si dice dunque: - Il principio? è sacrosanto: non crediate che vogliamo ritrattarlo. Ma badate che ogni principio patisce le sue eccezioni: non ci sono princìpi assoluti. Voi volete andar troppo avanti con la logica; e la logica conduce all'assurdo. Senza dubbio, quando si prendono le mosse dell'assurdo. É il vizio naturale della logica, di condurre avanti l'uomo nella strada che ha preso lui. E dove si troverà poi una regola per riconoscere fin dove le conseguenze d'un principio siano altrettante verità, e da quel punto in là diventino assurdi? È il bon senso, dicono, che la fa trovare nei diversi casi. Ma se il bon senso è in lite con la logica, di quale istrumento si potrà servire, per ragionarle contro? E che obbligo può avere il bon senso di prestare il suo aiuto, in un'occorrenza di questa sorte? È forse lui che ha suggerito di proporre o d'accettare una proposizione battezzata col nome di principio, prima di esaminare quali siano le sue conseguenze logiche? Abiurare la logica ( giacché mutilarla è abiurarla ), per servire al comodo o alla precipitazione d'alcuni, è un sacrifizio che il bon senso non può assolutamente fare. Ora, per tornare al punto speciale in questione, essendo impossibile il subordinare in fatto uno stesso intiero ordine d'idee e d'aziorii a due princìpi, quand'anche foserò due verità; dev'esser anche troppo facile che chi ha detto di volerlo fare, dica il contrario in un altro momento. Così è avvenuto nel caso presente. Nello stesso scritto, e nello stesso paragrafo, l'autore citato dice espressamente: Il solo principio dell'utilità prescrive e proibisce ( di credere e d'operare ), perche ne deve risultare o del bene o del male. Cedeva, in quel momento, all'esigenza della logica, ma insieme all'esigenza del sistema, il quale non ha la sua forma apparente e il suo noinen habes quod vivas, se non da una tale esclusività. E per far credere a sé stesso di poter mettere insieme due cose tanto contrarie, fu ridotto a attribuire espressamente la forza di prescrivere o di proibire all'utilità, la quale può bensì essere un motivo di fare o di non fare, ma non contiene nella sua essenza nulla, nulla affatto d'imperativo; e a negar virtualmente quella forza alla giustizia, la quale, o prescrive o proibisce davvero, o è una parola senza senso, e quindi da non ammettersi, né sola, né in compagnia. Quando il bene prodotto diventa la preda di chi non ci ha alcun diritto, prosegue lo stesso autore, applicando alla morale il linguaggio dell'economia politica, e prodotta un'ingiustizia; ora, ogni ingiustizia è un male ( qui nel senso di danno ), prima per chi ne patisce, e poi per la società, perche disanima dal fare il bene, è contraria a ciò che aumenta la somma dei beni, e insieme aumenta la somma dei mali. Diritto? Ecco un'altra di quelle parole che il sistema non può accogliere impunemente. Certo, il diritto ha per oggetto o, dirò così, per materia un bene; ma non è, né dalla natura, né dalla quantità di questo bene, che nasca il diritto: tanto che, per servirci delle parole stesse dell'autore, un bene medesimo che per uno è materia di diritto, non è per un altro, che una preda. Il diritto, per conseguenza, porta con sé, dovunque e in qualunque maniera sia introdotto, una ragione sua propria che non lascia luogo a verun'altra; giacché, o è anch'esso un vocabolo senza forza, e perché metterlo in campo? o ha una forza, e è quella di prescrivere. E fatto questo, non rimane più ad altro nulla da fare. Ogni ingiustizia è un male. Senza dubbio; ma quando si sa questo, che bisogno c'è di cercare un'altra norma per giudicare e per regolarsi, riguardo all'azioni dov'è interessata la giustizia? Che bisogno c'è di buttarsi nell'avvenire, per indovinare l'utilità o il danno che verrà da un'azione, quando c'è un mezzo di saperlo, cioè il suo esser giusta o ingiusta? Con questa concessione, che non è, certo, esorbitante, e che era anzi naturalissima dalla parte d'un uomo onorato come fu l'autore che citiamo, viene a riconoscere che, quand'anche l'utilità fosse quella che costituisce la moralità dell'azioni ( il che non si vuol, certo, concedere ), il criterio della moralità di esse si dovrebbe prendere dall'idea della giustizia. Tanta, e così rigogliosa e rinascente è la forza dei vocaboli che rappresentano dei veri princìpi, e dei princìpi altissimi, come questo! Non voglio dire che producano necessariamente e sempre un tale effetto. In un altro luogo di quel medesimo Saggio sul principio dell'utilità, l'autore dice solamente che, tanto nelle cose pubbliche, quanto nelle private, l'onesto è quello che c'è di più utile; e che, se si può citar qualche caso in cui un'azione contraria alla giustizia sia riuscita in profitto del suo autore, o dei suoi autori, se ne può citare dieci volte tanti del contrario. E da questo conclude che bisogna governarsi secondo il successo più probabile, cioè più sicuro e costante, malgrado alcuni esempi contrari. Qui non concede, è vero, ma si contraddice. E tra Vl'gni e la più parte, non ci corre una di quelle differenze che si possano trascurare, perchè non cadono nell'essenza della cosa. Non è differenza, è opposizione. E dove? Nel dato fondamentale del sistema. E non è egli, diciamolo pure, una cosa deplorabile il vedere scrittori e celebri e benemeriti per altri titoli, condannati a questo perpetuo Exclusit revocai? a eliminare virtualmente la giustizia e il dovere, per servire al sistema; e a riammetterli, in una maniera qualunque, per ubbidire al buon senso e al senso morale? a posarsi ora sulla probabilità, perchè il sistema non può dar altro; ora sulla certezza, perchè la cosa ne richiede una? E per liberarsi da tali contraddizioni, quale studio, qual fatica, quale sforzo s'ha egli a fare, finalmente? Nient'altro che scuotere il giogo pesante, ma posticcio e fragile, d'un sistema arbitrario; lasciar, per amore, la giustizia al suo luogo, invece d'esser ridotti a dargliene uno per forza; lasciare al suo luogo la prudenza, invece di collocarla in un'altezza solitaria, dove non si riesce a mantenerla; non darsi a credere, insomma, d'aver costruito un edificio nuovo con lo spostar due cose tanto vecchie. E avremmo finito; ma non ci pare inutile il prevenire un'obiezione, o un'osservazione, se si vuole, che potrebbe venirci da tutt'altra parte. Essendo già morti da qualche tempo i più celebri sostenitori del sistema, e sopite d'allora in poi le controversie che aveva fatte nascere, potrà dir qualcheduno, che è una questione oramai antiquata, e che non ci era quindi nessuna opportunità di rimetterla in campo. E potrà probabilmente aggiungere che sono venuti in campo tutt'altri sistemi; i quali non parlano, invece, che di giustizia sociale; ma d'una giustizia nuova, inaudita, portentosa, in ciò che pretende, come in ciò che promette. Sistemi, dirà, che hanno fatto andare in obblivione quello, intorno al quale abbiamo spese tante parole, come il sollevarsi della burrasca fa scomparire l'onda leggera del bel tempo. A questo si potrebbe, prima di tutto, rispondere che il non esser più, da qualche o da molto tempo, una dottrina argomento di trattati e di controversie, è tutt'altro che un indizio sicuro dell'esser, né cessata né indebolita la sua efficacia pratica. Può anzi indicare il contrario, cioè che abbia ottenuto il suo effetto. Quando la materia messa nella caldaia del tintore ha preso il colore bene, la tinta si lascia andar via. E non già ( come abbiamo accennato altrove, e come, del resto, nessuno ignora ) che questa sia una dottrina affatto nuova. Anzi, come errore pratico, è il più antico di quanti siano entrati nel mondo. Sarete come Dei, ( Gen 3,5 ) è il primo consiglio d'utilità che sia stato opposto a una regola, e regola suprema, di giustizia, qual è l'ubbidienza della creatura al Creatore; come il più spaventoso di quanti ne vennero in conseguenza, fu quell'altro: Torna conto a voi che un uomo moia per il popolo ( Gv 1,40-50 ). L'utilità pubblica fu sempre un pretesto per violar la giustizia; essendo, come abbiamo anche accennato, il mezzo più spiccio di sostituire a una questione in cui non si troverebbero che argomenti contrari, e d'immediata riprovazione, un'altra dove ce n'è per una parte e per l'altra; e argomenti, i quali, a chi non riflette e, per conseguenza, non distingue, possono parere validi, perchè in un altr'ordine di cose, hanno un loro valore. Fu, come s'è visto, l'espediente adoperato da Temistocle, ma non inventato da lui. E anche speculativamente, la dottrina che fa derivare la morale dall'utilità, era stata enunciata più d'una volta, ma o con asciutte sentenze, o con applicazioni limitate e parziali. Quello che ci fu di nuovo, fu il ridurla a sistema, con un metodo chiamato e creduto da molti scientifico, e con un'apparenza, quantunque superficiale e incostante, d'unità e d'universalità? E chi sa dire quanta autorità possa, non solo dare, ma mantenere a un sistema l'essere sostenuto da degli scrittori, l'autorità dei quali, in altri argomenti, s'è stabilita e si mantiene per buonissime ragioni? Che se si dovesse ( cosa, per fortuna, non richiesta in una questione accessoria ) venire alle prove di fatto, noi crediamo che ci mancherebbe tutt'altro che la materia. Non so se ci sia mai stata un'epoca piena, quanto la presente, di fatti grandi e gravi, sia per questa o per quella nazione, sia per una parte più vasla dell'umanità; ma credo che, senza incontrare contraddizione, si possa affermare che non ce ne fu alcuna in cui i fatti d'un tal genere siano stati come in questa, preceduti, mossi, spinti, attraversati, modificati, seguiti da dibattimenti pubblici, o da libri e scritti d'ogni genere, ragionamenti, storie, relazioni storiche, memorie, come le chiamano, diatribe, apologie e via discorrendo. Mai la parte della società, che legge e che scrive, non ebbe, come in quest'epoca, il campo e la voglia di far conoscere la sua maniera, cioè le sue maniere di pensare su un tal proposito. Ognuno può quindi, in quella farraggine di documenti, o anche semplicemente nelle sue rimembranze, o nelle cose del momento, osservare se sia stato e sia, o raro o frequente il caso di sentire proposta l'utilità ( presunta, non si dimentichi ) come l'unica e indipendente ragione della bontà delle risoluzioni da prendersi; raro o frequente il caso, che all'obiezioni o ai lamenti fondati ( bene o male, non importa ) sul principio della giustizia e del diritto, si sia creduto e si creda di rispondere categoricamente e trionfalmente col dire che il danno sarebbe di pochi, e l'utilità d'un numero molto maggiore. Ma un altro argomento da non trascurarsi, e da potersi anch'esso accennar brevemente, ce lo somministrano quei sistemi medesimi che ci potrebbero essere opposti da qualcheduno. Cosa sono essi infatti, se non una nuova fase del sistema utilitario, nuove applicazioni di quel così detto principio? Parlano, è vero, di giustizia; ma cosa intendono poi per giustizia? Null'altro che il godimento dei beni temporali ugualmente diviso. Ora, anche i primi utilitari erano pronti a permetter che si usasse questa parola, a usarla loro medesimi, purché non gli si desse altro significato che quello d'utilità, o anche d'un non so che altro, se si voleva, ma d'un non so che, il quale non avesse alcuna ragione sua propria, e non la potesse ricavare se non dall'utilità o dal danno che possa esser cagionato dall'azioni umane. Senonchè, quelli tra di loro che trattarono materie, sia di legislazione, sia d'economia politica, sia d'altri rami della scienza sociale, furono, come accade spesso nei primi passi, ben lontani dall'applicare alla totalità di ciascheduna di quelle materie il principio sul quale pretendevano che dovessero esser fondate. Ammisero a priori, e senza badarci ( perchè della parola avevano orrore ), un certo stato della società, certi princìpi di diritto pubblico e privato, ricevuti ugualmente e dalla scienza e dalla credenza comune; e a tutto ciò subordinarono, nella maggior parte dei casi, le loro ricerche intorno all'utilità. E questa loro infedeltà al sistema spiega, sia detto incidentemente, il come più d'uno di loro abbia potuto trovare, in questa e in quella materia, delle regole molto giudiziose, degli espedienti molto vantaggiosi, rimettere nel loro vero punto molte questioni, e combattere vittoriosamente degli errori accreditati, e dominanti nella pratica. Cercavano l'utilità; ma, in quei casi, la cercavano nell'ordine di cose secondario, dov'è ragionevole il cercarla; applicavano l'esperienza, l'osservazione dei fatti, ma nei limiti della sua vera autorità. Quando poi, da tali verità secondarie, volevano salire a quelle più alte e più complessive, che si chiamano princìpi, trovavano la strada chiusa da un muro che s'erano lasciati alzare dietro le spalle, cioè da una filosofia, al dominio della quale s'erano assoggettati, e che li faceva voltare per luoghi senza strada, e correre a dell'apparenze chiamate arbitrariamente e contradittoriamente princìpi, senza poter nemmeno rimanerci poi di pie fermo. Gli autori dei nuovi sistemi, trovando eccellente quello ch'era stato chiamato il principio dell'utilità; o, ( che lo è lo stesso, se non di più ) prendendo le mosse da quello, senza neppur pensare che si devano, né che si possano prender d'altronde, videro quanto fosse inadequata l'applicazione che ne avevano fatta i loro antecessori. - A noi, dissero a questi, o fu come se dicessero, a noi a far fruttare il gran principio che predicate e mettete in cima di tutto, senza intenderne il senso profondo, l'esigenza e la potenza. Utilità, avete detto; e avete spiegato benissimo che utilità, in ultimo, non significa altro che piacere, godimento, sia fisico, sia morale. Egregiamente. Godimento dunque, ( in questa vita, s'intende ), ma per tutti e davvero, come richiede il principio. E cos'avete fatto finora voi altri economisti e legisti, per realizzarne l'intento? Vi siete baloccati intorno a dell'istituzioni secondarie e parziali, che ne suppongono delle primarie e generali, e di queste avete ammessa a credenza la necessità e la ragionevolezza, per l'autorità del fatto materiale e di consuetudini e d'opinioni formate e stabilite, da un pezzo senza dubbio, ma quando il gran principio non era apparso nella sua piena luce, e nemmeno entrato nella scienza. Avete cercato qual sia la maggior somma d'utilità, che si possa ottenere, date certe istituzioni; invece di cercare, come richiedeva il principio, quali siano l'istituzioni adattate a produrre la maggior somma d'utilità per tutti. E dopo di ciò, avete lasciato all'individuo l'incarico di combinare il suo utile proprio con quello degli altri. Era un dire a alcuni: Voi, ai quali l'istituzioni sociali assicurano, per privilegio, una gran quantità di godimenti, sacrificate al vostro interesse ben inteso un di più che una cupidigia poco accorta potrebbe farvi desiderare. Era un dire a moltissimi: Voi altri poi, che l'istituzioni sociali privano di tanti e tanti di quei godimenti, il vostro interesse ben inteso vuole che vi contentiate dei pochi che vi concedono; perchè quell'istituzioni sono congegnate in maniera da farvi capitar peggio, se non ve ne contentate. È egli codesto un applicare sinceramente e logicamente il principio dell'utilità alla società umana? All'istituzioni, dunque, dev'esser commessa la grande impresa, non agl'individui, che, nella società come è stata accomodata, viene a dire alcuni che non vogliono, e moltissimi che non possono; a delle nuove istituzioni che costringano gli uni, e soddisfacciano gli altri. E siamo qui noi a proporle. - Come le proposte siano state concordi, ognuno lo sa: e si poteva prevedere; giacche, quanto più si tenta d'applicar fedelmente e in grande un falso principio, tanto più si va lontano dal poterlo fare nella stessa maniera. Alcuni di questi scrittori hanno negata, senza tergiversare, anzi con sdegno, la vita futura. E fu anche questo un progresso logico, come s'è toccato sopra, nell'applicazione del principio dell'utilità. Proporla per regola e per fine di tutte l'azioni umane, e restringerla in fatto al godimento dei beni temporali, lasciando poi in sospeso se, al di là della vita presente, ci siano per l'uomo altri beni e altri mali, è un contrasto troppo evidente tra la franchezza delle conclusioni e l'esitazione delle premesse. È lo stesso che se uno vi presentasse come definitiva una somma raccolta appiè d'una pagina d'un libro di conti, senza sapervi dire se sia o non sia l'ultima pagina. Che alcuni riescano, dirò così, a sonnecchiare fino alla fine in una tale indecisione, può darsi benissimo; ma tenerci tutti gli altri, no. E col moltiplicarsi il numero dei seguaci d'una dottrina che mette il tutto nell'utilità, e tutta l'utilità nella vita presente, dovevano, quasi di necessità, uscirne quelli che ci aggiungessero, come un postulato indispensabile, che il conto finisce con la morte. Che se, finalmente, alcuno dicesse che sono questioni divenute antiquate anche queste, essendo tali nuovi sistemi stati tutti ad un tratto sepolti nel silenzio; risponderemmo in genere, che, quand'anche non dovessero più vivere altro che nella storia ( e hanno fatto abbastanza per questo ), non è mai superfluo il ricercare l'origine d'opinioni che abbiano trovati dei seguaci, tanto d'aver tentato di passare nella realtà e in una vastissima realtà; e risponderemmo in specie, che molto meno ci pare superfluo il dare occasione a tanti che trovano pure strani quei sistemi, d'esaminare più a fondo di quello che abbiamo saputo fare noi, se non nascano direttamente e quasi inevitabilmente, da una dottrina, che forse trovano molto sensata. Quel silenzio è venuto da un fatto; e i fatti non ottengono una vittoria finale, non solo sulla verità, ma nemmeno sull'errore, quando la più alta cagione di esso rimane viva e invulnerata nelle menti; e tanto più, se inavvertita. I princìpi veri e i falsi princìpi sono ugualmente fecondi; senonchè col dedurre dai primi, s'aggiunge; col dedurre dagli altri, si muta: e appunto perchè non si riesce mai a farne un'applicazione che soddisfaccia la logica, si continua, finche conservano quella falsa autorità, a tentarne delle nuove applicazioni, sia col fantasticare delle nuove forme d'errore, sia col rimetterne in campo, a tempo più opportuno, di quelle che da altri si credevano sepolte per sempre. Parte seconda I. Degli abusi e delle superstizioni Due cose io ho avute principalmente di mira nelle osservazioni precedenti: l'una di porre in salvo la morale della Chiesa Cattolica da ogni accusa, di provare che ella è perfetta, e che tutti i mali morali fuori e dentro la Chiesa vengono dall'ignorarla, dal non seguirla, dall'interpretarla a rovescio. L'altra che nelle accuse di fatto che si danno alla disciplina pratica dei cattolici conviene andar guardinghi prima di credere tutto, perchè molte sono dettate da spirito di parte, e ricevute inconsideratamente per un falso spirito d'imparzialità, quasiché per essere imparziali si dovesse stare a tutto ciò che si ode di contrario alla propria causa. Molte di queste accuse sono esagerate, molte sono assolutamente false, molte, benché vere, sono ingiuste nelle conseguenze perchè si attribuiscono ai soli cattolici, molte nascono dal desiderio di trovare guasti tutti i frutti per condannar l'albero e gettarlo al fuoco. Ma, siccome a questo secondo articolo, cioè alla parte apologetica del fatto, si può dare più estensione ch'io non abbia inteso dargli, mi trovo in debito di spiegare più distesamente le idee generali, ch'io possa avere su questo proposito, per oppormi alle conseguenze false, al mio parere, che si potrebbero dedurre da quanto io ho detto. V'è in tutti gli uomini un'inclinazione a giustificare sé stessi fondata sul desiderio che ognuno ha della perfezione; non volendo noi per lo più fare il meglio perchè ripugnante alle nostre passioni, e non volendo rinunziare all'idea di essere quali dobbiamo, ci appoggiamo ad ogni pretesto per lusingarci che siamo tali. E siccome dalle verità stesse che dovrebbero condurci al miglioramento, si cavano questi pretesti, così uno dei più comuni per farci essere contenti di noi, si è quello di essere nella vera Religione. Che un individuo appartenga ad una società che ha il deposito della vera ed eterna morale, ad una società che ha i mezzi per condurre alla salute, è una condizione di probabilità favorevole per la bontà di quell'individuo; ma fondare su questa condizione sola la lusinga di esser buono, è un'illusione che parrebbe impossibile in un uomo ragionevole, se l'esperienza non la dimostrasse comune. Il giudizio sopra di sé stesso ognuno di noi deve fondarlo soltanto sulla conformità e difformità dei nostri sentimenti e delle nostre azioni colla legge. Pare impossibile che si dimentichi: eppure è troppo spesso così. Gli Ebrei segregati dalle genti, protetti visibilmente da Dio, soli liberi dell'abbominevole giogo della idolatria, sotto al quale s'incurvava vergognosamente tutto il genere umano, aventi una legge divina, un rito divino e un tempio, il solo della terra dove si adorasse il vero Dio, il solo popolo che avesse idea della unità di Dio, dogma che poscia apparve così grande, così semplice e così ragionevole alle nazioni intere ed ai sommi ingegni, quando fu diffuso dagli Ebrei dopo la venuta della luce del mondo: e ripetevano le parole del profeta: Islon fecit taliter onini nationi; giammai azioni di grazie non furono più giuste, ne ebbero un oggetto più importante. Ma troppo spesso gli stessi Ebrei, invece di esaminare se la loro riconoscenza era sincera e predominante, cioè se si manifestava colle opere, cavarono da questi doni di Dio una falsa fiducia che fu loro tanto rinfacciata dai magnanimi e santi loro profeti. - Non ponete fidanza in quelle false parole: Il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio è del Signore - ecco il grido di Geremia ( Ger 7,4-8 ), per disingannare coloro che dall'essere nel popolo dei veri adoratori, arguivano di essere veri adoratori; ecco come li richiamava all'esame di loro medesimi perchè giudicassero se erano tali. « Perciocché se voi rivolgerete al bene i vostri costumi ed i vostri affetti; se renderete giustizia fra uomo e uomo; se non farete torto al forestiero ed al pupillo ed alla vedova e non spargerete in questo luogo il sangue innocente e non andrete dietro agli Dei stranieri per vostra sciagura; Io abiterò con voi in questo luogo, nella terra ch'io diedi ai padri vostri per secoli e secoli. Ma voi ponete fidanza sopra bugiarde parole che a voi non gioveranno ». Questa illusione che purtroppo dura e che durerà finche gli uomini non saranno perfetti come la legge, io non intendo favorirla in nulla. Se il libro di cui ho creduto dover confutare tutto ciò che condanna la dottrina della Chiesa, e tutto ciò che, a parer mio, condanna a torto la condotta dei cattolici, se questo libro può fare in alcuna parte un'impressione salutare sopra alcuno, voglio dire, far pensare alcuno sopra di se, fargli risovvenire che taluno dei rimproveri di che il libro è pieno, possono esser giusti e per lui, e porlo in pensiero di correggersi, io non voglio distruggere questa impressione. Uno dei più gravi sintomi di degenerazione tanto in un uomo come in una Società è l'esser contenti del suo stato morale, il non trovar nulla da togliere, nulla da perfezionare. Gli abusi che si giustificano con un pretesto religioso, ma che in verità si sostengono per fini temporali, io non intendo in nulla difenderli; protesto anzi di bramare ardentemente che siano sempre più conosciuti e condannati da quegli stessi a cui potrebbero sembrare utili, e ai quali non sono utili certamente, poiché anch'essi debbono un giorno morire. Che vi siano di questi abusi è purtroppo innegabile; e una prova che si riconoscono, si vede nel rispondere che si fa agli oppugnatori della religione, che essi hanno il torto di condannare la religione per gli abusi: la quale risposta sarà sempre concludentissima, e, benché tanto ripetuta, si dovrà sempre ripeterla, finché gli oppugnatori cadranno nello stesso errore. Ma purtroppo alcuni di quelli che in monte confessano l'esistenza degli abusi, non sanno poi trovarne un solo, quando si venga a specificarli; difendono tutto ciò che esiste, e se si domandasse loro di citare un solo abuso non lo saprebbero forse rinvenire. Io so che questa riservatezza si chiama per lo più prudenza cristiana, so che lo è talvolta, so che molti risparmiano gli abusi che dico, li difendono, non per amore di essi, ma per rispetto alla religione. Ma il primo carattere della prudenza cristiana è di non andare mai contro la verità; ma la sua norma non è altro che l'applicazione della legge di Dio e dello spirito del Vangelo a tutti i casi possibili. Ma siamo in tempi in cui sarebbe somma follia il credere che gli abusi possano passare inosservati, e correggersi senza scandalo, esser tolti senza che il mondo si sia accorto che abbiano esistito. Non si può sperare che il mondo, imitando la carità dei due figli benedetti di Noè, getti il pallio sui mali della Chiesa. Egli ne ride e ne trionfa, egli scopre gli abusi, i libri ne sono pieni da un secolo, egli gli esagera, gli inventa, non vede altro nella Chiesa; e se gli si nega di riconoscere gli abusi reali, egli non tace per questo, ma si crede autorizzato a supporre abusi in tutto; egli dà questo nome alle cose più sacre; la religione stessa è un abuso per lui. Egli rinfaccia gli abusi come una prova decisiva contro la religione, e pare che supponga che la fede dei cattolici non regga se non per la loro ignoranza degli abusi stessi. Ma se i cattolici fossero i primi ad abbandonargli quello da cui dipende, e tutti gli altri a deplorarli, se dicessero questi altamente: noi sappiamo questi mali, ma la nostra credenza è fondata sopra ragioni troppo superiori, perchè la vista di questi mali possa farla vacillare, io credo che il mondo sarebbe costretto ad essere più riservato; io credo che molti vedendo come si può conoscere gli abusi ed essere cristiani, avrebbero una falsa scusa di meno. Osservazione importante. Quelli che hanno autorità nella Chiesa possono impedire talvolta e in qualche luogo che si parli contro gli abusi: ma non possono impedire che gli uomini se ne scandalizzino e rinuncino alla religione. Ora questo è il vero male da evitarsi. Ho detto tutto questo non per fare il dottore nella Chiesa, troppo sentendo, come questo ufficio non mi convenga per nessun verso; ma siccome è lecito anche al minimo dei cristiani il difendere la Chiesa, quando è attaccata, siccome a questa difesa è troppo facile dare più estensione che non si debba, così ho creduto ridurre l'apologia ai suoi termini più precisi. Tutto questo si applica pure alle superstizioni. Purtroppo la Chiesa è accusata delle superstizioni che essa condanna, purtroppo si esagerano le superstizioni che regnano in alcuni cattolici, mentre si tace sulle superstizioni che dominano fra i non cattolici o fra tanti increduli, o almeno non se ne tira argomenti contro la loro credenza: purtroppo si condannano come superstizioni i dogmi più sacri, quelli a cui sottomettere la propria ragione i santi e grandi uomini di diciotto secoli stimarono il più alto ufficio della ragione. Ma purtroppo anche vi ha delle superstizioni, e molte sussistono, oltre i motivi generali, per alcune regole di falsa prudenza che conducono a risparmiarle talvolta quegli stessi che dovrebbero combatterle. V'è chi difende e loda il silenzio su certe superstizioni col pericolo che, essendo esse nelle menti del popolo tanto collegate coi principi religiosi, non si possa sterparle senza sradicare in quelle menti la fede stessa. Ma quanti motivi di pusillanimità possono nascondersi sotto questo pretesto! Quanto è facile trovare ragioni per dimostrare dannose e imprudenti quelle cose per cui bisogna sottoporsi al pericolo del biasimo ingiusto! Questo pretesto mi sembra non solo falso, ma ingiurioso alla religione, come se la religione non trovasse nella parte più vera dell'animo nostro una corrispondenza per appoggiarvisi, e convenisse porla sopra fondamenti falsi; come se ogni superstizione non avesse un principio d'opposizione e d'incompatibilità colla religione, giacché la superstizione non è altro che sostituire principi arbitrari e carnali a quello che è rivelato: ogni superstizione è una illusione per essere irreligioso coll'apparenza della fede. La religione ha due avversari che sono pure avversari fra loro, cioè l'incredulità e la superstizione. Questa è combattuta dall'altra, e siccome le sue basi sono false, così col raziocinio semplice si possono abbattere, e allora chi non ha saputo discernere la superstizione dalla religione, corre il rischio d'abbandonare l'una e l'altra. Perchè si deve lasciare nell'animo di un cattolico una opinione erronea, sulla quale un impugnatore della religione possa avere il vantaggio sopra di lui, e metterlo dalla parte del torto? Giacche, bisogna qui pure ripeterlo, non è da credere che il mondo voglia lasciarle passare in silenzio. Iddio però non ha permesso che le voci contro la superstizione si levassero solo nel campo degli avversari della religione: uomini piissimi le hanno svelate e combattute per zelo, e basti nominare il dotto Muratori. Né si deve negare la dovuta lode ai molti che tuttodì alzano la voce contro esse. Ma mi sembra che la guerra dovrebbe esser più viva e perpetua nel seno del cattolicismo; che il disinganno non dovrebbe venire che dai ministri della verità, da quelli che combattendo un errore, vi sostituiscono una verità di fede, e non un altro errore più dannoso. Se fosse lecito ad un uomo, che nella Chiesa è peggio che nulla, il rivolgersi a quelli che sono maestri, io direi a coloro che pascolano il gregge cristiano, e lo direi coll'umiltà e colla confusione con cui deve parlare l'uomo inutile, a quei che portano il peso del giorno e del caldo: guardatevi intorno, interrogate la fede di molti del popolo; vedete se la speranza non è posta talvolta in quelle cose da cui non viene la salute, se le tradizioni volgari, se le favole anili non sono talvolta sostituite alle cose più gravi della legge; voi che spregiate i clamori del mondo, voi che combattete le sue false massime, vedete, se talvolta il vostro silenzio non lascia i semplici in errori indegni della sapienza cristiana; vedete se non convenga combatterli direttamente e infaticabilmente. Questi errori svaniranno, ma v'è troppo a temere che in tante parti del mondo cattolico non isvanisca con essi anche la fede. Rimondate voi stessi l'albero dei rami secchi e infruttuosi, prima che l'uomo inimico possa porvi il ferro della distruzione. La situazione di chi, professando altamente la religione cattolica, confessa nello stesso tempo e condanna gli abusi e le superstizioni è la più esposta a tutte le inimicizie, e la più lontana dagli applausi; e questa considerazione deve portare sempre più gli amici della verità a porsi in questa situazione, come la più sicura e la più gloriosa dinanzi a Dio. Le parti che tengono opinioni estreme, hanno sovente vincoli di fratellanza purtroppo più forti che non quelli che legano i pochi e non arruolati difensori del vero; e mancare di questi appoggi dev'essere per loro un grande argomento di consolazione e di speranza. Altronde, come è già stato detto: i partiti estremi hanno vicendevolmente qualche indulgenza, e l'odio più costante e più vivo è per quelli che stanno nel mezzo. Coloro che amano gli abusi, temono meno gli uomini che si dichiarano nemici della fede, perchè questi non ponno avere autorità alcuna presso i fedeli; ma quelli che danno loro ombra, quelli che vorrebbero screditare, sono coloro che stando fermi al fondamento, biasimano che vi si fabbrichi sopra fieno e stoppie, perchè questo è l'edificio che a loro piace, e non possono opporre a chi lo vorrebbe abbattere, ch'egli rigetti il fondamento. L'ira poi dei nemici della fede è assai più rimessa verso i partigiani degli abusi, perchè vedono in essi una prova che a loro pare concludente contro la religione, un argomento di scherno e di biasimo, un pretesto perpetuo alla incredulità, ma quelli contro cui si mostrano più esacerbati, sono gli uomini che deplorando gli abusi dicono nello stesso tempo e provano col fatto che si può conoscerli ed esser fedele, e che tentando di toglierli, tentano di toglier loro di mano l'arma di cui fanno più uso. Quindi contro di questi si rivolgono gli uni e gli altri, e credono di scoraggiarli, e di proferire la loro condanna, mentre rendono loro la più gloriosa testimonianza, dicendo cioè che essi scontentano tutti i partiti. Felici se essi amano e gli uni e gli altri, se posti in una posizione così difficile, sentono che non vi si possono sostenere che coll'aiuto di Dio, se dai contrasti che soffrono, cavano argomenti di speranza e non di orgoglio, se li sopportano come pene meritate pei loro falli, se persuasi di sopportarli per la verità tremano pensando quanto siano indegni di un tale incarico, se non rivolgono un occhio di desiderio e d'invidia agli applausi del mondo, se non li spregiano per un sentimento di superbia, se non desiderano la confusione dei loro avversari di ogni genere, ma la loro concordia, aspettando con ogni pazienza i momenti del Signore. II. Della opposizione della Religione con lo spirito del secolo Una accusa che si fa comunemente ai nostri giorni alla religione cattolica è ch'ella sia in opposizione collo spirito del secolo. Questa accusa può in un senso essere dalla religione ricevuta come un elogio: se per spirito del secolo si intende la tendenza violenta ad alcune cose transitorie come beni da ricercarsi per se, l'amore e l'odio insomma delle creature non diretto ai fini voluti da Dio, la religione si protesta, come sempre si è protestata, nemica di questo spirito; e quando venisse a far tregua con esso, allora si potrebbe trovarla in contraddizione e diffidare di essa. Guai alla Chiesa se ella facesse un giorno pace col mondo! se desistesse dalla guerra che il Vangelo ha intimata e che ha lasciata alla Chiesa come la sua occupazione e il suo dovere; ma questo timore non può mai esser fondato, perchè l'espressa parola di Gesù Cristo assicura il contrario. ( Gv 15,18-19; Gv 16,33 ) Ma, si risponde, lo spirito del secolo presente non è altro che il complesso di molte verità utili e generose, presentite già da alcuni uomini grandi, diffuse di poi e divenute il patrimonio di tutti i popoli colti; verità, il legame ed il punto centrale delle quali, non osservato nemmeno da quei sommi che le promulgarono, è stato sentito ai nostri tempi, è divenuto il fondo, per dir così, della opinione pubblica, e distingue questa epoca sommamente ragionevole. Ora questo spirito che onora la ragione umana meno ancora per la sua evidenza che per la sua bellezza, non è assecondato dalla religione cattolica, anzi molte volte essa vi si oppone; e quando siamo a questo punto non bisogna stupirsi, se l'intelletto si volge da quella parte dove sta la dimostrazione, e la coscienza della dignità umana. Perchè se voi trovate ardita o erronea una proposizione che sia il risultato delle riflessioni degli uomini più illuminati d'una generazione, se tremate ad ogni esame che si istituisca, non dovete poi lagnarvi se si dirà che la vostra religione è nemica del pensiero, e che essa non vuole che il sacrificio del raziocinio ad una cieca sommissione; e dovreste essere convinti che su questa non è più da far conto. Che se la religione non è realmente opposta a queste verità, perchè suscitate voi alla nostra fede un nemico che essa non avrebbe senza di voi? E se credete di poter provare che lo spirito della Chiesa è veramente opposto a quello del secolo, l'evidenza stessa della vostra tesi dovrebbe determinarvi a lasciarla stare, perchè il secolo è disposto a conservare il suo spirito ad ogni costo. Questo mi sembra a un dipresso il sugo dei rimproveri che si fanno in questo genere alla morale della Chiesa Cattolica. L'obbiezione è semplice, ma è impossibile che la risposta lo sia, perchè l'argomento è composto, perchè deve aggirarsi su molte e varie cose, e fare assai distinzioni e nello spirito del secolo e in quello della Chiesa, e nel modo di manifestarsi dell'uno e dell'altro. Uno dei caratteri dello spirito predominante di tutti i secoli è una forte persuasione di alcune idee che degenera in tirannia di opinione, che condanna chi la contraddice, a passare per ignorante o per male intenzionato, dal che nasce un timore che impedisce a molti di esporre i loro dubbi, ed a moltissimi di concepirne. Questa tirannia è come tutte le altre, precipitosa, impaziente d'ogni obbiezione e di ogni esame, vaga di parlare e nemica di ascoltare, e di dare spiegazioni; come tutte le altre, essa non vorrebbe dar campo alle risposte, perchè, come tutte le altre, è in dubbio di quella sua autorità che pure vorrebbe far riconoscere da tutti e fare ammettere come fondata sulla ragione, senza lasciarla vagliare dal ragionamento. Eppure in tutte le discussioni, è necessaria la calma, la pazienza, la libertà; eppure bisogna esaminar tutto, ed anche lo spirito del secolo. Senza entrare a discutere tutti i punti nei quali si pretende a ragione o a torto che lo spirito della Chiesa contrasti a quello del secolo, io esporrò di seguito alcuni principi, i quali, a quello che mi sembra, debbono essere gli elementi logici d'ogni questione di questo genere. I principi sonò questi: Una generazione può avere la più forte persuasione di sentir rettamente, ed essere in errore. In questo caso non è da stupirsi se i principi della religione saranno in opposizione con lo spirito di questa generazione. Nelle opinioni di una generazione vi può essere del vero e del falso. Essa può cavare conseguenze storte da principi retti, o stabilire principi storti per dedurne delle conseguenze che sono verità, e che verrebbero logicamente da altri principi che essa non vuol riconoscere, per qualche prevenzione. In questo caso la Religione si opporrà alla parte falsa e sarà d'accordo colla vera. Una generazione può esagerare i principi giusti, estendere la loro importanza oltre la verità: la Religione riconoscendo i principi giusti, e rivendicandoli come suoi, si opporrà alla esagerazione. Una generazione può sostenere dei principi giusti per motivi di passione e con passione: la Religione riconoscerà pure i principi, e condannerà le passioni. Una generazione può conoscere assai poco la religione, e non amarla, e travisare i suoi dogmi e le sue massime, e creare una opposizione chimerica con altre massime vere. Finalmente alcuni di quelli che difendono la religione, possono o per ignoranza o per fini particolari sconoscere lo spirito della Religione, presentare come conseguenza della sua dottrina il loro spirito particolare, e creare essi una opposizione chimerica. Se questi principi si avessero presenti quando ci si affaccia un caso in cui ci sembri che la ragione del secolo sia in contrasto colla ragione eterna della fede, la ricerca sarebbe più lunga e più difficile sì, ma si potrebbe avere un po' più di fiducia nel giudizio che si porterebbe con queste precauzioni, e il giudizio sarebbe in molti casi che l'opposizione non esiste; e dove si trovasse, si vedrebbe che l'errore è dalla parte dei mondo, che non fa che disdirsi, che passare dall'entusiasmo al disprezzo, che confessarsi fallibile nel passato, pretendendo poi di essere riconosciuto infallibile ad ogni nuovo sentimento che adotta, e che la verità è con quella Religione che, diciotto secoli sono, disse al mondo « io non mi cambierò mai », e che non si è mai cambiata. Mi sia lecito di ripetere ad uno ad uno questi principi per avvalorarli con qualche esempio e con qualche spiegazione. 1° « Una generazione può avere la più forte persuasione di sentir rettamente, ed essere in errore. In questo caso non è da stupirsi se i principi della Religione saranno in opposizione con lo spirito di questa a generazione ». Per ridurre la questione ai suoi termini precisi, ed evitare ogni equivoco, s'intenda che la parola secolo si adopera in vari sensi; talvolta significa la pluralità di coloro che si occupano di scrivere e di parlare di principi generali e d'interessi comuni; ognun sa che finora la massa delle nazioni rimane o nella ignoranza o nella indifferenza e talvolta nella avversione di questi principi. Talvolta però vi partecipa. Ho detto poi la pluralità degli altri, perchè in ogni secolo vi sono proteste e riclami di alcuni contro lo spirito predominante, proteste che possono venire o da ostinazione di pregiudizi o d'interessi contro la verità, o da tranquilla e indipendente ragione che rigetti opinioni false e fanatiche. Mi sembra necessario fare questa distinzione perchè la parola spirito del secolo è adoperata indifferentemente e quando si tratti di quasi tutta Europa, o di una nazione, o di una gran parte di essa, o di alcune classi di varie nazioni concordi fra di loro, e discordi ognuna dagli altri suoi nazionali, o d'una setta. Ora in tutte queste società diverse può entrare l'errore ed esservi sostenuto come un principio. Chi lo nega? mi si dirà: nessuno lo nega, ma non basta riconoscere la massima, bisogna ricordarsene al momento di applicarla, nel tempo in cui la adesione universale ad una opinione, o la franchezza di alcuni in sostenerla, diventa, senza che ce ne accorgiamo, il principale o l'unico argomento per farcela ricevere. L'errore è spesso opposto all'errore, e non è raro di vedere gli uomini di una età, predicando una massima falsa, deplorare la cecità dei loro avi che tenevano l'altro estremo, e numerare le circostanze per cui essi poterono ingannarsi così grossolanamente, e non vedere ch'essi sono da circostanze simili tratti e tenuti nell'inganno contrario. Chi nei tempi chiamati i bei tempi della repubblica romana avesse detto che la guerra fatta per comandare ad altri popoli è una crudele pazzia, come sarebbe stato udito? Chi avesse detto agli Spartani: gl'Iloti hanno gli stessi diritti alla libertà ed alle leggi che avete voi: l'esser vinto o figlio di un vinto, non li toglie: il fine della società non può essere altro che procurare a tutti gli stessi vantaggi; la parola giustizia non ha senso se non si applica a tutti gli uomini. Quando voi ubbriacate gli schiavi per far abborrire l'intemperanza ai vostri figli, l'azione vostra è d'assai più brutto esempio che non quella di cui volete ispirar loro il disprezzo, perchè pervertire gli uomini a disegno è cosa più vile che l'ubbriacarsi; chi avesse parlato così sarebbe stato stimato degno di risposta? E se alla metà del secolo decimosettimo in Francia fossero state proposte quelle massime che ora vi sono quasi universalmente proclamate, sarebbero state accolte non come rivelazioni imprudenti di verità ardite, ma come paradossi volgari, come sogni d'intelletto ineducato, progetti appena buoni per una società di mercanti. E se un secolo ha avuto un'alta e ferma idea dell'eccellenza del suo spirito, è quello sicuramente. Queste idee predominanti in un'epoca, si chiamano di moda, vocabolo che dovrebbe per sé renderle sospette, perchè significa: essere determinato a seguire un sentimento o un uso dall'autorità, escluso l'esame. Quando alcuna di esse si trova contraria alla religione, la tentazione è forte per molti: a pochi è dato di volere e poter uscire, per dir così, dall'atmosfera generale delle idee, e trasportarsi in un campo più tranquillo e sereno, per consultare più la ragione propria che le mille voci concordi su un oggetto, e pesare quello che quasi tutti gli altri affermano. Due classi di persone schivano questa tentazione o la superano: quelli, cioè, che senza molta coltura, con un cuore illuminato dalla fede sono fermi in essa, e, diffidando di sé stessi, temono ogni pensiero, che possa esser contrario a ciò ch'essi sentono essere principalmente e incontrastabilmente vero; e quelli che accoppiando all'amore per la legge divina la ragionata ammirazione di essa, che conoscendo l'immutabilità delle verità rivelate e la mutabilità dei cervelli umani, considerano attentamente queste opinioni opposte alla religione, finché trovino dove sta l'errore di esse. I primi talvolta si tengono per una certa timidità in un'ignoranza utile, perchè esclude le idee false come le vere; talvolta rigettano fatti certi e dottrine fondate, perchè veggendo che da esse si derivano conseguenze irreligiose, le stimano false, mentre l'errore non è che nelle conseguenze. Rigettando il vero ed il falso, essi cadono nell'errore opposto dei loro avversari che ricevono l'uno e l'altro; ma l'errore di quelli è di poca importanza, perchè non è contro le verità essenziali: è un'applicazione mal fatta della regola certa di prescrizione ma l'effetto di escludere gli errori in fatto di fede essi l'ottengono. Intendo che l'errore è di poca importanza nei privati che tacciono, non già in coloro che possono influire sulle idee o sulla manifestazione delle idee altrui: questi sono obbligati a studiare e ad ascoltare. Una di queste opinioni predominanti e contrarie alla religione fu quella tanto in voga per tutta almeno la metà del secolo scorso, sul celibato lodato e comandato dalla Chiesa: l'aumento della popolazione tenuto come un indizio, e una cagione così certa, così universale di prosperità, che tutto ciò che tendeva a limitarlo in qualche parte, era considerato cosa dannosa, improvvida e barbara; e questi caratteri si davano per conseguenza al consiglio ed alla legge della Chiesa. Ben è vero che alcuni scrittori e singolarmente Giammaria Ortes si opposero alla esagerazione di questo prmcipio; ma le opere di questo autore erano in pochissime mani; nelle altre l'argomento non era trattato compiutamente. Di più ai tratti sparsi qua e là in favore d'una opinione conforme alla religione, se venivano da uomini noti per pensare cristiano, non vi si dava generalmente retta; si consideravano come pregiudizi della loro professione: se venivano da uomini che avessero riputazione di filosofi, si supponevano sacrifici fatti per politica alla opinione dominante nel popolo. A parte, adunque, qualche eccezione, si può dire che il sentimento d'una classe d'uomini riputatissimi aveva portata l'esagerazione fino a sostenere che la popolazioni non poteva mai essere eccessiva e che il celibato era sempre antisociale, quasi un delitto. Che S. Paolo avesse lodata la verginità, che la Chiesa dai primi tempi avesse interdette le nozze ai suoi ministri, si attribuiva al non aver essa saputo indovinare il perfezionamento delle idee in questo proposito, ad un sistema temporario e locale, anzi da questa sua istituzione si cavava argomento della falsità della Religione. Questa opinione cominciava ad essere predicata con manco ardore, come suole accadere, quando finalmente un economista inglese ( il D.r Malthus ) trattò la questione a fondo, e con un ampio corredo di fatti e di osservazioni. E contro le grida di tanti scrittori egli potè stabilire alcuni principi tanto evidenti che, all'udirli, si vede che la sola tradizione continua e persistente di una dottrina fanatica aveva potuto farli dimenticare: che la popolazione potrebbe crescere indefinitamente, ma non le sussistenze necessarie a conservarla, che quando l'equilibrio fra queste e quella sia tolto, è forza che si ristabilisca, che i mezzi infallibili con che l'equilibrio si ristabilisce, sono sempre grandi e violenti mali, che è utile e saggio il prevenire la necessità di questi mezzi; che non v'è altro modo di prevenirli che mantenere più che si può l'equilibrio: ma come mantenerlo tra una potenza indefinita ed una molto circoscritta? determinando quella a non spiegarsi tutta, a proporzionarsi all'altra, che le è necessaria. Fra i mezzi leciti ed utili e ragionevoli, pare che il celibato dovrebbe essere uno dei più conducenti a questo scopo: l'Autore non si serve di questo vocabolo condannato presso i suoi, ma lo definisce e vi applica un'altra denominazione. Fra gli ostacoli privalivi, l'astenersi dal matrimonio, unito alla castità è ciò che io chiamo coartazione morale; il che è appuntino il celibato lodato dalla Chiesa, e proposto a quelli che sentono d'esservi chiamati; se non che oltre le ragioni di prudenza e di ragionevolezza e di dignità morale addotte da quel profondo ed accurato scrittore la Chiesa v'include quelle di un particolare perfezionamento di sacrificio delle inclinazioni proprie, di staccatezza dagli oggetti terreni, idee ch'essa associa a tutti i suoi consigli, perchè non può mai dimenticare in ogni sua istituzione quello che ha proposto ai suoi figli come fondamento di esse: che sono veri beni quelli soli che conducono ai beni eterni. L'opinione che il celibato, con qualunque limite e restrizione, sia una istituzione antisociale e sempre dannosa, opinione, alla quale è stato dato l'ultimo colpo del nuovo Prospetto delle Scienze Economiche è ora, a quello ch'io stimo, quasi del tutto abbandonata. Intanto quanti uomini hanno portato nel sepolcro la persuasione che la morale cattolica era viziosa e falsa, perchè lodava il celibato! Quelli i quali hanno considerate le vicende delle opinioni umane troveranno altri esempi di questa fede prestata a cose riconosciute false dappoi; quelli che hanno fatto studi nelle scienze fisiche, ne troveranno in esse, perchè da esse in tutti i tempi si son cavate obbiezioni contro la fede. Una di esse è ricordata da quel Pascal, che fu tanto incontrastabilmente un grand'uomo che nessuno di quelli che combatterono le sue idee, proferì il suo nome senza ammirazione: Le lenti quanti astri ci hanno scoperto, che non esistevano affatto per i nostri filosofi anteriori! Si attaccava arditamente la Scrittura perche in tanti passi si parla del grande numero delle stelle: non ve ne sono che 1022, si diceva: noi lo sappiamo. Se in questi casi la Chiesa avesse, per una supposizione impossibile, ceduto alle grida ed all'autorità di tanti uomini colti, se avesse confessato di non aver tutto preveduto quando accettò i consigli di un Maestro infallibile, se si fosse ritrattata, questa generazione presente non avrebbe ogni ragione di tacciarla di servilità, di precipitazione e d'incostanza? Ma questi rimproveri non potranno toccarla mai: ella è paziente, perchè le è promesso che nulla sulla terra le sopravviverà; ella lascia scorrere le opinioni, sicura che tutte quelle che le sono contrarie, svaniranno; e noi che passiamo sulla terra, noi che esaminando noi stessi troviamo nei nostri pensieri medesimi tanta successione di certezza e di disinganno, abbandoneremo noi quella guida che non ha mai ingannato nessuno? e vorremo noi farci così schiavi del nostro giudizio da non riflettere ch'esso ci travia ogni qual volta si allontana da quella società, con cui Cristo starà fino alla consumazione di tutti i secoli? 2° « Nelle opinioni d'un secolo vi può essere del vero e del falso; esso può cavare conseguenze storte da principi retti, o stabilire principi storti per dedurre conseguenze che sono verità, e che verrebbero logicamente da altri principi che esso non vuol riconoscere per qualche prevenzione. In questo caso la religione si opporrà alla parte falsa e sarà d'accordo colla vera ». Ora il mondo generalmente non si appaga di queste concessioni parziali. L'uomo è sistematico per natura: egli tiene al complesso delle sue opinioni più che ad ognuna di esse in particolare, ed ama meno la verità particolare che crede vedere in ciascuna di esse, che il risultato di tutte, che risguarda particolarmente come l'opera della sua riflessione. Per conseguenza di questa disposizione egli sarà avverso ad ogni potenza intellettuale che pretenda far distinzioni in queste sue opinioni, e preferirà di difenderle tutte, combattendola come parte avversaria, che riceverne la sentenza come da giudice. L'imparzialità stessa di chi sceglie fra le nostre opinioni facendo le parti del vero e del falso, la ponderatezza, la superiorità di ragione che questo suppone, ripugna al nostro senso, e ci determina talvolta a sostenerle tutte piuttosto che a riceverne un giudizio da un'altra autorità. Perchè questo è un riconoscere che noi abbiamo comparate ed osservate molte idee, senza far poi un giusto discernimento tra esse. Quando invece noi vogliamo supporre, che quella autorità ci sia in tutto avversa, abbiamo il vantaggio di difendere contro essa anche la parte vera delle nostre opinioni, e si rigetta sopra di essa confusamente l'accusa di opposizione a verità incontrastabili. Questa avversione alle distinzioni si mostra sempre in quelli che tengono opinioni esagerate e sistematiche: si vede talvolta le due parti opposte manifestare una certa stima l'una dell'altra: ognuno loda nell'avversario ben pronunziato la fermezza, la congruenza ai suoi principi, l'ostinazione stessa: loda insomma quella parte in cui gli somiglia. Quegli invece che si frappone e dice - tu hai ragione in questo e tu in quello, e avete ambidue torto in altre cose - quegli è maltrattato dall'uno e dall'altro; e può esser contento, se non ne riporta altro titolo che di visionario e di fanatico. Questa è una delle ragioni, a mio credere, per le quali siamo così pronti a credere una serie d'idee tutte contrarie allo spirito di religione, mentre converrebbe ad una ad una paragonarle con esso. Eppure, come questa mescolanza di vero e di falso può facilmente esistere in tutte le idee degli uomini, facilmente si trova poi anche nel complesso di quelle che formano ciò che si chiama lo spirito di un secolo, perchè facilmente appunto vi entra quello spirito che la Chiesa ha sempre condannato, perchè si oppone al Vangelo. Ma si dirà: quand'anche si venga alla discussione parziale di ogni opinione, non si concorderà però per questo, perchè alcune di esse saranno false secondo il Vangelo e il mondo le riterrà per vere, cosicché l'opposizione si troverà essere reale. Certamente essa esisterà sempre, perchè il mondo non vuole riconoscere la bellezza e la verità di tutto il sistema di morale cristiana. Ma questa distinzione produrrà il vantaggio di mostrare chiaramente i veri punti di opposizione; ed allora ogni intelletto sincero potrà sciegliere. Si vedrà allora per quali massime la religione condanni una tal cosa, come queste massime sieno riconosciute in tanti altri casi incontrastabili ed ammirabili dal mondo stesso, come esse sieno legate con tutto il suo sistema, come non si possa negarne l'applicazione senza distruggere altre verità riconosciute dal mondo. Si vedrà che quello che nello spirito d'un secolo la Religione chiama falso, lo ha chiamato falso sempre, e che il secolo stesso lo ha riconosciuto falso in altri tempi perchè non avea gli stessi pregiudizi: si vedrà che la opposizione della Chiesa non nasce dal non aver essa prevedute certe massime, e dall'essere essa troppo semplice o poco filosofica per adottarle, ma che ad ognuno di questi principi ch'essa condanna, contrappone sempre un principio più alto, più perfetto, più eroico, più universale, più liberale. Il mondo non converrà colla Chiesa nel discernimento fra i suoi sentimenti, ma si vedrà perchè non voglia convenire. Questo è quello che desidera la Chiesa, la quale avendo la verità con sé, non ha bisogno d'altro che di essere ben conosciuta. Sarebbe argomento contenzioso e complicatissimo l'osservare lo spirito dei nostri tempi con questa intenzione di discernere quello che concordi colla religione e quello che vi si opponga; facciamo brevemente questo discernimento in uno spirito che ha durato a lungo, si è diffuso in moltissime parti, e ha portata al più alto punto la persuasione dell'esclusiva eccellenza e ragionevolezza propria: lo spirito cavalleresco. Lasciamo da parte la questione se esso sia mai stato realmente applicato alla condotta reale della vita, o se ( come a ragione, a parer mio, afferma il signor Sismondi ) la cavalleria pratica, per dir così, sia un'invenzione quasi assolutamente poetica, un nuovo secolo d'oro che ogni età ha supposto in un'altra età più antica. Lo spirito, nel senso di cui ora si parla, deve risultare non dalle azioni, ma dalle massime di un'epoca, perchè questo spirito teorico e precettivo è appunto quello che si contrappone alla religione. Ora egli è vero che nel medio evo è stata generalmente ricevuta una serie di massime che si può chiamare spirito cavalleresco; e questo spirito si rileva dalle istituzioni, dai giuramenti dei cavalieri, quando erano adottati nelle ragioni della lode e del biasimo dato alle azioni contemporanee, e nelle ragioni con cui si giudicavano le azioni storiche, nei caratteri veri o finti degli uomini proposti come esemplari, nelle adulazioni fatte ai potenti inventando fatti o interpretandoli secondo le intenzioni generalmente supposte lodevoli, nella adulazione dei potenti stessi all'opinione generale, nel professare i principi di questa opinione e nell'ostentare o fingere nelle loro opere una conformità a questi principi. È cosa universalmente ricevuta che fra i principi del medio evo erano questi dei principali: sommissione e venerazione alla fede cristiana, fedeltà nel mantenere la parola data, rispetto alle donne, protezione dei pupilli e delle vedove, dei deboli in generale contro la forza ingiusta, amore della gloria e delle distinzioni, l'onore riposto nel vendicare le ingiurie, e la infamia nel sopportarle pazientemente; onore esclusivo della professione delle armi, bassezza di quasi tutte le altre, e specialmente dell'agricoltura e del commercio, dignità nei nobili nel sentire e mantenere la loro superiorità sugl'ignobili chiamati villani, viltà nel rinunziare ad essa e confondersi con loro, viltà nel dipendere dalle leggi e nel riconoscere altra autorità che dei suoi pari. È manifesto che questo spirito si compone di sentimenti e di idee in parte conformi, in parte avverse alla dottrina evangelica. L'uomo che a quei tempi parlava contro il Vangelo, era considerato non solo un empio, ma un vile; e ( contraddizione singolare! ) l'uomo che coll'autorità del Vangelo tanto riconosciuta condannava certe massime ricevute, era pure un vile, un dappoco. È facile però il vedere da che più alti principi venga la pazienza e il perdono comandato dal Vangelo, che non la vendetta voluta dallo spirito cavalleresco. Poiché secondo il Vangelo, e la ragione non può disdirlo, l'onore non consiste nella opinione altrui, ma nei sentimenti e nelle azioni proprie; la distruzione di chi ha voluto torre l'onore ad uno non cambia in nulla le cose reali, per cui questi è degno o non degno d'onore; è disposizione nobile, ragionevole ed energica il vincere l'orgoglio e l'ira: il giudizio falso contro di noi non è un male; la forza e le armi non sono un paragone del vero. È ingiusto il farsi giudice in causa propria, e le leggi sono appunto necessarie perchè escludono il sentimento particolare dell'offesa dalla retribuzione. Questi ed altri principi eterni della Religione contro l'esagerazione del sentimento dell'onore dei secoli bassi sono più universali e più belli certo di quelli su cui era fondato il pregiudizio, e per una conseguenza della loro verità sono eminentemente utili anche alla società. Se quel codice di onore si fosse perpetuato, se si fosse spinto ed applicato in tutte le sue conseguenze, non vi dovrebbero essere ne tribunali, ne leggi, ne civilizzazione di sorta. Gli altri pregiudizi sulla diseguaglianza, sulla sommissione all'ordine sociale, non hanno nemmeno bisogno di essere confutati; la ragione del maggior numero non ha avuto a combattere ne gl'interessi, ne le passioni per scoprirne il falso. Ognuno può con ponderazione e spassionatezza fare questa disanima dello spirito di altri secoli, e, trovati i punti di opposizione, cercare i principi su cui è fondata l'una e l'altra dottrina, e scegliere. 3° « Una generazione può sostenere dei principi giusti per motivi di passione e con passione: la Religione riconoscerà i principi e condannerà le passioni ». Per quanto un'opinione sia vera, vi avrà sempre chi non la vorrà riconoscere per ostinazione o per interesse. Quelli che sono persuasi di essa, si sentono portati al disprezzo, all'odio, al furore contro gl'impugnatori; e siccome noi abbiamo sempre bisogno d'un bel principio per giustificare le nostre passioni, questi sentimenti si considerano come conseguenze dell'amore di verità; ricercando poi quello che la religione prescrive, troviamo che il precetto di conservare la carità non ammette eccezione: sopprimere i ribollimenti del disprezzo, contenersi dal mostrare colle parole il sentimento profondo che abbiamo della dappocaggine di chi dissente da noi; cercare di persuaderli con pazienza e con fermezza ed amarli, quando anche si disperi di farlo, sono prescrizioni che sembrano tanto amare al senso corrotto, che si spezzano piuttosto tutte le tavole della legge, che riconoscere questa. Eppure quando la consideriamo in astratto, non possiamo a meno di non confessarla bella e sapiente, e sola conforme alla debolezza dei nostri giudizi; perchè anche chi si inganna, si fonda sulla persuasione propria, e se non si ammette una regola comune di condotta e per chi s'inganna e per chi ha ragione, se è lecito rompere la carità a chi sostiene il vero, chi avrà più carità, se tutti credono di sostenerlo? E noi stessi, quando gli avversari nostri si lasciano contro noi trasportare alla passione, ne facciamo loro rimprovero, e ricordiamo loro che la verità è tranquilla, e pretendiamo che si sottopongano a quel giogo che diciamo insopportabile, quando ci si voglia porre sulle nostre spalle. Un'altra parte di falso che le passioni mischiano ai sistemi veri per se, per cui li fanno trovare in opposizione colla religione, è l'ammirazione eccessiva, gli affetti troppo estesi, il principio per cui si pretende dover questi sistemi essere abbracciati. Noi siamo tanto desiderosi della felicità e tanto avversi alla via che il Vangelo ci segna per giungervi, che preferiamo di figurarcela ora in una, ora in un'altra cosa creata: l'illusione non dura, è vero, ma è però sovente piena. Quando siamo presi dalla bellezza d'una idea, quando l'entusiasmo degli altri accresce, e giustifica il nostro, quando gli sforzi per realizzarla cominciano a dare probabilità di felice successo, allora tuttociò che non seconda la pienezza ed universalità di questo nostro amore, ci sembra meschino, ci spiace, lo allontaniamo da noi, lo escludiamo dai nostri pensieri. Ora la religione ha posti certi termini irremovibili, contro cui vanno ad urtare queste passioni che non si vogliono contenere fra quelli l'affetto a qualunque cosa temporale, come a fine, è proscritto dal Vangelo. Chi lo ha dato agli uomini, ha pensato a tutti i secoli, ha preveduto ogni entusiasmo ed ogni disinganno, sapeva che nulla ci può render felici in questa terra, e ce ne ha ammonito sempre. Tutto ciò che non è preparazione alla vita futura, tutto ciò che ci può far dimenticare che siamo in cammino, tutto ciò che prendiamo per dimora stabile, è vanità ed errore. La Religione introduce in ogni giudizio nostro intorno alle cose temporali l'idea della istabilità, della sproporzione coi nostri desideri, e col nostro fine, della necessità di abbandonarle, e questa idea appunto noi vorremmo escludere da quelle che ci rapiscono. Eppure quelle cose stesse si rivolgono sempre in modo che col tempo noi la ricaviamo da quelle cose medesime: essa diventa come un riposo dopo le agitazioni: la religione non vuole che condurci alla saviezza e alla moderazione senza dolori inutili, che portarci per tranquilla riflessione a quella ragionevolezza, a cui giungeremmo per la stanchezza e per una specie di disperazione. E si noti che l'amore a certe verità diretto dalla religione è non solo più moderato, ma più costante, anzi, per così dire, immutabile, in quanto è attaccato ad un principio immutabile. È stato molto e bene parlato dei pessimi effetti delle passioni nei grandi avvenimenti politici, ma uno non è stato, ch'io creda, osservato. Gli uomini che abbracciano un sistema per passione, veggono in quello una bellezza e una perfezione al di là del vero, e se ne promettono effetti esagerati ed impossibili. Questo stato di mente non può durare, e, oltre la mutabilità naturale dell'uomo, i fatti stessi tendono a cambiarlo, succedendo sempre o minori d'assai o contrari alla aspettazione. Accade quindi purtroppo sovente che si passi da questo eccesso a quello di sprezzare tutto quello che si era troppo idolatrato, e che dall'errore dell'entusiasmo si passi ad un altro meno nobile, che si creda disinganno e perfezione di ragione. In questo caso le passioni sono dannose e nella loro veemenza e nel raffreddamento medesimo. È facile vedere questo effetto nel più grande avvenimento dei nostri giorni, la rivoluzione francese. Se all'incontro la religione moderasse sempre la tendenza nostra verso qualunque idea, non si andrebbe fino a quel punto ove è impossibile dimorare, e dal quale è troppo difficile retrocedere soltanto fino alla verità. Ne hanno mancato ai nostri giorni esempi di questo genere: uomini, i quali non hanno voluto subordinare l'eternità al tempo, né supporre mai che vi potessero essere né epoche né cose, alle quali non si potesse applicare la regola infallibile del Vangelo. Alcuni di essi vissero abbanstanza per veder cadere gli eccessi che avevano combattuti, per vedere stabiliti in fatto e in massima gli eccessi contrari e per essere tacciati di caparbietà e di esagerazione, come lo erano stati di corte vedute e di pusillanimità. È la nostra immaginazione che associa la debolezza e la viltà alla pazienza, perchè vede in essa la disposizione d'un uomo che tace solo perchè non ha forza, d'un uomo che lambisce la mano dell'uomo che lo percuote nella speranza di placarlo, d'un uomo che ha sempre l'occhio rivolto ai beni della terra, ma la pazienza cristiana non assoggetta il cuore che a Dio, lo strumento di cui Dio si serve eccita la compassione e la carità di chi soffre cristianamente, e questi sentimenti sono tutt'altro che deboli. 4° « Si appongono spesso alla Religione, da coloro che non l'amano, principi e conseguenze che essa non tiene ». Non si è detto tante volte che la Religione consiglia ed ama l'ignoranza! Che comanda di credere a ciò che sentiamo contrario alla ragione! Supposti questi principi alla religione non era diffìcile provare che essa era in opposizione col senso comune, e con quello che lo spirito di ogni secolo ha di ragionevole. Ma basta aprire il Vangelo per vedere come queste ed altre simili supposizioni siano espressamente contrarie a tutta la rivelazione. 5° « Alcuni finalmente di quelli che amano e difendono la Religione cadono nello stesso errore di attribuirle o per ignoranza o per fini particolari massime che essa non ha, la pongono così in opposizione con lo spirito di un secolo in punti dove questa opposizione non esiste ». Se noi ci fondiamo su queste autorità per disistimare la religione abbiamo certamente il torto. Poiché a che serve il declamare contro la credulità, predicare l'esame, se in un punto di tanta importanza ce ne rimettiamo poi alla asserzione di persone il giudizio delle quali vale sì poco presso di noi in altri argomenti? Non sarebbe questo il caso di esaminare? Certo la Religione ha molte massime che sembrano meschine al mondo, perciò ella è detta follia, ma basta considerarle per scorgervi la più profonda sapienza, per vedere che non sono follia al senso corrotto dell'uomo se non perchè vengono da un punto di perfezione al quale egli non può solo salire nello stato suo di decadimento. Il vero punto di discernimento è che le massime evangeliche non sono follia, che supponendo tutto finito nella vita mortale. Questo stesso senso però non può a meno di non provare una certa ammirazione per esse. Ma quando si ode proporre una massima veramente piccola e falsa come derivata dalla Religione prima di credere che essa ne venga, bisogna ricordarsi che serie di uomini grandi ha impiegata la contemplazione di tutta la vita a considerare e ad ammirare la Religione di Cristo; e come dallo studio di essa ricavarono motivi per trovarla sempre più grande e ragionevole. Non già che l'autorità di essi ci debba portare a crederla tale senza conoscerla, ma deve farci diffidare di tutto ciò che la rappresenta come meschina e bassa, deve portarci ad esaminarla da noi come facevano essi. Se però la pietra d'inciampo posta in sulla via non iscusa colui che cadde perchè poteva o schifarla o gettarla dal suo cammino, non si deve lasciare di osservare quanto gran male sia il porre pietre d'inciampo. Ora questo fanno, forse senza avvedersene, forse credendo invece far bene, molti che nello spirito di un secolo pretendono condannare, con argomenti religiosi, opinioni non solo innocenti, ma ragionevoli, ma generose, opinioni le opposte delle quali sono talvolta assurde. Dal che, mi sembra, che ai nostri giorni sia necessario guardarsi più che non sia stato mai, giacche non giova dissimularlo, il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione, si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari. Gli oppugnatori di essa parlano come se la filosofia mondana fosse salita ad una sfera di pensieri più elevata, più pura, più celeste che non quella a cui il Vangelo ha portato la mente umana. - Ah! quanto questo inganno è più grande e più pericoloso, tanto più deve essere lo studio per non dare alcun pretesto ad alcuno di cadervi. I partiti in minorità non avendo la forza ricorrono alla giustizia, e questo è avvenuto spesso ai filosofi: essi hanno delle verità utili ed importanti: e sono stati male avvisati quelli che hanno voluto tutto confutare. Conveniva separare il vero dal falso; e se il vero era stato taciuto, conveniva confessarlo e subire l'umiliazione di averlo taciuto: non rigettare le verità per confutare. Quando il mondo ha riconosciuto un'idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela; bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l'avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato. « Poiché tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che rende amabili, tutto quello che fa buon nome; se qualche virtù, se qualche lode di disciplina, tutto è in quel libro divino » ( Fil 4,8 ). Bisogna mostrare al mondo che anzi quello che la Religione può condannare in quelle idee è tutto ciò che non è abbastanza ragionevole, né abbastanza universale, né abbastanza disinteressato. Se il mondo vuol pur sempre rigettare la dottrina di Gesù Cristo, la rigetti come follia, ma non mai come bassezza. La follia che consiste nel disprezzare le cose temporali di cui gli uomini sono più bramosi, nel sacrificare l'utile al vero, nell'affrontare i dolori e gli spregi per esso, é la follia dei martiri e dei padri, è il patrimonio eterno della Chiesa, e nessun Cristiano deve soffrire mai che, nemmeno per un momento, il mondo possa vantarsi di averglielo rapito. Ma, odo rispondere, si dovrà forse adottare ogni sentimento fanatico ed esaltato che sia in voga, si dovrà correre dietro ad ogni idea profana che il mondo inventi, e metta in adorazione? Dio liberi. Ma mi sia lecito di fare osservare a molti uomini di rettissime intenzioni, che i pregiudizi sono pure profani perchè non vengono dalla verità, che esaminando le loro opinioni, essi ne troveranno molte che non vengono che da abitudine, forse da interesse, e da principi affatto estranei al Vangelo, e che si sostengono come conseguenze di esso; e che nessuna idea morale è straniera al Vangelo; ogni verità morale è di sua natura una verità religiosa. La noncuranza stessa e l'ignoranza dello spirito del secolo da parte di tutti quelli che nella Chiesa sono destinati ad insegnare, sarebbe di gravissimo nocumento. Non già che essi debbano essere diretti da quello, ma dovrebbero anzi dirigerlo, raddrizzarlo, e dove sia d'uopo confutarlo con cognizione di causa, e con superiorità di ragione, non condannarlo in monte, ne abbandonarlo a se stesso, giacche in questo secondo caso essi lasciano il bell'ufficio di maestri a cui sono destinati, e nel primo mostrandosi o parziali, o non informati, perdono l'autorità indispensabile per essere ascoltati e persuadere. Mi sembra che molti apologisti della Religione nel secolo scorso siano caduti nell'inconveniente di confutar tutto. I partiti che sono in minorità, non avendo la forza, invocano la giustizia; ed è quindi impossibile che da essi non vengano idee utili e generose. Gli scrittori francesi del secolo scorso che si chiamano Filosofi, scrissero cose irreligiose, superficiali e false, e cose utili vere e nuove. Alcune idee di Voltaire sull'amministrazione, alcuni principi di alta politica di Montesquieu, alcuni metodi di educazione, e sopratutto alcune censure delle massime correnti sull'educazione in Rousseau, sono di tale evidenza che hanno trionfato di ogni opposizione, e bisogna render loro giustizia, ma questa giustizia sarebbe stato bello che fosse stata loro resa immediatamente, e da quelli che confutavano il falso dei loro scritti. Rousseau parlando nelle sue confessioni della risposta ch'egli fece al libro del re Stanislao contro il celebre Discorso sulle Lettere, si vanta d'aver saputo nella critica del Re distinguere i passi ch'erano scritti da lui, e quelli che appartenevano al P. De Menou, gesuita che aveva aiutato il Re nel lavoro, e di aver fatto man bassa sulle frasi che gli parvero essere del P. Menou. Gli apologisti dovevano porre ogni studio a fare un discernimento più importante e più generoso nelle opere dei Filosofi, separare cioè diligentemente il vero dal falso, e tombant sans ménagement su questo, rendere al vero gli omaggi che gli son sempre dovuti. Era un dovere di giustizia e di riconoscenza, ed era anche un mezzo per mostrare che l'imparzialità e la gentilezza e l'amore della verità sono naturalmente uniti alla religione. Si sarebbe veduto allora che non era lo spirito di partito che muoveva a combattere; e le verità ricosciute in quelli scrittori non darebbero autorità ai loro concetti in fatto di religione. Un'altra attenzione era pur necessaria e non si è sempre usata, a quel che mi pare, ed era l'estrema delicatezza che si doveva porre in opera riguardo alle persone. La religione ebbe per una gran parte del secolo 18° la forza con se: gli oppositori posero quindi in opera ogni astuzia per attaccarla senza esporsi a rischio di persecuzioni: quindi il rispetto espresso per la fede in otto o dieci frasi di libri tutti destinati a combatterla, quindi il modo indiretto di stabilire massime antievangeliche senza nominare il Vangelo, protestando sempre di stare entro i limiti di una filosofia umana. Il veleno era nascosto in quei libri, mostrarlo era mettersi a rischio di fare il delatore, si doveva quindi usare una gran diligenza, una nobile astuzia per illuminare i fedeli, per impedire il trionfo dell'errore senza manifestare la malizia dell'errante. Ma purtroppo l'effetto della forza è tanto contagioso, che è troppo difficile che l'uomo, che può ricorrere ad essa per atterrire il suo avversario, non se ne valga. Questa attenzione era tanto piìi necessaria che lo stato di depressione in cui talvolta si trovarono i nemici della religione e la potenza dei suoi difensori era una tentazione per gli animi gentili a valutar più gli argomenti di quelli, e a chiudere le orecchie alle difese. Quando Monsig. di Beaumont, Arcivescovo di Parigi, Duca di S. Cloud, Pari di Francia, Commendatore dell'Ordine dello Spirito Santo, ecc., ecc., pubblicava una Pastorale contro G. G. Rousseau cittadino di Ginevra, povero, infermo, fuggitivo e proscritto, che effetto non dovevano fare nell'opinione pubblica i riclami, non solo, ma gli argomenti di quest'ultimo, quali si fossero!. M'ingannero, ma credo che quando la religione fu spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, potè parlar più alto, e fu più ascoltata; e almeno coloro che sono disposti a pigliar le parti degli oppressi, ebbero contro di essa un pregiudizio di meno; il linguaggio dei suoi difensori ebbe, tosto i caratteri gloriosi di quei primi che la professarono, quando il confessarla non portava che l'obbrobrio della croce. Mi sembra che tre classi d'uomini abbiano ( benché con gran differenza ) avuto il torto e fatto danno alle idee della religione: 1° quelli che unirono cose diverse; 2° quelli che attaccarono tutto il complesso; 3° quelli che sostennero e lodarono tutto. Scrittori di cui non si può negare l'ingegno senza sciocchezza, né la retta intenzione senza calunnia, hanno giustificate, vantate, considerate come effetto di sapienza profonda cose che venivano da corruttela e da cattiva amministrazione, hanno riproposto cose di tempi andati, che a quei tempi erano detestate pubblicamente come abusi da uomini venerati allora, venerati adesso, e venerabili sempre. Benché sia facile l'intendere che gli esempi renderebbero più interessante, ed ecciterebbero l'attenzione, molte ragioni ci obbligano ad astenerci dal moltiplicarli. Non si deve sempre pretendere che uno dica molto; basta che non dica nulla di cui non sia convinto. Del resto il lettore che non ha cominciata la sua lettura in questo libricciuolo saprà facilmente dove trovare gli esempi importanti delle verità e degli errori. Da lungo tempo, se è lecito usare di questa similitudine, la letteratura originale è in un sol luogo; bisogna cercare i grandi argomenti e i grandi modelli, le grandi bellezze e i grandi difetti, e spesso si trovano in un sol uomo e in un sol libro. Tutto il resto è imitazione, commento, o critica. Si ricordino che l'avversione del mondo alla religione si appiglia ad ogni pretesto, e quindi bisogna usare la più gran delicatezza, porre il più attento studio a non dare pretesti contro la religione; ora uno dei più forti è quello che quelli che la predicano, resistono a verità riconosciute, e vi resistono per motivi di religione. Certo gli uomini sono obbligati a conoscere la legge, a distinguerla dalle aggiunte che vi fanno gli uomini, ma perchè render loro più diffìcile quest'obbligo, perchè non portarsi invece nel punto dove si uniscono la ragione e la religione, per mostrare a quelli che cercano il vero dove debbono fermarsi? La prevenzione, l'ostinazione, il fanatismo, l'impazienza dell'esame sono spesse volte le armi con cui si combatte la religione, bisogna ch'esse non si possano trovar mai nelle mani di chi la difende; bisogna rassicurare quelli che sono affezionati ad una idea vera e generosa, che la religione non domanderà loro mai di rinunziarvi. Ah! i sacrifici ch'ella esige non sono mai di questo genere. - Ma si dovrà esporsi alla disapprovazione di taluno, di cui converrà combattere gl'interessi e i pregiudizi. - E quando mai simili scuse furono ricevute nella Chiesa? Si dovrà per questo stare al fatto delle opinioni correnti; ingolfarsi in istudi profani, mischiarsi alle discussioni degli uomini senza sposare le loro passioni, senza lasciarsi strascinare dal loro entusiasmo. - E i promulgatori delle religioni non hanno essi operato a questo modo? Non si son fatti tutto a tutti per guadagnare tutti a Cristo? ( 1 Cor 9,22 ). Tutto bisogna intraprendere, sottoporsi a tutto piuttosto che lasciar prevalere l'opinione che la religione sia contrarià ad una verità morale, piuttosto che permettere che i figli del secolo si vantino d'essere in nulla ( s'intende sempre delle scienze morali ) più illuminati che gli allievi di Cristo. Quando si vogliono opporre agli increduli i buoni effetti della religione, non si enumerano forse le istituzioni e le idee grandi ed utili trovate o divulgate da uomini religiosi e dal clero in ispecie? Perchè dunque non ricordarsi che quegli stessi trovarono degli ostacoli allora? Perchè porne dinanzi a quelli che li imitano? Si sono anche troppo vantati i servizi resi dagli Ecclesiastici alle scienze esatte, servizi che non possono rendere che togliendo al loro ministero una parte di quelle cure che tutte gli hanno consacrate. E non si è forse abbastanza reso giustizia ai vantaggi resi da ecclesiastici alle idee morali. Per citare un esempio solo, non si potrebbe forse asserire che la moderna politica è stata fondata da Fénelon in un libro, che per il cattivo gusto dominante nel suo secolo ( sia detto con buona licenza ) è rivestito di forme gentilesche, ma il cui fondo è in tante parti cristiano? Ah! non si lascino mai gli ecclesiastici antivenire nell'esporre un'idea conforme alla vera dignità dell'uomo, e sopratutto all'umanità, al rispetto per la vita e per i dolori del prossimo. Si esamini, si studi, si combatta il falso, non dico si conceda, ma si predichi, si stabilisca il vero; il mondo non si raddrizzerà, ma voi avrete fatto il vostro dovere, ma gli animi retti non avranno più pretesti per non ascoltarvi; ma ad ogni opposizione dello spirito del secolo con quello della religione risulterà non solo che la Chiesa ha sempre ragione, ma che hanno sempre ragione quelli che si gloriano di tenere e di diffondere gli insegnamenti della Chiesa. III. Se il Clero abbia perduto la superiorità di lumi nella Morale Dando un'occhiata ai primi tempi del Cristianesimo, una delle cose che colpisce più nei cominciamenti di quell'epoca divina, si è la immensa superiorità di lumi nelle idee morali degli Apostoli su tutti i popoli, a cui essi andavano a portare quella luce che si è diffusa per essi nel mondo, quella luce da cui vengono tutti i raggi di verità di cui il mondo si fa ora bello, per cui si pretende tanto illuminato da non aver più bisogno di ascoltare i loro successori, che dico! la dottrina eterna che essi predicarono. Si veda S. Paolo dinanzi all'Areopago, si veda, nel principio della sua Epistola ai Romani, e in ogni altro luogo dov'egli mostra la vanità e l'insussistenza e l'irragionevolezza della dottrina etnica; si veda da che alta sfera egli parla; come abbraccia tutto il sistema d'errore per atterrarlo, come scorge in esso i punti principali d'assurdità, e di contraddizione, che viste generali per condannare, che grandi principi per stabilire la dottrina ch'egli vuole sostituire, che è certo di sostituire al gentilesimo ( At 17,22 ). Questa superiorità della dottrina cristiana alla etnica non è messa in dubbio da alcuno, ma chi la volesse negare tenti un poco, non dico di persuadere, ma di persuadersi di alcuno di quei sistemi anteriori o contemporanei al Cristianesimo: si parla dei loro autori come di uomini grandi, si è parlato anche purtroppo degli Apostoli come di uomini da nulla, ma si risusciti una di quelle dottrine ch'essi hanno abbattute, si trovi una società che la adotti. È ammesso quasi universalmente che questa superiorità di lumi del corpo dei ministri della Chiesa abbia esistito non solo nei primi tempi del Vangelo, ma anche in molte altre epoche posteriori, nelle quali si conviene che i preti furono, come si dice, alla testa della civilizzazione morale delle nazioni. Ma io affermerò contro l'opinione, di molti un fatto, il quale ecciterà senza dubbio le risa di molti: siccome però con le risa sono per lo più accolte tanto le grandi verità quanto i grandi errori, non lascerò per questo di parlarne per quelli che amano più di esaminare che di ridere, pregando chi si compiace di leggere, di attendere al preciso senso della mia proposizione, e a tutte le condizioni con cui è esposta. Dico adunque che chi ammette il Vangelo, deve riconoscere che i preti non hanno mai perduta questa superiorità di lumi nella morale, che il corpo dei preti insegnanti in Chiesa è stato sempre ed è più che mai la parte più dotta, più illuminata, più ragionatrice delle nazioni. Ho detto: per chi ammette il Vangelo; perchè chi lo nega, non riconoscerà questa superiorità in nessun tempo, e con questi bisogna pigliare la quistione da più alto, e cominciare a stabilire la divinità della rivelazione, il che non è nel mio argomento, ed è stato mirabilmente fatto da altri. Gli scrittori che impugnano direttamente il Vangelo, che lo considerano come una favola, sono diminuiti d'assai ai giorni nostri: gli avversari più noti della Religione cattolica rilevano il Vangelo, professano un'alta venerazione per esso, e gli argomenti tanto ribattuti e portati in trionfo nel secolo scorso per abbattere la rivelazione, li riguardano come sbalzi d'ingegno superficiale, incapace di internarsi in una serie d'idee morali, di animo non abbastanza serio ed amico del bello, di mente che stima contrario al senso comune tutto ciò che non ha in ogni sua parte una evidenza fisica, tutto ciò che per persuadere la ragione esige che la ragione vi si fermi a considerarlo con tranquillità e con serietà. Vediamo ora che voglia dire credere al Vangelo. Essendo esso un libro rivelato da Dio, un libro che si dà per tale, che assicura di essere infallibile, credere ad esso vuol dire credere a tutto ciò che è rivelato in esso. Bisogna assolutamente che il Vangelo sia ispirato da Dio, o finzione umana: nel primo caso è forza riceverlo tutto, perchè Dio non può ispirare un menomo errore. Chi venera il Vangelo dovrà dunque dire che il Vangelo è ispirato da Dio, e allora il punto di massima ragione, il punto più certo, più elevato dell'umano intelletto sarà il concordare col Vangelo: l'uomo sarà ragionevole ed illuminato in proporzione della sua fede ( 1 Cor 2,1-5 ). Ora perciò il corpo dei ministri della Chiesa è il più ragionevole ed illuminato, perchè è il solo che predichi e insegni tutto il Vangelo. Mi sembra che la conseguenza sia logicamente innegabile: non resta che a provare il fatto. Dovendo questa prova dedursi da una grande quantità di fatti, è impossibile portarvi la stessa evidenza; ma io spero che ogni animo spassionato, quando voglia esaminare da se quello che io non posso che accennare, avrà la più piena persuasione della verità di esso. È difficile leggere il Nuovo Testamento senza essere colpito da un carattere fra i tanti singolari di quel libro divino: l'unità della dottrina che risulta dai dogmi e dai precetti in un modo maraviglioso. Tutto è legato, tutto è corrispondente, tutto è desunto da principi d'un solo genere. La morale vi è fondata sul dogma; il che fa che il sentimento è unito al raziocinio, che è il solo mezzo per dare alla morale tutta l'autorità di che ha bisogno per persuadere gli uomini. Un sentimento non ragionato piacerà per la sua bellezza, ma non resisterà agli argomenti contrari, desunti dal raziocinio, perchè vi è nell'uomo una forza che lo costringe a discredere e ad abbandonare tutto ciò che è falso. Non è nel Nuovo Testamento comandato un sentimento d'odio e di amore, senza che si trovi un dogma per cui questo sentimento si dimostra ragionevole. Lodare la morale evangelica senza credere il dogma, non è altro che ricevere conseguenze senza ammettere i principi. Perchè, a cagion d'esempio, l'obbligo di perdonare in ogni caso e di amare i nemici sia ragionevole, conviene che il danno e l'ingiuria ricevuta non siano un male; e questo dogma rivelato dal Vangelo è il fondamento del precetto. Ora questo sistema di parti inseparabili - domando io - dove si sostiene, dove si predica tutto intero se non nelle Chiese, da quale società se non dai preti? Nei libri di morale filosofica forse? o nei discorsi degli uomini? Basta fare attenzione un momento agli uni ed agli altri, e aprire il Vangelo per essere obbligati a confessare che sono due sistemi affatto diversi; che chi non avesse altronde cognizione del Vangelo, è impossibile che ne ricevesse una idea dal più gran numero di quei libri, e di quei discorsi. Gli omaggi al Vangelo che si trovano nella maggior parte dei libri filosofici, ( si sottintendono sempre alcune poche e debite eccezioni ) sono in aperta contraddizione collo spirito del Vangelo; e quei libri sono d'altronde pieni di asserzioni opposte letteralmente ai dettami del Codice che lodano. Perchè lo lodano in quanto lo considerano conducente a certi loro fini, a cui lo vogliono subordinato: il Vangelo come un mezzo, il Vangelo che non si può più concepire se non è l'unico fine! Questi elogi si possono ridurre in gran parte ad un discorso di questa sorte: - Non si può negare che tu, o Religione di Cristo, non sii stata e non sii di molta utilità in questo mondo: Tu insegni, e comandi la pazienza a quelli che sono privati di tanti vantaggi della vita; e chi sa come andrebbe il mondo se essi si accordassero un giorno a non essere più pazienti! Tu comandi di restituire a colui che nessuno può sospettare di aver rapito l'altrui; la tua voce si fa sentire dove non giunge il braccio della legge. Nei tempi di rozzezza tu hai raddolciti i costumi, tu hai creato istituzioni di misericordia, tu hai dato ad alcuni uno zelo, un eroismo di carità inconcepibile a chi non conosce i tuoi impulsi e le tue promesse, e la società ti deve esser grata di questo. Tu hai conservato le lettere nel tempo della barbarie, e se noi leggiamo Cicerone e Virgilio, questo è uno dei tuoi più bei benefici. Tu hai promosse le arti: qual genio senza di te avrebbe potuto immaginare nella pittura l'ideale della bellezza e della santità? quale altra religione avrebbe dato i soggetti di tanti capi d'opera? Tu diminuisci i mali degl'infelici: tu arricchisci l'animo degli sventurati con un tesoro inesauribile di cui tu hai la chiave, colla speranza e gli altri devono tanto più lodarti di ciò, che la speranza che consola gli afflitti, non toglie nulla a quelli che sono nella gioia. V'è in noi una disposizione fantastica che ci porta a desiderare, ed a rappresentarci qualche cosa al di là del tempo che Conosciamo e della terra che abitiamo: e tu accontenti questa disposizione, e lusinghi così la mente quando gli oggetti terreni fanno poca impressione sovra di essa. Altronde chi può mai tenersi certo d'essere sempre avventurato? La prosperità, la salute, la gioventù, la ricchezza sono beni che debbono certamente abbandonare quelli che li posseggono; e chi può assicurarsi che la sua vita non duri più di essi? In questo caso ognuno deve contare sulle tue consolazioni, ed è sempre dolce il pensare che quando si siano perduti, tu ci puoi ricordare che erano vanità, e che l'uomo è creato per un'altra felicità. - A questo mi pare che la religione risponda: O uomini troppo attaccati alla terra: Certo da me vengono questi effetti che voi dite, perchè tutto quello che viene da me deve condurre all'ordinato ed al bello; ma voi col lodarmi di questi benefici, date a divedere di non conoscermi e di non amarmi, perchè dimenticate il primo e solo importante che io posso e voglio farvi, ed è quello di condurvi al fine beato per cui siete creati, di farvi simili a quei santi che voi lodate, di tendervi un mezzo di quei perfezionamenti che voi ammirate. Voi mi approvate negli altri e non volete quei soli beni che io posso farvi per mezzo della fede altrui, ma il vero bene che io voglio farvi è quello di dar la fede a voi. Io so bene che non tutti gli scrittori di filosofia morale si sono fermati a questa ammirazione del Cristianesimo, che non vede nella eternità che un mezzo per il tempo, che subordina la sapienza di Dio ai disegni degli uomini; so anzi che molti di essi si sono elevati al di sopra di questi sistemi e gli hanno eloquentemente combattuti. Rousseau non ha quasi lasciato opera dove non si trovi qualche omaggio alla rivelazione, nato non dalla considerazione di alcuni vantaggi temporali, ma da ammirazione profonda della sua bellezza, e della sua conformità colla parte più nobile e più vera della natura umana. E ai nostri giorni uno dei più splendidi intelletti che si siano in ogni tempo occupati nella contemplazione dell'uomo, che abbiano portata negli scritti la parte più intima, più sottile, più spirituale del pensiero, Madama di Staèl, come non si è ella sollevata sopra questi calcoli, come non ha ella forzato quei ragionatori che credevano di riposare alle mete del raziocinio, a levarsi, a ripigliare il cammino e a correre per campi nemmeno immaginati da essi, per cercare una ragione ben superiore a quella di cui si erano accontentati. Cito due scrittori, e dei più noti; ma chi non sa che queste idee si trovano ora in cento libri? Ma in questi pure la contraddizione di esaltare il Vangelo? di non predicarne che una parte, è sensibile quanto negli altri, senonchè quelli lo propongono come un mezzo d'utilità, e questi come un mezzo d'entusiasmo. Si apra il Vangelo e si confronti con quegli scritti eloquenti, e si vedrà come nel Vangelo essi hanno fatto una scelta, come hanno coltivato qua e là un grano del seme della parola, e come ne lasciano tanto perire soffocato fra i sassi e le spine. Io leggo bene che « La credenza religiosa e il centro delle idee, e la filosofia consiste nel trovare l'interpretazione ragionata delle verità divine »; io vedo l'ammirazione per le scritture come a pensieri ispirati dalla Divinità, fonte d'ogni intelletto; ma lo spirito delle Scritture, ma il fine che ci è proposto, ma i mezzi che, esse comandano di porre in opera, ma il principio per giudicare della moralità di ogni azione, ma i pensieri predominanti ai quali tutto è diretto nelle scritture, questo è quello ch'io cerco invano in questi libri. Che la sola cosa necessaria è di salvare l'anima sua, che dobbiamo renderci conformi alla immagine di Gesù Cristo, che non possiamo fare alcun bene senza la sua grazia, che bisogna operare la sua salute con timore e tremore, che la Fede è necessaria per piacere a Dio; queste verità fondamentali della rivelazione, queste a cui Paolo e Pietro, e Gesù Cristo stesso riducono tutti i loro insegnamenti, si trovano esse in questi libri? Ah queste idee sono di quelle che Dio ha nascosto ai prudenti e ai sapienti; bisogna farsi piccioli per intenderle ( Mt 11,25 ); ma se non le poniamo in cima ai nostri sistemi morali, l'omaggio che rendiamo al Vangelo, è una contraddizione. E che? sentiremo che il Vangelo è un libro superiore all'intelletto umano, che è un dono di Dio, e vorremo poi fare le parti dei doni di Dio, e riceverne quello solo, che concorda con altri sistemi? Non è quindi da farsi maraviglia se in questi libri si trovino poi contraddizioni, se il Vangelo tanto lodato in una pagina, sia dimenticato affatto in un'altra, e in punti in cui tutto dovrebbe decidersi colla sua autorità, quando si sia ammessa una volta; se alle volte la contraddizione è tanto rapida che le idee opposte si succedono immediatamente. Cito fra mille un passaggio della stessa opera per tanti capi immortale: « Non è forse necessario per ammirare l'Apollo sentire in sé stesso un genere di fierezza che calpesta tutti i serpenti della terra? Non e forse necessario essere cristiano per penetrare la fisionomia delle Vergini di Raffaello e del S. Gerolamo del Domenichino? Bisogna dunque poter farsi un entusiasmo pagano, e un entusiasmo cristiano secondo gli oggetti che si presentano? E si può esser cristiano, quando il sentimento della propria miseria, della carità universale, e della unica speranza in Gesù Cristo, morto per tutti gli uomini, non vinca nell'animo nostro a riguardo d'ogni nostro fratello, per quanto la condotta di lui possa parere a noi ed essere abbietta e perversa? Io so che questo è l'improperio di Cristo: ma bisogna confessarlo e glorificarsi in questo solo, o non citare il Vangelo. Ho detto che le istruzioni, e lo spirito di esso, non sono fedelmente conservati, né in generale nei libri di morale filosofica, né nei discorsi degli uomini. Anche per questa seconda parte nulla è più facile che convincersene. Basta qui pure ascoltare, aprire il Vangelo, e confrontare. Chi volesse ridurre ogni discorso morale ai principi evangelici, passerebbe per un ipocrita o per un fanatico, almeno per un bigotto, e per un incivile. Poiché il mondo ha fatto quasi una regola di buona creanza, della esclusione della religione dalle considerazioni morali sui fatti particolari, e si vede nell'inconcepibile e strano proverbio: « non bisogna entrare in sagrestia », proverbio che si opporrebbe a chi pretendesse di considerare le cose morali dal solo lato vero e importante, da quegli stessi che dicono in astratto esser questo il solo lato importante. Supponiamo che si parli di onori e di dignità; che da una parte si pretenda che i pericoli, i dispiaceri, le agitazioni, il timore di perdere, la noia, l'aumento dei desideri superano i beni che quelle arrecano, che altri sostenga che i beni superano i mali; che in questa quistione entri uno che dica: Il punto importante è di vedere se le dignità e gli onori rendono più o meno facile la salute eterna, in che casi e con che condizioni possono condurre o allontanare da questo fine? quest'uomo non farà ridere per la sua semplicità? Non si dirà che ogni cosa ha il suo tempo, che è assurdo fare da predicatore in società? La quale proposizione stessa svela da sé la contraddizione e l'assurdità che contiene, perchè viene a concedere che quelle cose dette nell'istruzione ecclesiastica siano vere: ora nulla è più assurdo che il pretendere che una massima riconosciuta vera non si debba più applicare al caso per cui è fatta, mentre la sua verità non consiste anzi che nel potere essere applicata. Fra gente colta che cerchi ragione di rallegrarsi, chi ricordasse la beata speranza, chi dicesse che il vero soggetto di gioia è che siamo stati redenti da G. C, si crederebbe fargli grazia a crederlo un pedante. È inutile moltiplicare esempi per un fatto troppo chiaro, che le idee evangeliche sono escluse quasi del tutto dai discorsi degli uomini, che non è lecito che parlarne qualche volta generalissimamente, purché non si faccia mai applicazione, eccetto alcuni casi, p. e., di afflizione, nei quali dopo sperimentati inutili i rimedi umani, non si stima sconveniente ricorrere a considerazioni di un genere superiore. L'uomo che leggendo il Vangelo sente nel suo cuore la divinità di esso, che confuso ed afflitto di scoprire nel suo senso una contrarietà ad esso, vorrebbe almeno essere animato dal giudizio concorde degli uomini, che cerca invano questa testimonianza nei libri e nelle conversazioni degli uomini, e se ne duole, entri in un giorno festivo nella povera Chiesa di un villaggio. Gli uditori rozzi, non esercitati certo a discussioni metafisiche, stanno però aspettando una voce che parli loro di quello che è più importante nell'uomo il più colto, come nel più ignorante, dell'anima, del fine per cui siamo creati, della moralità delle azioni, della Divinità. Il prete interrompe il rito e si volge alla turba che aspetta il pane della parola. Sia egli un nobile ingegno ridotto ad esercitare le più nobili funzioni lontano dagli sguardi del mondo, e alla sola presenza di Dio, e di alcuni animi semplici, o sia rozzo egli pure, sia divorato dallo zelo della salute dei suoi fratelli, pieno della sublimità della legge che insegna, ed esempio di fedeltà ad essa, od eserciti purtroppo con animo mercenario, e impaziente, il più alto dei ministeri; sia egli un vecchio disingannato dalle speranze del secolo, e desideroso dei riposi immortali, o un giovane che soffoca sotto alla voce le passioni, e che passa, nell'insegnare e nel predicare la sapienza e la moderazione, gli anni dell'impeto e dei desideri, sia egli compreso della dignità di cristiano e di sacerdote, o purtroppo un uomo compiacente ai fortunati del secolo; qualunque egli sia, non importa, ascoltiamolo. Egli ha ripetute alcune di quelle parole che diciotto secoli fa portarono la luce nel mondo, un miracolo di beneficenza e di compassione dell'Uomo-Dio, una istruzione alle turbe, un rimprovero agli ipocriti e ai superbi, una parabola di consolazione o di un salutare spavento. Egli interpreta le parole divine e le adatta ai bisogni del suo popolo; egli conforma ogni suo suggerimento a tutta la legge di Gesù Cristo, egli non dimezza i precetti, non transige col mondo: chiama vanità, vanità tutto ciò che nella Scrittura è chiamato vanità, egli riduce tutto ad un principio, non si vergogna di nulla, la persuasione è sulla sua fronte; sa che predica dei paradossi e non li mitiga in nessuna parte, sa che gli uomini si regolano per altri motivi, e predica questi soli, e chiama tutti gli altri falsi e meschini, egli predica tutta la follia della Croce. Oh sommi filosofi! Voi avete scoperte nel Vangelo perfezioni recondite e sublimi che quest'uomo non vi sospetta forse nemmeno; voi avete più ingegno e più cognizioni, ma quest'uomo ha più logica di voi. Egli intende il Vangelo com'è scritto; egli ha sentito che la ragione che riconosce la divinità di una legge, non ha altro a fare che anteporla ad ogni altro concetto, che insegnarla tutta. L'uomo che ama la Religione, si consola nel vedere che la predizione di Cristo non è mancata, che il Vangelo si predica sempre, che quelli cui Gesù Cristo gli ha detto di ascoltare, sono i più conseguenti e i più illuminati degli uomini, quando si tratti di quelle cose nelle quali è prescritto di ascoltarli. Io so che il prete che spiega le parole di vita, non è infallibile, che talvolta le passioni e gli errori suonano anche dall'altare; ma non voglio già sostenere che non si predichi mai altro che il Vangelo, dico solo che nella Chiesa soltanto si predica tutto il Vangelo. Miserabile contraddizione dell'uomo! Il prete stesso uscito di Chiesa, misto ai figliuoli del secolo, partecipa delle loro passioni, talvolta il prete stesso contraddice a se stesso, e ne applica i principi anticristiani del mondo alle azioni; assume il linguaggio generale intorno ai beni ed ai mali, e dice talvolta beati, dove il Vangelo dice guai! e viceversa. Contraddizione miserabile, ma che serve a far più ammirare la mano di Dio nell'insegnamento generale e costante per bocca anche di uomini, su cui non suonerebbero le massime del Vangelo, se Dio non ve le ponesse, se l'imposizione delle mani non li segregasse dalla cattedra dei derisori, e dalla congregazione dei malignanti. Quando poi si pensa che questa dottrina, che non si ode intera che nell'insegnamento ecclesiastico, è quella che ha abbattuto gli idoli per tutto il mondo, quella che ha soggiogata la sapienza Greca e l'orgoglio Romano, la dottrina che ha realizzato in migliaia di migliaia d'uomini un complesso di virtù che sembrava chimerico, quella dottrina che è stata per una lunga serie di secoli professata da uomini di alto ingegno, di animo pacato, e di ottima disciplina, quella dottrina che ha resistito a tanti attacchi dalla filosofia, la dottrina d'un libro, al quale gli uomini colti e pensatori si vergognano d'essere tenuti avversi o indifferenti, si può a buon diritto conchiudere che la primazia dei lumi è presso coloro che la mantengono viva, e la diffondono colla predicazione universale. « Un pensatore tedesco ha detto, che non vi era altra filosoiia che la religione cristiana ». E che? ci vogliono tante meditazioni per giungere a scoprire che avendo Dio rivelato agli uomini tutte le principali verità della morale, non devono gli uomini dar fede ad altro? Questa dottrina s'insegna dagli Apostoli in poi, gli uomini più rozzi la tengono fra i cattolici, i fanciulli la ricevono colle prime istruzioni. IV. Se la Religione conduca alla servilità Questa è una delle taccie che più frequentemente le si danno ai nostri giorni. Strana taccia alla Chiesa dei martiri! Lascio da parte che le fu data tante volte la taccia di portare alla sedizione, che questi due rimproveri contradditori le sono stati talvolta fatti dagli stessi uomini, perchè questi la trovarono in diverse occasioni sempre in opposizione ai loro desideri ingiusti. Aspiranti al potere chiamarono servile quella Religione che condannava i mezzi violenti e illegali, per cui volevano impadronirsene, giunti al potere chiamarono indocile quella Religione che insegnava che bisogna obbedire a Dio più che agli uomini. Accusando doppiamente la Religione questi l'hanno giustificata da tutti gli eccessi. Lascio da parte che una Religione che insegna a sprezzare quelle cose di cui gli uomini si valgono per farsi servi gli altri, tende a mantenere ognuno nella libertà e franchezza d'animo necessaria ad ognuno per fare il suo dovere. Ma ( questa taccia di servilità le vien data perchè non si esaminano tutte le sue prescrizioni: basta leggere le Scritture e raccogliere tutto quello che in esse è prescritto, comparare tutte le istruzioni relative alla politica, per vedere che tutte hanno per fine la giustizia, la pace, l'ordine, la moderazione e la magnanimità, la pazienza e il coraggio, e nessuna la servilità. Si consideri tutta la legge cristiana, e risulterà anzi che l'adempimento di molti precetti è incompatibile con essa. Pietro e Giovanni risposero al Sinedrio, che intimava loro di non parlare né insegnare nel nome di Gesù: Se sia giusto dinanzi a Dio l'ubbidire piuttosto a voi che a Dio, giudicatelo voi ( At 4,19 ). Si rifletta quanti sono questi casi in cui il comandamento degli uomini è opposto a quello di Dio. È proibita dalla legge di Dio ogni cooperazione volontaria all'ingiustizia; ma nei casi difficili in cui bisogna disubbidire a Dio o agli uomini, ci sembra di essere disobbligati da questa proibizione; si cita la necessità, si contrappone la prudenza. Dimodoché purtroppo vogliamo il coraggio soltanto quando é necessario per secondare un'impresa, per tentare un vantaggio; ma soffrir soli, soffrire tranquillamente, e col solo conforto di soffrire per la giustizia, e senza applauso, ci sembra quasi una virtù chimerica; tanto siamo affezionati alla terra! Ma riconosciamo almeno che la Religione non porta alla servilità, che essa anzi vuole il coraggio più raro, il più tranquillo, e che non porta ordinariamente pericoli che a colui che lo mostra; riconosciamo che la servilità é tutta quella prudenza umana che la Religione esclude da tutte le cose dove il dovere é chiaro. L'adulazione é secondo la legge di Dio un peccato ( se non altro come menzogna ) e chi non sa quanti sofismi ha inventato il mondo per giustificarla? Il mondo giustifica talvolta le cagioni che producono i mali e li aggravano, e colla gravezza dei mali giustifica poi le violenze o le perfidie commesse per liberarsene. Quando Lorenzino de Medici palpava e assecondava empiamente e vilmente il Duca Alessandro, adduceva in scusa che era utile l'ingannarlo: infame scusa! e quando poi lo ebbe empiamente e vilmente scannato, si vantò, d'aver liberata la patria. La Religione non ammette ragionamenti contro il precetto, perchè il precetto è eterno e universale; e chi lo ha posto ha preveduto tutti i casi possibili, e le ragioni che si inventano contro esso non possono essere che ingiuste. I casi straordinari sono anzi quelli, in cui bisogna avere più presente la legge, perchè appunto gl'interessi e le passioni sono più forti allora. Ma si oppone: se si volesse stare a questi principi, che si potrebbe mai fare? Ah! questi principi non si seguono, ma intanto che cosa si fa? Ma intanto gli uomini ottengono il fine che si propongono? o non hanno invece per lo più tutti i mali, senza la consolazione d'aver fatto il loro dovere? Insomma quelli che dicono che la Religione favorisce il potere ingiusto e violento, si figurino questo potere cinto da uomini religiosi, e pensino se non troverà esso ostacoli da tutte le parti, poiché ad ogni ingiustizia che comanda, troverà una ripulsa; quando interrogherà per avere una approvazione, sentirà invece una verità. Ne si dica: figurarsi una moltitudine d'uomini che segua fedelmente questa regola, è un sogno. Sia pur così; ma si confessi che questo rimprovero non può stare con l'altro, perchè o la dottrina è efficace, opererà effetti conformi al suo spirito, o non lo è, come si accusa di render gli uomini servili? ma si confessi che l'unica censura che si fa alla morale della Chiesa, è ch'ella sia troppo bella e sublime, perchè si possa sperare che noi, feccia d'Adamo, siamo tutti per seguirla; si confessi che di tutti i motivi che si possono inventare per sostituirle un'altra dottrina morale, il più frivolo e assurdo è quello che essa non proveda abbastanza alla dignità umana. Bisogna giudicare una dottrina dalle sue prescrizioni e dagli effetti che produrrebbe se fosse universalmente tenuta. Opporre ad una dottrina provata ottima, che gli uomini non la tengono universalmente, che serve? Purché non si possa provare che dovrebbero seguirne un'altra, non serve ad altro che a confermare la verità di questa dottrina, nella quale la frequente trasgressione di essa è tante volte predetta. Basti che se gli uomini si diportassero secondo essa, ne verrebbe il miglior ordine possibile, basti che potrebbero farlo, basti che non lo fanno per motivi ch'essi stessi condannano, quando si vogliano ridurre ad un principio generale. A questo si replicherà ciò che è stato ripetuto in tanti scritti, che, essendo il mondo diviso in buoni ed in tristi, la Religione assicura il trionfo di questi, togliendo ai buoni molti mezzi per combatterli. In questa obbiezione sta il vero punto di opposizione tra la morale del mondo e quella del Vangelo. Il mondo in ultimo propone per fine dell'uomo il conseguimento di alcuni vantaggi temporali; il Vangelo, invece, ponendo il premio nell'altra vita, non dà a questa altro scopo che l'adempimento della legge. Ora da Adamo in poi si è sempre veduto che alcuni uomini, sorpassando la legge, hanno procurato a se molti vantaggi, e ne hanno privati gli altri. A questi talvolta è tolta ogni speranza di ricuperarli, talvolta lo possono con mezzi comandati o consentiti dalla legge divina, talvolta lo potrebbero passando essi pure sopra la legge. Quando si è a questo, la questione si riduce a vedere se non vi siano certe leggi, alle quali bisogna sacrificare ogni vantaggio temporale. Fatta la tesi a questo modo, non vi sarà alcuno che non confessi esservene taluna. Se si domanda p. e. se la vita sia da conservarsi a spese dell'onore, tutti gli uomini, sono per dire, risponderanno di no. E così si dica di molti altri vantaggi, ai quali ognuno converrà doversi rinunciare piuttosto che produrre gravissimi mali. È manifesto adunque che anche il mondo ammette, in astratto, il principio su cui è fondata la morale della Chiesa, che comanda di patire piuttosto che farsi colpevole. Se le cose che la Chiesa non permette, nemmeno per conservare i propri diritti, sono colpe, essa non farà che applicare un principio vero e riconosciuto. L'utile o il danno non deve stare sulla bilancia quando si voglia pesare la giustizia o l'ingiustizia d'un'azione. Non si dice però lasciar di riflettere che queste infrazioni fatte per un principio di diritto e di virtù ( oltreché nessuno può assicurarsi della purità delle sue intenzioni quando si regola pee il proprio vantaggio contro la legge ), queste infrazioni, dico, sono per lo più non rimedio ai mali esistenti, ma nuovi e gravissimi mali, e l'ammetterle in principio sarebbe un togliere ogni forza ai principi di morale per cui si mantiene qualche ordine su questa terra. Se p. e. si ammettesse che è lecito il mentire al mentitore, ne verrebbe che la verità non si troverebbe più nemmeno sulle labbra degli uomini onesti. Se riconosciamo che il complesso della morale evangelica porterebbe al miglior ordine, abbiamo tutto il torto nel non volerla noi seguire nella parte che tocca a noi. Se una porzione d'uomini l'abbandona, imitandoli noi non facciamo che allontanare di più questo ordine. Se quelli che la lodano, che dicono di desiderare di vederla posta in pratica, non sono i primi a seguirla, certo il suo stabilimento sarà sempre un sogno. E se si vede che i motivi che i migliori adducono per francarsi da essa, si riducono a un solo, cioè che nello stato reale della società questo costerebbe troppo, non si potrà cavare la conseguenza che uomini i quali temono tanto ogni svantaggio temporale, non hanno diritto di parlare di dignità morale, e non è da stupirsi che siano ben lontani dal sentire quanta ve ne sia in una dottrina tutta fondata sul sacrificio temporale di ciascheduno? Conchiudiamo che ogni potere ingiusto per far male agli uomini, ha bisogno di cooperatori che rinuncino ad obbedire alla legge divina, e quindi l'inesecuzione di essa è la condizione più essenziale perchè esso possa agire. E che la legge divina predica a tutti gli uomini la giustizia; e se a quelli che la vogliono seguire, non propone in molti casi che la pazienza, propone il solo mezzo ch'essi abbiano per la loro felicità, perchè tutti gli altri, facendoli rei, li fanno per conseguenza abietti ed infelici. E si osservi da ultimo, che considerare la pazienza come una virtù che porti alla debolezza, è un considerarla molto leggermente, perchè questa virtù, educando l'animo a superare i mali, lo rende più forte ad affrontarli quando sia necessario per la giustizia; mentre l'insofferenza che trasporta l'uomo alla violenza, lo fa poi condiscendente quando vi sia un mezzo di sfuggire i mali, sacrificando il dovere. Forse si opporrà a queste ragioni che nella Chiesa molti adulatori insegnarono la servilità, e pretesero di consacrarla coll'insegnamento delle Scritture. Purtroppo, ma io mi appello a tutti quelli che sostengono una causa giusta e generosa, e domando loro: sareste voi contenti che la vostra causa fosse giudicata dalle opinioni o esagerate, o interessate, o fanatiche di alcuni che pretendono difendere la vostra stessa causa? E quando i vostri avversari vi appongono queste opinioni e questi eccessi, non reclamate voi contro questo giudizio, non dite voi che è dai vostri principi che bisogna giudicarvi? E perchè giudicherete la Religione dalle mire degli adulatori? Essi hanno detto ai potenti che la Religione era loro utile perchè favoriva ogni esercizio della loro potenza, mentre dovevano dire ai potenti: che la religione è loro utile, perchè li può guidare alla salute, perchè posti nella situazione la più pericolosa hanno più d'ogni altro bisogno di guida e di soccorso, perchè oltre la miseria loro propria, la bassezza degli altri cospira ad ingannarli e a perderli. - Tutti siamo purtroppo inclinati, a considerare ogni cosa come un mezzo ai desideri nostri temporali, e i potenti hanno purtroppo una tentazione più forte di tutti a questo; quella potenza che tanti esaltano, che tanti invidiano, sembra al più di essi una cosa di tanta importanza che tutto le diventa accessorio, e la religione stessa, cioè la cosa più principale che l'uomo possa concepire, si subordina talvolta nelle loro idee a questo loro idolo. Non è da stupirsi quindi, se gli adulatori li abbiano secondati in ciò, se abbiano detto e ripetuto a pochi uomini che sono al pari degli altri strumenti nella mano di Dio, che tutto era per loro; se quella religione che è istituita per il perfezionamento di tutti, per lo stabilimento delle verità morali, per la vittoria dello spirito sulla carne, essi hanno voluto far credere che non fosse destinata principalmente che a far godere alcuni uomini più tranquillamente di un potere che finisce al sepolcro. Non bisogna stupirsene, ma bisogna esaminare se la religione secondi queste interpretazioni, se quelli che le hanno fatte, rappresentassero sinceramente lo spirito della religione. Se si trova ch'essi non presentarono mai che alcune parti separate dal gran sistema cristiano, che scelsero, per parlarne, i tempi in cui queste dottrine potessero portare vantaggi senza pericolo, in cui non incontrassero la contraddizione che di quelli che non possono nulla, che evidentemente rappresentassero la religione come secondaria agli interessi temporali, sarà evidente che non devono essere considerati come i suoi intrepreti. Ma perchè in grazia di questi, dimenticheremo noi la lunga successione di cristiani coraggiosi, che seppero non solo astenersi dalla adulazione, ma dire il vero con pericolo? Perchè dimenticheremo quei tempi in cui l'adulazione non era più una speculazione di alcuni cortigiani, ma l'entusiasmo di nazioni intere, e nei quali è forza cercare delle prediche e dei libri di pietà per rinvenire una prova di coraggio, per sentire che l'idea della dignità umana non era del tutto perduta? V. Di alcuni caratteri particolari della Religione Cristiana in relazione specialmente colle istituzioni sociali primarie Vediamone un esempio proposto da Helvetius; esso fa benissimo al caso: La maldicenza è certamente un vizio, ma è un vizio necessario, ecc. Chi con queste ragioni volesse sconsigliare un moralista cristiano dal predicare contro la maldicenza sarebbe molto simile a chi dopo una battaglia dicesse ad un chirurgo militare: Perchè attendete voi a rimediare le ferite particolari di quei soldati? le ferite sono una conseguenza necessaria delle guerre, togliete le guerre dal mondo, distruggete l'ambizione dei principi, le passioni di tutti gli uomini, altrimenti voi non fate nulla. Ognuno vede ciò che il chirurgo potrebbe rispondere. Ma il moralista cristiano ha ragioni ancor più estese per provare la ragionevolezza e l'utilità dei mezzi ch'egli pone in opera per combattere la maldicenza; egli potrebbe rispondere: Voi mi fate osservare una causa generale della maldicenza alla quale io non aveva mai pensato, ora io non esaminerò s'ella sia o non sia causa; quello però che posso assicurarvi si è che non è la sola: e ve lo assicuro poiché io ne conosco molte altre sulle quali ho meditato. - Il solo rimedio che voi volete è incerto, difficile, complicato, e incompleto. Cabiate la forma del governo: è presto detto: ma a chi farei io questa proposizione? a quelli che tengono il governo? credete voi che li persuaderei? ai governati? io non parlo dei rischi personali che ci potrebbero essere nel farlo; nessuno deve saper più di un moralista cristiano che questa non è una obbiezione ma io vi domando se nella vostra coscienza voi vorreste rispondere delle conseguenze di questa proposizione. Voi volete che per ottenere un effetto io faccia agire una causa complessa che ne produrrebbe mille, la più parte dei quali io non posso prevedere: perchè non vi sembra più ragionevole che io mi serva di mezzi diretti, e dei quali conosco le conseguenze, mezzi che so fin dove possono operare? Ma la vera ragione per cui non posso adottare questo rimedio è che io non lo credo un rimedio efficace, e ciò per la ragione che io vi dicevo, cioè che egli non potrebbe in ogni caso toglier di mezzo che una causa, lasciando intatte tutte le altre che portano gli uomini a dir male. Volete che io ve le enumeri? no, sarebbe una predica, e voi le potete trovare spiegate in cento libri. Vi farò invece osservare un fatto, che mostra ad evidenza che queste altre cause esistono, poiché operano anche dove è tolta quella di cui voi parlate. Credete voi che i ministri che hanno tanto a parlare degli affari di stato non dicano mai male del prossimo? Credete voi che fra gli Ateniesi non vi fosse la maldicenza? Eppure non si può dire che non avessero parte al maneggio degli affari pubblici. Ma questo esempio è troppo difficile a verificarsi: ho inteso dire che presso una nazione moderna, dove i cittadini si occupano assai di affari pubblici, e sono tutt'altro che dediti alla pigrizia, non solo sussiste la maldicenza, ma è stata portata fino nei giornali, tanta è ivi la smania di parlare delle persone: altrove la storia dei fatti particolari non esce dal crocchio dei vicini e de conoscenti, o al più dalle mura della città; ivi si diffonde per tutta la nazione. Ora supponete un moralista che volesse predicare a questa nazione contro la maldicenza, che potrà mai dire? Proporre che si tolga una causa che non esiste? Egli dovrà cercare nella natura dell'uomo le cagioni della maldicenza, e nella religione le ragioni per determinare gli uomini a fuggirla: e questo è ciò che faccio io - bisogna infine venire a questo sistema, perchè è il solo con cui si possa diminuire la forza delle cause perpetue. Non mi opponete che queste ragioni operano solo parzialmente perchè, che importa ciò purché sieno le vere ragioni? Questo vorrà dire che i mali dell'umanità sono così gravi, che anche i veri rimedi non guariscono tutti gli uomini, ma non già che si debba per questo abbandonare i veri rimedi. Del resto potete osservare ( e questo è della più grande importanza ) che i rimedi della religione tendono a produrre gli effetti più generali che si possono immaginare, perchè non correggono un vizio, che migliorando tutto l'uomo morale, a differenza di tanti mezzi da voi proposti nel vostro libro, i quali talvolta lasciano intatto il principio di corruttela, e talvolta tendono manifestamente a diffonderne e ad accrescerne l'attività. Di qui si vede quanto ragionevolmente vuole Helvetius, che si riconoscano i moralisti, ch'egli chiama ipocriti, dalla indifferenza con cui riguardano i vizi distruttori degli imperi, all'impeto con cui danno addosso ai vizi particolari. Come se il fine della morale fosse di conservare gli imperi, e non di perfezionare gli uomini, come se il parlare ad ognuno dei suoi propri mali non fosse il miglior mezzo di correggere tutta la massa degli uomini, come se non si dovessero porre in opera i mezzi possibili per rimediare ad alcuni mali sotto il pretesto che vi sono altri mali più generali. Coloro che avendo a parlare dei vizi che distruggono gl'imperi ne parlano con indifferenza, o che trattando della distruzione degl'imperi dissimulano i vizi che ne sono cagione, fanno male se per ignoranza, peggio poi se è per adulare i potenti o i pregiudizi dei loro contemporanei. Ma lasciare da parte i grandi effetti politici di alcuni vizi, e restringersi ad insegnare agli uomini a vincere le passioni e ad esser buoni e giusti, non è ipocrisia, è un ufficio nobile non meno che salutare, è filosofia più profonda. Rintracciare l'occasione di certi vizi e di certe virtù nella direzione data dalle cause politiche ad una nazione, è una ricerca fondata che ha prodotte belle ed importanti scoperte, le quali hanno finito e finiranno col distruggere molte istituzioni cattive, ma supporre in una o più di queste cause tutta la moralità degli uomini, immaginarsi che tolto quell'inciampo che si ha sotto gli occhi, tutta la via diverrà piana, è dimenticare affatto la natura dell'uomo. La facoltà di operare sugli uomini indipendentemente dalle relazioni politiche, mi sembra uno dei più bei caratteri di sapienza e di perpetuità della religione. I sistemi politici sono tutti complicati, e il sostenerli e l'attaccarli è impresa nella quale entrano troppo facilmente mezzi onesti e viziosi, e gli effetti che ne vengono sono e misti di bene e di male, e per lo più incalcolabili da quegli stessi che li vogliono produrre. La vera religione doveva essere una guida all'uomo per operare rettamente in qualunque tempo e in qualunque sistema; essa deve dare mezzi per cui l'uomo che vuole essere giusto, lo possa essere, benché gli altri si ostinino a non esserlo, benché esistano cause che lo porterebbero al male; giacché queste cause non si possono togliere. Essa ha scelto di agire direttamente sopra l'animo di ognuno che la vuole ascoltare, perchè questa azione é la sola che sia pronta, sicura, perpetua, ed universale. E si osservi che questa azione, mentre è indipendente dalle cause politiche, influisce però in bene sopra di esse, perchè portando gli uomini alla giustizia ogni qualvolta essa sarà ascoltata, cangerà anche le istituzioni quando siano dannose. Su che è dunque fondato il rimprovero di Elvezio, che pretende che i precetti di moderazione raccomandati da moralisti, com'egli dice, declamatori e senza spirito, possono essere utili a qualche particolare, ma rovinerebbero le nazioni che le adottassero? Certo, se tutte le adottassero, non sarebbero rovinate, perchè essendo tutte moderate, l'energia della difesa non farebbe più di bisogno. Ma si dirà, appunto perchè le altre non sono moderate, quella che volesse esserlo, soccomberebbe. Questa supposizione è stata molto ripetuta; ma è ella provata? Consta veramente che una nazione moderata e giusta sarebbe meno energica delle altre? Consta che non si possa essere atti alla difesa se non esercitandosi alla offesa? Mi sembra che la storia provi tutto l'opposto. Ma, si dirà da ultimo questa perfezione è una chimera. Ma la felicità fondata sullo sviluppo delle passioni è ella una realtà? Dove sono le memorie del contento nato dalla violenza? Vediamo nella storia l'inutile pentimento e le lagrime senza consolazione andar dietro alla moderazione ed alla giustizia? Sono esse che si trovano ingannate dagli eventi? Sono esse che ottenuto il loro intento diventano più inquiete e crucciose? La prima è una chimera per la renitenza degli uomini che potrebbero e non vogliono adottarla: la seconda è una chimera per la natura stessa delle cose. Le leggi hanno un inconveniente necessario, ed è che non possono creare un dovere senza far nascere un corrispondente diritto: bisogna quindi che ad ottenere il loro effetto, armino l'uomo contro l'uomo. La Religione impone dei doveri ad una parte, senza dar diritti all'altra; comanda p. e. al ricco di dar il superfluo, senza conferire al povero il diritto di ripeterlo, comanda all'offeso di perdonare, senza che l'offensore possa pretendere il perdono. Da questa differenza consegue che la Religione può prescrivere alcune cose bellissime ed utilissime, che non possono prescrivere le leggi, perchè i diritti che conferirebbero con ciò, sarebbero cagione di gravissimi mali, e la Legge ne sarebbe inapplicabile o distruttiva. La legge non deve parlare che quando abbia una qualche certezza di farsi ubbidire: deve dunque avere la forza con se; e in quanto impone cose che non si farebbero spontaneamente essa non comanda che ai più deboli; la voce della Religione è sempre viva: essa parla ai più forti, a cui nessun'autorità umana potrebbe comandare senza opprimerli od esserne oppressa; cioè senza disordini. Le leggi, supponendole fatte con rette intenzioni, tendono alla giustizia ed alla tranquillità: due fini difficilissimi a conciliarsi, e sono quindi forzate di sacrificare il più sovente la prima alla seconda; la Religione tende a condurre tranquillamente alla giustizia perchè determina a fare dei passi verso di essa quelli che non possono trovare ostacoli a questo nell'altra parte, che anzi non ne ricevono che benedizioni; determina a cedere volontariamente. VI. Degli odi nazionali I tratti con i quali è dipinto il carattere morale degli Italiani moderni nel Cap. CXXVI della Storia delle Rep. It., sono tali che è difficile ad un Italiano l'esaminarli spassionatamente, e considerare con tranquillità se quello sarebbe mai il vero ritratto della nazione di cui egli è parte. Imponendo però silenzio, a quello che mi sembra, ad ogni parzialità nazionale, mi è sembrato che questa pittura fosse ingiusta. Ma io non ho creduto di ribattere le accuse fatte a questa infelice Italia che nella parte dove la causa di essa era necessariamente collegata con quella della Religione. Questo argomento è già stato mille volte discusso, e quando una questione va troppo in lungo, quando da una parte e dall'altra si ripetono sempre le stesse ragioni senza riguardo alle ragioni opposte, si può esser certi che le passioni se ne sono impadronite, e allora i ragionamenti servono ben poco. Ma, la persuasione appunto che le passioni abbiano la maggior parte in questi giudizi che si profferiscono sulle nazioni, mi ha condotto a fare alcune riflessioni generali sopra di essi, e a considerarli dal lato della morale religiosa. Benché però queste riflessioni siano fatte all'occasione dell'opera suaccennata, esse sono affatto generali, non vi è ad essa alcuna allusione indiretta; se mi occorrerà di citarla in qualche particolare, io lo farò espressamente con quella stessa lealtà, e con quei riguardi, che spero ogni lettore avrà riconosciuti nelle osservazioni precedenti. Accade a molte massime di essere derise come triviali e troppo note quando si annunziano in astratto, e di essere poi tacciate di stravaganti e di raffinate quando si vogliono applicare ad un caso . particolare. Una tal sorte è da temersi per queste; ma forse qualche ingegno imparziale le degnerà di alcuna attenzione per l'intenzione retta e pacifica, e per lo spirito cosmopolita cioè cristiano, con cui mi sembra che siano dettate. Togliete da una serie qualunque di idee morali la sanzione religiosa, l'ordine ne è distrutto immediatamente, tutto diviene confusione e incertezza. Le verità morali della più alta importanza diventano un oggetto di discussione, i sentimenti dei quali il cuore non vorrebbe mai dubitare, che si tengono come il nobile patrimonio dell'uomo, quei sentimenti che ogni uomo pretende che gli altri suppongano in lui, a segno che il mettere in forse se uno li professi, è una ingiuria, diventano una ipotesi: gli uomini li riconoscono allora a vicenda come una finzione convenuta, come una parte di educazione, come una tradizione ricevuta, ma spingete il ragionamento, cercate il fondamento, e non lo trverete. L'assenza dei principi religiosi, dannosa in tutto, lo è grandemente nei rapporti reciproci fra le nazioni. La fratellanza universale degli uomini è una bella rivelazione del Cristianesimo. Sono diciotto secoli che nel bollore degli orgogli e delle avversioni nazionali S. Paolo ( Col 3,11 ) invitava tutti a rivestirsi dell'uomo nuovo, dove non è Gentile ne Giudeo, circonciso e incirconciso, Barbaro e Scita, servo e libero, ma tutto ed in tutti Cristo. La comune miseria e la comune speranza, un solo Salvatore per tutti, ed una patria immortale per tutti, sono idee che dovrebbero opprimere le rivalità e gli odi, che, risguardando ai loro effetti ed alle loro cagioni, e alla durata della vita che occupano, sarebbero ridicoli, se ogni traviamento di uno spirito creato ad immagine di Dio non fosse sempre un oggetto tristo e serio, se tutto quello che separa l'uomo dall'uomo, non fosse sempre una grave sventura. L'uomo riferisce tutto a sé stesso, e se ama qualche cosa, l'ama in relazione a quell'amore ch'egli ha per sé, e che vorrebbe che tutti avessero per lui. Queste sono verità molto volgari, ma che bisogna ripetere sovente, perché questo stesso amore primitivo che regola le nostre azioni, ci porta a dimostrare che esso è il mobile di esse, e noi vorremmo potere assegnare tutt'altra ragione di quelle. Ma l'uomo sente nello stesso tempo la sua debolezza, e, disperando della stima e della potenza esclusiva, entra in società coi suoi simili; allora l'amor proprio di molti si bilancia e si contempera. Ma in questa società non si sacrifica, purtroppo, che il meno possibile di questo amore esclusivo di stima e di potenza, e quindi viene che gli uomini lo trasportano ad un corpo, ad una società particolare, non lo estendendo ordinariamente che a quelli con cui si hanno comuni l'interesse, e l'orgoglio. Un altro segno di miseria e di debolezza che l'uomo ravvisa in sé, é quello che gli sembra che l'eccellenza propria cresca col confronto, dimodoché quanto più gli altri si abbassano, tanto più egli si eleva ai suoi occhi e agli altrui. L'uomo, dunque, trasportando alla società di cui fa parte questa sua disposizione, consente a riconoscere, anche senza esame, dei pregi in questa società, purché lo splendore di essa riverberi sopra di lui; giacché quando uno parla con orgoglio della sua nazione, che vuol dire quel noi ch'egli fa suonare tant'alto, che significa se non ci s'intende l'io? E questa disposizione é tanto universalmente riconosciuta che la parzialità per la sua nazione è una ingiustizia che non fa stupore: si sta in guardia contro i ragionamenti di uno che difende o esalta la sua patria, ma appena gli si appone a biasimo il farlo a spese della verità, si chiama un bel difetto. Ma quell'altro sentimento che, facendoci diffidare del nostro merito assoluto, ci porta a deprimere l'altrui, noi lo trasportiamo pure in queste affezioni patrie, e siamo pronti a credere, a divolgare e a sostenere ciò che torni in biasimo delle altre nazioni. E in questo è pur facile il trovare nell'amor patrio, l'amor proprio se si osservi, che quando poi uno si paragona coi suoi concittadini, non ravvisa in essi quelle perfezioni che suole vantare come ereditarie nella sua patria, e che questa solidarietà di stima è sempre più ferma quando vi sia il confronto con altre nazioni. Questa è l'origine della maggior parte dei giudizi sfavorevoli che si fanno delle altre nazioni, e della facilità con cui soao ricevuti. Mi sia qui permesso di fare alcune riflessioni su questi giudizi che si profferiscono sulle nazioni da individui di altre nazioni, le quali riflessioni se non sono scritte e recondite meritano forse che vi si faccia qualche attenzione per la intenzione retta, pacifica e fraterna, e per lo spirito cosmopolita, cioè cristiano, con cui sono dettate. Accade a molte massime di essere, quando sono annunziate generalmente, derise come triviali e precetti di senso comune, e di essere poi tacciate di stravaganti e raffinate quando si vogliono applicare ad un caso particolare: temo che queste saranno di questo genere. Non v'è nazione in Europa della quale non sia fatto un carattere morale il quale è ritenuto per il vero carattere di quelle nazioni presso tutte le altre. Io non so se sempre sia stato a questo modo, ma so che questi caratteri sono ai nostri tempi in complesso odiosi e bruttissimi: forse in altri tempi nel sentimento reciproco delle nazioni v'era qualche cosa di più benevolo e di più cortese, forse era in uso di considerare e celebrare alcune buone qualità delle altre nazioni, e se questo è vero vi saranno le ragioni per cui lo spirito dei nostri tempi sia più ostile, ragioni che io non voglio qui indagare. Se un affricano facesse un giro in Europa raccogliendo attentamente dai discorsi le opinioni che le nazioni di essa hanno l'una dell'altra, gli risulterebbe alla fine del suo viaggio che la società Europea è composta di infingardi, di superbi, di superstiziosi, di ignoranti, di leggeri, di buffoni, di uomini nati al servire, incapaci di pensare seriamente, di balordi, di malafede, di miseri, di vendicativi, di traditori, di dissimulati, di arlecchini, di uomini che sacrificano tutto all'avidità del guadagno, di stravaganti, di brutali, di diavoli, di cani, di tigri, di zucche e che so io? Molti scrittori poi ( e qui protesto che io non intendo di alludere a quello che ho l'onore di confutare ) molti scrittori invece di opporsi a questa disposizione ostile, volgare, e irreflessiva, non fanno che secondarla, prendendo per fondamento questi caratteri e facendovi aggiunte a modo loro, rarissimi essendo quegli che esaminino se quella tradizione sia fondata o no. E per vedere come siano in questi giudizi per lo più condotti dalla passione, e non dall'amore della verità, e delle riforme, basta osservare che è rarissimo in scritti e nei discorsi sopraddetti, che questi scrittori, e quelli che parlano di ciò trovino di che censurare nella loro nazione propria. Essi credono di farsi giudici, e non s'avveggono di esser parte, perchè nel biasimo delle altre nazioni essi veggono il confronto colla propria che stimano la migliore, come siamo usi stimare il meglio quello di cui facciamo parte. Basta osservare fin dove estendono i loro rimproveri, basti osservare come a render responsabile un individuo si rimproveri della storia, della lingua, che dico? del clima della sua patria; quali questioni interminabili ed oziose si facciano sopra argomenti nei quali è impossibile giungere ad un risultato utile, come l'anteriorità aella civilizzazione, il numero dei grandi scrittori, ecc. Si osservi anche il modo con cui procedono questi scrittori e si vedrà sempre più se siano condotti a censurare da pregiudizi nazionali e da passioni, o dall'amore delle riforme. L'uomo che è mosso dal desiderio del perfezionamento, e che desidera il bene, esamina sempre accuratamente le cose per vedere se ve ne trova, e trovato lo mette in evidenza con un sentimento di soddisfazione; quando poi deve rintracciare i mali e gli abusi, lo fa con accuratezza, e con dolore, e con quella delicatezza che deve sempre avere il rimprovero perchè sia ascoltato e diventi utile, e trovatili egli non ha fatto per così dire che la parte preparatoria del suo lavoro, poiché il fine dell'opera è di suggerire i mezzi per toglierli. Il più di questi scrittori al contrario vanno in caccia dei disordini e quando gli hanno trovati o creduto di averli trovati, quando gli hanno esposti con molta ira e con scherno, allora la loro opera è finita, con una tale aria di trionfo, che dimostra che il solo scopo loro era di far dire ai loro nazionali: il tale ci ha dato prove di più che noi siamo migliori degli altri. E per vedere fin dove questo spirito possa portare, basterà citare una proposizione di uno scrittore che son ben lontano dal confondere con questi che per sistema denigrano una nazione, il sig. Sismondi; nel Cap. stesso su cui ho fatte queste osservazioni, si trova sull'Italia questa frase, sulla quale mi astengo da ogni commento: « L'assassinio non e più, è vero, un dovere, ma non è neppure un disonore ». Quanto ai censurati lo scopo sembra di umiliarli ed irritarli, non di correggerli: e difatti la conseguenza ordinaria di questi processi è che i giudici pronunziano con piacere una sentenza di condanna, e gli accusati negano e vanno sulle furie. Il nome di una nazione è un epiteto onorevole presso quella nazione stessa, e di scherno presso le altre, perchè ogni nazione reclama, come è naturale, contro i giudizi delle altre, e sostiene che sono frutti di poca osservazione, di credulità, di leggerezza, d'ignoranza, e tutto al più conseguenze generali di pochi fatti, regole fondate sopra eccezioni. E difatto è impossibile che tutte queste opinioni sieno vere, perchè sono contradditorie, e non è raro che due nazioni si rimproverino a vicenda gli stessi difetti, affermando ognuna di esserne esente, nel qual caso e impossibile che tutte e due abbiano ragione. Per citarne un piccolo esempio in un soggetto dei più frivoli, ma che nulladimeno produce le gafe più accanite, i Francesi e gli Italiani si rimproverano reciprocamente in letteratura, che nei loro libri e nel loro tratto di conversazione domina l'esagerazione e l'affettazione, dimodoché un pensiero che si allontani dal naturale per far pompa di acutezza, l'essere incapaci di riflettere, e più il non pensare, è generalmente presso molti scrittori in Italia tacciato di gusto francese, e in Francia di gusto italiano. L'effetto poi di questi giudizi è di mantenere e accrescere nelle nazioni l'alto concetto che ognuna ha di se stessa, per cui conserva i difetti come pregi, e lo spregio per le altre, per cui non imita il buono che potrebbe; fra gli individui delle nazioni un certo sospetto e una certa avversione, che è tutta a spese della carità, della concordia, e del buon senso senza il menomo utile, e se ve ne fosse sarebbe da rigettarsi comperato a questo costo. Un uomo che entra in paese straniero è preceduto dai pregiudizi che pesano sulla sua nazione; il nome del suo paese diventa come una definizione del suo carattere nella opinione di quelli in cui si incontra. E molte volte questa opinione resiste a tutte le osservazioni che dovrebbero far concepire di lui un giudizio contrario. Che se egli è pure conosciuto imparzialmente, spesso la giustizia che gli si rende consiste in dire: quell'uomo non sembra della sua nazione. E ordinariamente egli stesso porta seco tutti i pregiudizi contro la nazione fra la quale si trova, ed ha in mente un tipo al qual vuol pure adattare tutti i fatti che gli cadono sott'occhio. Che se i fatti sono contrari, se egli vede per esempio la cordialità, la scioltezza, la sincerità, l'ospitalità, la bonarietà in un paese dove si aspettava di trovare uomini cupi, dissimulati, feroci, forse egli se ne andrà riportando i suoi pregiudizi, e persuaso di aver per caso conosciuta la miglior gente di quel paese, la gente che non partecipa del carattere nazionale. È un bell'effetto della Religione Cristiana, che il sentimento di avversione che nasce da queste prevenzioni e dalle ingiurie che ne derivano, presenti di rado una avversione politica, e non sia che una avversione per così dire puramente civile. Lo spirito di fratellanza universale diffuso dal cristianesimo fa che questi odi nazionali non diventino così universali radicati, e perpetui, come fra i gentili. Ben è vero che vi sono antipatie tra nazione e nazione, fondate anche sopra motivi politici, ma queste antipatie una generazione le vede crescere, diminuire e talvolta anche cessare del tutto, caso ben diverso da quello degli antichi dove gli odi non cessavano, spesso, che colla distruzione di una delle due nazioni. I Cartaginesi non andavano a decine di migliaia a viaggiare in Roma. Gli sforzi fatti poi in vari tempi per mantenere o risuscitare certi usi caratteristici delle nazioni con i quali un popolo si distingueva altre volte più marcatamente dagli altri, sono pure stati inutili perchè contrari allo spirito del cristianesimo e del tempo. Questi tentativi sono sempre stati sistemi di pochi, e il pubblico non gli ha secondati mai, e ha sentito quello che v'era di puerile e di falso. Esaminando uno ad uno questi tratti esclusivi di nazionalità ho veduto che ognuno d'essi era particolare a lui perchè fondato sopra pregiudizi particolari nati da qualche circostanza eventuale, e cercando le cagioni per cui si era diminuito o era del tutto scomparso, ho veduto che non venivano già da leggerezza o da incostanza, ma da aumento di ragione e di coltura. Altre volte gli uomini credevano maggiore il legame di concittadino che quello di uomo, e i motivi e i pregiudizi su cui era fondato questo sentimento sono cessati o diminuiti. Si credeva che certe leggi convenissero perfettamente e perpetuamente ad un popolo, e sconvenissero a tutti gli altri, e certo le istituzioni che ordinavano una nazione alla conquista ed al mantenimento della conquista, come le romane, non potevano essere adattate a tutti gli altri popoli, perchè è impossibile che tutti siano conquistatori. Ai nostri tempi invece si è veduto che il fine di quelle istituzioni antiche era ingiusto e pazzo, e per questo appunto erano così proprie ad un popolo, e non agli altri perchè la ingiustizia e la pazzia non possono essere i fini universali delle società. Ai nostri tempi l'opinione comune è che certi principi sieno appropriati a tutte le società, e che quelle stesse che ora hanno in sé ostacoli all'applicazione di essi, potranno metterli in pratica perchè è della natura delle cose che questi ostacoli cessino. Ho detto l'opinione comune, cioè quella dei più, perchè vi posono bensì essere alcuni che amino questo spirito di avversione politica, ma nella massa delle nazioni esso non esiste stabilmente. Che alcuni reggitori o alcuni scrittori desiderino ardentemente che esso si crei o si conservi questo non influirà ai giorni nostri sull'animo dei milioni d'uomini: potrà anzi produrre l'effetto contrario. Presso gli antichi le idee, le volontà, i timori, i pregiudizi, lo spirito insomma dei governi e dei popoli era sovente lo stesso. Ora si troverebbe nei popoli cooperazione alla resistenza non ad un sistema di conquista come il romano. Il Popolo e il Senato Romano avevano la stessa passione di conquista, e gli altri popoli e i loro re avevano la stessa rabbia e lo stesso spirito di resistenza contro un popolo che si proponeva uno scopo così empio e così soverchiante. Ma ai giorni nostri una parte di questi effetti non si può ottenere che col mezzo della organizzazione politica, cioè coll'associare la parte più attiva e colta e disoccupata di una nazione alle passioni e agli interessi di un governo, il che non opera mai ne così compiutamente ne perpetuamente come fra gli antichi: e il maggior numero della nazione stessa rimane estraneo, indifferente o contrario a questo spirito. Il quale sembra il preponderante a chi non considera di un'epoca e di un popolo che quello che si fa sentire, e che si conserva per gli scritti; ma chi interroga il modo di pensare dei più che tacciono, vedrà quasi sempre che essi non vi partecipano. E il fatto stesso lo dimostra ogni qualvolta fa duopo ricorrere ai più, perchè essi potendo in quel caso operare secondo le opinioni loro, abbandonano quelli che sono condotti da opinioni contrarie. Qui si deve rendere omaggio ai nostri tempi moderni, alla ragione presente, alla religione attuale, alla nostra filosofia, ai nostri costumi ». Così diceva in un argomento assai congenere, cioè sul diverso modo tenuto dai romani e dai moderni coi popoli conquistati, il Presidente di Montesquieu, scrittore forse il più lodato del secolo scorso, e che si può credere il meno letto se si guarda a quanto si è detto, scritto e fatto in Europa dopo la pubblicazione del suo libro. Eppure ai tempi nostri la barbarie degli antichi è stato soggetto d'invidia, e questo sentimento non è, ch'io sappia, stato tanto fortemente né chiaramente espresso quanto in una proposizione perversa e assurda, che si vuol confutare con tanto maggior forza quando maggiore è la riputazione del suo autore. La proposizione è questa: « Gli odi di una nazione contro l'altra essendo stati pur sempre ne altro potendo essere, che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti o temuti, non possono perciò esser mai ne ingiusti né vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odi soltanto hanno operato quei veri prodigi politici che nelle Istorie poi tanto si ammirano. Né mi estenderò qui in prove tediose ed inutili. Parlano l'esperienza ed i fatti ». No: noi non dobbiamo venerare né conservare come virtù le passioni dei nostri avi, alle quali essi stessi avrebbero dovuto resistere: non dobbiamo ammirare nelle storie quello che merita l'esecrazione, le lotte perpetue dell'uomo contro l'uomo. Che importa al mondo dei prodigi politici? certo il dispregio della morte, la persistenza in un sentimento quando per esso si sacrifichi quello che la vita offre di più lusinghiero, la concordia costante di una società d'uomini nel volare ad uno scopo, quando gli interessi parziali tendano a separarli, il sacrificio delle cose più care ad un'idea, al patto di una associazione, anche dalla parte dell'individuo che non può più dividere gli utili, dell'individuo che non ha altra ricompensa che il sentimento di aver mantenuto questo patto, hanno sempre del prodigioso perchè sono cose diffìcili e rare; ma la difficoltà è forse il fine delle società politiche? E l'ammirazione non deve forse esser riservata a coloro che vincono le difficoltà per un nobile fine? E la falsa e sterile ammirazione di una posterità oziosa sarà ben comperata coi dolori sofferti da milioni d'uomini per un capriccio, per una opinione storta? I prodigi che meritano l'ammirazione sono quelli fatti per una giusta difesa, ma questi pure sono crudeli, sono trionfi dell'uomo sopra l'uomo, gioie nate dai dolori altrui, eppure la posterità gli esalta, le stragi si leggono spargendo lagrime di ammirazione e di tenerezza: quanto devono essere empie le aggressioni ambiziose, se il sangue sparso per una giusta resistenza diventa un oggetto di compiacenza e di dolce memoria. Gli interessi opposti, le ingiurie fatte e ricevute, l'amore di primeggiare creano gli odi fra le nazioni, e quando anche queste cause cessano di agire o agiscono meno, si sostituirà ad essa una opinione stabile che li mantenga? Quando gli uomini stanchi delle percosse, nauseati del senso amaro della discordia, ricondotti verso la ragione e la carità, cominciano a riposarsi in un sentimento di concordia e di pace, si dovrebbe ricondurli col raziocinio delle passioni ai furori dell'avversione? I danni vicendevolmente ricevuti o temuti producono nelle nazioni l'avvilimento o la resistenza, due tristi frutti dell'ingiustizia. Ma la resistenza giusta eleva gli uomini, produce il più nobile testimonio che l'uomo possa dare alla verità e alla giustizia, quello del proprio sangue; è cagione di molti beni come lo sono tutti i mali inevitabili, non quelli che l'uomo si cerca per una scelta irragionevole; la resistenza è talvolta un male inevitabile perchè senza di essa non si può ottenere la giustizia, ma chi negherà che sia un male, chi negherà che la giustizia non sia più desiderabile quando non è la conquista della forza, ma il volontario consenso di due parti? Ma gli odi politici perpetuati fra le nazioni, non producono soltanto la giusta resistenza, che può esistere senza di essi, ma producono le aggressioni ingiuste, ma inaspriscono a segno le passioni che talvolta hanno mosso due popoli contro l'altro senza che si possa quasi dire da che parte era la difesa, nessuno era innocente, nessuno poteva dire di morire per una giusta causa. Allorché due famiglie sono in dissensione, che l'ira d'un individuo si infiamma per quella dell'altro, che il padre tramanda al figlio le passioni ostili rivestite dell'autorità d'un consiglio che non dovrebbe portare che alla giustizia ed alla saviezza, che ufficio farebbe colui che confortasse queste famiglie a persistere in tali sentimenti? e istigare l'uomo contro l'uomo diventerà bello solo perche le parti avversarie sono in maggior numero? perchè parlano una diversa lingua? perchè sono separate da qualche fiume o da qualche monte? perchè i loro antenati si sono offesi a vicenda? Ah questo è piuttosto un motivo per terminare una volta queste risse odiose: altrimenti la vendetta diventerà essa stessa un'offesa, e gli uomini saranno perpetuamente furiosi e crudeli perchè lo sono stati una volta. D'altronde questa proposizione include un supposto, che per ovviare ai danni che si possono ricevere dalle altre nazioni e per rimediare ai ricevuti non vi sia altro mezzo che gli odi d'una nazione contro l'altra, e che le nazioni non possono essere prospere che a spese l'una dell'altra. È una dottrina che sarebbe da rigettarsi se fosse fondata su una dimostrazione, e si fonda su un supposto! Poiché non è provato, non é meno discusso il punto se una nazione la quale operasse secondo la più stretta giustizia, che non offendesse, e che resistesse con tutta la forza, e che cessato il momento della difesa ritornasse a sentimenti pacifici non sarebbe più delle altre a coperto dei danni; non è provato l'altro punto importantissimo, se indebolendosi gli odi non diminuiscano le aggressioni cagioni di odi, e se le nazioni non possano godere maggior prosperità quanto meno avranno dissensioni fra di loro, e se questa opinione non possa, a poco a poco, colla esperienza e col ragionamento acquistar fede presso alle nazioni in modo di togliere una gran parte delle dissensioni. L'Autore citato modifica o spiega per dir meglio la sua opinione con una nota che qui trascrivo: « Nel dir Nazione intendo una moltitudine di uomini per ragione di clima, di luogo, di costumi, e di lingua fra loro diversi; ma non mai due borghetti o cittaduzze di una stessa provincia, che per essere gli uni pertinenza ex gr. di Genova, gli altri di Piemonte, stoltamente adastiandosi, fanno coi loro piccoli, inutili, ed impolitici sforzi ridere e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori ». Tolga il Cielo ch'io cerchi d'indebolire la disapprovazione contro questi miserabili odi municipali, ma bisogna estendere il principio, bisogna sentire e ripetere che la somiglianza che ci dà l'essere d'uomo, è ben più forte che la diversità di nazione, che il Vangelo ci ha fatto conoscere che abbiamo un cuore grande abbastanza per amar tutti gli uomini, che gli sforzi di una nazione contro l'altra quando non siano necessari sono sempre piccoli, perchè fondati sulle passioni, e non sulla ragione e sulla verità; sono inutili, perchè non ottengono stabilmente nemmeno il fine che si propongono quelli che li fanno; sono impolitici, perchè producono spesso all'istante, e sempre, nell'avvenire l'indebolimento e il pervertimento dei popoli. « Onde per quanto, dice lo stesso autore in un'altra nota alla stessa Prosa, per quanto si vadano abborrendo fra loro i Genovesi e i Piemontesi, il dire tutti due Sì, li manifesta entrambi Italiani, e condanna il loro a odio ». L'odio sarà ingiusto per la sola cagione del parlare la stessa lingua! e le ragioni dedotte dal Vangelo, e dalla ragione contro questa orribile passione cadono dinanzi alla diversità di una parola del vocabolario! « E qui, - così termina la nota, - noterò alla sfuggita che l'Oui ed il Sì non si sono mai maritati ». Ah quando gli uomini generosi di Francia e d'Italia all'udire una grande verità, al proporre di un sentimento nobile rispondono affermativamente, l'Oui ed il Sì si maritano nella bella concordia degli intelletti e dei cuori, e dinanzi a questa concordia, che diventa la differenza d'un suono, qualche grado di latitudine più o meno, un monte o un fiume che si trova fra uomini ed uomini? L'autore citato propone il frutto che vorrebbe si ricavasse dalla sua dottrina in questi termini: « Perciò da oggi in poi la parola Misogallo consacrata in a tua lingua ( parla all'Italia ) significhi, equivaglia, e racchiuda i titoli pregevoli tutti di risentito, ma retto, e vero, e magnanimo Italiano ». Se il Conte Alfieri tornasse in terra, vedrebbe quanto fossero vane le sue speranze, quanto sia lontano dall'avere ottenuto quello che egli sperava. - Alcuni sentimenti non diventano mai universali a cagione della somma loro ragionevolezza, alcuni per la cagione contraria; e questo è del secondo genere. L'odio sistematico contro ventotto milioni di uomini è un tal delirio che non può divenir generale ne durare in un paese dove è stato annunziato il Vangelo. VII. Delle controversie fra i cattolici V'ha delle controversie inevitabili: condannarle tutte sarebbe lo stesso che dire che allorquando un errore si manifesti, bisogna permettergli di diffondersi senza combatterlo. Se non si disputasse che contro l'errore, quale cristiano potrebbe condannare una guerra sì necessaria, desiderare che si deponessero le armi della fede, che si venisse nella Chiesa ad una pace che non sarebbe l'opera della giustizia e della verità? Ma perchè dunque gli uomini i più zelanti della gloria della Chiesa gemono su queste controversie, le considerano come una delle piaghe più crudeli, come uno scandalo a quelli che sono fuori, e dai quali importa aver buona testimonianza? Perchè per lo più il fine dei combattenti non è di porre in salvo le verità cattoliche, ma di combattere. Io so bene quanti uomini veramente amici della Chiesa e cogli scritti, e colla voce abbiano piante e svergognate queste empie dissensioni, ma se una voce debole e senza autorità, ma sincera può accrescere alcun poco l'orrore contro di esse, se il ricordare lo scandalo, e le derisioni dei nemici della Chiesa, se il mostrarne l'assurdità e la mala fede può rallentare in qualche parte le animosità, risparmiare qualche ingiuria, ammorzare un sentimento d'odio, togliere da questo vergognoso campo di battaglia un solo soldato di Cristo, io stimo che ogni pacifico e sommesso figlio della Chiesa debba intendere ad un'opera sì utile. Ben è vero che a torto i nemici della Chiesa pigliano scandalo di ciò, che a torto essi dicono: cominciate dall'intendervi fra di voi e allora vi ascolteremo; mentre nelle cose dove tutti i cattolici vanno d'accordo, e sono le essenziali, non si curano però d'ascoltarli; non pensano che, se essi volessero riconoscere la verità della religione, la gioia di tutti i cattolici sospenderebbe le dissensioni intestine, che l'azione di grazie sarebbe unanime, e che tutti i cuori si aprirebbero per stringerli nella carità di Cristo. Questo è vero: perchè è vero che contro la Religione non vi ponno essere che pretesti; ma tocca ai cattolici il darne? Certo, non bisogna sacrificare la verità a nessuna cosa, nemmeno alla concordia; ma qui non si tratta di sacrificare che l'odio, che la temerità, che la leggerezza; non fa nemmeno bisogno d'un altro scopo per determinarci a questo sacrificio. Ma quale sarà il criterio per distinguere tra le dispute sostenute per la difesa del vero e quelle che si fomentano per lo sfogo delle passioni? Dire che non si deve nelle dispute cercar altro che il vero, escludere le prevenzioni, gl'interessi particolari, l'ostinazione è ripetere un principio del quale tutti convengono, ma dal quale tutti pretendono di non dipartirsi. Volete voi provare ad un uomo contenzioso, ch'egli non tiene le parti della verità, voi entrate nella disputa, voi vi fate parte; egli può dirne altrettanto a voi. Vi ha però alcuni principi semplici ed incontrastabili, ma troppo dimenticati, che, applicati ad ogni caso, confonderebbero quelli che perturbassero la pace della Chiesa: perchè essi sarebbero costretti di confessare la verità di questi principi, ed essi hanno questo vantaggio che, quando uno se ne diparte, si può provargli che se n'è dipartito. Uno dei quali principi è questo: che non si debba disputare se non si conosce il punto della questione, le opinioni dell'avversario, l'errore e la verità. Supponiamo che prima di risolversi a contendere, ognuno esaminasse sé stesso sopra questa condizione, che ad essa si richiamassero per preliminare tutti quelli che contendono, che accusano, che condannano; non è egli vero che novantanove centesimi di quelli che pigliano parte alle dispute dovrebbero ritirarsi? Che se volessero ostinarsi a combattere, non sarebbero essi giudicati? Chi conterebbe più il loro voto? Chi oserebbe averli per ausiliari? Lo zelo, la persuasione, l'amore della verità si possono ostentare da chi non li sente in cuore; ma la scienza non si finge, e quando si pretende da chi decide su d'una questione, da chi condanna altamente e con risolutezza il suo fratello, che esponga chiaramente l'opinione erronea di colui che condanna, la domanda è tanto ragionevole che non è possibile rigettarla, è tanto chiara che non è possibile eluderla. Si riduca così il numero dei contendenti a quelli che sanno dove stia la diversità, a quelli che per le proposizioni espresse dai loro avversari, conoscono le opinioni di essi, o che si credono in caso di dedurle dai principi manifestati da loro; gli altri, se pure hanno voglia di disputare, attendano ad informarsi e a studiare o si accontentino di pregare per gli uni e per gli altri; e chi dubiterà che le dispute non diminuiscano di quantità, di intensità e di durata? Chi dubiterà che la verità non possa più facilmente manifestarsi, quando si diminuisca il fracasso e l'urto delle passioni? Chi dubiterà che la moltitudine dei fedeli concorde nelle cose necessarie, e muta sulle dubbie che non ha esaminate, intenta a benedire e non a maledire, non presentasse uno spettacolo più dignitoso, più consolante che non sia quello di uomini, che uscendo dallo stesso tempio, che sperando nella stessa misericordia, che confessando la stessa miseria, si lacerano e si rimproverano, senza saper perchè? È raro che due persone di contrario parere si fermino nella questione, cerchino pazientemente d'illuminarsi a vicenda, non sostituiscano le passioni agli argomenti; e che sarà quando le dispute saranno trattate da molti che non vi portano altro che le passioni, senza un solo argomento? Quindi tanti cuori che, non amando, rimangono nella morte, e non lo sanno; quindi le maldicenze senza rimorsi, quindi i giudizi sulle persone senza fondamento. Ma si dirà: la carità obbliga forse a consentire alle persone che errano nella fede? Non mai: la carità obbliga ad amarli, a compatirli, a pregare per loro e a dissentire da loro; ma l'errore sta appunto nel condannare quelli di cui non si conosce la fede; invece di denunziarli al giudizio altrui, avvicinatevi a loro, interrogateli, e vedrete forse che invece di gridare contro di essi, non vi resta che piangere sopra di voi. Ma, si dirà ancora, la Chiesa non ha essa usato sempre di segnalare non solo gli errori, ma le persone? Sì: la Chiesa perchè ha l'autorità di farlo, perchè ha il dovere di farlo, perchè ha i mezzi di accertarsi della verità, perchè li pone in opera. Ma voi non avete alcuna di queste condizioni, e questo è il vero punto di errore; voi credete di poter fare quello che compete alla Chiesa, di condannare gli erranti, e più ancora, perchè voi credete di poterlo fare senza quelle formalità indispensabili, che la Chiesa stima essenziali all'esercizio della sua autorità sui suoi figli, prescindere dalle quali essa stimerebbe un dispotismo incompatibile colla legge stessa, dalla quale il giudizio le è confidato. Essa ha avuto sempre questa cura di condannare gli errori, e di non segnalare le persone che quando fosse richiesto dalla giustizia e dalla necessità. Per questo essa ha sempre stimato necessario che constasse per vie legali, che la persona sosteneva l'errore, quindi ha sempre poste in opera le persuasioni, perchè lo abbandonasse; e riuscendo queste inutili, essa con gemito, e quasi a forza ha dovuto dire ai fedeli: non ascoltate quella persona, perchè la sua dottrina è opposta al testimonio della Chiesa. Quando, p. e., la Chiesa anatemizzò Nestorio citato al Concilio e ostinato, ogni Cattolico ha saputo quali erano gli errori di Nestorio, quali le verità cattoliche ch'egli impugnava: Nestorio aveva subito un giudizio, era colpito da una sentenza, aveva tutti i caratteri di essere rigettato dalla Chiesa; ogni Cattolico condannandolo non faceva che applicare il giudizio della Chiesa. Ma voi, voi fate il giudizio e lo applicate, voi portate la sentenza senza autorità, e senza processo, voi pretendete forse secondare le intenzioni della Chiesa; ma chi ve le ha rivelate, chi vi ha costituito giudice? Se lo foste, dovreste temere che un odio segreto non facesse pendere la bilancia nelle vostre mani; e voi non siete giudice, e siete pieno di odio, e non temete? La Chiesa è tratta quasi dalla necessità a condannare i suoi figli; vi si riduce da ultimo e piangendo, e voi cominciate dal condannare i vostri fratelli, e lo fate con ilarità e con indifferenza. Se vi si domandasse quali sono le prove che avete ch'egli erri, forse non potreste dir altro se non che: io l'ho inteso dire. Quando si pensa che questa è la sola risposta che noi porteremo alla interrogazione del Giudice infallibile, non so perchè non tremiamo. Ma gli uomini a cui sta a cuore la giustizia e la carità, perchè si accontentano di questa risposta, perchè non si credono obbligati, non dico a difendere il fratello che è condannato dinanzi a loro, ma a domandare con che diritto, con che prova è condannato? Chi sa quale scoraggiamento non porti talvolta nell'animo dell'innocente l'udire un suono di riprovazione contro di lui non meritato? E perchè servire a scoraggiare gl'innocenti? Perchè non ricordarsi che la causa del fratello assente, che non ode e che non può rispondere, è confidata all'uomo che pretende ricevere un giorno il premio della giustizia? Essere testimonio tranquillo e volontario d'un giudizio illegittimo e ingiusto, potrebbe essere lo stesso che divenirne complice, ma è certo un dimenticarsi della fratellanza, e del coraggio cristiano. Così per servire ad alcune passioni si eludono tante cure che la Chiesa ha posto in opera, acciocché dalle controversie ne venisse edificazione, più che scandalo, acciocché la verità trionfasse senza danno della carità. Essa ha prescritto l'esame, lo ha confidato a persone rivestite della sua autorità: essa ha voluto che l'errore si opprimesse col testimonio costante ed uniforme della Chiesa; e le forme stesse gravi, ponderate, placide e dignitose ch'essa impiega in questo giudizio, escludessero ogni idea di contesa. A questo le passioni sostituiscono un cicaleccio di accuse senza motivi, d'imputazioni, di declamazioni senza un risultato qualunque. V'ha di quelli che prendono parte alle dispute per amore del vero; che, combattendo i loro avversari, si guardano dall'interpretare odiosamente le loro intenzioni, dallo spargere dubbi temerari sulla loro fede; ma quanto è raro ch'essi pure non diano scandalo ai credenti e ai miscredenti per l'acrimonia delle loro contenzioni. Quante volte lo scoprire errori nei loro avversari, invece di essere una cagione di dolore, diventa per essi una buona ventura. Quante volte non fanno essi vedere che il contendere coi fratelli, quando anche sia necessario, è sempre un'opera piena di pericoli! Noi forziamo l'ingegno per cercare la soluzione delle cose astruse, mentre le idee più importanti sono rivelate manifestamente, mentre l'amore così chiaramente prescritto è così facile a risvegliarsi nel cuore. Vi fu mai un tempo in cui fosse più necessario che la società cristiana si mostri ordinata e concorde come una schiera di prodi, che combattono per una nobile causa, e che la conoscono? Vi fu mai un tempo in cui fosse più necessario che le tende d'Israello e i padiglioni di Giacobbe appariscano belli a coloro che salgono sulla cima del Phogor per maledirli? Ah! possa questo avvenire, possano le maledizioni cangiarsi in benedizioni sulle loro labbra non solo, ma nei loro cuori, non solo per la gloria d'Israello, ma per la salute loro; ma dimodoché essi entrino in quel campo dove tutti sono accolti, in quel campo che non deve avere altri nemici che le passioni. VIII. La Religione è necessaria per il popolo Quelli che hanno scritta e contornata in tanti modi questa sentenza, hanno fatto alla Religione una più larga testimonianza di quello che pensavano. Poiché hanno detto che vi è qualche cosa di necessario che i loro sistemi non saprebbero dare: e allora a che servono mai? hanno detto che i loro sistemi sarebbero dannosi se fossero universali, e che la loro divulgazione sarebbe pessima. Del resto questa asserzione mi sembra includere un falso supposto, cioè che i dotti, e i potenti e i ricchi, quelli insomma che si intendono esclusi, quando si dice popolo, non abbiano bisogno della religione. Se fra il popolo vi ha qualche miscredente non si può supporre ragionevolmente ch'egli dirà: La religione è necessaria per i potenti, e per i dotti e per i ricchi? Questi riguardano la religione come necessaria nel popolo, perchè egli si accontenti dello stato attuale; e quell'altro la vorrebbe in essi per determinarli ad avvicinarsi alla giustizia. Il tempo e il progresso dei lumi hanno distrutte istituzioni orribilmente ingiuste, ma che nello stesso tempo erano mezzi di conservare la società: tale è la schiavitù degli antichi. Non si può considerare un momento la storia senza vedere che, tolta quella, il moto della macchina sociale è divenuto più complicato; poiché niente rende le questioni politiche più semplici che il silenzio forzato di molti: una parte è contenta dell'ordine delle cose, e l'altra non può opporvisi: nulla di più quieto. Allora l'influenza della religione è divenuta tanto più necessaria, quanto le tendenze a rompere l'ordine erano meno contenute. Ma allora appunto lo stesso progresso di lumi rendeva impossibile la durata delle assurde religioni esistenti. Ma ci voleva una religione che comandasse la moderazione agli uni e la pazienza agli altri, e sopratutto una religione che potesse persuadere gl'intelletti i più rozzi e i più raffinati, la religione Cristiana. Essa diventa necessaria in proporzione del progresso dei lumi. Dico necessaria alla società, non perchè io creda ch'ella debba essere un mezzo: nessuna idea mi sembra più falsa di questa; ma per mostrare la sapienza della religione proporzionata a tutti gli stadi della società che è fatta per la religione. Parte terza I Donde nasce, o protestanti, che gli increduli, che vivono nelle vostre comunioni, hanno per la religione cattolica lo stesso orrore; se non un po' più forte del vostro? e che gl'increduli che vivono fra noi, sono invece ben affetti alle opinioni, ai riti protestanti, a tutto ciò insomma che vi separa da noi? Voi dite che il motivo della vostra avversione è lo zelo per la purità del cristianesimo perduta dalla religione cattolica: come dunque la stessa avversione è ella così viva in coloro dei vostri ai quali non cale del cristianesimo? Questi hanno certamente motivi d'un altro genere, che quello messo innanzi, e forse creduto da voi. E noi pure diciamo che il motivo della nostra avversione al protestantesimo ( non già ai protestanti: Dio liberi! ) è l'amore del cristianesimo, della religione, quale Gesù Cristo l'ha istituita, e che non sussiste nelle Sette protestanti. E i nostri increduli, anteponendo, senza esame, e in una loro strana ipotesi, le Sette alla Chiesa, sono una forte presunzione della verità del motivo da noi addotto: giacche mostrano che l'avversione cessa dove non vive l'amore del cristianesimo. Tutti i nemici del Vangelo odiano sommamente la religione cattolica. Qual carattere di questa; e qual fonte di riflessioni! II Montesquieu ha detto che il protestantesimo conviene più alle repubbliche, e il cattolicismo alle monarchie, e questa sentenza è stata ripetuta mille volte, ed è divenuta come una massima provata. Questa asserzione contraddice un'altra massima ricevuta dai cattolici che la loro religione sia adatta a tutti i governi, e Montesquieu non ha cercato a stabilire che questa fosse falsa. Egli adduce una sola prova, e questa è così picciola e così parziale che si può dire che Montesquieu ha descritto un poligono di cui non aveva osservato che un picciolo lato. Questa prova ( l'avere il cattolicismo un Capo fuori dello stato ) dovrebbe farlo credere anzi più proprio alle repubbliche che alle monarchie, dove è essenziale al monarca il non dividere il potere con alcun altro. Ma il vero è che è proprio ad ogni governo. III Le due parole Religione nazionale, parole pronunziate da alcuni con riverenza, con ammirazione, con invidia, esprimono l'ultimo grado di stravaganza e di abiezione a cui possa giungere la ragione umana. Religione è credenza. La credenza è bella, ragionevole, in quanto si presta alla verità; Può esser colpevole; è certamente deplorabile, miserabile, quando si presta all'errore, credendolo verità; E non so che mi dire se si presta a cosa alla quale, col solo nominarla, si nega il carattere di verità. È carattere, è necessità, essenza della verità, che sia verità per tutti. Ora, chi, in punto di religione, crede la verità, e crede, per conseguenza, che tutti dovrebbero creder come lui, fa il migliore, il più felice, anzi l'unico buono e felice uso della ragione; Chi, in punto di religione, crede l'errore, e, appunto perchè lo crede verità, crede che tutti dovrebbero creder come lui, s'inganna nel fatto speciale, e resta nel senso comune, nella condizione più indispensabile della ragione per ciò che risguarda l'idea della verità in genere; Chi poi dice religione nazionale, dice verità per alcuni; o, se gli paresse meglio, credenza a ciò che non è verità. Può la ragione andar più in là, o più in giù? O, per dir meglio, va ella dove mostrano quelle parole? Chi le proferisce per approvarle, si rende egli conto di quel che vengono ad importare? Sente il loro doppio ed equivoco significato? Sceglie fra le due idee? Le riceve entrambe? No certissimamente; un inganno volontario di questa forza non è possibile. Chi dice religione nazionale fa come in tante altre cose fa chi, volendo o non volendo un'idea, l'afferma nel termine consacrato ad esprimerla, e la nega con un epiteto indicante una qualità incompatibile coll'idea stessa. IV Quelli che da tanto tempo rinfacciano alla Religione cattolica ch'ella proibisce l'esame e tronca il progresso dei lumi fondando la cognizione sull'autorità, non riflettono che essa non proibisce di cercare che dove è impossibile di trovare, cioè nel dogma, e che favorisce l'esame in tutto il resto. V Quegli scrittori, i quali pretendono che la Religione dev'essere ricevuta dai popoli perchè è loro utile, e serve al mantenimento della società, etc, non si accorgono che la loro tesi non può essere adottata, perchè i popoli né vogliono, né possono ricevere la Religione come mezzo di utilità. Non lo vogliono né lo possono, perchè nessun uomo consente a credere alcuna cosa per altro motivo, che per motivi preponderanti di credibilità. Proponete ad un uomo di fare un'azione, provandogli che gli sarà utile, voi gli date un motivo ragionevole: proponetegli di adottare una credenza come utile, egli vi risponderà, che il suo intelletto non può piegarsi che alla ragione né ricevere che la verità. VI L'uomo sente d'aver bisogno d'una indulgenza infinita: dopo aver ricevuto il perdono dell'uomo ch'egli ha offeso, il suo cuore non è in pace ancora: e le colpe che non offendono gli altri uomini, ma ch'egli sente esser colpe, chi gliele perdonerà? VII Non é già la Religione da dirsi vera perchè necessaria, ma è necessaria perchè vera. Coloro che dicono esser la Religione necessaria al popolo fanno ad essa più larga testimonianza che non pensano: e dicono in favore della veracità di essa più che non credono dire. VIII S'egli è vero ( il che però non affermerei, né vorrei credere prima di aver fatto un confronto, o sentito testimoni oculati e spassionati ), s'egli è il vero che i Cattolici siano in generale meno composti e meno gravi nelle pubbliche funzioni di Chiesa che non i Protestanti, una ragione potrebb'esser questa: che la Religione non è per questi che un esercizio di tali tempi e luoghi, quando presso i Cattolici essa va legata con tutte le loro azioni. Quindi un Cattolico, che non sia abbastanza staccato dalle cose mondane, che fomenti passioni non direttamente dannose al prossimo, ma contrarie all'amor di Dio, che non abbia per Dio l'amore di preferenza che gli si deve, etc, sente di non essere nella dritta via, si perde d'animo e si raffredda in ogni esercizio religioso, perchè sa che questo non sarà accetto a Dio quando non sia offerto da un cuore tutto Cristiano. Presso i Protestanti la Religione è, o mi sembra essere, più accessoria. IX La più parte dei Filosofi politici che scrissero dopo la metà del secolo scorso posero per assioma che la popolazione sia il fondamento della potenza, civiltà e prosperità dei popoli, e che il numero degli uomini non possa mai crescere troppo: quindi coloro che ciecamente ricevettero questo principio non dubitarono di accagionare come poco previdenti e nemiche della perfezione civile le dottrine del Vangelo che lodano e consigliano ad alcuni l'astinenza dal matrimonio. Ma il Vangelo è eterno, e i sistemi degli uomini sono assai volte fallaci, e questo fu tale, e ormai tutti sono convinti che il celibato, come il Vangelo lo consiglia, è utile agli Stati, ed alla popolazione di essi. X Vi ha tali stati di società nei quali pare che le virtù negative siano le sole riservate all'uomo. Non cooperare al male sembra il massimo della virtù. Ora è male che l'uomo non agisca per il bene: la Religione mantiene sempre una specie di virtù attive possibili in tutti i tempi, che tengono esercitato l'uomo alle cose migliori. San Carlo ha esercitato attività in tempi in cui pareva che non fosse possibile. Si è detto che ha prostrati gli animi: questo giudizio suppone una dimenticanza completa della situazione degli animi a quel tempo. XI Coloro che non lavorano per vivere, e che abitando nelle città conversano più continuamente cogli altri uomini, ed esercitano assai più il loro ingegno, vanno senza dubbio soggetti a dolori morali ignoti al contadino e all'artigiano: ma la Provvidenza ha dato a quelli l'agio di cercare i soli veri ed utili rimedi a questi dolori; e tali rimedi sono nello studio sincero, costante, umile e profondo della religione. XII Fatto singolare e importante: che la Fede, prescindendo in parte da quei mezzi che la ragione usa per giungere alla persuasione, al convincimento, alla certezza, al sapere, conduce però l'intelletto a questo genere di riposo in un grado che nelle altre cose non si ottiene coi mezzi puramente razionali. XIII Dacché alcuni filosofi hanno voluto far misura dell'intelletto la parola, non acconsentendo a nessuna idea, che non si potesse esprimere, non è da stupirsi che abbiano poste in dubbio le verità rivelate e le verità morali, più semplici e più universalmente sentite e tenute. Chi sa qualcosa non porrebbe in dubbio questa Filosofia, s'ella procedesse? Ma pare ch'essa decada di giorno in giorno. XIV Nel discorso l'uomo che sa poco e che ha poco meditato impaccia sovente colui che sa assai e pensa molto e bene. Questi avvezzo a pesare le sue parole, non può servirsi di molte armi che l'altro ha sempre alle mani. L'ignorante si serve spessissimo di proposizioni generali le quali sono spesso false, spesso dubbie, spessissimo non facienti al caso; per confutarlo vi conviene risalire ad una lunga e difficile questione, e appena siete sul principio, egli con un'altra sentenza vi sbalza in un'altra questione. « Belle cose in teoria, ma che in pratica non valgono nulla. - Bisogna vedere gli uomini come sono e non come dovrebbero essere. - "Non tutte le verità sono da dirsi » e tali altri modi proverbiali con cui uno sciolo crede d'aver sui due piedi convinto d'errore un uomo che ha pensato lungamente sul caso concreto di cui si fa discussione, un uomo che ha sicuramente inteso molte volte queste sentenze e che sa quanto valgono e quanto siano applicabili al caso stesso. Quindi è che a molti ragionatori aggrada più la compagnia delle persone del volgo che quella di questi tali, perchè quelle errano per lo più soltanto intorno ai casi particolari, e non escono da questi col ragionamento, e combattendo in un più ristretto spazio si può più facilmente stringerli: dicono insomma spropositi meno estesi. Della verità di questa osservazione ne appello a tutti coloro che hanno la disgrazia di ragionare. XV Per distruggere l'errore non è il più breve ne il più certo quel metodo di confutarlo a poco a poco nelle sue parti. Oltre il tempo che vi si perde, la verità esce di rado e stentatamente da queste picciole questioni; dove chi tiene la falsa opinione vi ferma ad ogni istante con sofisticherie. Bisogna abbandonare questo piccolp campo e fare uscire l'errore da quegli agguati e da quei bastioni ove si sta trincierato, e combattere in quello largo e chiaro della verità; esponendo quelle vere e alte opinioni che portano con sé l'evidenza, e ammesse le quali è forza le contrarie si abbandonino. Per distruggere un falso sistema di letteratura, un falso sistema di educazione, invece di esaminarne e censurarne ogni parte, si parli dei sistemi veri e grandi; allora il pubblico, che deve esser giudice, s'accorge dal paragone quanto quelli altri sieno meschini, e quelli stessi che li difendevano si vergognano, e intendono di non poter più star sulle difese. Ai giorni nostri alcuni sistemi erronei sono caduti, ed alcuni altri vanno sotto gli occhi nostri cadendo, in modo sensibile a chi vi ponga mente. XVI Uno dei caratteri singolari della Religione e di quelli per cui nulla le si può sostituire nella società, si è che a differenza delle relazioni naturali e delle leggi umane essa crea dei doveri senza che ne nasca un corrispondente diritto, il che nessuna istituzione umana può fare. La legge non può, per esempio, dare ad uno il dovere di dare, senza dare nello stesso tempo ad un altro il diritto di ricevere. Di là viene che ogni miglior legge produce degli inconvenienti. Ma la Religione, p. es., istituisce per il ricco il dovere di spogliarsi del superfluo, senza dare al povero il diritto di pretenderlo, così il dovere di perdonare, senza che l'offensore possa pretendere che gli sia perdonato. È una legge insomma, che ogni volta che si esegue fa l'effetto suo senza alcun contrasto; ecc., ecc., e il peggio che ne può accadere è ch'essa sia inutile in alcuni casi, cioè quando non viene eseguita. XVII A misura che le cognizioni politiche divengono generali, la politica si avvicina alla morale: perchè diventa utile il far le cose giuste, e difficile e dannoso l'appigliarsi alle ingiuste; poiché queste dispiacciono ai più, i quali sanno giudicarne più che mai. XVIII Talvolta l'uomo desidera di avere alcuni difetti che scorge in altrui, e che sa essere difetti, tanta è la incontentabilità dell'uomo su questa terra, e la sua disposizione a supporre la felicità in quello che non possiede. XIX Il ridicolo che prende di mira una professione, p. es., può ben far qualche danno alle idee o ai sentimenti di quelli che ridono, ma reca sempre uno di questi due vantaggi; che distrugge questa professione s'ella è inutile, e la migliora se è utile, o se non ha per quel tempo la potenza di distruggerla. Il ridicolo conduce sempre al serio; perchè quegli che è beffato vuol provare che non merita le beffe; quindi o abbandona la professione cui gli vengono giuste beffe, o cerca nella sua professione la parte vera e ragionevole per la quale non potrà esser beffato. Basta scorrere la storia delle istituzioni umane per scorgere quante di esse sieno cadute per essere state derise. Basta contemplare i tempi presenti per vedere quante stanno crollando. Quanto al migliorarle basti il ricordarsi che Molière colla continua derisione dei medici, migliorò assai la medicina, perchè ella è arte indistruttibile, essendo posta sopra fondamenti perpetui, che sono: le malattie, il desiderio di guarire, e la possibilità contestata dalla esperienza di guarire in certi casi con certe cure, e la possibilità dedotta da una ragionevole analogia di aumentare queste cure. XX Quando si parla di abitudini viziose in un popolo o in un uomo, si suole riflettere che dipendono molto dalle circostanze in cui quel popolo, p. es., è posto, e si dice: cambiate le istituzioni, le opinioni, le relazioni, ecc., e vedrete migliorarsi il costume. Quando poi in un popolo si loda il costume come migliore che negli altri, si dice: dipende dalle circostanze tali e tali, se avessero come noi questo e questo, sarebbero viziosi come noi. Quello che si propone come un mezzo a produrre il bene nel primo caso, si considera nel secondo come una diminuzione del valore di questo bene, tanta è la perpetua incontentabilità dell'uomo. XXI Quando non possiamo resistere alla forza di un ragionamento, e siamo portati al punto di dovere rinunziare alle leggi logiche o ad una nostra opinione, sentiamo come un inesprimibile malessere morale: la ragione di aver finora tenuto quella opinione, benché inadeguata ai raziocini contrari ( che si suppongono vittoriosi ) agisce al segno di mantenerci spesso in quella. Chi supera questo contrasto si sente trasportato come in un'aria più libera, e prova una gran consolazione: è in questo Senso che la verità ci rende liberi. ( Gv 8,30-32 ). XXII Si legge una proposizione morale: essa è legata ad un sistema, suppone certi principi, e dà origine a certe conseguenze; non si vede il legame col sistema, e intanto senza che noi ce ne accorgiamo l'intelletto si avvicina a quel sistema: quando leggeremo un'altra proposizione di quello stesso sistema, saremo più disposti a riceverla. A chi vuole leggere libri di scienze morali, diventa necessario conoscere i sistemi per classificare le proposizioni, vedere da quali principi vengono, e sapere che si sia opposto a quelli, per non adottare sistemi falsi a poco a poco senza avvedersene. Quando si legge una proposizione sistematica, quanto è utile poter vedere come lo scrittore è stato condotto ad affermarla! diventa allora più facile giudicare, il che deve fare ogni lettore se non vuole adottare le idee altrui senza un esame proporzionato. XXIII Ogn'uomo riandando il passato, e singolarmente i tempi della infanzia e della adolescenza vede di avere ommesse assai cose che potevano condurlo ai suoi fini, di ambizione o di gloria o di dottrina, e sente con dolore di non potere più rimediare a questa sua negligenza. La Religione, in ogni momento che l'uomo ricorra ad essa, lo consola col fargli conoscere ch'egli è in tempo di cominciare la sola via necessaria alla vera e perpetua felicità. XXIV Non aver dottrine recondite e particolari per alcuna classe di persone, ma insegnare pubblicamente a tutti tutta la scienza sacra che si può sapere dagli uomini: uno dei caratteri particolari e forse unici della Religione cristiana. Altro carattere: dommi universali e perpetui; le false religioni spesso hanno prescritto ai popoli come parte di religione qualche pratica vantaggiosa a certi luoghi e a certi tempi, del che v'ha moltissimi esempi; la Religione cristiana ha sempre parlato all'uomo di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La Religione cristiana può sola essere universale. XXV La Religione cristiana è la sola che sia stata professata sinceramente per lunga successione di tempo da uomini dottissimi di vario genere; metafisici, fisici, moralisti, matematici, poeti, ecc. XXVI I cristiani si vergognano spesso di esercitare la loro Religione; ne credo che ciò avvenisse agli idolatri: maravigliosa contraddizione! in un paese dove la Religione cattolica è professata dal più gran numero, un uomo che si vergognerebbe di esser tenuto per irreligioso si vergogna di fare atti religiosi. E cosa ancor più maravigliosa: il Fondatore di questa Religione ha predetto che i Fedeli soffrirebbero questa vergogna; chi ben considera questa predizione, vedrà ch'essa non è punto nella categoria delle speculazioni umane. XXVII Una serie di grandi uomini ha creduto il Cristianesimo. Essi più pensarono alla morale cattolica, più la trovarono degna e grande. Prima di credere che fossero ingannati, bisogna ben bene esaminare. E quelli ai quali non date retta, quando vi parlano di altro, diventano oracoli quando vi presentano da un lato piccolo, falso e servile questa religione XXVIII Difendendo la religione si è costretti di ricorrere a principi semplici e chiari, ed opporli a quelli degli avversari. Il lettore dice che sapeva quelle cose, e si stupisce che un uomo venga a contare cose vecchie e chiare. Bisogna stupirsi che siano contrastate.