Paolo VI e la costruzione della civiltà dell'amore Premessa L'espressione « civiltà dell'amore » è stata usata per la prima volta da Paolo VI il 17 maggio 1970, festa della Pentecoste. Ripresa più volte, divenne durante il resto del suo pontificato, come in quello di Giovanni Paolo II, una parola d'ordine mobilitatrice. 1. « Non siamo la civiltà, ma fautori di essa » Per meglio comprendere dal punto di vista teologico, ecclesiologico e umanistico il significato in Paolo VI dell'espressione « civiltà dell'amore », occorre rifarsi innanzitutto alla sua prima lettera enciclica Ecclesiam suam ( = ES ) del 6 agosto 1964. In essa, sia pure in nuce, troviamo indicate l'origine trascendente e trinitaria della civiltà dell'amore, la sua manifestazione in Gesù Cristo e nel Vangelo, la sua stretta e intima connessione con la missione della Chiesa, la consapevolezza dei suoi diversi gradi e luoghi di esistenza, la sua dimensione terrena e sovratemporale. Non si può afferrare la pregnanza semantica di questa espressione – divenuta oramai ricorrente nel magistero pontificio successivo – se non contestualizzandosi nella riflessione ecclesiologica di Paolo VI e del Concilio Vaticano II, nonché in quella post-conciliare dello stesso Montini sulla natura dell'evangelizzazione, sull'impegno per la giustizia e per lo sviluppo integrale dei popoli. Nella ES emergono già i tratti dell'ecclesiologia di comunione e della missione propri della riflessione conciliare – si tenga presente che questa enciclica programmatica fu promulgata mentre era in atto il Concilio – e, inoltre, la nuova visione dei rapporti tra Chiesa e mondo. Fondata su Cristo, in cui Dio riallaccia il suo paterno e santo colloquio con l'uomo che si era interrotto a causa del peccato originale ( cf. ES n. 41 ), la Chiesa, mediante la sua opera di evangelizzazione, dialoga con il mondo in cui si trova a vivere. Si fa parola, messaggio di salvezza ( cf. ES n. 38 ). Mentre celebra, annuncia e testimonia la ripristinata comunione tra Dio e l'uomo nel Nuovo Adamo, fa circolare nelle relazioni umane l'amore trinitario in lei riversato dall'alto. Il mistero accolto, sperimentato, è comunicato al mondo come vita nuova, come sorte mirabile di redenzione e di speranza. « La rivelazione – si legge nell'ES –, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con l'umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel Vangelo. [ … ] La storia della salvezza narra appunto questo dialogo che parte da Dio, e intesse con l'uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini ( cf. Bar 3,38 ) che Dio lascia capire qualcosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell'essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto: Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce » ( n. 41 ). Sono qui sinteticamente indicate l'origine trascendente e trinitaria della civiltà dell'amore, il substrato ontologico ed etico di cui è sostanziata: la Chiesa è memoria attualizzante del dialogo e della comunione tra Dio e l'uomo, definitivamente ristabiliti da Cristo. La vita d'amore intratrinitaria – vita di unione e di reciproco dono – è partecipata all'umanità perché diventi anima e stile di esistenza, principio di compimento delle singole persone e della loro relazionalità. Risulta, quindi, implicito nel ministero della Chiesa la specificazione, a livello culturale, di una nuova antropologia e di un nuovo umanesimo. Ma dallo studio della ES emerge anche la consapevolezza sia della realtà analogica della nuova civiltà, seminata e suscitata nei solchi della storia dall'incarnazione, morte e risurrezione del Signore Gesù, sia della ministerialità della Chiesa: « Tutto ciò che è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l'umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siano pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche. Dovunque è l'uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell'uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell'uomo un'anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio. Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato: non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall'altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa » ( n. 54 ). La Chiesa, che non coincide con la civiltà, la propizia in quanto ne porta in sé la scaturigine senza tuttavia esserne il principio ultimo. Esplicitando la ES, osserviamo che la Chiesa è sacramento, ovvero segno e strumento universale della civiltà dell'amore, che si attua in forma vertice nella comunità divina. È segno storico, visibile, icona di un mistero che la trascende, la inonda e la invia, costituendola comunione-comunità essenzialmente ministeriale alla città dell'uomo e, ultimamente, al Regno di Dio. La Chiesa in terra è presenza germinale del grande progetto divino: la piena comunione dell'uomo con Dio e l'unità del genere umano. È anticipo e annuncio sia del Regno che si instaurerà alla fine dei tempi sia della civiltà dell'amore che le genti sono chiamate a realizzare nell'ordine temporale, all'interno delle loro culture, nell'organizzazione della loro vita sociale, economica e politica. Più in dettaglio: la civiltà dell'Amore per eccellenza, che è la Trinità, non trascende completamente la vicenda umana in cui è inserita e immagliata e a cui appartiene costitutivamente grazie alla creazione e alla redenzione di Cristo. L'umanità, dunque, porta in sé i germi di una vocazione comunitaria superiore. La Chiesa è nel tempo mezzo che rivela, annuncia, indica presente e rafforza l'incipiente realtà della civiltà dell'amore, inseminata in ogni popolo, in ogni cultura. Essa, per prima, ha il compito di viverla, per esserne propiziatrice per la città dell'uomo. Posta sul monte e resa dal suo Signore faro di civiltà, si impegna incessantemente ad approssimare quella terrena, con tutti i suoi pluralismi, a quella suprema ed eterna. La Chiesa è al servizio della vocazione di ogni uomo e di ogni popolo alla « civiltà che non muore » ( cf. ES n. 55 ), sempre intenta a coltivare la dimensione di trascendenza che apre a una speranza invincibile. La civiltà dell'amore deriva, dunque, dalla Trinità, mirabile ed eccelsa città di Dio. E l'uomo, essendo strutturato a immagine della comunità delle Persone divine, è in grado di realizzarla, perché le sue forze, pur debilitate dal peccato, sono state redente e corroborate dal dono dello Spirito, Spirito di Dio e Spirito di Cristo, spirito di comunione e di unità. Paolo VI, profeta della civiltà dell'amore, l'invoca ardentemente, perché l'umanità spesso dimentica la propria altissima origine e vocazione e perde il contatto con il suo essere più profondo, con la sua anima. Il mondo è malato, scrive il pontefice nell'enciclica Populorum progressio: « Il suo male risiede meno nella vanificazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli » ( n. 66 ). Il mondo, bisognoso d'amore, sembra non avere più un cuore per amare e per ricevere amore. Solo Cristo, Dio-Uomo, può ridonare all'uomo un cuore nuovo che lo riapra all'amore e alla speranza. Un umanesimo pieno e una vera civiltà non possono esistere senza Dio, senza Cristo, senza Chiesa. Gli uomini non sarebbero in grado di contribuire efficacemente, da soli, alla formazione del corpo dell'umanità nuova, adombrante in certo qual modo quella del mondo che verrà alla fine dei tempi. 2. L'impegno per la costruzione della civiltà dell'amore è elemento costitutivo, essenziale, dell'evangelizzazione L'esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi ( = EN ) del 1974 verte sul rapporto tra evangelizzazione e promozione umana. Essa consente di precisare meglio la tipicità dell'annuncio, della celebrazione e della testimonianza della civiltà dell'amore da parte della Chiesa, di cui rappresentano altrettanti scopi pastorali. Sono vie concrete mediante cui la Chiesa vive e si organizza per offrire al mondo i doni di verità e di grazia di cui Cristo l'ha resa depositaria, affinché ogni popolo possa partecipare alla pienezza di vita del Redentore. Ma ci domandiamo: quanto questi compiti compenetrano la missione primaria di annunciare Cristo, salvatore del mondo? Sono dimensione costitutiva della missione? E, se costitutivi, sono parte integrante oppure elemento accidentale e periferico? Simili interrogativi erano già affiorati nella coscienza ecclesiale allorché il Sinodo del 1971 ( = GNM ) aveva riflettuto sul rapporto tra evangelizzazione e impegno a favore della giustizia. « L'agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo – si risponde nel documento finale su cui si ritornerà più avanti – ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo » ( GNM n. 2 ). Tale affermazione, che oggi appare scontata, era in realtà – in un contesto in cui molti sottacevano o addirittura dimenticavano la dimensione cristologica, trascendente, dell'impegno per la giustizia e la liberazione, rischiando l'immanentizzazione della missione della Chiesa – un nucleo veritativo ed esistenziale da sviscerare in tutte le sue sfaccettature, senza cadere in messianismi terrenisti o in fondamentalismi disincarnati. Fino a qual punto e in che misura, dunque, l'impegno per la promozione dell'uomo è dimensione costitutiva per l'evangelizzazione? La risposta della EN a questa domanda cruciale sembra essere la seguente: l'impegno di promozione e di liberazione è elemento necessario e qualificante dell'opera evangelizzatrice, ma non primario. La sua secondarietà non equivale, però, a marginalità rispetto al contenuto essenziale, imprescindibile, dell'annuncio che Dio, nel suo Figlio morto e risorto, ha amato il mondo e ha offerto la salvezza a ogni uomo, come dono di grazia e di misericordia ( cf. EN nn. 26-27 ). L'impegno per la giustizia e – ritornando al nostro tema – quello per la realizzazione della civiltà dell'amore entrano a costituire l'evangelizzazione nella sua fisionomia completa, pena il suo impoverimento e stravolgimento seppure secondo una gradualità diversa. La EN, per quanto detto, rappresenta uno sforzo chiarificatore notevole circa la specificità dell'impegno proprio del cristiano, che comprende la costruzione della civiltà dell'amore e che non è disgiungibile dall'annuncio della salvezza in Gesù Cristo. In caso contrario la testimonianza cristiana si ridurrebbe a mera opera filantropica, immane e inutile tentativo prometeico, esposto al rischio della disperazione perché incapace di essere all'altezza di un'esistenza divina che non ci si può autodonare. L'attenzione rivolta da Paolo VI al cuore dell'evangelizzazione rivela la sua sollecitudine e insieme la sua preoccupazione pastorale affinché all'opera complessa dell'umanizzazione delle culture – implicante assunzione, purificazione ed elevazione dei criteri di giudizio, dei valori determinanti, delle linee di pensiero, dei modelli di vita – non venga a mancare la forza risanatrice e trasfiguratrice di Cristo redentore, principio assoluto di novità di vita. E così, con il primato dell'evangelizzazione, affidato alla testimonianza e alle necessarie mediazioni storiche e culturali delle comunità cristiane, si matura quella che da alcuni fu definita la « scelta religiosa » della chiesa montiniana. Ma veniamo più direttamente al binomio evangelizzazione e civiltà dell'amore, perché esso fornisce, a nostro avviso, un'angolatura teologico-ecclesiologica che conduce a penetrare il mistero della Chiesa e della sua missione più in profondità. In altri termini, il binomio evangelizzazione e impegno per la civiltà dell'amore, rispetto al precedente – evangelizzazione e promozione umana –, viene a costituire nella riflessione di Paolo VI una prospettiva privilegiata sulla compenetrazione tra i due poli, scongiurando senza margini d'ombra il pericolo che la promozione umana e l'innalzamento di una civiltà sul modello trinitario possano essere visti come opere meno importanti o non centrali in relazione alla responsabilità primaria delle comunità ecclesiali. In realtà, se la costruzione della civiltà dell'amore è un compito che erompe dalla natura e dalla missione stessa della comunità ecclesiale – che è comunione di amore tra Dio e l'uomo, comunità a servizio dell'unità della famiglia umana in se stessa e in Dio –, si giunge con maggiore chiarezza e immediatezza al punto di giunzione tra la proclamazione della Buona Novella dell'amore di Dio e l'impegno per la civiltà dell'amore che, come già detto, include la promozione umana. Entrambi allora fanno parte, come elementi parimenti indispensabili, dell'essenza della missione pastorale della Chiesa. La Chiesa, che chiama l'umanità a condividere la vita trinitaria hic et nunc per poterla poi godere pienamente in paradiso, non può contemporaneamente non invitare a costruire una civiltà omogenea, anticipatrice nel tempo dell'eschaton. L'evidenza della coessenzialità dei due elementi traspare dal fatto che, nella missione della Chiesa, l'amore di Dio è indissociabile dall'amore del prossimo. Non esiste un amore di Dio che non si traduca in amore dell'umanità, in elevazione della sua dignità e umanizzazione della sua relazionalità. La Chiesa non può proclamare il comandamento nuovo senza "sporcarsi le mani" nella costruzione di un ambiente sociale improntato e animato dall'amore, senza promuovere la vera crescita dell'uomo nella giustizia e nella pace ( cf. EN n. 31 ). In sintesi, l'annuncio dell'Amore trinitario, donato all'umanità mediante Cristo e celebrato e testimoniato dalla Chiesa, rappresenta il luogo teologico ove l'azione a favore della crescita in amore delle civiltà si rivela essenziale, più che secondaria, oltre che visibilmente e intuitivamente interna e connessa all'opera evangelizzatrice. Evangelizzazione e costruzione della civiltà dell'amore sono le due facce di una stessa medaglia. Entrambe si completano e contribuiscono a comporla nella sua sostanza e nella sua concretezza. 3. Possibilità, laicità, definizione della « Civiltà dell'amore » Risulta ora più agevole il tentativo di proporre una definizione della più volte proclamata civiltà dell'amore. Manifestandosi in diversi gradi di esistenza e di intensità, la sua nozione è inevitabilmente analogica, non univoca né equivoca. Il pontefice la predica innanzitutto per l'ordine temporale, relativo alla città dell'uomo. Tuttavia è anche coniugata, seppure con minore insistenza, con riferimento alla Chiesa, che è casa e scuola di comunione ove l'amore di Cristo è professato esplicitamente e il comandamento nuovo è legge di compimento personale e relazionale. La comunione d'amore con Cristo è, infatti, fondamento della comunione delle diverse componenti ecclesiali. Qui, la particolare civiltà dell'amore si basa principalmente sulla fede e sulla grazia, sull'agape. In quanto partecipazione della stessa vita trinitaria, rappresenta un grado di vita eminente rispetto alla civiltà dell'amore semplicemente terrena, in cui il fondamento è dato dal consenso e dalla dignità delle persone che la innalzano sulla base di un'amicizia umana, che è pur sempre frammento o scintilla della carità di Cristo. In forza dello specialissimo principio costitutivo e vitale che è Cristo sua pietra angolare, la Chiesa, avente dignità ontologica diversa, trascende e vivifica la civiltà terrena e temporale, fornendole energie che la rinsaldano nei suoi legami e che la proiettano più decisamente verso il suo destino ultimo. L'ordine della civiltà terrena e umana è, pertanto, mantenuto e alimentato, nella sua formalità di amore e di giustizia, dalle energie sane che Dio creatore ha disseminato in ogni uomo e che non sono irreparabilmente corrotte dal peccato originale, nonché dalle energie superiori che, mediante lo Spirito e la Chiesa, pervengono alle intelligenze e alle volontà. La civiltà umana è ambiente di vita distinto ma non separato da quello ecclesiale e religioso. È ambiente dotato di autonomia ed è ministeriale alla crescita integrale dell'uomo, con mezzi e competenze propri. Se in esso vige effettivamente l'amore, principio propulsivo delle azioni e delle istituzioni, si crea una relazionalità di comunione e di reciproco dono per cui la persona non è trattata come mezzo bensì come fine. L'autentica civiltà dell'amore non solo favorisce lo sbocciare della vita umana nel suo sviluppo materiale, necessario e sufficiente per una vita terrena dignitosa, ma include anche, in special modo, lo sviluppo morale, la crescita delle capacità speculative e artistiche. Risponde alla vocazione intrinseca dell'essere umano, creato a immagine di Dio. È opera, in particolare, dello spirito e della libertà innestati sulle sue aspirazioni più profonde dell'uomo, che è fatto per l'amore, per la pace. La libertà radicata nel dinamismo dello spirito umano è internamente e naturalmente finalizzata al dono, alla comunione con il Vero, il Bene, il Bello. La religione è l'anima della civiltà dell'amore. In quanto apertura a Dio, dialogo e comunione con Lui, sostiene l'innata moralità di ogni persona. In particolare, Cristo è il liberatore della libertà umana, piegata dall'egoismo. La rende capace di realizzarsi nell'amore, nel dono di sé, secondo la sua vocazione originaria. Quanto la civiltà dell'amore possa essere cristiana, ossia pervasa dalla carità di Cristo, non è possibile decretarlo a priori. Dipende dalla fecondità operosa dei credenti, oltre che dalla ricettività delle varie culture. Da questo punto di vista, è possibile parlare della civiltà dell'amore come di un universale o di una prospettiva sintetica di società oppure, per dirla con Jacques Maritain, come di un ideale storico e concreto secondo l'ispirazione cristiana, destinato ad avere nel tempo molteplici attuazioni contingenti. La religione cristiana non annienta l'autonomia e la sana laicità della civiltà dell'amore, semmai le rafforza in autenticità, mentre ne purifica la relazionalità e la orienta a uniformarsi al paradigma della follia della Croce, massima rivelazione della fonte e del fine della civiltà dell'amore. Nell'attuale contesto di secolarizzazione inclinata al secolarismo, le probabilità di affermazione di una tale civiltà dell'amore appaiono diminuite. Sicuramente non sono favorevoli le condizioni prospettate dalla nuova Carta dei diritti dell'Unione Europea, che non riconosce il diritto alla libertà religiosa alle comunità, ignorando la dimensione collettiva e sociale delle confessioni religiose che, rispetto al dialogo sociale, sembrano risospinte nel privato. Di fatto non vengono riconosciuti il valore della funzione pubblica e della decisività della religione per l'ethos dei popoli. Occorre invece ammettere, alla scuola di Paolo VI e come mostra l'esperienza, che l'anima etica delle società non è in grado di sostenersi concretamente senza il grembo della religione, che tiene desta la coscienza morale dei popoli e le consente di essere fedele a se stessa, alla sua innata apertura al Vero e al Bene. È sulla base di una coscienza che sa riconoscere la Verità e obbedire al Bene che si possono ricercare e trovare, secondo giustizia, le soluzioni ai numerosi problemi attuali. Solo così è rinvenibile, in un contesto multiculturale e spesso conflittuale, un terreno comune tra diverse concezioni della vita, ossia punti di convergenza e concordanza indispensabili alla costruzione della civiltà dell'amore, all'individuazione e all'attuazione dei diritti fondamentali della persona e dei popoli. Secondo Paolo VI non esiste e non esisterà mai un'unica civiltà dell'amore. Si hanno e si avranno sempre più civiltà, a seconda dei contesti socioculturali. Tutte sono o saranno, evidentemente, animate dall'amore, sia pure in termini minimali. Tutte sono o saranno più o meno esistenzialmente aperte alla carità di Cristo, più o meno in marcia verso il Regno di Dio, civiltà senza tempo, ove Cristo sarà tutto in tutti. In definitiva, la civiltà dell'amore, terrena e umana, è ravvisabile in un insieme di società, strutture, istituzioni, regole – civili, economiche, giuridiche, culturali – che, mentre organizzano e sostanziano la convivenza, vengono configurate e dinamizzate da un ethos di comunione e di promozione reciproca tra persone e tra popoli. Prima ancora che da strutture, istituzioni – pure necessarie –, questa civiltà nuova è data dalle persone, da stili di vita di condivisione e di solidarietà, ossia da atteggiamenti e da gesti concreti di amore e di giustizia. Per realizzare e mantenere la civiltà dell'amore non basta un'identità comune. Occorre che gli uomini siano educati a riconoscerla, a comprendersi e ad accogliersi, a ricercare una cultura di base comune, a condividere gli stessi sentimenti. La religione cristiana offre questi presupposti in grado straordinario e inesauribile, in forza della sua essenziale trascendenza. Senza una comune forma di pensiero e di amore la solidità delle società e delle civiltà è più fragile: « L'uomo – come afferma Agostino, maestro ideatore di una nuova civiltà – preferirà trovarsi con il suo cane, che con un uomo estraneo ». 4. Se vuoi la civiltà dell'amore, lavora per la giustizia, perdona Dopo aver tematizzato l'apporto di Paolo VI all'elaborazione della categoria culturale della civiltà dell'amore, è giunto il momento di precisarne meglio i contenuti, avvalendosi di altre riflessioni del pontefice sulla giustizia e sullo sviluppo dei popoli. In questo paragrafo ci fermiamo sul documento finale del Sinodo del 1971, La giustizia nel mondo. Sembra utile precisare – prima di addentrarci nella riflessione di Paolo VI – che il binomio amore e giustizia non può reggersi da solo. Ha bisogno di inverarsi in un contesto culturale con cui è interdipendente, come ha più volte affermato l'attuale pontefice. Oggi, sostiene Giovanni Paolo II, è ineludibile e improcrastinabile scegliere tra la civiltà dell'amore e l'"anti-civiltà", caratterizzata da un'insana voglia di distruzione e di morte. L'individualismo egocentrico ed egoistico, sorretto dall'agnosticismo e dall'utilitarismo imperanti, è la grande minaccia per la civiltà dell'amore. « L'individualismo suppone un uso della libertà nel quale il soggetto fa ciò che vuole, stabilendo egli stesso la verità di ciò che gli piace o gli torna utile. Non ammette che altri voglia o esiga qualcosa da lui nel nome di una verità oggettiva. Non vuole dare ad un altro sulla base della verità, non vuole diventare un dono sincero ». In una civiltà in cui si perda la verità sull'uomo, si preclude la possibilità dell'amore. Il rischio della perdita della verità si unisce al rischio della perdita della libertà e dell'amore bello, che è elargizione di sé per il bene altrui. Diventa più difficile che l'uomo possa incontrare il suo simile come amico, come un aiuto in ordine al proprio compimento. È più arduo che a ciascuno sia dato il suo. È meno doverosa la pace. Urgono cuori che non siano ciechi e duri come pietra, ma capaci di vedere il bene dell'altro e di assumerlo responsabilmente; urgono cuori traboccanti d'amore anche per chi offende, spoglia o uccide, sull'esempio di Gesù che dall'alto del patibolo prega: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » ( Lc 23,34 ). L'amore cristiano dà alle persone molto più di quanto non possa fare la giustizia riparatrice, distributiva, contributiva, sociale. In definitiva, per Giovanni Paolo II il binomio amore e giustizia è dipendente dai valori della verità e della libertà. Un contesto culturale che non onora la verità, anzi, che dichiara che essa non esiste come bene universale, pregiudica la libertà delle persone, svilisce la relazionalità, mette a repentaglio la giustizia. Verità, libertà, giustizia, amore sono valori solidali tra loro. O si coniugano insieme o insieme periscono. Non solo, essi sono i quattro pilastri su cui costruire un ordine sociale pacifico, rispondente alla dignità delle persone e alle esigenze del loro spirito, come aveva già insegnato Giovanni XXIII nella sua enciclica Pacem in terris ( cf. n. 16 ). Se si vuole promuoverne uno, occorre abbracciare tutti gli altri, con imparzialità e creatività. Ebbene, per il Sinodo del 1971, il cui documento finale è stato approvato da Paolo VI, esiste un nesso profondo tra costruzione della civiltà dell'amore e trasformazione del mondo secondo giustizia. L'amore cristiano del prossimo e la giustizia non possono essere disgiunti. L'amore, infatti, implica un'assoluta esigenza di giustizia, ossia il riconoscimento della dignità e dei diritti del prossimo; la giustizia, a sua volta, raggiunge la sua pienezza interiore unicamente nell'amore. Un tale legame di mutua implicanza è istituito e prescritto, oltre che da ragioni gnoseologiche ed etiche, da ragioni strettamente religiose, e precisamente cristologiche ed ecclesiologiche. « Attraverso la sua azione e il suo insegnamento Cristo – si legge, infatti, nel documento – ha unito, in forma indissolubile, il rapporto dell'uomo con Dio e il suo rapporto con gli altri uomini. Cristo ha vissuto la sua vita nel mondo con una totale donazione di se stesso a Dio per la salvezza e la liberazione degli uomini. Con la sua predicazione, egli ha proclamato la paternità di Dio verso tutti gli uomini e l'intervento della divina giustizia in favore dei bisognosi e degli oppressi ( cf. Lc 6,21-23 ). Cristo si è reso fino a tal punto solidale con questi suoi "fratelli più piccoli" da affermare: "Quel che voi avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" ( Mt 25,40 )» ( GNM n. 12 ). Due paragrafi più avanti si trova scritto: « La Chiesa ha ricevuto da Cristo la missione di predicare il messaggio evangelico, che contiene la chiamata dell'uomo alla conversione dal peccato all'amore del Padre, e la fraternità universale e, perciò, l'esigenza della giustizia nel mondo. È questa la ragione per la quale la Chiesa ha il diritto anzi, anche il dovere, di proclamare la giustizia nel campo sociale, nazionale ed internazionale, nonché quello di "denunciare" le situazioni di ingiustizia, allorché i diritti fondamentali dell'uomo e la sua stessa salvezza lo richiedono» ( GNM n. 14 ). Detto altrimenti, la civiltà dell'amore si realizza soltanto tramite la fedeltà a Dio e all'uomo. I due amori, per Dio e per l'uomo, si intersecano, si concretizzano e si articolano nell'impegno per la giustizia che, a sua volta, si esplica nella difesa e nella promozione della dignità e dei diritti fondamentali della persona umana ( cf. GNM n. 14 ). Una società giusta è, pertanto, condizione di esistenza della civiltà dell'amore. E, tuttavia, non ne esaurisce il volume totale. La giustizia trova la sua misura piena nell'amore, sua scaturigine inesauribile, come spiegherà magistralmente Giovanni Paolo II nell'enciclica Dives in misericordia ( = DIM ), proprio ricollegandosi alla proposta montiniana di una nuova civiltà: « L'autentica misericordia è, per così dire, la fonte più profonda della giustizia. Se quest'ultima è di per sé idonea ad "arbitrare" tra gli uomini nella reciproca ripartizione dei beni oggettivi secondo l'equa misura, l'amore invece, e soltanto l'amore ( anche quell'amore benigno, che chiamiamo "misericordia" ), è capace di restituire l'uomo a se stesso. La misericordia autenticamente cristiana è pure, in certo senso, la più perfetta incarnazione dell'uguaglianza tra gli uomini, e quindi anche l'incarnazione più perfetta della giustizia, in quanto anche questa, nel suo ambito, mira allo stesso risultato. L'uguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita, però, all'ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno sì che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria. [ … ] Così, dunque, la misericordia diviene elemento indispensabile per plasmare i mutui rapporti tra gli uomini, nello spirito del più profondo rispetto di ciò che è umano e della reciproca fratellanza. È impossibile ottenere questo vincolo tra gli uomini, se si vogliono regolare i mutui rapporti unicamente con la misura della giustizia. Questa, in ogni sfera dei rapporti interumani, deve subire, per così dire, una notevole "correzione" da parte di quell'amore, il quale – come proclama san Paolo – "è paziente" e "benigno" o, in altre parole, porta in sé i caratteri dell'amore misericordioso, tanto essenziali per il vangelo e per il cristianesimo » ( DIM n. 14 ). Sia per Paolo VI che per Giovanni Paolo II, la giustizia trova compimento in quella forma singolarissima e alta dell'amore che è il perdono. Questo, fondamentale condizione della riconciliazione tra persone e popoli, è forma superiore della giustizia e causa della pace. Il Vangelo del perdono non nasconde una concezione svilita della vita, tantomeno fa sconti sulle esigenze della giustizia. Questa è inclusa nel perdono come scopo. « In nessun passo del messaggio evangelico – annota in particolare Giovanni Paolo II – il perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o l'oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell'oltraggio sono condizione del perdono » ( DIM n. 14 l ). In un contesto di globalizzazione, prevalentemente ispirata a criteri neoutilitaristici e neoliberisti, in cui si è alla ricerca di nuovi strumenti per la promozione della giustizia, è senz'altro illuminante riproporre alcuni orientamenti pratici offerti dal Sinodo. Il principale ostacolo per noi, oggi, non è costituito, come ritengono molti neoliberisti, dalle intenzioni e dalle tendenze invasive dello Stato sociale, bensì dalla sua crescente impotenza. I nostri strumenti per la promozione della giustizia sono rimasti al livello dello Stato-nazione. Come spiega bene Amartya Sen, il problema all'ordine del giorno è la realizzazione di una giustizia globale, che non si identifica soltanto con la giustizia tra le nazioni, ma deve riguardare anche le società civili e coinvolgere tutte le associazioni e gruppi culturali. Ecco, allora, alcuni dei suddetti orientamenti che serbano intatta la loro validità. Concernono, in primo luogo, i comportamenti della Chiesa e le varie componenti, che debbono impegnarsi in un serio esame di coscienza circa l'amministrazione dei beni, secondo le esigenze dell'annunzio ai poveri. a) L'educazione permanente alla giustizia, per giungere al superamento dell'individualismo gretto, dell'idolatria dell'avere; per favorire il rinnovamento del cuore, fondandosi sulla presa di coscienza del peccato individuale e sociale; per istillare stili di vita improntati alla carità e alla semplicità. « La prima educazione alla giustizia – rammenta il Sinodo – avviene, innanzitutto, nella famiglia ». Ma subito aggiunge: « Sappiamo bene che a questo contribuiscono non solo le istituzioni ecclesiastiche, ma anche le altre scuole, i sindacati e i partiti politici » ( GNM n. 17 ). Momenti privilegiati di essa sono la conoscenza e la sperimentazione della Dottrina sociale della Chiesa, nel suo duplice aspetto di annuncio e di denuncia, e, inoltre, la liturgia e i sacramenti ( cf. nn. 18-19 ). b) La cooperazione tra Chiese locali delle nazioni ricche e quelle povere, quale testimonianza del Vangelo. Il Sinodo, in particolare, incoraggia le generose disposizioni all'aiuto reciproco tra le Chiese a una maggiore efficacia « attraverso un'effettiva coordinazione ( Sacra Congregazione per l'evangelizzazione dei Popoli e Pontificio Consiglio "Cor unum" ), attraverso una prospettiva unitaria nell'amministrazione comune dei doni di Dio, attraverso una fraterna solidarietà che favorisca sempre l'autonomia e la responsabilità dei beneficiari in ordine sia alla determinazione dei criteri, sia alla scelta di obiettivi concreti ed alla loro attuazione » ( n. 20 ). c) La collaborazione ecumenica per realizzare lo sviluppo dei popoli e la pace nel mondo, convergendo nella tutela e promozione dei diritti dell'uomo, specie quello alla libertà religiosa. A proposito dello sviluppo di tutti i popoli si raccomandano: trasferimento di una percentuale del reddito annuale delle nazioni più ricche alle nazioni in via di sviluppo; fissazione di prezzi più equi per le materie prime; apertura dei mercati delle nazioni più ricche; trattamento preferenziale per l'esportazione dei prodotti manufatti delle nazioni in via di sviluppo; piena partecipazione di queste nelle Organizzazioni internazionali operanti nel campo dello sviluppo; perfezionamento delle Organizzazioni internazionali e degli Organismi specializzati delle Nazioni Unite, deputati ad affrontare diverse questioni relative alla povertà, alle riforme agrarie, alla sanità, all'educazione, all'occupazione, all'abitazione, all'urbanizzazione esplosiva; costituzione di un fondo comune per procurare alimenti sufficienti in ordine al pieno sviluppo psichico e fisico dell'infanzia; versamento da parte dei governi dei speciali contributi al fondo in favore dello sviluppo; relazioni multilaterali; salvaguardia dell'ambiente naturale; sviluppo dei popoli secondo la loro identità culturale; assistenza che favorisca l'autopromozione; inserimento di tutti i popoli nella cooperazione al conseguimento del bene comune ( cf. nn. 21-22 ). 5. Civiltà dell'amore è qualità dello sviluppo, è sviluppo plenario, solidale, comunitario, planetario, aperto alla trascendenza Come già detto, per Paolo VI costruzione della civiltà dell'amore significa umanizzazione delle relazioni, delle istituzioni, delle leggi, dei costumi. Chi ama sinceramente Dio è, conseguentemente e coerentemente, dedito a configurare l'intera convivenza ad ambiente favorevole alla crescita dell'uomo, di ogni uomo considerato nella sua integrità. Ambiente atto e non alienante è quello che consente a tutti, mediante l'organizzazione del vivere sociale, delle sue forme di produzione e di consumo, di sperimentare la propria natura più profonda, fatta per trascendersi nel dono di sé e per vivere in un'autentica comunità di solidarietà. Entro questa prospettiva, la proposta – presentata sia pure in termini diversi dalla lettera apostolicaOctogesima adveniens ( = OA ), che qui non consideriamo per mancanza di spazio; e, poi, dell'enciclicaPopolorum progressio ( = PP ) – di uno sviluppo plenario, solidale, comunitario, planetario, aperto alla Trascendenza, appare elemento costitutivo della ricerca del bene delle persone e delle comunità, in una parola, della civiltà dell'amore. Tenendo presente che la categoria dello sviluppo plenario include le varie dimensioni del compimento umano in Dio, si può dire che tende a divenirne un sinonimo, e altrettanto dicasi per il termine pace. La pace non solo è sostanziata dallo sviluppo plenario, frutto di una giustizia più piena e di un amore più grande. Vi si invera esaustivamente, perché tale sviluppo, oltre ad essere un fatto quantitativo, strutturale, istituzionale, è realtà eminentemente qualitativa, antropologica ed etica. E per questo – come afferma icasticamente Paolo VI – esso può essere considerato « il nuovo nome della pace » ( PP n. 87 ). Un discorso analogo può essere fatto per la civiltà dell'amore. Lo sviluppo plenario, infatti, è crescita dell'umanità, è crescita in umanità. È universale compimento dal punto di vista non solo economico, ma soprattutto etico, culturale e religioso. È, in particolare, crescita nella capacità di rapportarsi con il creato, con l'altro e con Dio, vivendo l'amore stesso di Cristo per essi. Per Paolo VI, l'unità nella carità di Cristo è la condizione delle condizioni per passare a uno sviluppo più umano ( cf. PP n. 21 ). L'autentico sviluppo implica, in particolare, sia il riconoscimento che l'uomo supera infinitamente l'uomo, sia la subordinazione, senza tuttavia sminuirne l'importanza, dell'avere all'essere, dell'economico ai valori etici e spirituali. In ultima analisi, lo sviluppo plenario fa tutt'uno con un umanesimo aperto all'Assoluto ( cf. PP n. 42 ), ai valori superiori dell'amore, dell'amicizia, della preghiera e della contemplazione ( cf. PP n. 20 ). Rimanda a un'umanità che vive nella comunione, nell'accoglienza reciproca, nella fraternità, nella giustizia, nel mutuo potenziamento ( cf. la parte seconda della PP ). In definitiva, per Paolo VI lo sviluppo globale e comunitario trova rispondenza e coincidenza, sul piano non solo dei contenuti etici, spirituali, culturali, con la civiltà dell'amore, ma anche su quello delle strutture e delle istituzioni. Ovunque si voglia realizzare sia lo sviluppo plenario che la civiltà dell'amore, non può mancare un corpo di strutture e istituzioni plasmato dal genio e dalla fantasia della carità universale ( cf. PP n. 75 ). La civiltà dell'amore è costituita dall'umana convivenza in cui il conoscere, il fare, l'avere sono orientati all'essere di più, ad accrescere le capacità di vero e di bene, in Dio. È l'immedesimazione progressiva, sia pure imperfetta, della socialità umana in quella trinitaria e, quindi, un tentativo permanente di superare le ingiustizie e le condizioni disumane, che reificano l'uomo. Successivamente, sul tema dello sviluppo sono tornate le due encicliche di Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis ( = SRS ) e Centesimus annus ( = CA ). La prima ne ha evidenziato la dimensione teologica, cristologica, ecclesiologica e solidarista. La seconda lo ha contestualizzato nella globalizzazione e ha indicato la via regia della sua attuazione nella destinazione universale dei beni. Tra i beni la cui accessibilità deve essere aperta a tutti, perché strategici per la crescita di ogni popolo, sono evidenziati, oltre alla proprietà della terra e del mestiere: la conoscenza; il sapere; la tecnica; il libero mercato, orientato dai soggetti sociali verso il bene comune; la famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio; l'ecologia umana; l'ambiente da salvaguardare; l'impresa, come « comunità di uomini »; la democrazia fondata su valori; lo Stato di diritto; lo Stato che interviene nell'economia e nella società secondo il principio di sussidiarietà; la pace; un'economia sociale sviluppata sul piano nazionale e mondiale; e, soprattutto, il bene dei beni che è la persona, educata in modo integrale dal punto vista professionale, etico e religioso. In ultima analisi, secondo la CA, che attualizza egregiamente la PP, in contesto di globalizzazione la civiltà dell'amore prende forma non solo mediante la disseminazione di adeguate istituzioni market o non-market, ma anche mediante l'universalizzazione di un umanesimo integrale, solidale e aperto alla Trascendenza. Non basta offrire a tutti opportunità eque o capacità ( capabilities ), come ha opportunamente ed eloquentemente caldeggiato più volte Amartya Sen. Opportunità di ascesa e possibilità di scelta devono essere gestite alla luce del bene umano. Occorre che la libertà morale delle persone – favorita da opportunità economiche, libertà politiche e servizi sociali, condizioni preliminari di buona salute, di istruzione di base, di incoraggiamento e di sostegno alla libera iniziativa – si attui in modo da accrescere la propria e l'altrui dignità. In un momento storico in cui la liberalizzazione spinta dei mercati, per certi versi, sta facendo rivivere forme di capitalismo selvaggio – non si dimentichi che Paolo VI, attirandosi critiche pungenti e immeritate da parte di cattolici benpensanti, ne condannò le versioni ottocentesche presenti nei Paesi in via di sviluppo –, l'insegnamento equilibrato della PP rappresenta un forte richiamo a che nel nostro tempo non prenda il sopravvento « un'ideologia radicale di tipo capitalistico ». Il capitalismo oggi si presenta con aspetti diversi da quello esaminato dalla PP. Basti anche solo pensare ai progressi tecnologici, alla finanziarizzazione e alla più accentuata integrazione delle economie di tutto il mondo. Come e più di allora urge l'opera regolatrice della politica e delle società civili sui mercati, per superare le conseguenze esiziali e fatali dovute al prepotere di una governance globale in assenza di istituzioni di un governo globale. Rispetto alla realizzazione di un governo mondiale proposta da Giovanni XXIII nella Pacem in terris della quale ricorre quest'anno il quarantesimo anniversario, Paolo VI appare più attento alle tappe intermedie ( cf. PP n. 43 e n. 78 ). E tuttavia, nella sua enciclica non manca la prospettiva di un quadro progettuale, sintetico sì, ma di sorprendente modernità. La soluzione dell'annoso problema dello sviluppo dei popoli non può avvenire eliminando uno dei poli del trinomio politica-libero mercato-società civile, oppure enfatizzando uno degli elementi a scapito degli altri. Nella consapevolezza dei limiti e pregi dell'intervento politico, nonché dei mercati e delle società civili ( costituite da famiglie, istituzioni culturali, comunità religiose, ecc. ), occorre trovare nuove forme di integrazione reciproca, orientandole alla realizzazione del valore superiore della giustizia sociale, che non sollecita solo a distribuire la ricchezza, ma anche a produrla, e incrementando i processi democratici, specie mediante la partecipazione di tutti i popoli e società civili nelle istituzioni e nella cooperazione transnazionali. Sono sempre valide, ardite ed esigenti le direttive di azione offerte da Paolo VI specie per i popoli in via di sviluppo: leggi di riforma della proprietà, di regolamentazione dell'uso dei redditi ( cf. nn. 22-24 ); politiche e culture umaniste del lavoro ( cf. n. 21 ); politiche urgenti di riforme strutturali, profonde e innovatrici ( cf. nn. 29-32 ); programmazione o pianificazione globale ( non totale! ) dell'economia ( cf. n. 34 ). Come, infine, non ritenere saggi e proficui i mezzi e le metodologie per aiutare efficacemente i popoli più poveri, così specificati dalla PP: cooperazione internazionale, concertata e programmata per realizzare, mediante istituzioni sempre più adeguate, il bene comune universale ( cf. n. 47 ); assistenza pianificata, multilaterale e dialogata ( cf. nn. 54-55 ); rifiuto dell'assistenzialismo internazionale ( cf. nn. 48-49 ); costituzione di un fondo mondiale per i popoli in via di sviluppo, alimentato da una parte dei finanziamenti già destinati alle spese militari; riforma delle relazioni commerciali, improntandole a criteri di equità e di giustizia sociale; collaborazione economica a livello locale fra i Paesi in via di sviluppo ( cf. n. 64 ); sussidiarietà, solidarietà, carità universale e fraternità? L'alternativa alla mancata rivoluzione evangelica dell'amore è, per Paolo VI, la probabile rivolta, violenta e distruttrice, degli oppressi: « Si danno certo delle situazioni – scrive il pontefice – la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedir loro qualsiasi iniziativa e responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana » ( n. 30 ). Per noi, che viviamo in un mondo sull'orlo della guerra planetaria – si pensi ai tanti focolai di violenza, alle nuove forme di terrorismo sofisticato e spietato, alle sbrigative teorizzazioni della cosiddetta guerra preventiva, – la lettura dei passi appena citati non può che risuonare come un appello drammatico e ammonitore. In modo pressante si è ancora posti di fronte al bivio della guerra o della pace, dell'odio o dell'amore. Ogni progetto di civiltà dell'amore appare oggi messo in mora e anche apertamente contraddetto – oltre che dall'ideologizzazione della "guerra preventiva", che scarta sbrigativamente le vie alternative e non si impegna a togliere le cause dei mali sociali, economici e politici – dal terrorismo moderno, trasformatosi in una rete oscura di complicità politiche, che si avvale di ingenti risorse tecniche e finanziarie. Esso – come peraltro farebbe un'eventuale "guerra preventiva" – scuote l'intera comunità internazionale, semina desiderio di vendetta, odio, morte. Manifesta soprattutto disprezzo totale della vita, strumentalizza Dio e la religione. L'invocazione del nome di Dio diventa non solo profanazione e bestemmia, ma attacco maligno alla visione della vita e alla cultura della civiltà dell'amore di cui è la negazione più radicale. Quando Dio, principio primo della pace, è trasformato in un moloch sanguinario, la civiltà dell'amore perde non solo il suo Creatore, ma anche il sostenitore più appassionato, Colui che ha dato per essa tutto quello che "possedeva", la cosa più preziosa, suo Figlio. Il nuovo terrorismo, che le opportunità stesse della globalizzazione rendono più diffusivo e pervasivo, tende a diventare un assoluto religioso capovolto e un totalitarismo irresistibile. È la dimostrazione che l'impegno per la giustizia e la costruzione di una nuova civiltà, più dell'"avventura senza ritorno" rappresentata dalle cosiddette guerre preventive, sono ora improcrastinabili. Esigono la mobilitazione di tutti, sinergie locali e globali, in un'opera incisiva di educazione delle intelligenze e dei cuori. La violenza, ci ricorda Paolo VI, deriva dallo scadimento della coscienza morale non educata, non assistita, permeata da quel pessimismo sociale che spegne nello spirito il gusto e l'impegno dell'onestà professata per se stessa, nonché ciò che vi è di più bello nel cuore umano, l'amore vero, nobile e fedele. « Chi aiuta a scoprire in ogni uomo – scrive Paolo VI –, al di là dei caratteri somatici, etnici, razziali, l'esistenza di un essere uguale al proprio, trasforma la terra da un epicentro di divisioni, di antagonismi, d'insidie e di vendette in un campo di lavoro organico di civile collaborazione. Perché dove la fratellanza fra gli uomini è in radice misconosciuta, è in radice rovinata la pace. E la pace è invece lo specchio dell'umanità vera, autentica, moderna, vittoriosa d'ogni anacronistico autolesionismo. È la pace la grande idea celebrativa dell'amore fra gli uomini, che si scoprono fratelli e si decidono a vivere tali ». A mò di conclusione: dialogo tra civiltà In un mondo multiculturale, la civiltà dell'amore indicata da Paolo VI e dall'attuale pontefice come fine dell'umanità ( cf. DIM n. 14 ), è chiamata a molteplici tipologie di incarnazione. Le varie civiltà sono rese simili e comunicanti dall'universale umano concreto – ossia una comune natura umana, dotata di intelligenza e di volontà libera – di cui sono espressione multiforme. Ma differiscono talora profondamente quanto a religione, ad apertura nei confronti del Vangelo, a concezioni della persona e del diritto, delle scale di valori, dell'ethos. Ciò deve rendere attenti alle loro condizioni concrete marcate da usi e costumi, psicologia collettiva, ambienti socioeconomici e politici specifici. Già è stato detto che l'attuale animazione della globalizzazione è di tipo neoliberista, fondamentalmente immanentista e materialista. In questo momento storico, sembra che l'uomo occidentale abbia particolarmente bisogno di nuovo pensiero, soprattutto di riacquistare il desiderio di vivere per non morire e continuare il suo esaltante, seppur faticoso, destino di divinizzazione. La prima carità di cui mostra di aver bisogno è l'aiuto per uscire dalle situazioni di peccato e dalla connessa paura del futuro per accettare, con responsabilità e gioia, la cultura della vita che fa tutt'uno con la civiltà dell'amore. Ogni civiltà ha i suoi punti di forza e i suoi punti deboli. L'amore cristiano agisce sulle varie culture e sulle mentalità, purificandole e trasfigurandole. Ne valorizza e potenzia i semi di positività. Vivifica ciò che le unifica, facendo leva sulle risorse di bontà che giacciono nello spirito di ogni uomo. Le sollecita a superare la loro finitezza irrimediabile, aprendosi verso Colui che di esse è la Fonte e il Termine, per dare a loro un arricchimento di pienezza.34 Quando, grazie all'evangelizzazione e all'educazione delle coscienze, cresce ciò che unisce e viene rinsaldato l'anelito al vero e al bene di ogni persona, quasi spontaneamente si allarga il terreno comune tra le civiltà, la loro capacità di dialogo e la comunione in Dio. Mario Toso