Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo dodicesimo - II

II. La morte come fenomeno e come avvenimento

La morte sfugge all'esperienza diretta.

Per parlarne in modo conveniente bisognerebbe averla vissuta.

Ma i morti non possono essere interrogati e i morenti non possono dire nulla di ciò che non hanno ancora vissuto.

Si vedono dei cadaveri, ma non si vede la morte.

La morte di cui parliamo, è il fenomeno della morte, come avvenimento « mondano », non la morte come tale.

Finché vivo, la morte non esiste; e quando la morte esiste, io non ci sono più.

L'uomo e la morte giocano a nascondino.

Se parliamo della morte lo facciamo dall'esterno, cioè dal suo volto voltato verso di noi, livido, ma leggibile.

Vi è anche una scienza della morte, la tanatologia, che si nutre di sociologia, di storia, di etnologia, e vi sono società di tanatologia.

Della morte, vista dall'esterno, ciò che ci colpisce, è il suo volto ambiguo di certezza e di incertezza, come pure il nostro atteggiamento paradossale a suo riguardo.3

La morte è certa e universale.

Nessuno vi sfugge; la morte non fa discriminazioni.

La scadenza può essere ritardata, ma non è che differita.

Tra cento anni non ci saremo più.

Noi viviamo feriti dalla morte, inseguiti fino nel più profondo di noi stessi.

Eppure questa attesa di una cosa certa, ci trova increduli.

Ci rifiutiamo di credere che questa verità generale di una morte certa è indirizzata a ciascuno di noi.

Il vecchio sogno d'immortalità ci assale sempre, inestirpabile.

Non è del resto la molla segreta, il postulato inconfessato della scienza medica?

Il sogno della mummia, dell'ibernazione, della criogenizzazione, della reincarnazione?

La morte non sarebbe una malattia come le altre?

L'illusione della morte incerta, o per lo meno della sua ora incerta, mantiene la speranza chimerica di non morire.

Sono gli « altri » che muoiono!

Ogni minuto è per me un prolungamento che autorizza una nuova speranza.

Ma noi abbiamo un bel fare bravate, vi sarà un ultimo appuntamento, un istante che sarà l'ultimo.

Le generazioni precedenti vivevano nella familiarità della morte; la morte fa sgranare gli occhi ai nostri contemporanei.

Si deve quindi sognare una proroga senza fine?

L'ipotesi non è attraente.

Che sarebbero questi viventi congelati o surgelati il cui risveglio, per gli uomini del futuro non sarebbe certamente quello del Principe azzurro o della Bella addormentata?

D'altra parte una morte certa, prevedibile, prevista, senza margine di speranza, da l'immagine di un condannato a morte come lo descrive Pascal.

Con poche differenze, la nostra situazione è quella di un malato incurabile che è informato della natura del suo male e della breve dilazione che gli è accordata.

Tutto è già finito, poiché tutto deve finire presto.

Il solo modo di fissare l'ora con precisione sarebbe il suicidio.

In ogni caso la vita è una battaglia che si finisce sempre per perdere.

Morte certa, ora incerta: tale è la verità della nostra condizione mortale.

Questa incertezza dell'ora, legata alle circostanze, al come della morte, accresce ancora il suo carattere di minaccia continua e sorniona.

La sua brutale subitaneità la rende spesso scandalosa.

La peste nera del 1348, in Europa, ha fatto 25 milioni di vittime: due generazioni soppresse di colpo.

L'ultima guerra falciò 26 milioni di uomini.

Il fumo si alza al di sopra delle paludi, giorno e notte, acre: è il forno crematorio di Dachau.

Il naufragio del Titanio provocò la morte di 1500 persone.

Alle Azzorre, due Boeing 747 entrano in collisione: è la più grande tragedia dell'aviazione civile.

Un fiume fa cadere un ponte e getta un treno nel baratro: 200 vittime.

E che dire dei terremoti, degli uragani?

Un recente sisma, in Italia, ha fatto perire 4000 persone.

Quante vite falciate al momento in cui stavano per produrre, quanti compiti incompiuti!

Davanti a questa brutalità della morte che colpisce indistintamente ogni ambiente, gli innocenti, giovani come anziani, quanti perché angosciati, disperati, ribelli?

Le morti lente ci fanno orrore per le sofferenze atroci che si prolungano, ma le morti rapide sono spesso più tragiche, perché non lasciano il tempo di mettere in ordine i nostri affari.

Vorremmo dimenticare la morte anche come avvenimento.

Impossibile, essa è dovunque, e ci attende: sulla terra, nell'aria, sui mari.

Che importa! Finché ha il buon senso di restare la morte degli « altri », non ci tocca troppo.

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3 V. JANKELEVITCH, La mort, Paris, 1966, pp. 119-142.