Il principio Persona

Indice

Pensiero personalista e abolizione della guerra

Capitolo sesto

1. Il rilievo civile del principio-persona

Entrando nel campo della pace e del suo rapporto con la persona, operiamo un prelievo tematico ossia, tenendo presenti le acquisizioni relative alla metafisica della persona elaborata nei primi due capitoli, ci concentriamo specialmente sul versante etico-politico.

Per quanto il termine « personalismo » sia stato coniato alla fine dell'800 da Renouvier, un vero e proprio clima personalista si riscontra in varie espressioni della cultura europea del Novecento dagli anni '30 in avanti, e non riguarda solo la questione della pace, ma anche quelle dello Stato, del diritto, della struttura della famiglia, delle comunità intermedie, dell'economia.

Una nuova attenzione etico-politica rappresenta uno dei prodotti più considerevoli della sensibilità personalista, che trova il suo fondamento in un diverso modo di intendere la realtà della persona umana.

Oggi, a settant'anni di distanza dalla massima emergenza della cultura del personalismo, la sua prospettiva è ancora sostenuta dalla cultura cristiana, dal pensiero ebraico ( ieri Buber, oggi Lévinas ), e da varie correnti dell'umanesimo laico che, magari senza riconoscersi nella fondazione ontologica della persona, ne sentono il valore primario per ogni decente res publica ( per l'Italia avanzerei i nomi di N. Abbagnano e di N. Bobbio ).

Mentre sono venute meno le posizioni antipersonaliste del fascismo e del nazismo e del marxismo, impatto non secondario esercitano le dottrine non personaliste dello strutturalismo, del nichilismo e del neonaturalismo.

La domanda di partenza suona: in che cosa il principio-persona ci aiuta nel campo della politica, e in special modo in quello rischiosissimo della pace e della guerra? Enumero alcuni argomenti.

1) Rapporto unico tra personalismo e pace.

L'idea di persona come sostanzialità spirituale e apertura relazionale implica un rapporto amico con l'altro, presente dovunque emerga una chiara propensione alla pace, capace di includere il rapporto tra civitas maxima del genere umano e persona.

Il principio-persona vede nel personalismo egualitario il primo criterio di un ordine politico nuovo.

Esso dà voce all'idea che le unità fondamentali di rilevanza ontologica, morale e politica sono le persone, portatrici di eguale valore ed eguale dignità, e non gli Stati o altre forme di associazione umana.

L'importanza del rapporto tra personalismo e pace sta nel fatto che il primo porta coerentemente ad una cultura del dialogo e del rispetto delle persone e dei popoli.

La dottrina personalista stimola un apporto collettivo al problema della pace, i cui caratteri sono profondamente influenzati dall'immagine di persona cui si ricorre.

A seconda dell'idea di uomo si hanno differenti idee di pace: la pax nazista suppone il dominio del biondo ariano, la pax personalista s'ispira alla tradizione giudeocristiana e all'umanesimo europeo, che vede nell'uomo un essere dinamico abitato da pulsioni contraddittorie ma non incapace di venirne a capo; e che punta su pedagogia, politica, diritto e istituzioni adeguate per raggiungere un esito accettabile nei vari contesti politici sino a quello planetario.

Una vocazione universalista e cosmopolitica appare infatti omogenea con la valenza ultimamente universale della persona.

Il personalismo fa riposare la custodia della persona e la sua indisponibilità da parte dello Stato sull'idea di diritti naturali inalienabili, mentre la cultura antipersonalista considera il diritto una sovrastruttura dello scontro vitale, oppure lo riconduce ad una convenzione sociale con l'esclusione di un diritto superiore e indisponibile da parte dell'uomo ( tale è la posizione del positivismo giuridico assoluto, contrario al diritto naturale ).

Dalla cultura personalista scaturisce un atteggiamento di pacifismo attivo, che non ritiene la guerra impossibile, ma ingiustificabile e improponibile, e si adopera con un'opera di prevenzione perché non accada.

Per il personalismo ( analogo discorso vale per ogni forma di pacifismo attivo ) la guerra non è un'istituzione automaticamente destinata a scomparire, quanto piuttosto una figura che deve essere eliminata.

Un passo avanti è compiuto quando ci si libera dall'idea, sepolta nell'inconscio collettivo dei popoli, che la guerra sia un istituto inevitabile cui gli uomini e i popoli debbono acconciarsi; quando si relativizza l'idea che la guerra trovi il proprio fondamento nella « natura umana », sempre uguale e a se stessa, inclinata alla violenza e al dominio.

Al personalismo latamente inteso appartengono il pensiero di Kant col suo progetto di pace perpetua; varie correnti pacifiste; la dottrina sociale della Chiesa; le correnti dell'umanesimo laico favorevoli all'idea dei diritti dell'uomo, cardine d'ogni ordine internazionale di pace e grande codice dell'umanità che cerca i modi per tradursi in istituzioni capaci di limitare la violenza.1

2) Antipersonalismo e propensione alla guerra.

Viceversa si dà una connessione innegabile tra antipersonalismo, spirito bellicoso e propensione alla guerra.

Tanto le culture di pace sono apertamente o implicitamente personaliste, altrettanto le culture di lotta e di guerra sono apertamente o implicitamente antipersonaliste, ed a questo versante sono ascrivibili filosofi della guerra quali Machiavelli, Hobbes, Hegel, Schmitt, nonché i totalitarismi: quelli di sinistra centrati sulla dissoluzione sociale dell'uomo, e quelli di destra affascinati dall'idea dello Stato come sostanza etica, o della razza come realtà biologica.

Di solito le posizioni antipersonaliste legano insieme cultura di guerra e un'antropologia in cui l'uomo è inteso come un essere dinamico abitato dalla violenza e dalla lotta per la supremazia.

Hegel.

Poiché lo Stato è « spirito oggettivo, l'individuo esso medesimo ha oggettività, verità ed eticità, soltanto in quanto è componente dello Stato », per cui il suo « dovere supremo è di essere componente dello Stato ».2

Questa è la formula originaria di ogni totalitarismo politico, in proposito Maritain parla di « immolazione dialettica della persona »3 e non c'è che da consentire.

L'arma della dialettica è volta contro la persona per dissolverne la sostanzialità e la dignità, e fame un momento transeunte del movimento dello spirito.

Gentile.

In lui affiora una metafisica dell'unità e dell'identità la quale non può che sboccare nel momento dello Stato etico, supremo livello di unità e di autocoscienza dei singoli.

Tentazione che è intrinseca al neohegelismo, se l'ultima opera di Gentile Genesi e struttura della società - composta tra l'agosto e il settembre 1943 quando le vicende della seconda guerra mondiale avrebbero già dovuto insegnare molte cose sulla vocazione antiumana degli Stati totalitari - ripropone la forma dello Stato etico e non coglie la persona come il livello primo e ultimo del politico: « gli uomini, in quanto molti, sono cose ».4

Le formule con le quali Gentile ripropone il mito della Stato come creatore di leggi, di verità, di eticità, di valori, vanno attentamente meditate: rappresentano infatti la fase culminante nella quale l'illusione dell'immanentismo idealista raggiunge il delirio, tanto più sconcertante quanto più sembra chiudere gli occhi dinanzi alle dure lezioni della storia.

Innanzi tutto l'affermazione centrale, vero proton pseudos del totalitarismo, secondo la quale la persona non ha realtà se non nello Stato: l'uomo politicamente è Stato; ed è uno Stato o nulla.

« Lo Stato, autoconcetto o volontà è libero.

Perciò infinito.

Il concetto perciò di uno Stato tra gli altri Stati che lo limitano, è contraddittorio …

Lo Stato, concreta attività dello spirito, è svolgimento, e perciò storia.

Tutte le altre storie ( dell'arte, della religione, dell'economia, della scienza, ecc. ) sono storie astratte perché storie di momenti o forme ideali o astratte della vita dello spirito, la quale in concreto è sempre Stato …

Lo Stato, in quanto l'Unico, è divino ».5

Da siffatte premesse è coerente che segua sia la distruzione d'ogni diritto naturale, sia l'identificazione tra diritto e volontà dello Stato: « La volontà dello Stato è diritto …

Non c'è diritto senza Stato ».6

Lo Stato di Gentile si pone come il nuovo Leviatano.

Schmitt.

Una vena antipersonalista, sia pure meno drastica, circola nelle pagine di C. Schmitt, e dichiara una forte dipendenza da Hobbes, la cui concezione dell'uomo è ad un tempo materialistica e non-personalista.

Secondo Schmitt « resta valida la constatazione stupefacente e per molti versi inquietante che tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l'uomo come « cattivo ».

Che cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi « pericoloso » e dinamico.

Ciò è facile da provare per qualsiasi pensatore politico in senso specifico ».7

Questo assunto è necessario al Begriffdes politischen, ne è in certo modo la condizione di possibilità: senza la tesi di un uomo cattivo o inclinato molto più al male che al bene, non avrebbe senso l'idea schmittiana che la polarità amico-nemico e lo scontro a morte siano le possibilità reali della politica.

L'uomo singolo e un popolo acquistano vera esistenza politica e vera coscienza di sé solo nella lotta contro il nemico; si riconoscono solo nel momento dell'odio esistenziale dell'altro.

Questi autori, sostenendo la coappartenenza tra politica e guerra, ed esigendo la politica a luogo in cui le persone non contano, cancellano alla radice la tensione stessa ad eliminare la guerra.

Rispetto all'età dei totalitarismi, la cultura contemporanea offre nuove forme di attentati alla persona, che possono essere ricondotti a filosofie riduzionistiche, tra cui vanno annoverati il fisicalismo materialistico; il positivismo tecnologico; la cultura radicale centrata sul primato del desiderio di larghe masse di individui casuali; il consumismo edonistico basato sulla richiesta di una pronta soddisfazione di ogni tipo di bisogni.

Sono inoltre da considerare antipersonaliste le culture che riducono l'uomo a volontà di potenza, che predicano forme di darwinismo sociale, e le teorie di sociobiologi contemporanei, che vedono nella società umana solo meccanismi animali.

Non va minimizzata l'azione contro la pace che queste posizioni lamentano depositandosi nell'inconscio collettivo dei popoli.

3) Dialogo tra le religioni.

Con il ricorso al principio-persona si apre un terreno d'incontro sull'uomo e i suoi diritti, dove possono intervenire le grandi religioni monoteistiche e la coscienza religiosa compiere i suoi passi.

Scrive R. Panikkar: « Prova del cambiamento della coscienza religiosa del nostro tempo è il fatto che la pace tende a ritrovare la sua radice religiosa.

È con essa che non solo si approfondisce lo studio della pace, ma anche si purifica il concetto medesimo di « religione » …

Dobbiamo abbandonare l'idea che la pace ( politica ) non possa realizzarsi in questo mondo e che essa accadrà solo nell'aldilà per pura opera di Dio, esclusivamente per suo dono.

In questo modo non si consegna troppo facilmente la terra al conflitto? ».8

Ritrovando la sua radice religiosa, la pace dovrebbe ritrovare anche la sua radice « terrena », ossia l'assunto che possa essere edificata in questo mondo, sia pure in maniera imperfetta e precaria: che cos'altro è la nostra insistenza a superare le guerre tra Stati mediante la costruzione di un'autorità politica mondiale ( vedi oltre ), se non l'esito della convinzione che la pace politica è possibile?

Si tratta di abbandonare l'idea, forse ancora prevalente, che la pace si può realizzare soltanto oltre il tempo e il mondo, rassegnandoci per l'aldiquà alle soluzioni violente dei conflitti, ritenuti insuperabili.

L'attenzione verso le religioni aiuterebbe a non cedere allo scontro di una religione e di una cultura contro un'altra, e a costruire « terre di mezzo » aperte alla speranza.

La speranza di poter vivere con l'altro, di non essere dominati dalla memoria dei torti subiti, la speranza di costruire un mondo in cui tutti possano vivere con dignità.

La globalizzazione non può essere solo la libera circolazione dei beni; deve essere anche globalizzazione della solidarietà, del dialogo, della giustizia e della sicurezza.

In questo lavoro per la speranza bisogna costruire ponti, non muri.

Ponti tra culture, ponti tra fedi religiose.

Non possiamo farci trascinare nella logica perversa dello « scontro di civiltà ».

Nel dialogo si esprime la « forza debole » delle religioni e la critica ad ogni idolo.

Nel 1996, decennale dell'incontro interreligioso di Assisi ( 10 ottobre 1986 ), l'appello finale concludeva così: « Abbiamo fatto memoria delle vittime dei conflitti e delle ferite ancora aperte.

Solennemente ripetiamo l'invito alla pace.

Le religioni non spingono all'odio e alla guerra, non giustificano lo spargimento del sangue innocente.

Le religioni non vogliono la guerra ma la pace!

Non c'è santità nella guerra.

Solo la pace è santa! ( … )

Convinti che le religioni hanno una grande responsabilità nel predicare il perdono ci rivolgiamo a tutti coloro che uccidono o fanno la guerra in nome di Dio.

Ricordiamo loro che la pace è un nome di Dio.

Parlare di guerra di religione è un'assurdità.

Nessun odio, nessun conflitto trovi nella religione un incentivo ».

2. Beni esclusivi ed inclusivi

Nelle società umane incontriamo una grande varietà di beni, che possiamo suddividere in beni esclusivi e beni inclusivi.

I primi, generalmente i beni materiali, sono indispensabili alla prosecuzione della vita, vengono appropriati e consumati individualmente e non sono in genere compartecipabili: per questo li denominiamo « esclusivi » nel senso che se A consuma un certo bene, B non lo può consumare contemporaneamente.

Sono beni non permanenti in quanto l'uso da parte del singolo li distrugge e vanno dunque costantemente ri-prodotti nell'incessante ciclo della natura e attività economica.

Quando, come è frequente il caso, non sono in quantità sufficiente o sono sufficienti ma mal distribuiti, scatenano la lotta per l'appropriazione.

Viceversa i beni che chiamiamo inclusivi, generalmente di tipo culturale e immateriale, vengono non consumati ma fruiti e perciò non patiscono in genere né distruzione né diminuzione, e possono traversare il tempo mantenendosi nella dimensione della durata.

Essi, in linea di principio disponibili per tutti, si sottraggono alla lotta per l'appropriazione e possono includere invece che escludere.

Anzi può accadere che la loro fruizione da parte di molti conduca alla compartecipazione e ad un innalzamento collettivo.

L'arte con la fruizione della bellezza che le è intrinseca, è uno, ma non l'unico, degli esempi più persuasivi del rilievo dei beni inclusivi.

Una posizione personalista, senza minimamente sottovalutare il rilievo eccezionale dei beni esclusivi ( ed in verità come sarebbe possibile, quando beni essenziali per la prosecuzione della stessa vita fisica sono negati a tanti? ), osserva che nell'edificazione della pace l'attenzione vada indirizzata anche verso l'area dei beni inclusivi e accomunanti che generano cooperazione e relazione, invece che sulla tensione al possesso, che produce aggressività, competizione ed esclusione.

La strada della pace va verso una crescente partecipazione ai duraturi beni della civiltà umana, che sono spirituali e inclusivi ( amicali, morali, poetici, conoscitivi, religiosi ).

La loro logica è la gratuità: liberamente vengono creati, liberamente circolano e vengono fruiti.

La divisione è la logica dei beni esclusivi dove il riconoscimento del diverso è tanto più difficile quanto più si entra in concorrenza, la partecipazione gratuita è quella dei beni inclusivi.

Per aumentare le probabilità della pace sono necessari tanto una giusta ripartizione dei beni esclusivi, quanto un incremento della sfera dei beni inclusivi.

La pace come assenza di guerre è un bene inclusivo, ed insieme insufficiente, in quanto possono permanere focolai di violenza, di ingiustizia, violazioni dei diritti dell'uomo, paura, oppressione.

Questa valutazione guida gli autori personalisti: bisogna rendere la pace non soltanto un bene insufficiente, ma un bene sintesi, un bene completo.

Se dopo la scoperta delle armi nucleari la guerra non è più proponibile, bisogna che la necessità della pace sia garantita da una nuova struttura politica e sociale del mondo, contrassegnata dal motto: « pace mediante il diritto, le istituzioni, la giustizia », definendo in positivo la pace e oltrepassando la posizione che la determina come assenza di guerra e di ricorso alla forza.

Quest'ultima determinazione di pace che Kelsen configura come « una situazione caratterizzata dall'assenza della forza »,9 appare insufficiente poiché si allontana dall'idea che la pace è opera di giustizia ( opus justitiae pax ): là dove vive l'ingiustizia potrà esservi assenza di guerra e di forza, ma non vi è vera pace.

« La pace non è la semplice assenza di guerra, ma essa viene definita con tutta esattezza: opera della giustizia, opus justitiae pax », osserva il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes ( n. 78 ).

Una profonda solidarietà lega i vari livelli della pace.

Non si può parlare della pace internazionale nel rapporto tra gli Stati, senza cogliere il rinvio alla pace dei cuori e alla conversione delle coscienze, senza cui l'avvento della pace internazionale e le garanzie del diritto restano insufficienti e precari.

Ne si può porre l'accento sulla rigenerazione spirituale del soggetto senza contemporaneamente sentire che la costruzione della pace in noi richiede la fondazione della pace fuori di noi, nelle strutture.

La posizione personalista appare ben equipaggiata per comprendere le nascoste origini psicologiche della violenza e della guerra e per avviare un processo d'educazione alla pace.

Sappiamo che la guerra è crudele e tremenda; se pochi la vogliono, e malgrado ciò avviene, debbono esserci in noi condizioni che non siamo ancora in grado di percepire distintamente.

Un grande servizio d'educazione alla pace consiste nell'assumere coscienza dei pericoli insiti negli istinti ereditati da migliaia di generazioni passate, che dominano la nostra vita crepuscolare tra conscio e inconscio: la violenza, l'angoscia del nuovo, il timore dell'ignoto, l'aggressività che nasce dalla paura verso l'estraneo, la proiezione all'esterno delle nostre tensioni, forse una segreta propensione verso la morte quale segno di dimissione dalle fatiche della vita, la punizione verso noi stessi e gli altri con la quale cerchiamo di vendicarci per i nostri fallimenti.

In tutto ciò hanno origine gli ostacoli alla pace: la guerra è anche una trasposizione all'esterno del conflitto tra odio e amore che si svolge dentro di noi; la paura che abbiamo di essere meno amati degli altri, di essere in svantaggio al banchetto della vita, scatena la nostra avidità e la nostra invidia.

Se nascondiamo a noi stessi quanto pericoloso sia l'aggressivo desiderio di soppressione del rivale, sia esso persona o nazione, siamo vittime della legge del taglione, nella quale è ancora radicata buona parte della nostra esperienza interiore.

3. La guerra non è un destino

1) La guerra come prosecuzione delle politica.

La guerra è un prodotto dell'azione e delle scelte umane.

Le guerre le fanno gli uomini: non sono catastrofi naturali ma disastri evitabili, poiché possiedono delle cause che possono essere identificate e rimosse.

Fra queste si annovera l'etica di politici e statisti, che spesso è l'etica della potenza, l'affermazione del principio della Forza come legge della storia contro o sopra l'ideale della Giustizia: in certo modo Machiavelli contro Platone.

L'etica della potenza ignora le risorse della pace: « La storia comunemente conosciuta è la registrazione delle guerre del mondo …

Se nel mondo fosse avvenuto soltanto questo l'umanità avrebbe cessato di esistere da lungo tempo …

Il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi, ma sulla forza della verità o dell'amore ».10

Una lunga tradizione ritiene invece che la guerra sia una naturale manifestazione della politica, di modo che il rapporto tra politica e guerra è di continuità.

Poiché la politica raccoglie e spesso contrappone uomini, la guerra sarebbe inevitabile, un risultato del disordine esistente nei soggetti e nelle società.

A tali posizioni si deve rispondere che la guerra è un atto politico, uno dei massimi e più tragici, non una fatalità o un destino.

La celebre frase di Clausewitz « La guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi » dice appunto con la sua scomoda verità che la guerra è un atto politico e nient'altro; e che - aggiungiamo noi - per eliminare la guerra è necessario cambiare alla radice l'atto politico e i rapporti fra comunità politiche.

La dichiarazione di Clausewitz forse non è cinica ma rispecchia ciò che emerge da un esame del rapporto politica-guerra.

Il suo massimo limite risiede altrove: ciò che manca alla ricerca clausewitziana è la possibilità di ingiustificare la guerra in base ad atti ed analisi politiche, di una politica « altra » rispetto a quelle per la quale la guerra è un mezzo.

Il paradigma da lui adottato considera la guerra un elemento immanente alla ragion politica, che è pensata secondo lo schema della potenza dello Stato.

Considerando la guerra come appartenente alla storia naturale della politica e della potenza, non può neppure iniziare la ricerca sui modi con cui tentare di superarla.

Clausewitz si arresta come un soldato che non guarda oltre il suo oggetto scientifico immediato.

Non sembra preoccupato dall'idea che una politica degna di tale nome debba assumere il compito di ingiustificare la guerra e la concezione dello Stato come entità suprema cui tutto il resto è subordinato.

Tale sembra il punto debole della sua ricerca sulla guerra, cui si aggiunge in seconda battuta la sordità all'aspetto etico e umano del tema.

La guerra è studiata in vitro, senza nessi con l'uomo e la sofferenza: « La guerra è un atto della violenza, e non c'è limite alcuno al suo impiego », oppure « Nella filosofia della guerra non può mai essere introdotto un principio di moderazione senza incorrere in un'assurdità », il che significa che occorre bandire benevolenza, spirito umanitario e invece nutrire intenzioni intrinsecamente ostili salendo nell'azione bellica senza riguardi all'estremo.11

2) Il nodo della sovranità.

In ordine alla ingiustificazione e al superamento della guerra tra Stati, un'analisi strutturale dei rapporti internazionali ha da tempo avanzato la risposta che si impone: occorre privare lo Stato sovrano del monopolio della guerra e della pace che in specie nella modernità gli è appartenuto, quando il polemos è stato attratto nell'orbita dello Stato e questo ha gestito come cosa esclusivamente sua lo ius ad bellum.

La guerra è coessenziale alla sovranità, la quale è particolare, anarchica, volta al proprio interesse e perciò in linea di principio aperta allo scontro.

Superare la sovranità dello Stato significa recuperare il carattere universale della ragione politica, frammentata nel particolarismo degli Stati, e far emergere il principio-persona al centro della vita sociale, operando per la formazione di uno spazio politico universale e razionale.

Dobbiamo prendere sul serio le istanze dell'universalismo cristiano e di quello moderno, d'altronde collegate, e riferirle al principio-persona, anch'esso universale.

La ragione umana e la ragione politica non possono più restringersi ai soli ambiti della sovranità statale, ma cercare nuova vitalità in una ragione politica universale, eticamente aperta all'altro.

Universalismo antropologico e apertura morale debbono darsi la mano, nel tentativo di disarmare la ragione armata, separando la continuità che spesso intercorre tra ragione e guerra, tra logos e polemos, quando la ragione si pone al servizio della potenza.

3) Il dovere della pace.

Sono almeno quattro le filosofie della storia che considerano la pace un auspicabile punto d'approdo della vicenda storica: l'illuminismo, il positivismo saintsimoniano e comtia no, il marxismo, il personalismo ed « ecumenismo » cristiani.

Nonostante alcuni punti di contatto, le loro diagnosi non sono convergenti: una differenza importante consiste nella diversa valutazione che viene attribuita al ricorso alla violenza.

Per l'illuminismo il cammino verso la pace esige che prevalgano Stati a regime repubblicano ( ossia democratico ): Stati dunque né dispotici né totalitari, con il corollario che un insieme di Stati democratici può senza insormontabili difficoltà evolvere verso forme federative d'ampiezza crescente.

Per il positivismo la pace sta in fondo al cammino che conduce dagli Stati e dalle società militari a quelli industriali: la pace sarebbe un sottoprodotto della trasformazione da organizzazione militare ad organizzazione produttiva della società, un frutto della rivoluzione produttiva che si espande mondialmente e della rete di commerci che favorisce.

In prospettiva marxista è l'abbattimento del capitalismo imperialistico a costituire la necessaria e sufficiente premessa per l'edificazione della pace: questa fiorirà nella « città salvata » del comunismo realizzato.

Il personalismo cristiano ritiene che il cammino verso la pace sia molto più impervio di quanto ritengano le precedenti dottrine, alcune delle quali sono state smentite seccamente dai fatti.

Esso pone l'accento, oltre che sui fattori strutturali e geopolitici, su quelli etico-personali, sulla lotta tra bene e male che si svolge nella persona e sulla libertà che l'uomo possiede di scegliere tra l'uno e l'altro.

A livello strutturale individua nell'odierna situazione internazionale la necessità di un nuovo ordine economico che garantisca la libertà dalla fame; e quella di istituzioni pubbliche mondiali.

Il pensiero politico del personalismo, a differenza del positivismo e del marxismo ma in ciò vicino al pacifismo illuminista, non considera la pace come un risultato presto o tardi inevitabile del processo storico, bensì come un ideale o un dovere da raggiungere.

Una specifica novità è che dal XVIII secolo in poi sono aumentate le voci che elevano la pace a dovere, ad obiettivo che deve mettere in moto tutte le risorse umane, onde porre termine all' « età di Clausewitz », come si esprimeva G. La Pira.

Se la pace non è un esito necessario dell'evoluzione storica, ma è soltanto possibile, la sua possibilità eleva un dovere morale di prima grandezza: quello di edificarla e non di attenderla come qualcosa che il processo politico immancabilmente ci darà col passaggio dalla preistoria alla storia.

Un'esperienza universale rende edotti che la guerra non è « destinata » a scomparire nel senso che per una necessità tanto oscura quanto misteriosa essa finirebbe per dileguarsi.

Ma la guerra deve scomparire nel senso che la sua abolizione stabilisce un dovere morale: si tratta di assumere il progetto di abolire la guerra ( almeno quella fra Stati ).

Se la guerra non si elimina da sola, ma è ingiustificabile e inaccettabile, la pace rappresenta un compito morale, sebbene non abbiamo certezze che la pace perpetua sarà mai raggiunta.

Secondo Kant esiste per noi un dovere morale assoluto di operare per la pace.

È nostro dovere agire secondo l'idea di un tale fine ( che la ragione comanda ), anche se ci fossero scarse probabilità che esso possa essere conseguito.

Una visione deontologica della politica rimane una partenza indispensabile, specialmente se in rapporto ai diritti e doveri dei singoli sarà sviluppata la parte nuova dei doveri degli Stati, con l'applicazione dell'etica alle relazioni internazionali.

Questa prospettiva è svolta da L. Bonanate secondo cui è possibile « individuare una serie di doveri degli stati, doveri morali in primo luogo, ma poi anche giuridici »,12 in rapporto alla crescita del nuovo diritto internazionale dei diritti umani.

4. Globalizzazione politica, superamento della sovranità, federazione mondiale

1) Dinanzi al dovere della pace con giustizia si pone come ostacolo primario la frammentazione della famiglia umana in unità politiche separate, di cui Kelsen diceva: « Solo temporaneamente e nient'affatto per sempre l'umanità si divide in Stati, formati del resto in maniera più o meno arbitraria ».13

Il punto di partenza cui tornare senza riposo è che esiste un bene comune universale, oggi avvertibile ancor più fortemente del passato, da assicurare per tutti.

Con urgenza si pone la domanda se l'attuale organizzazione politica ed economica internazionale sia in grado di procedere verso la costruzione del bene comune planetario e la promozione dei diritti umani, o manifesti il bisogno di incisive riforme strutturali e concreti passi avanti.

Affinché la pace si consolidi e progredisca occorre, oltre alla buona volontà di tutti, un'istanza politica suprema, in mancanza della quale nessuno potrà legittimamente prendere in carico il problema pace né quello del bene comune.

La grande contraddizione che rode dall'interno la questione, è che non pochi desiderano la pace, mentre sinora non esistono un'autorità politica mondiale e istituzioni planetarie, dotate di poteri sufficienti a porre la pace come il loro scopo obbligante e a raggiungerla di fatto.

Nel compito di tali istituzioni rientrerebbe l'accentramento al più alto livello dell'uso della forza legittima.

Si tratta di aspetto molto notevole ma tutt'altro che unico, nel senso che per l'ideale della pace-giustizia e della edificazione di un bene comune della società mondiale non ci si può limitare al monopolio della forza legittima.

Il cammino tratteggiato si basa almeno su una constatazione difficilmente smentibile, ossia che in una situazione di vuoto politico internazionale e di dissidi tra gli Stati, non potendosi stabilire il torto e la ragione da parte di un'autorità superiore, la norma è il ricorso alla guerra, e la vittoria spesso non del più giusto ma del più forte.

Uscire dalla logica dello scontro, secondo cui l'esito di un contrasto è la guerra e la disfatta del nemico, implica l'avviarsi verso soluzioni sovrastatuali.

È giusto fondare l'idea di un'autorità politica mondiale sul fatto accertato dell'anarchia delle relazioni internazionali, ma è ancora più giusto fondarla sull'inadeguatezza dell'attuale organizzazione politica del mondo in ordine al concreto bene comune della società mondiale.

2) In questo ambito concettuale giocano un ruolo fondamentale la nozione di anarchia del sistema internazionale e quella di sovranità, su cui qui non mi dilungo, avendo sviluppato il tema altrove, limitandomi a riassumere il succo della questione.14

L'irrazionalità dell'attuale organizzazione politica del mondo è causa della mancanza di pace, la quale in linea di principio non può esserci finché uomini e nazioni cercano di vivere insieme senza un'autorità comune, cioè in una condizione di anarchia: la ragione giuridico-politica della condizione di guerra è l'inorganizzazione o il disordine politico e giuridico della società delle nazioni.

Sotto tale profilo non moltissimo è cambiato nella struttura delle relazioni internazionali dai tempi delle guerre del Peloponneso indagate da Tucidide: tali relazioni continuano ad incarnare lotte ricorrenti per la ricchezza e la potenza tra attori indipendenti in una condizione di anarchia.

Anche da questo lato siamo condotti alla centralità del tema della sovranità.

Maritain riteneva che la sua stessa nozione dovesse essere cancellata, perché richiama l'idea di un potere assoluto e trascendente dello Stato rispetto al corpo politico all'interno ( assolutismo e totalitarismo ), e libero da ogni ipoteca morale in campo internazionale dove è guidato solo dalla ricerca del suo interesse.15

Pure Rawls è pienamente consapevole della serietà del tema, sino a dichiarare senza reticenze: « We must reformulate the powers of sovereignty in light of a reasonable Law of Peoples and deny to states the traditional rights to war and to unrestricted internal autonomy ».16

I problemi della guerra e della pace non sono più risolubili, se mai lo furono, né entro il quadro dello Stato-nazione né attraverso le vie dell'accordo esclusivo e bilaterale degli Stati sovrani.17

Se gli Stati perlopiù si rapportano in una condizione di anarchia, in cui non esiste un'istanza superiore capace di decidere ed arbitrare, i loro scontri periodici disegnano una sorta di storia naturale della guerra e della distruzione.

Ed è dinanzi a tale diagnosi che nel Novecento, dopo le due guerre mondiali, si è cercato di creare istanze superiori con la Società delle Nazioni e l'Onu, sebbene esse non vadano alla radice del male e non possano che limitarlo, non estinguerlo, poiché risultano da un patto associativo tra Stati sovrani in cui non si configura un'autorità politica sovra-ordinata: la presenza del diritto di veto attribuito in sede ONU ad alcuni Stati è eloquente.

Le istituzioni di cui discorriamo sono organismi creati e messi in moto dagli Stati sovrani, di cui non possono che registrare le decisioni.

Oggi la Società delle Nazioni non c'è più, mentre l'ONU è in serie difficoltà, ed alcuni vorrebbero sbarazzarsene, prendendo occasione dalla attuale crisi dei sistemi di organizzazione giuridica collettiva, in genere paralizzati dinanzi ai conflitti in corso.

Se esiste in una minoranza elitaria un aumento di coscienza pacifista, si avverte nell'umanità che conta e che decide, un grave arretramento, impensabile anche soltanto venti fa, una desensibilizzazione sul piano giuridico e politico, una volontà di procedere per conto proprio.

La guerra ( preventiva ) diventa una questione di volontà, non di legittimità, capace di scavalcare ogni istanza.

Le valutazioni più attente convergono però nell'ammonire che la condizione del pianeta non consente di indebolire, nonostante i limiti appena segnalati, il ruolo d'istituzioni sovranazionali faticosamente edificate dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale al prezzo di pesanti difficoltà e sacrifici.

Il loro smantellamento costituirebbe una regressione e aprirebbe scenari inediti, dovuti al venir meno di una sede planetaria di dialogo e dibattito dove le voci dei governi e dei popoli possano essere ascoltate e partecipare alle decisioni.

Se l'attuale struttura dell'ONU, in quanto espressione di Stati membri che la costituiscono e che mantengono intatta la loro sovranità nelle scelte che più contano, è per vari aspetti obsoleta, la via d'uscita migliore non è porre l'ONU sotto la tutela dei potenti di turno, ma farla evolvere verso la costituzione di reali poteri pubblici capaci di un multilateralismo planetario, per porre rimedio alla grande contraddizione, quella per cui il villaggio globale è senza governo.

L'enciclica Pacem in terris ( 1963 ) ha espresso in termini oggettivamente persuasivi e per nulla moralistici tale prospettiva: « I Poteri pubblici delle singole Comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica fra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell'elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente; e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale.

Si può dunque affermare che sul terreno storico è venuta meno la rispondenza fra l'attuale organizzazione e il rispettivo funzionamento del principio autoritario operante su piano mondiale e le esigenze obiettive del bene comune universale …

Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale.

Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti ».18

Prolungando il discorso dell'enciclica, si potrebbe aggiungere che gli auspicati Poteri pubblici dovrebbero possedere una struttura federale, entro uno sviluppo così descrivibile: di federazione in federazione sino alla federazione mondiale.

La strutturazione dell'autorità dal basso verso il livello mondiale sarà a molti strati ( multilayered ), disposta secondo sussidiarietà, entro criteri fondamentali di coordinamento: la pace non nascerà dalla mano invisibile o da un polimorfismo di centri di autorità tra loro indipendenti e in concorrenza, ma da un quadro e un progetto voluti.

La Pacem in terris oltrepassa e completa l'opera anticipatrice di L. Sturzo, La comunità internazionale e il diritto di guerra, pubblicata a Londra nel 1929, dove la questione dell'abolizione della guerra è posta con forza sin dalle prime pagine: va oltre nel senso che non si limita a rilevare che il monopolio dell'uso della forza legittima al più alto livello, quello mondiale, allontanerebbe lo scatenamento periodico della violenza tra gli Stati, ma indica il cammino della formazione di una società politica mondiale con autorità di pari livello.

Così suona la tesi di Sturzo: « Il problema, pertanto, che noi ci poniamo è questo: 'Se e come l'istituto della guerra sia eliminabile nell'organizzazione internazionale… '»

La guerra non è fatale, non è necessaria, ma è volontaria, sono gli uomini, determinati uomini, pochi o molti, i responsabili della guerra, di ogni guerra, anche quando dicono di non volerla ».19

Sturzo, che ritiene necessaria la limitazione della sovranità degli Stati e la formazione di un'organizzazione internazionale dotata di potere coercitivo, individua la grande contraddizione nel fatto che « nello Stato tutti i cittadini sono disarmati e solo il potere politico è armato; nella comunità internazionale tutti gli Stati sono armati e solo l'autorità internazionale è disarmata » ( p. 202 e s. ).

Molto probabilmente gli uomini non potranno risolvere i conflitti senza mai ricorrere all'uso della forza, ma se tale uso è monopolizzato in un'autorità politica sovranazionale, allora decade l'idea e la possibilità stessa della guerra quale scontro fra Stati.

In questo modo Sturzo andava oltre la constatazione della fine dello jus publicum europaeum che per alcuni secoli aveva regolato il « diritto di guerra », per impostare il tema della sua eliminabilità quale diritto sovrano dei singoli Stati.

3) E questo obiettivo ragionevole o meno?

Hanno ragione i pacifisti quando invitano a lottare per la pace?

Prima di abbozzare una risposta è opportuno interrogarsi sul significato di termini quali « pacifismo » e « pacifista », chiedersi se non si debbano introdurre altri termini quali pacifico, pacificatore, almeno come aggettivi poiché il sostantivo « pacifismo » non pare avere alternative.

La situazione è scomoda perché « pacifismo » rischia d'essere ambiguo.

Spesso l'opinione pubblica vi proietta un significato negativo, come se il pacifista fosse disposto a cedimenti, a chiudere gli occhi sull'ingiustizia e la violenza pur di ottenere la pace.

Sarebbe il pacifista uno che ama la pace solo nel senso che vuole starsene in pace e, come si dice icasticamente, farsi i fatti suoi e tenersi lontano dai fastidi?

La beatitudine evangelica non parla solo di persone che sono in pace con se stesse, e ancor meno di coloro che non vogliono fastidi, ma di quelli che « fanno pace », operano per la pace, costruiscono pace: eirenepoioi è il termine impiegato dal Vangelo di Matteo ( Mt 5,9 ).

« Beati gli operatori di pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio » è la traduzione dal greco.

Il pacifico è insieme un pacificatore, non sta in pace solo con se stesso, ma crea la pace sociale e politica intorno a sé: è un pacifista attivo, un facitore di pace.

I pacifici sono « uomini di pace » che cercano la verità e rifuggono dalla menzogna, che è componente essenziale della condizione di guerra.

Il pacifismo senza protagonisti pacifici e pacificatori rischia di tradire lo scopo della pace.

Il pacificatore attivo e lungimirante può percorrere vari cammini, tra cui primario quello di edificare mediante la politica e il diritto poteri pubblici di livello crescente.

Bobbio nel suo bei libro Il problema della guerra e le vie della pace osserva che il pacifismo attivo ha dinanzi a sé tre strade:

a) il disarmo esteso e controllato,

b) la via istituzionale, che interpreterei come il superamento dell'attuale sistema internazionale fondato sugli Stati sovrani e il passaggio ad un sistema politico planetario basato su poteri pubblici sopranazionali e infine mondiali,

c) la riforma morale e pedagogica della natura umana, nell'intento di far emergere in essa il lato di luce contro quello d'ombra.

Il primo obiettivo è il meno difficile ma anche quello che offre minori chances di condurre alla pace mondiale ( eppure, a dispetto della sua relativa fattibilità, la ripresa della corsa agli armamenti e di spese militari sempre più smisurate è un dato che impressiona e che non apre alla speranza ); mentre il terzo sarebbe il più efficace, se è vero che la sorgente ultima delle guerre stia nell'aggressività umana, ma è anche il più arduo.

Come giungere a modificare la natura umana?

Come intervenire nel fitto tessuto d'amore, odio, paure, emozioni, repulsioni che vivono in noi?

La via più efficace e realistica, ma tutt'altro che scontata, alla pace è di secondo tipo.

La possiamo chiamare via politico-giuridico-istituzionale:

politica poiché prende in esame gli Stati quali unità politiche basali, il loro funzionamento, e la loro sovranità;

giuridica in quanto cerca nel diritto internazionale e nell'oltrepassamento della sovranità uno strumento di superamento dello scontro bellico;

istituzionale in quanto prefigura nuove istituzioni e autorità politiche disposte secondo sussidiarietà su scala planetaria ( e perciò non nell'inaccettabile forma del superStato mondiale ), una funzione delle quali è, come detto, di accentrare al livello più alto l'uso della forza.

In questo pacifismo si perviene all'eliminazione di una forma fondamentale di guerra, quella fra Stati, mediante il congiunto operare di politica, diritto e sapienza istituzionale.

Non si perviene all'eliminazione d'ogni forma di violenza e di ricorso alla forza.

Oggi la costituzione di un'autorità politica mondiale rappresenta una possibilità lontana, un ideale storico verso il quale spingono potenti ragioni, ma che non sappiamo se e quando si realizzerà.

In tale situazione e nonostante ogni difficoltà, dobbiamo agire per porre i suoi fondamenti remoti, come se il risultato fosse assicurato e la cosa senz'altro possibile, non solo perché vi è un dovere morale di agire così, ma anche perché tale dovere è fondato intellettualmente in un'analisi strutturale dei rapporti internazionali.

Si tratta di prendere atto in modo consapevole che l'attuale organizzazione del sistema politico internazionale, ancora largamente basata sullo Stato-nazione e sulla sua sovranità, è ormai del tutto inadeguata alla nuova dimensione dei problemi.20

5. Principio-persona e nonviolenza

1) Il compito della filosofia consisterebbe nel disarmare la ragione armata.

La nonviolenza agevola tale cammino.

2) Il filosofo personalista può sperare, anzi ha lo stretto dovere di farlo, ma non può sapere se il principio-persona si estenderà su scala planetaria oltre il mondo storico-spirituale in cui prese vita e slancio.

Solo una filosofia profetica della storia potrebbe saperlo, ma una tale filosofia non esiste.

Anche le filosofie ottimistiche del costante progresso verso il meglio hanno fatto il loro tempo, o comunque non conosciamo se abbiano ragione.

Se però accadrà che il principio-persona raggiunga concreta estensione mondiale - tale obiettivo è forse il massimo che la libertà dell'uomo possa porsi - dovranno prendere slancio nuove concezioni di lotta politica e una nuova riflessione sui mezzi pesanti o carnali e sui mezzi poveri e nonviolenti di azione.

In essi rientrano il dialogo, la trattativa, la ricerca della comunicazione umana, la mitezza, la non-collaborazione con l'avversario oppressore, il rifiuto di ricorrere alla violenza nelle sue varie forme, la preghiera.

Tra i metodi nonviolenti di lotta politica spicca in specie la nonviolenza attiva, distinta da quella in cui si opera una mera resistenza passiva.

La nonviolenza attiva è una forma d'azione che dista infinitamente dalla scelta dell'inazione, dal quietismo passivo di chi si ritrae.

La nonviolenza attiva, seguita secondo l'ispirazione di Gandhi, di Lanza del Vasto, di Capitini, di M. L. King è una strada aperta verso il futuro capace d'interpellare i forti e i superbi, e forse di piegare i malintenzionati.

Questa strada sta lentamente passando dall'irrisione, di cui la nonviolenza è stata fatta segno dai cosiddetti realisti e benpensanti, ad un maggiore livello critico d'elaborazione e all'applicazione concreta.

Si tratta di una necessità assoluta che va oltre la buona volontà dei singoli.

Il XX secolo è cominciato con un processo di rapida globalizzazione della violenza che è sfociato in due guerre mondiali e l'invenzione e costruzione in massa di armi termonucleari con le quali è possibile cancellare l'intero genere umano.

Il nuovo millennio si è aperto con guerre, terrorismi, estese globalizzazioni tutt'altro che prive di violenza.

3) Sulla nonviolenza Gandhi meditò, agì, scrisse lungo tutta la vita.

« Non pretendo di essere perfetto.

Ma pretendo di essere un appassionato ricercatore della Verità, la quale non è altro che un sinonimo di Dio.

È nel corso di tale ricerca che ho scoperto la nonviolenza.

La diffusione di essa è la missione della mia vita.

Non ho altri interessi nella vita che lo svolgimento di questa missione …

È inutile che io ripeta ancora una volta che la non violenza del forte è la forza più grande che esista al mondo …

Per questo nostro mondo tormentato non vi è alcuna speranza di salvezza se non nella stretta e diritta via della nonviolenza.

È possibile che milioni di persone come me non riusciranno a dimostrare tale verità nel corso della loro vita, ma il fallimento sarà loro, non della legge eterna ».21

Queste espressioni indirizzano ad approfondire i nessi tra persona e nonviolenza.

Se il personalismo del Novecento è stato una feconda ripresa e rinnovamento di un perenne nucleo di realtà, la nonviolenza gandhiana rimane una scoperta essenziale che ha aperto nuovi campi all'azione.

Una conferma dell'omologia tra principio-persona e nonviolenza si trae dal fatto che spesso furono gli autori personalisti ad avvertire l'importanza della lezione di Gandhi.

Il personalismo francese, forse più di quello italiano talvolta tinto di accademia, colse con Massignon, Maritain, Mounier e successivamente Ricoeur l'altezza della testimonianza del saggio indiano.22

4) La nonviolenza non è sotto mentite spoglie una nuova forma di buonismo razionalistico, che si aspetta il trionfo definitivo della verità e del bene perché appunto sono la verità e il bene.

Il termine gandhiano di Satyagraha significa « forza della verità », non sua vittoria.

Vi sono numerose tecniche nonviolente che possono essere messe in pratica da persone di buona volontà, ma un'effettiva fiducia storico-pratica nel metodo della nonviolenza richiede l'accettazione della legge dell'amore e in certo modo la fede in un governo divino del mondo: Gandhi e Maritain si sono espressi in merito.

Tratteggiando le caratteristiche e le condizioni del successo della nonviolenza Gandhi osserva:

« 1) La nonviolenza è la legge della razza umana ed è infinitamente più grande e più potente della forza bruta.

2) Essa non può essere di alcun aiuto a chi non possiede una fede profonda nel Dio dell'Amore …

5) La nonviolenza è un potere che può essere posseduto in eguai misura da tutti - bambini, ragazzi, ragazze, e uomini e donne adulti - posto che essi abbiano una fede profonda nel Dio dell'Amore e che quindi possiedano un ugual amore per tutto il genere umano ».23

Secondo Maritain l'uomo politico « deve vivere di speranza.

È possibile vivere di speranza senza vivere di fede? …

Io non credo che in politica gli uomini possano sfuggire alla tentazione del machiavellismo se non credono all'esistenza di un governo supremo e propriamente divino dell'universo e della storia ».24

La nonviolenza del Satyagraha è la nonviolenza dei forti, di coloro che in sommo grado sono capaci di sopportare, e ciò la diversifica senza ombra di dubbio dalla debolezza dei codardi o dei rinunciatari.

Il nonviolento pratica al massimo grado la virtù di fortezza il cui atto fondamentale consiste nel sopportare più che nell'attaccare: in sustinendo tristia maxime aliqui fortes dicuntur, osserva l'Aquinate riprendendo un detto di Aristotele.25

È veramente forte colui che governa se stesso sopportando ogni male e la tristezza senza perdere l'orientamento verso il bene e la speranza.

Illustrando il senso del Satyagraha, Gandhi spiegò che « pazienza significa disposizione a soffrire » ; e il suo metodo consiste nella difesa della verità attuata non infliggendo sofferenze all'avversario ma a se stessi.

5) La nonviolenza in certo modo si colloca più in alto del pacifismo, se questo si limita a ripudiare la guerra come la forma più macroscopica e ripugnante di violenza.

In senso proprio il pacifista manifesta avversione alla guerra e scelta per la pace, mentre il nonviolento è sensibile a tutte le forme di violenza, tra cui certo quella politica ma anche quelle di tipo strutturale-economico e culturale ( intendo con questo termine le forme di violenza ed oppressione che sono depositate in idee e costumi tramandati e che possono incorporare disprezzo per l'altro ).

Il nonviolento rifiuta l'amoralità della politica e il dualismo tra etica pubblica e privata, ed è convinto dell'omogeneità tra mezzi e fini, ossia che mezzi impuri producono un fine impuro.

Inoltre la nonviolenza non è mera teoria ma prassi che cerca di mettere a punto metodi e tecniche efficaci di lotta nonviolenta: da quelli impiegati dalle classi lavoratrici nella lotta tra capitale e lavoro, a quelli praticati nella lotta per l'indipendenza di un popolo o per l'affermazione di fondamentali diritti umani.

La nonviolenza cerca di spengere la fiamma dell'odio e della violenza in radice.

Essa vuole assorbire nell'amore e con l'amore il colpo della violenza, vuole evitare che si propaghi in un'ininterrotta dialettica di colpo, reazione e nuovo colpo, dove la regola rimane quella del mors tua vita mea.

Alla domanda se solo il polemos stia alle radici dell'essere e dell'uomo, la nonviolenza risponde che non è così, che tale posizione è falsa, e che occorre limitare il polemos con i mezzi dell'amore e della libertà.

La nonviolenza non è utopia ma profezia, a partire dall'idea che nessuna logica necessitaria che obblighi alla violenza e all'odio è inscritta nell'essere: mentre l'utopista disegna a tavolino rapporti e perfezioni meramente pensate, il profeta si attiva qui ed ora per agire.

Il nonviolento rifiuta la disperata logica di Nietzsche secondo cui la volontà di potenza sta alla base della vita e della realtà, un assunto che continua ad avvelenare tante vite e tanti pensieri, poiché volontà di potenza e volontà di violenza confinano pericolosamente.

Assumere che la persona sia volontà di potenza e nient'altro, è una posizione antipersonalista disastrosa.

La questione della nonviolenza è più ampia di quella della risposta ad un ingiusto aggressore od oppressore, e si estende a tanti campi della vita.

Nella vita il primo movimento è l'amore per l'altro: all'inizio l'altro sono io, che vengo accolto e amato entrando nell'essere con la nascita, e che così divengo capace di amare.

Amo, ergo sum.

« Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli.

Chi non ama rimane nella morte … Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore » ( 1 Gv 3,14; 1 Gv 4,8 ).

6) La nonviolenza agisce sugli strumenti, le istituzioni, gli uomini, cercando un'omogeneità tra fine e mezzi: se lo scopo è la pace essa non può che essere opera di mezzi pacifici.

La nonviolenza come pedagogia dell'umanità si spende affinché gli uomini si convertano ad uno stile di vita nonviolento e mite.

Dopo la seconda guerra mondiale sono aumentate le riflessioni, le ricerche, le pratiche per sperimentare tecniche nonviolente di difesa e resistenza che vanno dalla disobbedienza civile al rifiuto di collaborare e simili.

Una vastissima letteratura è disponibile, di cui in nota segnalo solo alcuni pochi titoli.26

Si è cominciata a stendere una storia della nonviolenza, « che è anche la storia delle lotte contro la violenza degli "uomini irragionevoli".

E sorprendente che questa storia non abbia maggiormente attirato l'attenzione degli uomini "ragionevoli" che raccomandano e giustificano la violenza ».27

Tale storia avvalora una fondata persuasione di Aldo Capitini: « Esistono vittorie senza violenza ».28

In genere i "realisti" nutrono molti dubbi sull'efficacia della resistenza nonviolenta, in specie di fronte ad un avversario pronto a colpire duramente, come è stato il nazismo.

Eppure anche nei suoi confronti alcuni risultati vennero raggiunti.

« La storia degli ebrei danesi è una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro Paese d'Europa, occupato o alleato dell'Asse o neutrale e indipendente che fosse.

Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le università dove vi sia una facoltà di scienze politiche, per dare un'idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l'avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.

Certo, anche altri Paesi d'Europa difettavano di « comprensione per la questione ebraica », e anzi si può dire che la maggioranza dei Paesi europei fosse contraria alle soluzioni « radicali » e « finali ».

Come la Danimarca, anche la Svezia, l'Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall'antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese osò esprimere apertamente ciò che pensava.

L'Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d'ingegnosità, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale.

Era esattamente l'opposto di quello che fecero i danesi.

Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni ».29

I nazisti desistettero.

7) Nutro stima e consonanza per la prospettiva nonviolenta, e mi auguro che essa possa penetrare sempre più in profondità nei rapporti tra gli uomini e nei gruppi politici, mettendo a fuoco e raffinando le tecniche di positiva azione nonviolenta.

Non penso però che sia possibile eliminare completamente l'uso della forza e della sanzione nei rapporti sociali e politici.

Conseguentemente reputo necessario muovere verso il monopolio mondiale dell'uso della forza accentrato in poteri pubblici planetari rappresentativi, come antidoto alla guerra internazionale.

Come già evidenziato nelle pagine precedenti, non si tratta dell'obiettivo politico più alto, che sta nella costituzione di una società grande quanto il mondo abitata dalla giustizia e dal mutuo riconoscimento, ma di uno scopo necessario per estirpare la mala pianta della guerra.

Ciò non toglie minimamente che mille e mille azioni nonviolente siano valide e raccomandabili tanto nell'attuale situazione di anarchia internazionale quanto nella sperata futura situazione di una società mondiale.

Sulla nonviolenza possono valere le sensate riflessioni di Bobbio: « Non mi considero un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna sia interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra …

Certamente l'uomo non può rinunciare a combattere contro l'oppressione, a lottare per la libertà, per la giustizia, per l'indipendenza.

Ma è possibile, e sarà anche producente e concludente, combattere con altri mezzi che non siano quelli tradizionali della violenza individuale e collettiva? Questo è il problema ».30

Senza nutrire illusioni sulla possibilità di estirpare completamente la mala pianta della violenza dalla storia dell'uomo, all'interrogativo bobbiano sembra possibile rispondere in modo parzialmente positivo, se l'umanità perverrà ad una forma d'organizzazione politica meno primitiva dell'attuale.

6. Annesso: La questione della guerra giusta

1) La guerra introduce una frattura brutale nel processo di globalizzazione della famiglia umana, delle relazioni fra soggetti e comunità: la sua irrazionalità ( bellum est alienum a ratione, enciclica Pacem in terris ) risulta ancor più intensa e tragica oggi che nel passato in rapporto alla crescita esponenziale dei mezzi di distruzione.

Ne consegue la necessità di bandire la guerra, portando gli Stati a rinunciare allo jus ad bellum e ricorrendo ad un'azione di polizia da parte di poteri pubblici mondiali nei casi in cui si renda necessario: blocco di un ingiusto aggressore, riparazione di un grave torto e di comportamenti gravemente lesivi, protezione di popolazioni a rischio di genocidio o comunque soggette a profonde violazioni dei diritti umani.

Nonostante qualche modesto passo avanti, siamo molto lontani da un tale esito: di conseguenza diventa ancora più urgente svolgere una riflessione politico-morale sulla guerra.

In tale crocevia riemerge la questione della guerra giusta, certo da rielaborare nel nuovo quadro mondiale, mutato rispetto a quello entro cui era stata pensata la teoria moderna della guerra giusta, e che si imperniava sugli Stati e i rapporti interstatali.

La teoria in vario modo rinasce come chiara antitesi al realismo politico, quale posizione spesso dominante nelle relazioni internazionali che concepisce la politica estera e i rapporti internazionali come una lotta perpetua per la potenza, l'utilità e la forza del proprio Stato.

E rinasce poiché ci si rende conto che la limitazione della guerra può essere l'inizio della pace.

E noto che la teoria è stata elaborata nella tarda antichità e nel Medioevo cristiano, quando lo Stato moderno come lo conosciamo da vari secoli non esisteva.

Ha avuto una ripresa ed una rielaborazione dal XVI secolo in avanti entro il quadro dei rapporti interstatali di allora e la nascita del jus publicum europaeum; è entrata in crisi con e dopo la seconda guerra mondiale, in rapporto all'avvento delle armi nucleari.

Il declino della teoria della guerra giusta si è da allora accelerato nell'opinione di tanti, che la ritengono del tutto superata dalle guerre nucleari.

A torto però, perché proprio i tradizionali criteri della guerra giusta rendono impercorribile ogni ipotesi di guerra nucleare per la violazione palese di almeno due suoi criteri centrali: la proporzionalità tra il momento dei fini e dei mezzi impiegati e quello degli effetti ottenuti, l'immunità dei non combattenti o dei civili.

Alla domanda: è lecito vim ( nuclearem ) vi ( nucleari ) repellere?, si deve rispondere negativamente, ed è di primaria importanza osservare che la risposta negativa non rappresenta una deroga o un crollo della dottrina della « giusta difesa », ma sono proprio i suoi criteri a rendere illecita una guerra nucleare anche difensiva.

Ciò significa che è rischioso rifiutare tale dottrina, ed anche coloro che la considerano obsoleta o inapplicabile nel caso estremo, in realtà se reputano illecita una guerra nucleare difensiva si rifanno ad essa.

La guerra nucleare è ingiusta per definizione perché viola i due criteri ricordati.

Dopo gli anni '50-'80 del Novecento, in cui la teoria della guerra giusta venne in larga misura abbandonata, da qualche tempo si assiste a segnali di sua ripresa entro una situazione in cui i diritti umani e la loro protezione hanno acquisito notevole peso, quasi sconosciuto 60 anni fa quando molto ruotava ancora attorno agli Stati.

Un segnale significativo del periodico ritorno della dottrina tradizionale sulla guerra giusta che va da Maimonide, ad Agostino, Tommaso d'Aquino, Grozio, Viteria, Suarez ecc., è la nota opera di Michael Walzer, Guerre giuste e ingiuste, in cui l'autore intende riappropriarsi « della nozione di guerra giusta ai fini della formulazione di una teoria politica e morale ».

2) La questione della guerra giusta è stata discussa infinite volte, né qui mi riprometto di ricostruirne il dibattito o di pronunciarmi sulla sua applicabilità in specifici casi concreti.1

In un volume di oltre trent'anni fa esaminai il tema entro un quadro geopolitico da allora molto variato.2

Ciò mette in luce che, se i criteri principali della dottrina sulla guerra giusta non mutano nel tempo, può mutare profondamente il contesto stesso in cui dovrebbero applicarsi.

Tra i tanti esempi ne richiamo uno, riguardante la forma della guerra: che cosa hanno in comune le guerre omeriche e i loro eroi dotati di coraggio, potenza, senso epico, che si affrontano a viso aperto, e la moderna guerra tecnologica in cui larga parte delle battaglie sono combattute stando dinanzi ad un video?3

E che cos a hanno in comune la guerra « conservatrice » che mira a ristabilire il diritto violato, e quella rivoluzionaria che punta a creare un ordine nuovo?

A tali forme conseguono due diverse violenze.

Se la storia europea ha conosciuto per vari secoli ( XVI - XVIII ) la guerra conservatrice che restaura l'ordine e il diritto violati e che assomiglia ad una procedura giudiziaria il cui scopo é porre rimedio ad un'ingiustizia, per circa un secolo abbiamo conosciuto la guerra volta non a restaurare un ordine vecchio, ma a produrre un nuovo ordine rivoluzionario e il relativo diritto.

3) Attualmente la questione della guerra giusta riemerge dinanzi all'interrogativo se la difesa dei deboli, dei loro diritti umani fondamentali di fronte al rischio concreto di catastrofe umanitaria, possa giustificare un intervento militare.

Oggi l'uso della forza e forse perfino una guerra potrebbero essere giuste se fossero indirizzate, in mancanza d'ogni altra alternativa percorribile, a tutelare i deboli oppressi, a contrastare violazioni massicce di diritti fondamentali, ad allontanare pratiche di sterminio e genocidio.

La teoria torna dunque nuovamente d'attualità in rapporto ad un'idea di pace giusta, intesa non solo come assenza di ricorso alla forza.

Poiché il fine della guerra dovrebbe essere quello della pace ( almeno della pace come tregua, trattato, e assenza di forza ), la guerra giusta rinvia alla pace giusta.

Ma quale pace giusta? E prima ancora quale pace?

Pace come assenza di ricorso alla forza? Come sicurezza?

Pace come frutto di giustizia?

Anche da questo lato siamo necessariamente rinviati dal tema della guerra a quello della pace, a testimonianza del fatto che i due aspetti non sono separabili e che le istituzioni e il diritto internazionale devono compiere importanti passi avanti per tenere conto di nuove e più fondamentali esigenze che consentano di differenziare una pace giusta da una ingiusta.

In effetti in base alle vigenti determinazioni tecnico-giuridiche della pace, quali sono depositate nella Carta dell'ONU e negli sviluppi del diritto internazionale, è arduo procedere a distinguere una pace giusta da una ingiusta in cui importanti diritti umani siano violati, poiché quei testi assegnano speciale rilievo alla pace individuata nella sicurezza, nel mantenimento dello status quo e nell'assenza di ricorso alla forza, e meno alla giustizia.

Su queste basi potrebbe risultare illegittimo il ricorso alla forza per tutelare i diritti umani.

D'altro canto l'importanza attribuita a questi e alla loro tutela concreta spinge ad interrogare nuovamente la dottrina tradizionale, a partire dal rispetto di tali diritti come elemento centrale di una pace giusta.

Si chiede cioè se la difesa di fondamentali diritti possa configurarsi come justa causa belli, e se non si debba ridefinire il criterio tradizionale di non ingerenza, raccordandolo non alla sovranità dello Stato ma ai diritti dei singoli e dei popoli.

Tutto ciò scaturirebbe dall'intento di prendere i diritti sul serio.

Le nuove prospettive rappresentano un cuneo fastidioso per la questione della sicurezza nazionale.

In merito la posizione di Realpolitik sostiene che coloro cui spetta garantire la sicurezza nazionale sono gli unici competenti a stabilire ciò che essa esige.

Ma la dottrina della guerra giusta, collocata nel contesto uscito dalla seconda guerra mondiale, invalida tale idea precipuamente dal lato dello jus ad bellum, ormai regolato dalla Carta delle Nazioni Unite.

Né la questione della sicurezza nazionale, né quella della sicurezza internazionale possono essere affidate esclusivamente al giudizio dei singoli Stati.

4) La teoria della guerra giusta affonda le sue radici nell'idea che esista un giusto naturale che occorre restaurare se viene violato.

Importanti posizioni filosofiche ritengono che i diritti umani, e in specie quelli più fondamentali, interpretino tale giusto naturale.

Se non si pensa che esista una giustizia da riconoscere e rispettare, la guerra esce dal quadro di un « processo in tribunale » e diventa un fatto esistenziale privo d'ogni regolazione.

Se cade la nozione di iustum cade quella di iusta causa, ed emerge solo l'elemento dello scontro col nemico.

Non dobbiamo sottovalutare il nesso tra nichilismo giuridico ( negazione del diritto naturale e della stessa idea di giustizia come ordine razionale non soggetto alla mera volontà degli attori ) e crisi dell'idea di giusta causa e guerra giusta ( resa giusta dalla giustizia della causa e dall'appropriatezza dei mezzi ).

Sul piano dei presupposti filosofici e morali, avversari della dottrina della « guerra giusta » sono quelle teorie che negano si possa parlare di una norma durevole e riconoscibile di giustizia.

In genere a favore è stato ed è il giusnaturalismo nelle sue varie forme.

Nel caso in cui esista una giusta o ben fondata causa di guerra, siamo sollecitati ad esplorare il quadro della giusta conduzione della guerra ( insto modo ).

Spesso « guerre giuste » dal lato dello jus ad bellum - consideriamo nuovamente il caso di interventi umanitari per proteggere una popolazione da un imminente o attuale rischio di strage e genocidio -, diventano ingiuste quanto allo jus in bello, ossia in rapporto alla concreta conduzione delle operazioni militari.

Opino che tale fu il caso della seconda guerra mondiale: esisteva una giusta e ben fondata causa di guerra da parte degli alleati, ma la sua conduzione fu ingiusta e non di rado barbarica per il sistematico bombardamento di città e strage di civili, e infine per l'impiego della bomba atomica.

5) Le dottrine sulla guerra possono essere suddivise in tre gruppi: quelle che giustificano tutte le guerre; quelle che le ingiustificano tutte; quelle che alcune ne approvano, altre ne rifiutano.

In quest'ultimo gruppo rientra la dottrina della guerra giusta, che dovrebbe più esattamente essere chiamata dottrina della « giusta difesa ».

Essa è una dottrina della legittima difesa, non della legittima offesa.

Tale dottrina, sviluppata dai moralisti, di per sé non è antipersonalista, come invece lo sono la guerra totale, la guerra civile mondiale, la guerra ideologica, la guerra di conquista e di dominio, le quali si nutrono del disprezzo dell'uomo e mirano alla distrazione e all'avvilimento dell'avversario.

Escluse queste forme di guerra, rimangono le guerre difensive contro un ingiusto aggressore, dove vim vi repellere licei, ed a queste in specie si riferisce la dottrina in questione.

La dottrina della guerra giusta cerca di introdurre una forma di ordine e di responsabilità in quel fenomeno eminentemente irrazionale e esistenzialmente senza regole che è la guerra.

M. Spieker osserva: « La preoccupazione principale della dottrina del bellum iustum non è tanto quella di legittimare l'impiego militare delle armi, cosa che da più parti le viene attribuita, quanto quella di assicurare la pace o di impedire la guerra e, qualora questa non fosse evitabile, di limitarla ».4

N. Bobbio nota che la dottrina della guerra giusta è etica, non giuridica, dal momento che il diritto positivo internazionale « non regola la causa della guerra bensì regola la sua condotta, quale che sia la causa ».5

In merito emerge nuovamente il diffalco attualmente insuperabile tra lo jus ad bellum, regolato con severi criteri dalla dottrina della guerra giusta, e la condizione giuridico-politica della comunità mondiale dove quel « diritto » è ancora per vari aspetti consegnato alle scelte dei singoli Stati.

Nel momento più delicato e decisivo, quello dello scatenamento della guerra, la dottrina enuclea criteri che in genere rimangono teorici e scavalcati dal comportamento concreto degli attori, che si comportano tanto come giudici quanto come parti in causa.

La ragione profonda dell'esistenza delle guerre tra Stati è la mancanza di organizzazione politica e giuridica della società delle nazioni.

La dottrina della guerra giusta consente un giudizio etico-politico necessario, purtroppo molto spesso inidoneo ad evitare le guerre o a regolarle una volta scoppiate.

Di fatto l'aporia fondamentale pratica della dottrina non sta nei criteri dell'esistenza di una insta causa ma in quello dell'autorità legittimata ( legitima auctoritas ) a portare la guerra: dove individuarla, a chi attribuire sensatamente tale carattere?

La domanda ci riporta dinanzi alla drammatica inorganizzazione politica della società mondiale.

Questo aspetto emerge con forza nell'insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes: « La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione.

E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa …

Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l'orrore e l'atrocità della guerra.

Le azioni militari, infatti, se condotte con questi mezzi, possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto, di gran lunga, i limiti di una legittima difesa …

Tutte queste cose ci obbligano a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova …

È chiaro che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo, nel quale, mediante l'accordo delle nazioni si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerr a.

Questo naturalmente esige che venga istituita un'autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti » ( n. 79 e s. ).

La linea di riflessione della Gaudium et spes insegna la liceità della legittima difesa nelle guerre convenzionali, e l'illiceità dell'impiego delle armi nucleari, convalidando implicitamente la dottrina della « guerra giusta ».

La dottrina della guerra giusta entra in crisi sul piano effettuale, perché a tutt'oggi non esiste un'istanza internazionale sopra le parti, che possa emettere un verdetto sulla validità delle ragioni dei contendenti.

Quis iudicabit?

Ma sul piano etico, nonché su quello della guerra puramente difensiva, la dottrina rimane valida.

Non direi perciò con Bobbio che tale dottrina sia completamente superata in rapporto alla nascita della guerra nucleare, cui egli si riferisce.6

In realtà abbiamo visto che proprio i criteri etico- politici, pensati in tempi in cui nulla si poteva immaginare o prevedere sulle armi nucleari, rendono illecita e improponibile ogni guerra di tal tipo.

6) Numerose dottrine sulla guerra sono state spiazzate dall'avvento dell'arma nucleare.

Un esempio sta nella teoria di Clausewitz per cui la guerra non è altro che la politica perseguita con altri mezzi ( Der Krieg ist eine blosse Fortsetzung der Potitik mit andern Mittein ), a meno di non accettare che la presupposta continuazione bellica della politica conduca al baratro del nulla.

Proprio l'escalation delle armi verso l'arma totale, delle guerre verso la guerra totale falsifica l'assunto di Clausewitz, pensato in un contesto diverso in cui si riteneva che la ragione politica avrebbe saputo guidare la guerra, tenerla sotto controllo e fermarla al momento opportuno.

In Clausewitz si presuppone il primato continuo della politica sulla strategia militare, mentre l'enorme potenza delle armi nucleari fa passare la voce della politica sotto quella delle armi, né sembrano sussistere effettive possibilità di graduare i mezzi bellici e gli obiettivi, una volta che il conflitto nucleare si sia avviato.

La guerra nucleare non è la continuazione della politica con altri mezzi, ossia con mezzi diversi da quelli diplomatici, economici, ecc., ma sua fine catastrofica.

La guerra nucleare falsifica anche il Begriffdes Politischen di Schmitt, secondo il quale la guerra è lo strumento, il criterio e il presupposto essenziale della politica, che è veramente tale solo se è traducibile in termini bellici.

Secondo Schmitt, « la guerra non è scopo o mèta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale … è da questa possibilità estrema [ la lotta tra amico e nemico ] che la vita dell'uomo acquista la sua tensione specificatamente politica ».7

Lo stallo strategico tra le due superpotenze, prodottosi all'epoca della guerra fredda dalla mutua deterrenza nucleare, allontanando la possibilità della guerra totale, ha declassato il criterio schmittiano, che da categoria universale del politico tende ad essere confinato al caso della guerra partigiana.

In effetti la dottrina schmittiana secondo cui l'essenza del politico risiede nella contrapposizione amico-nemico, subisce un'inesorabile falsificazione consistente nella coincidenza tra massima realizzazione del politico ( la guerra totale ) e suo toglimento ( la catastrofe totale ).

7) La dottrina della guerra giusta implica che la vita non sia sempre il valore supremo, per quanto sia alla base di ogni altro, perché i diritti dell'uomo non hanno senso senza di esso.

Asserire che il diritto alla vita è il più basilare, non significa ancora dire che esso sia il più importante in ogni caso.

Lo è quando il diritto alla vita è inteso come diritto a nascere: qui si tratta di difendere la vita non nata e totalmente dipendente da altri, dall'arbitrio di chi ne può disporre a piacimento; lo è anche quando opera come divieto dell'assassinio e delle lesioni corporee inferte ad altri.

Ma una volta che l'essere umano è nato ed è divenuto consapevole di sé, il diritto alla vita non può essere sempre e comunque invocato come un assoluto intangibile: l'uomo può mettere a repentaglio la propria vita per testimoniare valori assoluti, per difendere la propria società ingiustamente aggredita.

Non si può ridurre il problema della pace, come vorrebbe certo pacifismo ad oltranza, alla pura e semplice salvaguardia della vita.

Il personalismo non accetta che sia lecito propter vitam vivendi perdere causas.

Una concezione tutta passiva e consumistica dei diritti dell'uomo, che assilla società e governi con continue richieste di sicurezza assoluta, di salute, di consumo, di felicità garantita, non pare una concezione personalista, anzi rischia di considerare l'uomo alla stregua di un animale ben nutrito.

8) A mio avviso la dottrina della « giusta difesa » risolve in modo coerente con la natura della politica il dilemma tra rinuncia alla forza e uso indiscriminato della stessa.

Va da sé che non ogni uso della forza sia legittimo, e con ciò il secondo corno del dilemma non sussiste nella sua nuda crudezza.

Più complesso è valutare la posizione del pacifismo radicale che, facendo appello al Discorso della montagna, rifiuta in assoluto ogni guerra, compresa quella difensiva.

Se il vertice del Vangelo è costituito dal comandamento: « Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua mente, con tutta la tua anima, con tutto il tuo cuore, e il tuo prossimo come te stesso », l'amore del prossimo può richiedere che venga soccorso quando è ferito ( episodio del buon samaritano ), e che venga difeso quando è attaccato ingiustamente.

Nel farlo, rimane possibile il ricorso a mezzi nonviolenti di lotta e resistenza.

Indice

1 Vedi A. Cassese, / diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2005.
2 Hegel, Filosofìa del diritto, § 258.
3 Cfr. La filosofia morale, Morcelliana, Brescia, 1999, p. 183.
4 Cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito. Sansoni, Firenze 1944, p. 147.
5 Cfr. G. Gentile, Genesi e struttura della società, pp. 95, 100 e s.
6 Ivi, p. 59.
7 Le categorie del politico, p. 146.
8 R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 20032, pp. 85-86.
9 H. Kelsen, La pace attraverso il diritto, Giappichelli, Torino 1990, p. 41. Il diritto come pensato dall'autore in tutta la sua vasta produzione di teorico, è finalizzato alla risoluzione pacifica ossia non violenta delle controversie, non ancora alla giustizia, il cui concetto è ritenuto vago e indefinibile.
10 M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, pp. 64-65.
11 Della guerra, Einaudi, Torino 2000, trad. di G. E. Rusconi, p. 20 e p. 19.
12 L. Bonanate, I doveri degli stati, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 8.
13 Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Giuffré, Milano 1989, p. 468.
14 Vedi gli studi Sovranità, pace, guerra. Considerazioni sul globalismo politico, «Teoria politica», n. 1, 2006, pp. 57-59, e Dottrina sociale della Chiesa, pace e riforma dell'Onu, «La Società», n. 5/2003, pp. 639-655.
15 "I due concetti di sovranità e di assolutismo sono stati forgiati insieme sulla stessa incudine. Insieme devono essere messi al bando". L'uomo e lo Stato, Marietti 1820, Genova-Milano 2003, p. 53.
16 Thè Law of People, Harvard University Press, 1999, p. 27.
17 Cfr. anche J. Habermas, "Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza", in L'inclusione dell'altro, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 119-140.
18 Pacem in terris, nn. 134, 135 e 137. In modo a mio avviso non soddisfacente Bobbio interpreta l'idea di un'autorità politica come intensificazione del processo di statualizzazione verso un superstato mondiale, verso "una forza tanto grande da diventare, come quella del mostro biblico cui Hobbes dedicò la sua maggior opera politica, irresistibile" (// problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna 1984, p. 86), e dunque solo nella forma della creazione di un nuovo e supremo Leviatano. La teoria politica dell'autorità mondiale ha presentato le cose in modo più attento all'organizzazione gradualmente ascendente del potere, al principio di corrispondenza tra bene comune, che deve ormai essere assicurato su piano mondiale, e a poteri politici di pari livello, all'estensione a comunità sempre più vaste di un'unità di guida. Non è in Hobbes che si possono trovare i principi e i modelli per pensare adeguatamente il problema dell'autorità politica mondiale, quanto piuttosto in una filosofia politica che intenda il processo di crescente socializzazione dell'uomo dal villaggio sino alla civitas maxima. Su ciò cfr. V. Possenti, Le società liberali al bivio, P. Ili, cap. Ili, e Id., Religione e vita civile. Armando, Roma 2002.
19 Zanichelli, Bologna 1954, p. 190 e s.
20 Nella Critica del giudizio (Laterza, Bari 1970, p. 309 e s.) Kant osserva che la guerra è inevitabile in assenza di un sistema giuridico fra gli Stati, senza il quale sono esposti al pericolo di danneggiarsi reciprocamente. Esso oggi esiste nella Carta dell'ONU, che assegna al Consiglio di Sicurezza la gestione dell'uso della forza (art. 42 e 51 ), e che limita rigorosamente lo jus ad bellum degli Stati solo alla legittima difesa con l'aggiunta che tale diritto di difesa non è illimitato ma vale sinché il Consiglio di Sicurezza non intervenga (art. 51 della Carta dell'ONU che qui si riporta: "Nessuna disposizione della presente Carta porta detrimento al diritto naturale di legittima difesa, individuale o collettiva, nel caso in cui un Membro delle Nazioni Unite sia oggetto di un'aggressione armata, sino a che il Consiglio di Sicurezza abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale". È utile aggiungere il dettato dell'ari. 42: "Se il Consiglio di sicurezza ritiene che le misure previste all'art. 41 siano inadeguate o che esse si sono rivelate tali, può intraprendere, mediante forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che giudica necessaria al mantenimento o al ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. Questa azione può comprendere dimostrazioni, misure di blocco e altre operazioni eseguite dalle
forze aeree, navali o terrestri di mèmbri delle Nazioni Unite").
21 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, p. 250 e p. 332. Nello stesso testo leggiamo: "Sebbene io non possa sostenere di essere un cristiano nel senso confessionale del termine, l'esempio delle sofferenze di Gesù è un fattore fondamentale della mia fede incrollabile nella nonviolenza che regola tutte le mie azioni mondane e temporali", pp. 244-45.
22 Fin dal 1927 Maritain in // primato dello spirituale scrive: "L'esempio di Gandhi è quello adatto a farci vergognare" (OC, Ed. Universitaires, Fribourg - Ed. Saint-Paul, Paris, voi. Ili, p. 871). Nella conferenza "L'idea di pace e il pacifismo", tenuta nello stesso anno a Berlino, Scheler tributò un alto omaggio alla "grande guida rivoluzionaria indiana Mahatma Gandhi" e al suo metodo della non resistenza e non opposizione alla violenza. La conferenza è pubblicata con pari titolo dalle Ed. Medusa, Milano 2004; la parte su Gandhi è alla p. 71.
23 Teoria e pratica della nonviolenza, p. 10 e s.
24 "La fine del machiavellismo", in Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1968, p. 140 e s.
25 Cfr. S. Th., II II, q. 123, a. 6.
26

J. Galtung, Pace con mezzi pacifici. Ed. Esperia 2000; Id. La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il metodo Transcend, Ed. Gruppo Abele 2000; G. Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza. Ed. Gruppo Abele, Torino 1996; E. Peyretti, Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini Editore, Rimini 2005. Su La Pira e la pace cfr. V. Possenti, // compito della pace fra responsabilità della politica e forze della grazia, «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», n. 66, 2004, pp. 7-28. In Italia vi è bisogno di un Istituto nazionale di ricerca sulla pace e i conflitti, sul modello degli istituti dei Paesi del nord Europa (come il Sipri svedese). Da noi la peace research è ancora poco sviluppata con poche iniziative e pochissimi finanziamenti. Occorre anche un servizio civile con corpi civili di pace, capaci di intervento nonviolento in zone di conflitto. L'Italia ha già uno strumento legislativo adeguato a questo compito, il servizio civile volontario, dove i volontari potrebbero sperimentare forme di difesa non armata e nonviolenta.

27 J.M. Muller, II principio nonviolenza. Una filosofia della pace, p. 297.
28 A. Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti a cura di Mario Martini, Edizioni ETS, Pisa, 2004, p. 136.
29 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, p.177.
30 Il problema della guerra e le vie della pace, p. 26 e s.

Note dell'Annesso

1 Liguori, Napoli 1990, p. 6.
2 Cfr. Frontiere della pace. Massimo, Milano 1973, pp. 136-149.
3 La grande trasformazione e tecnologizzazione della guerra è sottolineata da Scheler nella conferenza "L'idea di pace e il pacifismo", cit. (p. 40).
4

M. Spieker, Armi nucleari e discorso della montagna, in «La Rivista del Clero italiano», settembre 1984, p. 595. Ricordiamo i criteri fondamentali della dottrina del bellum justum. Affinché la guerra sia giusta: 1) occorre che esista una giusta causa di guerra, ossia una guerra di autodifesa da parte della vittima o eventualmente una guerra di rivendicazione del diritto violato da parte della vittima e da parte di ogni altro membro della società internazionale; 2) deve essere stata esaurita ogni altra possibilità di impedire l'aggressione; 3) deve essere dichiarata dall'autorità legittima; 4) deve respingere difensivamente l'aggressore e non trasformarsi in una aggressione; 5) si deve contare sulla possibilità reale di successo; 6) deve valere il principio della proporzionalità dei mezzi di difesa, ossia il rischio dei danni della difesa militare deve essere confrontato col rischio dei danni di un'aggressione subita; 7) l'effetto delle armi impiegate deve rimanere controllabile e contenibile entro i limiti della difesa militare, garantendo l'immunità dei non combattenti. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2307 e s.) la legittima difesa con la forza militare è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale; per il fatto che la guerra è scoppiata non diventa lecita qualsiasi operazione tra i contendenti. Nella classica trattazione di Tommaso d'Aquino la guerra è giusta quando rispetta tre criteri: la dichiarazione dell'autorità legittima, la giusta causa, la retta intenzione (cfr. S. Th., Il li, q. 40, a. 1). Per intenzione retta si intende quella che mira a promuovere il bene o ad evitare il male. Tale condizione, che finì successivamente per essere trascurata, è di grande rilievo, potendo mutare la liceità morale della guerra: "Potest autem contingere quod etiam si sit legittima auctoritas indicentis bellum et iusta causa, nihilominus propter pravam intentionem bellum reddatur illicitum" (ivi). Kelsen si muove a livello più giuridico che etico. Ciò implica che la guerra sia legittima come reazione ad un torto: "È un fondamentale principio di diritto internazionale generale che la guerra è permessa solo come reazione ad un torto sofferto - vale a dire come una sanzione - e che ogni guerra che non ha questo carattere è un delitto, cioè una violazione del diritto internazionale. Questa è la sostanza del principio del bellum justum". La pace attraverso il diritto, p. 103. Ben diversa la situazione in Hobbes, che impernia il suo discorso sulla tutela o sicurezza dello Stato e dei cittadini, una teoria spesso nota ai nostri tempi come dottrina della sicurezza nazionale: "I governanti sono obbligati a fare qualunque cosa sembri portare, sia con l'astuzia sia in modo violento, a una diminuzione di potenza degli Stati da cui c'è da temere, dovendo scongiurare con tutte le loro forze i mali che possono minacciare lo Stato", De cive, XIII, 8. In tali espressioni è contenuta la legittimità di una guerra preventiva, possibile ogni qual volta uno Stato ritenga del tutto autonomamente e soggettivamente che un altro Stato potrà muovergli un'aggressione.

5 N. Bobbio, 11 problema della guerra…, p. 64.
6 Secondo Bobbio la teoria della guerra giusta è "la prima ad essere stata messa in crisi dall'apparire della guerra moderna. Lo scatenamento della guerra atomica le ha dato solo il colpo di grazia". II problema della guerra…, p. 57; cfr. anche p. 62.
7 C. Schmitt, Le categorie del «politico», il Mulino, Bologna 1972, pp. 117 e 120.