Summa Teologica - I-II

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III - Controversie e sviluppi dottrinali

9 - « Raro utilis doctor invenitur in Ecclesia quin sit longevus » ( In Ad Philem., lect. 1 ).

S. Tommaso scrivendo queste parole non pensava davvero che sarebbe toccato proprio a lui essere la più felice eccezione di codesta regola.

E non è certo l'eccezione unica che riscontriamo nella sua persona.

- Per quanto riguarda la grazia, p. es., troviamo questo fatto singolarissimo, che egli ne ha sviluppato sostanzialmente la dottrina, senza essere sollecitato da gravi controversie.

Si ricorderà invece che S. Paolo aveva approfondito le sue indagini sull'argomento in polemica con i cristiani giudaizzanti, i quali pretendevano di mettere il dono di Cristo sullo stesso piano, se non al di sotto della Legge mosaica.

S. Agostino poi deve alla controversia pelagiana il ripensamento sui rapporti esistenti tra l'anima e Dio nell'opera della santificazione e della salvezza.

S. Tommaso ha trovato il campo teologico sostanzialmente tranquillo su tali argomenti.

Non che mancassero le discussioni ( si erano anzi posti di nuovo in discussione problemi già definiti nell'ignorato Concilio d'Orange ): ma si trattava per lo più di problemi marginali e tecnici, con esclusione di quegli estremismi pericolosi, caratteristici di altre epoche.

Comunque l'Aquinate non aveva bisogno dei clamori della polemica, per dedicarsi con passione allo studio di un argomento così vitale del pensiero cristiano.

Abbiamo già accennato alla scarsità delle sue conoscenze storiche a proposito della controversia pelagiana.

Aggiungiamo ora che egli, da quanto ci è dato rilevare dalle sue opere, non conobbe neppure le controversie sulla grazia che erano state agitate agli inizi della scolastica.

L'eresia luterana, con i suoi strascichi semiprotestantici del baianismo e del giansenismo, doveva ancora attendere oltre due secoli per nascere.

10 - Eppure il quadro degli errori fondamentali in proposito è nettamente disegnato nella sua mente, comprese le ultime sfumature del semipelagianesimo.

Così infatti egli commenta quel passo di S. Paolo ( Fil 2,13 ), « E Dio che produce in voi, a suo piacimento, il volere e l'operare » : « Così dicendo l'Apostolo esclude quattro false opinioni.

La prima è quella di coloro i quali pensano che l'uomo si possa salvare con il libero arbitrio, senza l'aiuto di Dio …

I secondi negano del tutto il libero arbitrio, dicendo che l'uomo è necessitato dal destino, o dalla divina Provvidenza …

La terza, che appartiene ai Pelagiani, come la prima, dice che la scelta dipende da noi, ma il coronamento dell'opera spetta a Dio …

La quarta ammette che Dio compie in noi ogni bene, però per i nostri meriti.

Il che viene escluso dalla frase: "pro bona voluntate", cioè per buona volontà sua, non nostra.

Ossia non per i nostri meriti; poiché prima della grazia di Dio non c'è in noi nessun merito di bene » ( Ad Phil., c. 2, lect. 3 ).

E cosa abbastanza facile riempire questo schema di nomi e di date.

( I ) AI primo posto troviamo l'eresia di Pelagio [ esplosa negli anni 409-415 ], il quale, coerentemente al principio riferito, negava la predestinazione e la realtà del peccato originale; non riteneva indispensabile il battesimo per la salvezza; e concepiva la grazia come un rimedio supplementare al peccato e piuttosto come un ornamento dell'anima.

Questa eresia fu condannata nei due concili provinciali di Cartagine e di Milevi nel 416, promossi e guidati da S. Agostino.

Cronologicamente il secondo posto spetterebbe all'eresia semipelagiana, che si sviluppò durante gli ultimi anni del grande Dottore africano [ 426-430 ]; ma procedendo in modo sistematico, l'eresia diametralmente opposta a quella di Pelagio è il fatalismo teologico, che ai tempi di S. Tommaso si era sviluppato coerentemente solo nel mondo mussulmano.

( III ) In sostanza i semipelagiani mal sopportavano l'affermazione recisa che Dio opera in noi « il volere e l'agire », secondo le drastiche formule agostiniane, che parevano compromettere la libertà e la responsabilità umana.

I più tenaci sostenitori di questa nuova eresia si ebbero nelle Gallie, e furono condannati definitivamente nel Il Concilio d'Orange, promosso da S. Cesario di Arles nel 529.

( Il ) Due secoli dopo la morte dell'Aquinate si svilupperà in occidente il fatalismo teologico, ad opera di Lutero, di Calvino e dei loro seguaci.

L'errore era stato previsto dall'Autore della Somma Teologica e furono specialmente i suoi discepoli a fronteggiarlo nelle dispute, nei libri e nel Concilio Tridentino [ 1534- 1564 ].

Strascichi pericolosi di codesto errore, che in sostanza consiste nel concepire la grazia come un dono estraneo al dinamismo psicologico dell'uomo, offerto capricciosamente da Dio ai suoi eletti, come causa invincibile e necessaria della loro salvezza, si ebbero negli errori di Baio [ condannati nel 1569, 1579 ], e di Giansenio [ condannati nel 1665, 1690 ].

( IV) Al quarto e ultimo posto S. Tommaso colloca l'opinione di coloro, i quali ritengono « che Dio compia in noi ogni bene, però per i nostri meriti ».

- Se con tale espressione s'intende il merito de condigno, si ha un altro errore dei semipelagiani; se invece si vuol intendere un certo merito de congruo, abbiamo il molinismo, cioè l'opinione del P. Ludovico Molina S. J. [ 1536-1600 ].

11 - Con questa chiara prospettiva degli errori da escludere l'Aquinate ha potuto elaborare una sintesi perfetta, utilizzando tutti gli elementi che la scienza teologica metteva a sua disposizione, senza trascurare neppure l'appoggio indiretto della metafisica e della logica aristotelica.

Ciò spiega perché nelle controversie successive i teologi cattolici si appellino con tanta insistenza alla sua autorità.

Non che in lui si riscontri sempre in modo esplicito la soluzione di tutti i problemi, ma in lui si trova l'imposizione coerente del pensiero cattolico su tutti i problemi fondamentali.

Anzi alcuni elementi della sua sintesi hanno bisogno di essere esplicitati, specialmente a proposito della grazia, per servire efficacemente nelle dispute sui nuovi problemi.

Alcune di queste esplicitazioni sono così facili, da scaturire spontaneamente dalla lettura del testo.

E vero, p. es., che S. Tommaso non ha mai parlato di grazia attuale.

Ma è soltanto il termine che manca, non la dottrina.

Ecco le sue parole: « Sopra [ q. 109, aa. 1,2,5 ] abbiamo già visto che l'uomo è aiutato in due maniere dalla gratuita volontà di Dio.

Primo, in quanto l'anima umana viene mossa da Dio a conoscere, a volere, o a compiere qualche cosa.

Secondo, in quanto Dio infonde nell'anima un dono abituale » ( q. 110, a. 2 ).

- Si potrebbero citare parecchie decine di altri testi altrettanto espliciti, se ce ne fosse bisogno.

Ma prima ancora che alle frasi singole, si deve badare all'insieme e agli sviluppi della sua dottrina.

Questi ultimi confermano che il Dottore Angelico è addirittura il primo grande teorico della grazia attuale, avendola definitivamente isolata dall'equivoca congerie delle grazie gratis datae.

12 - Non è invece altrettanto facile dedurre dai testi di S. Tommaso la distinzione tra grazia sufficiente e grazia effIcace.

E nel farlo bisogna procedere con una certa cautela, perché nel linguaggio dell'Autore il termine sufficiens è sinonimo di efficace ( cfr. CHENU M. D., « Sufficiens », in R. Sc. Ph. Théol., 1933, pp. 251-59 ).

Si noti però che non siamo di fronte a un problema di filologia, ma di teologia.

Perciò non dobbiamo guardare tanto alle parole, quanto ai concetti. Si tratta di sapere se per S. Tommaso ha un senso il problema da cui scaturisce quella distinzione.

Il problema è il seguente: la grazia che ottiene il suo effetto, che cioè porta alla giustificazione, o produce l'atto meritorio, è l'unica grazia attuale che Dio offre all'uomo, oppure esistono grazie attuali che rimangono inefficaci per la mancata corrispondenza del soggetto che le riceve?

Secondo i protestanti e i giansenisti una grazia solo sufficiente è un dono indesiderabile e inconcepibile.

Ma possiamo attribuire a S. Tommaso un'opinione del genere, per il fatto che ignora la distinzione suddetta?

Notiamo subito che egli parte da posizioni antitetiche a quelle di codesti eretici; poiché la privazione della grazia è per lui certamente sempre dovuta alla cattiva volontà dell'uomo, perché Dio « quantum est in se, paratus est omnibus gratiam dare (c fr. 3 Cont. Gent., c. 159 ).

E come insiste nel combattere il pelagianesimo di tutte le sfumature, così rigetta vigorosamente il fatalismo di tutte le tinte.

Il Dottore Angelico ha una visione ottimista della realtà, proprio perché all'uomo è offerto con tanta generosità l'aiuto divino per giungere alla salvezza: « Quandiu status huius vitae durat, remanet in homine aptitudo ut moveatur ad bonum: cuius signa sunt desiderium de bono, et dolor de malo, quae adhuc remanet in homine post peccatum… Et sie auxilio gratiae homo potest semper consequi remissionem peccatorum » ( 3 Cont. Gent., c. 156 ).

Ora da questa volontà universale di salvezza, dalle predisposizioni remote concesse a tutti con tanta generosità, e dalla universalità della redenzione ( q. 106, a. 2, ad 2 ) nasce spontanea l'idea che Dio non si contenta di offrire l'aiuto soprannaturale solo agli eletti e per le azioni infallibilmente meritorie.

Inoltre dobbiamo ricordare che S. Tommaso rigetta l'idea di coloro che concepiscono i rapporti tra la causa prima e gli effetti prodotti nella causa seconda sullo schema dell'occasionalismo, il quale cancella l'operazione propria e specifica della creatura: « Detrahere actiones proprias rebus est divinae bonitati detrahere » ( 3 Cont. Gent., e. 69 ).

Ora, per non togliere la contingenza alle azioni contingenti, e la libertà alle azioni libere, l'influsso causale di Dio deve essere concepito in modo da non escludere la reale possibilità degli effetti contrari, cioè il potere di compiere atti diversi da quelli che di fatto vengono compiuti ( ibid., cc. 72, 73 ).

Quel potere, dunque, offerto alla creatura razionale, perchè possa orientarsi al bene soprannaturale, non essendo efficace, sarà almeno sufficiente.

Si può concedere che deduzioni di questo genere sono piuttosto complesse; ma quel che importa è che non siano arbitrarie.

13 - Fermiamoci pure alla constatazione che S. Tommaso, come tutti i teologi del suo tempo, non ha mai parlato in modo esplicito della distinzione tanto cara ai teologi post-tridentini.

Ma nel secolo XIII la teologia cattolica non era impegnata a combattere il fatalismo teologico che nega il libero arbitrio in omaggio all' infallibilità e all'efficacia della grazia.

Nessuna meraviglia quindi che non si sia sentito il bisogno di suddividere le grazie attuali, volendo definire astrattamente e logicamente problemi che di suo sono di ordine dogmatico-metafisico.

Ma la logica di quei principii potrebbe sempre offrire un appoggio al teologo moderno, che si trovasse a difendere il pensiero cristiano intorno al problema della grazia su un terreno inadatto.

Su questo terreno nacque purtroppo una controversia sbagliata tra gli stessi teologi cattolici.

Volendo combattere l'eresia protestante, che affermava la predestinazione anche dei reprobi antecedentemente alla previsione dei loro peccati, e che riduceva il libero arbitrio a una cosa « di solo titolo », alcuni ebbero la pessima idea di scagionare Dio da eventuali responsabilità sul destino dei singoli, sforzandosi di spiegare come fa la prima causa a dipendere dalle nostre azioni libere nelle sue « gratuite » elargizioni di ordine soprannaturale.

Uno dei primi a mettersi sulla cattiva strada fu il domenicano Crisostomo Javelli [ m. 1540 circa ] ( CHENU M. D., in D. T. C., t. 18, col. 536 ).

Si pretese così di ridurre la mozione divina a un « concorso », cioè a una concausa dell'atto libero umano, dimenticando, o esponendosi al pericolo di dimenticare, che ne è la causa totale.

Si cominciò quindi a descrivere un concorso previo, non determinante, ma generico, come potrebbe essere l'energia elettrica che serve a impieghi diversi, secondo i macchinari cui si applica.

Guardando le cose da questa modestissima visuale antropomorfica, l'efficacia della grazia, come la sua insufficienza, doveva essere rimessa praticamente alla mercè della creatura.

Dio per rendere veramente idoneo allo scopo il suo dono, dovrebbe adattarlo alle disposizioni del soggetto.

Ma per il resto tutto andrà per il meglio, anche senza il suo influsso determinante.

« Efficacia gratiae eo explicatur, quod Deus dat homini talem gratiam, qualem scit esse congruam, ut homo libere consentiat » ( PESCH CHR., S. I, Praelectiones dogmaticae, t. 5, Friburgo Br., 1900, p. 157 ).

Ma come fa Dio a conoscere queste disposizioni delle sue creature, se non nel suo eterno e infallibile decreto?

Niente affatto, rispondono questi originalissimi teologi: Dio oltre alla scientia visionis che abbraccia in un atto eterno tutta la realtà esistente ( presente, passata e futura ), e alla scientia simplicis intelligentiae, con la quale conosce tutti i possibili, ha una scientia media, che è fatta apposta per conoscere i « futuribili », cioè le molteplici decisioni che le volontà libere sarebbero capaci di prendere al verificarsi di tutte le possibili circostanze; e attraverso le quali, per la supercomprensione che ha dei voleri umani, Dio vede quello che di fatto ciascuno di noi vorrà deliberare sotto la mozione della grazia.

14 - Questo modo di concepire le cose scosse finalmente i discepoli di S. Tommaso, i quali insorsero contro L. Molina e gli altri teologi della Compagnia di Gesù, che se n'erano fatti difensori, per riaffermare l'efficacia intrinseca della grazia.

Non è forse Dio che compie in noi, come dice S. Paolo, « velle et perficere »?

Se Dio infatti nell'ordine naturale è la causa prima e immediata di ogni essere e di ogni operazione, perché nell'ordine soprannaturale non dovrebbe essere altrettanto?

Le stesse azioni libere sono metafisicamente alla pari con le altre operazioni delle creature.

Dunque è assurdo far dipendere l'efficacia della mozione divina e della stessa scienza di Dio da qualche cosa di creato.

Perciò la grazia efficace è tale solo in forza di se medesima, ossia in forza della mozione divina che la costituisce.

La teoria molinista venne quindi denunziata come semipelagiana.

Da parte loro i molinisti accusarono gli avversari di essere calvinisti, non salvando con la « premozione fisica » del volere umano la nostra libertà e responsabilità.

Ne nacque una controversia interminabile, che talora assunse aspetti drammatici.

La Santa Sede dovette intervenire, ma non si arrivò mai a una definizione dei problemi discussi.

La disputa era cominciata a Valladolid nel 1594 tra P. Padilla S. J., e D. Alvarez O. P.

I teologi molinisti e i loro fiancheggiatori non si rassegnarono mai a considerare la loro teoria in contrasto col pensiero di S. Tommaso, dato l'immenso prestigio del Dottore Angelico.

Perciò molti di essi presero l'abitudine di assegnare ai propri avversari un caposcuola più recente nella persona del P. Domenico Bañez [ 1528-1604 ], destando vivaci risentimenti ( cfr. GARRIGOU-LAGRANGE R., De Gratia, Torino, 1947, pp. 359 ss. ).

Si volle incolpare il teologo spagnolo ( se possiamo parlare di colpa ) di aver inventato la teoria della premozione fisica, secondo la quale Dio causa l'atto della volontà creata con una mozione previa ( « ordine naturae tantum » ) che la determina fisicamente ( cioè in maniera entitativa e non semplicemente morale ) a un'unica concreta decisione ( ad unum ).

- Ma tale dottrina, come abbiamo visto nel vol. VII di quest'Opera ( pp. 8ss.; 66ss.), non è da attribuirsi a lontani discepoli, bensì allo stesso S. Tommaso.

Le Congregazioni romane, incaricate di studiare la questione ( denominate « de auxiliis ») si tennero dal 1599 al 1607.

Alla fine si ebbe solo una norma disciplinare: « Ci si astenga dall'accusarsi reciprocamente di eresia » ( DENZ., 1090 ).

15 - A complicar le cose nacquero altre teorie, quella, p. es., degli « agostinisti » ( che fanno della grazia efficace una irresistibile deleclatio spirituale; mentre la delectatio che si lascia vincere dalle attrattive della carne sarebbe la grazia sufficiente ); e finalmente quelle sincretiste, che vanno dal sistema di S. Alfonso M. De' Liguori, a quello di Mons. P. Parente.

Qui non è il caso di discutere tutti questi sistemi, che con i loro trattati sulla grazia hanno riempito intere biblioteche.

Siccome però tutti più o meno si appellano a S. Tommaso, per aggiogarlo al proprio carro, non sarà mai abbastanza raccomandato il rispetto per l'autentico significato storico e critico dei suoi testi.

Personalmente siamo convinti che la controversia poteva essere evitata con uno studio più accurato del pensiero tomistico.

Per combattere il protestantesimo bisognava insistere, come fa l' Aquinate contro il fatalismo pagano e mussulmano, sull'efficacia somma del volere divino, e non sulla sua pratica inefficacia nei riguardi delle nostre azioni libere.

In sostanza il Protestantesimo non faceva che ripetere con terminologia cristiana la vieta argomentazione di cui Cicerone si serviva contro i fatalisti; ma prendendo le cose sul serio: « Se tutto è stato previsto da Dio, la successione delle cause e degli avvenimenti è immutabile.

Ma se questo è vero, tutto dipende dal fato.

E se tutto dipende dal fato niente è più in nostro potere, ed è nullo il libero arbitrio della volontà ».

L' Aquinate pensa che non sia il caso di prendere troppo in considerazione questi cavilli; ma considera "frivolo" codesto modo di argomentare; « poiché dalla divina Provvidenza non solo dipendono gli effetti, ma anche le loro cause e il loro modo di prodursi …

Quindi per il fatto che sono causati dalla divina Provvidenza, non segue che i nostri atti non dipendano da noi.

Dio infatti ha previsto e preordinato che avvenissero in quanto compiuti da noi » ( 3 Coni. Geni., c. 94; cfr. I, q. 105, aa. 4, 5 ).

I rapporti tra la creatura e Dio non possono mai concepirsi in termini fenomenici e psicologici, ma solo in termini metafisici.

Non si può mai spartire in un'azione creata quello che è di Dio da quello che è della creatura; perché tutto è di Dio e tutto è della creatura.

Ciascuno nel suo ordine ne è la causa totale, ingenuo il fatalista che incrocia le braccia aspettando tutto da Dio; perché trasferisce sul piano psicologico e fenomenico un problema del tutto trascendente, rinunziando al proprio ordine di causalità in omaggio a un disegno superiore, che per definizione include anche la sua iniziativa, come è estraneo alla sua esperienza.

Ma è ingenuo anche il teologo « congruista », il quale s'industria a restringere il dominio di Dio, per paura di compromettere la libertà creata, voluta e promossa dall'universale e indefettibile causalità divina.

In perfetta coerenza con questi concetti S. Tommaso insiste a ripetere che sul piano psicologico la causalità divina non si esercita mai in maniera determinante, così da escludere l'intrinseca naturale contingenza dell'agire umano.

- Mentre sul piano metafisico afferma recisamente l' infallibilità e la necessità di quanto è oggetto della scienza e del volere eterno di Dio.

« Il fatto che Pietro o Martino si salvino ha due cause: la prima è la volontà divina, e questa è certa, indefettibile; la seconda è il libero arbitrio, e questa è contingente.

Così per altre cose: poiché la contingenza deriva in esse dalla causa prossima, e la indefettibilità e necessità deriva dalla causa prima … » ( Quodl. 12, q. 3, a. 3; cfr. Quodl. 12, q. 3, a. 3 ).

Prendere i testi tomistici della prima serie per combattere le tesi sostenute dalla seconda, è il peggior servizio che si possa rendere alla dottrina e alla coerenza di S. Tommaso.

16 - La libertà dell'uomo, dicevamo, dev'essere posta in blocco fuori discussione, perché l'atto della volontà per definizione non può essere che libero, cosicché neppure Dio può mai farle violenza, come spiega l'Aquinate in uno splendido articolo del De Ventate ( q. 22, a. 8 ).

Quindi non era il caso di lanciarsi con tanto zelo alla difesa di una posizione così solida, che oltre tutto ha l'appoggio incontestabile dell'esperienza personale di ogni essere umano.

Bisognava invece far capire ai protestanti che il loro « occasionalismo » soprannaturale non fa onore alla divina grandezza, come essi pensavano.

« Esset providentiae divinae repugnans si alicui rei subtraheretur illud per quod assequitur similitudinem divinam » ( 3 Cont. Gent., c. 73 ).

Chi rifiuta alle creature « la dignità di causa », procede da un concetto meschino della divinità, perché tale menomazione ricadrebbe su Dio stesso ( cfr. I, q. 105, a. 4 ).

S. Tommaso avrebbe dovuto orientare i polemisti cattolici anche con il suo esempio personale.

Nei medesimi anni, infatti, in cui eliminava dalla sua sintesi dottrinale gli ultimi echi delle dottrine semipelagiane, egli approfondiva il concetto dell'autonomia da riservarsi alle creature nel proprio ambito specifico ( cfr. LAFONT G., Structure ei méthode dans la Somme Th. de S. Thomas d'Aquin, Bruges, 1961, p. 259 ).

Invece si volle insistere nel prospettare la grazia sufficiente, di cui solo in un secondo momento ci si preoccupò di conoscere la natura, come il termine risolutivo della controversia.

Questa Dio non la nega a nessuno: quindi tutti sono responsabili della propria sorte.

I molinisti poi fecero tanta strada in questa direzione, da ridurre a un puro potere, e quindi a grazia sufficiente, la stessa grazia efficace; poiché tale grazia rimane ancora intrinsecamente ripudiabile, e sotto la sua mozione l'uomo acquista la sola attitudine per passare all'atto ( cfr. PESCH, op. cit., pp. 158 ss. ).

17 - Qualunque possa essere il giudizio sull'opportunità di queste discussioni, sta il fatto che dopo tante dispute e tante ricerche promosse e suscitate dalla controversia, la dottrina cattolica sull'argomento non ha raggiunto nessuna chiarificazione.

I problemi invece di chiarirsi si sono complicati e moltiplicati all' indefinito.

Nasce quindi il sospetto che ci sia da correggere uno sbaglio iniziale.

« Molti teologi contemporanei », scrivono i PP. Flick e Alszeghy S. J., « pensano che i sistemi classici [ per risolvere il problema relativo alla natura della grazia efficace ] hanno un difetto comune, in quanto peccano di antropomorfismo, non considerando abbastanza la trascendenza dell'azione divina.

A causa di questa deficienza radicale rimangono insolute da secoli le obbiezioni che i difensori di un sistema oppongono ai sistemi opposti.

Queste difficoltà sono di fatto insolubili finché si continua a supporre che Dio concorre con le cause create in modo simile a quello cori cui una causa creata agisce su un'altra causa creata …

Perciò « bisogna abbandonare gli schemi classici, e mettersi in una prospettiva radicalmente diversa, in cui si tenga conto che la cognizione e l'azione divina trascendono la categoria del tempo » ( Il Vangelo della Grazia, Firenze, 1964, pp. 315 s. ).

La prospettiva è suadente; però osservando i tentativi fatti in tal senso, si ha l' impressione che talora si confondano alla brava cose sostanzialmente diverse.

Qualcuno propone timidamente un ritorno puro e semplice alla nomenclatura di S. Tommaso, rinunziando anche alla distinzione tra grazia sufficiente e grazia efficace ( cfr. Iniziazione Teologica, Brescia, 1955, III, p. 367 ), che ha complicato fino all'esasperazione i trattati moderni sulla grazia.

In tutti i casi, per non cadere nell'errore giansenista, bisogna pur concedere l'esistenza di un potere effettivo offerto all'uomo, non solo attraverso le grazie generali accordate all'umanità, ma anche mediante aiuti e mozioni personali.

Dio infatti agisce in ogni operante.

Ora, è incontestabile che in ciascun uomo si producono pensieri e affetti, i quali nel loro logico e naturale sviluppo dovrebbero sfociare nell'atto di fede, nella conversione sincera, o nell'atto meritorio; e invece abortiscono per la resistenza della volontà creata.

Venuto a mancare colpevolmente l'effetto, non potremo fare a meno di considerare queste mozioni come grazie sufficienti.

Se proprio si vuol evitare questa terminologia, perché sufficiens è detto in rapporto a un termine che di suo non si può raggiungere senza una nuova mozione divina; e d'altra parte la grazia concessa è stata realmente efficace in rapporto alla mozione avvenuta, si potrà parlare di grazia dispositiva.

Allora soltanto si potrà riservare il termine grazia attuale alla sola grazia efficace, e accantonare ai margini della teologia quelle controversie che non si riesce a risolvere, perché non avevano motivo di nascere.

Verrebbe così eliminata, p. es., la controversia sorta tra gli stessi tornisti sulla natura della grazia sufficiente.

- Si discute infatti per sapere se questa grazia è un semplice posse, o capacità di agire, oppure un agire iniziale, I sostenitori di quest'ultima tesi giuocano la loro carta migliore, insistendo sul fatto che la grazia sufficiens è una suddivisione della grazia attuale.

Quindi per appartenere al genere, in qualche modo deve essere un atto.

Così andiamo incontro all'assurdo di una grazia non efficace, che però è efficace in una certa maniera.

Si comprende bene, quindi, come sarebbe più semplice limitarsi a dire che la grazia attuale, ossia la mozione divina, è sempre efficace, dando all'aggettivo un significato analogico.

Diversa infatti è l'efficacia di una grazia che porta a concepire un atto di fervore capace di far crescere la carità, da quella che si limita a una semplice velleità sopraffatta dalla pigrizia.

18 - Ma non è il caso di illudersi che sia per finire la controversia molinista.

Il tentativo di scagionare la divinità delle differenze esistenti nell'universo, e specialmente nel mondo umano, è antico quanto il cristianesimo ( S. Tommaso denunzia in proposito le posizioni di Origene, cfr. 3 Cont. Gent., o. 89 ), e forse quanto l'umanità.

Esso corrisponde a un inconscio antropomorfismo, che vede nella divinità un essere benevolo ingiustamente accusato, prima ancora di scorgere in essa la prima sorgente della realtà in tutta la sua problematica concretezza, cioè la pienezza dell'essere, i cui disegni sono imperscrutabili, e la cui bontà non è a misura d'uomo.

P. TITO S. CENTI O. P.

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