Summa Teologica - I-II

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Articolo 5 - Se la sapienza sia la più grande delle virtù intellettuali

Supra, q. 57, a. 2, ad 2; In 6 Ethic., lect. 6

Pare che la sapienza non sia la più grande delle virtù intellettuali.

Infatti:

1. Chi comanda è superiore a chi è comandato.

Ora, sembra che la prudenza comandi alla sapienza, poiché al dire di Aristotele [ Ethic. 1,2 ] la politica, che è una parte della prudenza [ cf. Ethic. 6,8 ], « preordina quali siano le discipline da stabilirsi nelle città, e quali di esse ciascuno debba apprendere, e fino a qual punto ».

Ora, dal momento che tra le discipline c'è anche la sapienza, sembra che la prudenza le sia superiore.

2. Per definizione la virtù è fatta per ordinare l'uomo alla felicità: infatti la virtù è « la disposizione di un essere perfetto all'ottimo », come dice Aristotele [ Phys. 7,3 ].

Ma la prudenza è la retta ragione delle azioni da compiere, mediante le quali l'uomo arriva alla felicità, mentre la sapienza non considera gli atti umani che portano alla beatitudine.

Quindi la prudenza è una virtù superiore alla sapienza.

3. Più una conoscenza è perfetta, più grande è il suo valore.

Ma noi possiamo avere una conoscenza più perfetta delle realtà umane, oggetto della scienza, che delle realtà divine, oggetto della sapienza, secondo la distinzione di S. Agostino [ De Trin. 12,14 ]: poiché le realtà divine sono incomprensibili, come dice la Scrittura [ Gb 36,26 ]: « Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo ».

Quindi la scienza è una virtù superiore alla sapienza.

4. La conoscenza dei princìpi è superiore alla conoscenza delle conclusioni.

Ma la sapienza, come le altre scienze, trae le sue conclusioni da princìpi indimostrabili, che appartengono all'intelligenza.

Quindi l'intelligenza è una virtù superiore alla sapienza.

In contrario:

Il Filosofo [ Ethic. 6,7 ] afferma che la sapienza è « come il capo » tra le virtù intellettuali.

Dimostrazione:

Si è già detto [ a. 3 ] che la grandezza specifica di una virtù viene desunta dal suo oggetto.

Ora, l'oggetto della sapienza sorpassa l'oggetto di tutte le virtù intellettuali: essa infatti, come insegna Aristotele [ Met. 1, cc. 1,2 ], considera la causa suprema, che è Dio.

E poiché mediante la causa si giudicano gli effetti, e mediante la causa superiore le cause inferiori, ne segue che alla sapienza spetta di giudicare di tutte le altre virtù intellettuali, di ordinarle e di avere come una funzione architettonica su tutte.

Analisi delle obiezioni:

1. È impossibile che la prudenza sia una virtù più grande della sapienza, dal momento che la prudenza ha per oggetto le realtà umane e la sapienza la causa suprema; « a meno che l'uomo », come nota Aristotele [ Ethic. 6,7 ], « non sia la più grande realtà esistente nell'universo ».

Perciò bisogna convenire con lui [ cf. ib., c.13 ] che la prudenza non comanda anche alla sapienza, ma si verifica piuttosto il contrario: poiché, al dire di S. Paolo [ 1 Cor 2,15 ], « l'uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno ».

Infatti la prudenza non ha il compito di intromettersi nelle realtà supreme, oggetto della sapienza, ma comanda quanto è preordinato alla sapienza, cioè le vie per cui l'uomo deve raggiungere la sapienza.

Perciò in questo troviamo che la prudenza, o la politica, è al servizio della sapienza: infatti introduce ad essa preparandole la via, come fa l'usciere col suo re.

2. La prudenza considera i mezzi per raggiungere la felicità; invece la sapienza considera l'oggetto stesso della felicità, cioè l'intelligibile supremo.

E se la considerazione della sapienza rispetto al proprio oggetto fosse perfetta, in quest'atto della sapienza avremmo la perfetta felicità.

Siccome però l'atto della sapienza nella vita presente è imperfetto in rapporto all'oggetto principale, che è Dio, ne viene che l'atto della sapienza è una certa anticipazione o partecipazione della felicità futura.

E così la sapienza è più vicina alla felicità di quanto lo sia la prudenza.

3. Il Filosofo [ De anima 1,1 ] nota che « una conoscenza è preferibile a un'altra o perché riguarda cose più nobili, o per la sua certezza ».

Se quindi gli oggetti rispettivi sono uguali in bontà e nobiltà, tra due virtù sarà superiore quella che è più certa.

Però la conoscenza anche meno certa di realtà più alte e più grandi è da preferirsi a quella più certa di realtà inferiori.

Infatti il Filosofo [ De caelo 2,12 ] insegna che è cosa grande poter conoscere qualcosa dei fenomeni celesti, sia pure con ragioni deboli e dialettiche.

E scrive [ De part. animal. 1,5 ] che « è preferibile conoscere poco di realtà più nobili che conoscere molto di realtà meno nobili ».

- Ora la sapienza, alla quale spetta la conoscenza di Dio, non può appartenere all'uomo come un vero possesso, soprattutto nello stato della vita presente: poiché « ciò appartiene solo a Dio », come dice Aristotele [ Met. 1,2 ].

Tuttavia quella poca conoscenza di Dio che la sapienza può procurare è da preferirsi a ogni altra conoscenza.

4. La verità e la conoscenza dei princìpi indimostrabili dipende dalla nozione dei termini: infatti una volta conosciuto che cosa è il tutto e che cosa è la parte, subito si conosce che il tutto è maggiore della sua parte.

Ma conoscere la nozione di ente e di non ente, di tutto e di parte e degli attributi immediati dell'ente, con cui vengono costituiti i primi princìpi indimostrabili, spetta alla sapienza: poiché l'ente nella sua universalità è l'effetto proprio della causa suprema, cioè di Dio.

E così la sapienza si serve dei princìpi indimostrabili, oggetto dell'intelligenza, non solo per trarre le sue conclusioni, come le altre scienze, ma anche per giudicarli e disputare contro chi li nega.

Perciò la sapienza è una virtù superiore alla semplice intelligenza.

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