Summa Teologica - II-II

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Articolo 2 - Se l'obbedienza sia una virtù specificamente distinta

Supra, q. 4, a. 7, ad 3; infra, a. 3, ad 1; In 2 Sent., d. 35, q. 1, a. 2, ad 5; d. 44, q. 2, a. 1; In 3 Sent., d. 34, q. 3, a. 4, sol. 3, ad 1

Pare che l'obbedienza non sia una virtù specificamente distinta.

Infatti:

1. L'obbedienza si contrappone alla disobbedienza.

Ma la disobbedienza è un peccato generico: infatti S. Ambrogio [ De Parad. 8 ] ha scritto che il peccato è « una disobbedienza alla legge di Dio ».

Perciò l'obbedienza non è una virtù specifica, ma generica.

2. Una virtù specifica o è teologale o è morale.

Ma l'obbedienza non è una virtù teologale: poiché non si riduce né alla fede, né alla speranza, né alla carità.

E neppure è una virtù morale, poiché non consiste nel giusto mezzo fra il troppo poco e il superfluo: infatti più uno è obbediente e più merita lode.

Quindi l'obbedienza non è una virtù speciale.

3. S. Gregorio [ Mor. 35,14 ] afferma che « l'obbedienza è tanto più meritoria e lodevole quanto meno uno ci mette del suo ».

Invece qualsiasi virtù specifica tanto più viene lodata quanto più uno ci mette del suo: poiché per la virtù si richiede la volizione e la scelta, come nota Aristotele [ Ethic. 2,4 ].

Perciò l'obbedienza non è una virtù specificamente distinta.

4. Le virtù si distinguono tra loro specificamente in base all'oggetto.

Ma l'oggetto dell'obbedienza è il comando dei superiori, i quali possono essere molto diversi, secondo le diversità del loro grado.

Quindi l'obbedienza è una virtù generica, che abbraccia molte virtù specifiche.

In contrario:

L'obbedienza, come si è detto [ q. 80, ob. 3 ], è elencata da alcuni tra le parti della giustizia.

Dimostrazione:

Per ogni opera buona che ha un motivo specifico di lode va determinata una virtù speciale: infatti è proprio della virtù « rendere buona l'opera » che si compie [ Ethic. 2,5 ].

Ma ubbidire ai superiori, come si è visto [ a. 1 ], è un dovere legato all'ordine che Dio ha posto nelle cose; e quindi è un bene, poiché il bene consiste, secondo S. Agostino [ De nat. boni 3 ], « nella misura, nella specie e nell'ordine ».

Ora, questo atto riceve un motivo speciale di lode in base a un oggetto specifico.

Avendo infatti gli inferiori molti obblighi verso i loro superiori, fra gli altri c'è questo obbligo speciale: che sono tenuti a ubbidire ai loro comandi.

Quindi l'obbedienza è una virtù speciale; e il suo oggetto specifico è il comando tacito o espresso.

Infatti la volontà del superiore, comunque venga conosciuta, è un precetto tacito; e l'obbedienza è tanto più pronta quanto più previene il comando espresso, una volta conosciuta la volontà del superiore.

Analisi delle obiezioni:

1. Nulla impedisce che in un identico oggetto materiale si riscontrino due aspetti specifici a cui si riferiscono due virtù specifiche: come un soldato, nel difendere l'accampamento del suo re, compie un atto di fortezza, in quanto rischia il bene proprio affrontando dei pericoli di morte, e fa un atto di giustizia in quanto rende al suo sovrano il dovuto servizio.

Perciò l'aspetto o formalità del comando, che è oggetto dell'obbedienza, può riscontrarsi negli atti di tutte le virtù, ma non si riscontra in qualsiasi atto di virtù, poiché non tutti gli atti virtuosi sono di precetto, come sopra [ I-II, q. 96, a. 3; q. 100, a. 2 ] si è notato.

Parimenti talora sono oggetto di comando cose indifferenti, che non appartengono ad alcuna virtù: come è evidente nelle azioni che sono cattive solo perché proibite.

Se quindi prendiamo l'obbedienza in senso rigoroso, in quanto ha di mira il precetto o comando come tale, allora si tratta di una virtù specifica, e anche la disobbedienza correlativa è un peccato specifico.

Si richiede allora, per l'obbedienza, che uno compia un atto di giustizia, o di un'altra virtù, volendo adempiere in tal modo un comando; e per la disobbedienza si richiede che uno abbia l'intenzione attuale di trasgredirlo.

- Se invece si prende il termine obbedienza in senso lato, per l'esecuzione di un atto qualsiasi che può essere comandato, e quello di disobbedienza per l'omissione di tale atto con un'intenzione qualsiasi, allora l'obbedienza è una virtù generica e la disobbedienza è un peccato generico.

2. L'obbedienza non è una virtù teologale.

Essa infatti non ha per oggetto Dio, ma il comando di qualunque superiore, sia espresso che interpretativo, cioè anche la semplice parola del superiore che ne indichi la volontà, al quale comando l'obbediente prontamente ubbidisce, secondo l'esortazione dell'Apostolo [ Tt 3,1 ]: « Ubbidiscano a una [ semplice ] parola ».

- Essa è poi una virtù morale, essendo tra le parti della giustizia: e consiste nel giusto mezzo tra il troppo poco e il superfluo.

Però qui il superfluo si misura in base non alla quantità, ma ad altre circostanze: cioè in base al fatto che uno ubbidisce o a chi non deve, oppure in cose inammissibili, come si è detto anche sopra [ q. 81, a. 5, ad 3 ] parlando della religione.

- Si potrebbe però anche rispondere che la condizione della giustizia, in cui il superfluo si riscontra in colui che possiede la roba altrui e la menomazione in chi non riceve quanto gli è dovuto, come dice il Filosofo [ Ethic. 5,4 ], si ritrova anche nell'obbedienza, il cui giusto mezzo sta tra il superfluo di chi nega al superiore il debito dell'obbedienza, poiché esagera nel compiere la propria volontà, e la menomazione di cui soffre il superiore al quale non si ubbidisce.

Per cui sotto questo aspetto l'obbedienza, come si è già detto per la giustizia [ q. 58, a. 10, ad 2 ], non consiste nel giusto mezzo tra due cose cattive.

3. L'obbedienza, come anche ogni altra virtù, deve avere la volontà pronta verso il suo oggetto proprio, non già verso quanto è con esso incompatibile.

Ora, l'oggetto proprio dell'obbedienza è il precetto, che promana dalla volontà di un altro.

Quindi l'obbedienza rende pronta la volontà di un uomo a compiere la volontà altrui, cioè di chi comanda.

Se però quanto viene comandato è per se stesso gradito a prescindere dal comando, come avviene nelle cose piacevoli, allora uno vi tende di propria volontà, e non pare che adempia un comando, ma che lo faccia di proprio arbitrio.

Quando invece le cose comandate in nessun modo sono volute direttamente, ma di per sé ripugnano alla volontà, come avviene nelle cose difficili, allora è del tutto chiaro che esse vengono adempiute solo per il comando ricevuto.

Per cui S. Gregorio [ Mor. 35,14 ] afferma che « l'obbedienza che mette qualcosa di suo nelle azioni piacevoli è nulla, oppure è minima », poiché la volontà propria non pare tendere a soddisfare il precetto, bensì a conseguire ciò che vuole; « invece nelle cose avverse e difficili essa è più grande », poiché la volontà tende unicamente a eseguire il comando.

Ciò però vale per quanto appare all'esterno.

Poiché nel giudizio di Dio, che scruta i cuori, può capitare che anche l'obbedienza nelle cose piacevoli, pur avendo qualcosa di proprio, non sia per questo meno lodevole: nel caso cioè in cui la volontà propria di chi ubbidisce non tenda con meno devozione a eseguire il comando.

4. Di per sé la riverenza o rispetto ha di mira direttamente la persona del superiore: quindi secondo i vari gradi di superiorità presenta una varietà di specie.

L'obbedienza invece ha di mira il precetto del superiore; per cui è sempre della stessa natura.

Siccome però l'obbedienza è dovuta al comando per il rispetto che merita la persona, è evidente che essa è sì della medesima specie, ma deriva da cause specificamente diverse.

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