Summa Teologica - II-II

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Articolo 1 - Se l'ingratitudine sia sempre un peccato

Pare che l'ingratitudine non sia sempre un peccato.

Infatti:

1. Seneca [ De benef. 3,1 ] insegna che « è ingrato chi non ricompensa un beneficio ».

Ma talora non si può ricompensare un beneficio se non commettendo un peccato: p. es. nel caso in cui uno abbia aiutato altri a peccare.

Dal momento quindi che astenersi dal peccare non è peccato, è chiaro che l'ingratitudine non è sempre un peccato.

2. Qualsiasi peccato è in potere di chi pecca: poiché, come nota S. Agostino [ De lib. arb. 3,18.51; Retract. 1,9 ], « nessuno pecca in ciò che non può evitare ».

Ma talora non è in potere di un individuo evitare l'ingratitudine: p. es. quando uno non ha nulla per ricompensare.

E neppure è in nostro potere la dimenticanza, mentre Seneca [ De benef. 3,1 ] afferma che « il più ingrato di tutti è chi dimentica ».

Perciò l'ingratitudine non è sempre un peccato.

3. Non pare che faccia peccato chi non vuole essere obbligato verso nessuno, stando all'esortazione dell'Apostolo [ Rm 13,8 ]: « Non abbiate alcun debito con nessuno ».

Ma al dire di Seneca [ De benef. 4,40 ], « chi non vuole aver debiti è un ingrato ».

Quindi non sempre l'ingratitudine è una colpa.

In contrario:

S. Paolo [ 2 Tm 3,2 ] enumera l'ingratitudine assieme ad altri peccati: « Ribelli ai genitori, ingrati, senza religione ».

Dimostrazione:

Come si è detto sopra [ q. 106, a. 1, ad 2; a. 4, ad 1; a. 6 ], il debito della gratitudine è un debito morale, richiesto dalla virtù.

Ma un'azione è peccaminosa per il fatto che è in contrasto con la virtù.

Perciò è evidente che qualsiasi ingratitudine è un peccato.

Analisi delle obiezioni:

1. La gratitudine suppone un beneficio.

Ora, chi aiuta a peccare non offre un beneficio, ma un danno.

Egli quindi non merita riconoscenza, se non forse per l'eventuale buona fede, in caso di inganno, cioè perché fu di aiuto a peccare persuaso di farlo per il bene.

Ma allora non va ricompensato aiutandolo nella colpa: poiché ciò non sarebbe ricompensare il bene, bensì il male, il che è incompatibile con la riconoscenza.

2. L'impossibilità di ricompensare non è mai una scusa per l'ingratitudine, dal momento che a soddisfare il debito della riconoscenza basta la buona volontà, come si è visto [ q. 106, a. 6, ad 1 ].

La dimenticanza poi che costituisce l'ingratitudine non è quella proveniente da un difetto naturale, ma quella dovuta a negligenza.

Infatti, come nota Seneca [ De benef. 3,1 ], « chi si è lasciato vincere dalla dimenticanza dimostra di non aver mai pensato a ricompensare ».

3. Il debito della riconoscenza nasce da quello dell'amore, dal quale nessuno deve desiderare di essere assolto.

Perciò il sentire questo debito come un peso deriva da una mancanza di amore verso i propri benefattori.

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