Teologia/TeologMist/TeologMist.txt La teologia mistica di San Bernardo Étienne Gilson Introduzione Étienne Gilson, San Bernardo e la storia della spiritualità di Jean Leclercq La théologie mystique de saint Bernard, pubblicata in prima edizione nel 1954, resta il più bei libro che sia mai stato scritto sull'abate di Chiaravalle, anche se non rappresenta l'ultima parola; ma chi potrà mai dirla? Certamente non ha chiarito tutto. Da allora sono apparse opere più erudite su aspetti particolari della vita e dell'opera di san Bernardo, ma non ce ne sono state di più penetranti, di più sintetiche, né di meglio scritte. La sua qualità letteraria ha contribuito, almeno quanto il suo contenuto dottrinale, al suo successo o, più esattamente, al suo influsso. Questo libro si colloca in una duplice evoluzione: quella del suo autore e quella degli studi medievali del tempo in cui egli lo scrisse, così fortemente segnati dalla sua persona e dalla sua opera. A motivo della mia età avanzata, sono stato invitato a ricordare qui questo maestro e amico, e il periodo in cui io fui suo discepolo, mentre egli raggiungeva l'apice della propria scienza e della propria fama. Accettare è stato un dovere, perché non si può apprezzare l'importanza di questo libro se non lo si colloca nel suo contesto. In effetti, si può dire che fu Gilson a far considerare seriamente, negli ambienti universitari del nostro secolo, la teologia del medio evo in generale e quella di san Bernardo in particolare. Questo campo sembrava riservato agli ecclesiastici. Alcuni vi eccellevano, ma i risultati dei loro lavori non uscivano da un ambito molto ristretto. Nel 1927 Charles Homer Haskins poteva ancora pubblicare un'opera - che resta un classico - su La rinascita del XII secolo senza dedicarvi un solo capitolo alla teologia. Ma qualche anno dopo Gilson cominciava a imporre all'attenzione dei medievalisti l'interesse offerto dai teologi, una volta che si accetti di leggerli. Non è questo il luogo per delineare una biografia di Gilson: l'opera è stata intrapresa, con una cura che ne giustifica la durata, dal Pontificio Istituto di Studi medievali di Toronto che egli stesso ha fondato. Per il nostro scopo basterà ricordare le grandi tappe della sua scoperta del medio evo, arricchendole con alcuni ricordi personali. I. L'autore Nacque in Borgogna nel 1884. Quando scoppiò la prima Guerra Mondiale, aveva avuto il tempo di sostenere, su Cartesio, una duplice tesi che fu pubblicata in due volumi nel 1913. Preparandola - lo confessava lui stesso - aveva capito che non si poteva comprendere il pensiero di questo fondatore della filosofia moderna senza conoscere le fonti che aveva avuto a disposizione e l'uso che ne aveva fatto. Cartesio lo aveva orientato verso la scolastica. I suoi studi furono interrotti dagli anni del servizio militare. Al suo ritorno li riprese e si assistette allora al susseguirsi dei suoi Etudes de philosophie medievale, nel 1921, della sua Philosophie du moyen àge e del suo primo Thomisme nel 1922. Il successo di queste tre opere fu immediato. Continuarono a essere ripubblicate. Egli d'altra parte non smise di riscrivere l'ultima, la quale divenne sempre più voluminosa, ed egli accettava volentieri che si scherzasse sui suoi successivi " tomismi ". Come Cartesio l'aveva condotto a san Tommaso, questi gli fece avvertire la necessità di studiare i suoi contemporanei e le sue fonti. Apparvero allora opere su La philosophie de S. Bonaventure, poi una Introduction a S. Augusti. A proposito di entrambi andava subito ai problemi essenziali e dominava con ordine e chiarezza una informazione immensa. Divenuto professore al College de France, sceglieva ogni anno, come materia d'insegnamento, un autore o un tema nuovo; questo ci è valso una successione regolare e ininterrotta di studi su sant'Anselmo, san Bernardo, Abelardo, Dante, Petrarca, Duns Scoto o sulla storia delle idee nella Città di Dio. Un giorno si scusò di affermare ciò che appariva lapalissiano: " Non ci sarebbe stato il XIII secolo se non ci fosse stato il XII ". Il suo bisogno di una comprensione integrale della scolastica lo spinse a scoprire - perché è questo il termine che si impone - la qualità dottrinale degli autori precedenti. La chiarezza e la semplicità con le quali affrontava i problemi più astratti erano sconcertanti, al punto da diventare offensive per alcuni intellettuali. Ero studente a Roma quando lui e Jacques Maritain ricevettero i loro primi due Dottorati " honoris causa " dall'Angelicum, ampliato nella nuova Aula magna, affollata per la circostanza. Il giorno successivo egli tenne, nella grande sala del Palazzo della Cancelleria, anch'essa affollata, una conferenza pubblica sull'essere e l'essenza. Uno dei nostri professori, che si affaticava sul medesimo argomento con un linguaggio più difficile, si alzò quasi subito e uscì per protestare contro una tale disinvoltura nell'introdurre elementi chiarificatori in un campo che sembrava riservato ai professionisti dell'astrazione più complessa. In un altro testo ho avuto occasione di riferire i miei ricordi su Maritain, ma poiché è appena stato nominato, è forse questa la sede per segnalare che questi due maestri, amici tra loro, avevano lo stesso dono di chiarire le questioni oscure. Gilson aveva la più alta stima per " Jacques ". Un giorno, a una delle nostre domande, diede questa risposta: " Non accetterò di far parte dell'Académie Française finché non vi sarà Maritain ". Negli anni Trenta, eruditi come Pierre Mandonnet e Dom Andre Wilmart si dedicavano all'inventario, all'edizione, allo studio critico dei testi di san Tommaso e di molti altri scrittori. Gilson era il pensatore che, partendo da questo materiale documentario, faceva rivivere degli uomini. Si pensi alla parola proferita in Ezechiele: " Profetizza! Fa' rivivere queste ossa inaridite! " Già un intero gruppo di discepoli e di ammiratori - Marie Dominique Chenu, Marie -agdeleine Davy, Marie Thérèse d'Alverny e altri - era da lui animato e, quando necessario, controllato. Non posso dimenticare i primi corsi di quello che divenne il suo Dante et la philosophie nel quale, con la franchezza concessa dall'amicizia, fece letteralmente a pezzi una magnifica costruzione di Mandonnet su Dante le théologien. Essa era fondata in parte su una simbolica dei numeri. Ora, spiegava Gilson, ho rifatto tutti i calcoli; le operazioni erano sbagliate. Egli si esprimeva con forza, ma anche con tatto, e per questo se ne accettava la lezione. Al termine di ogni sua lezione al College de Franco, lo si seguiva in quella che veniva chiamata la " boutique ", la libreria filosofica Joseph Vrin, situata non lontano, in piazza della Sorbona. Ci si ritrovava tra amici e si poteva " chiacchierare ". Io avevo seguito al Sant'Anselmo di Roma un corso di Anselm Stolz, in parte diretto contro l'interpretazione che Gilson dava dell'argomento detto ontologico di sant'Anselmo. Mentre alcuni vi vedevano un puro esercizio di dialettica destinato a " dimostrare " l'esistenza di Dio, il mio antico professore aveva preteso che il pensiero si muovesse solo sul piano dell'esperienza spirituale. Gilson, con buon senso, insegnava che poteva essere entrambe le cose, una forma nuova, originale, di " gnosi " - nel senso migliore del termine - che non usava categorie chiare e conosciute prima. È necessario dire che, lasciandomi convincere, non ho perso nulla della mia ammirazione e del mio riconoscimento per il mio maestro romano? Sia che si trattasse dell'averroismo o della nozione di filosofia cristiana - problemi a quel tempo molto dibattuti -, una sorprendente combinazione di genio e di senso comune permetteva spesso a Gilson di prendere le distanze dagli eruditi che avevano sicuramente maneggiato più varianti di lui. Un giorno non avrebbe scritto che non bisogna avere un manoscritto al posto del cuore? Poco dopo, a partire dalla fine degli anni quaranta, iniziò una discussione sulla formula regio dissimilitudinis - sulle sue possibili origini plotiniane, agostiniane o altre -; fu lui che, avendo partecipato all'ufficio corale insieme ad alcuni agostiniani, in occasione della festa del loro patrono, osservò che uno dei responsori conteneva quelle due parole, le quali avevano continuato ad essere recitate ogni anno dal medio evo in poi: era quindi necessario cercare altrove? Ciò che affascinava in Gilson, oltre alla sua forza di penetrazione, era lo spirito di sintesi: non si riteneva obbligato a preferire sempre un autore o un sistema di pensiero a un altro: sceglieva con libertà. Accordava uguale ammirazione a Cartesio e alla scolastica, a san Bonaventura e a san Tommaso, a san Bernardo e ad Abelardo. Un esempio di questo atteggiamento: un giorno mi confidò: " Ho dato a mio figlio tre nomi di santi del medioevo: Bernardo, Francesco e Domenico ". Nelle collane che aveva fondato e nei suoi Archives d'histoire doctrinale et littéraìre du moyen àge, accettava volumi e articoli che trattavano opere e periodi molto diversi. Aveva l'arte di incoraggiare e di stimolare. Quante volte, durante le nostre conversazioni, mi suggerì di dare alle stampe un testo o di redigere un articolo che egli avrebbe poi pubblicato. La qualità umana che conservava in tutte le sue ricerche storiche appariva nei saggi che scriveva sulla musica o sulle arti plastiche, su problemi di psicologia o di attualità sociale e politica. Tutti venivano immediatamente raccolti nei suoi volumi di Etudes d'art et de philosophie che conservano tutto il loro sapore. Era contento di aiutare così il suo amico Joseph Vrin a finanziare, con libri di ampia diffusione, le opere erudite, talvolta voluminose, che gli faceva accettare nelle sue collane filosofiche. Dedicò poi a Vrin, in segno di riconoscenza, il proprio La théologie mystique de saint Bernard. Egli stesso aveva avuto degli inizi difficili. Quando ebbe fatto accettare a Vrin di pubblicare la mia tesi su Jean de Paris et l'ecclesiologie du XIII siede, la cui stampa fu disturbata dalla guerra, mi consolò degli errori tipografici mai corretti che sarebbero rimasti. Perché, diceva, quando aveva composto il suo primo Thomisme per stamparlo aveva trovato solo un piccolo laboratorio mal attrezzato, poco abituato a quel genere di letteratura, ma gli errori di stampa non avevano impedito che il libro venisse letto. Mi sarà permesso, in questa sede, di evocare un altro incontro, il cui influsso fu decisivo per tutta la mia attività a partire dagli anni quaranta? Lavorando al Dipartimento dei manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi e trovandovi molte testimonianze inedite di ogni epoca, ero incerto sull'orientamento da dare a questi studi. La scolastica del XIII e del XIV secolo e l'ecclesiologia del XV erano attraenti quanto la " monastica " dell'XI e XII. In un giorno d'angoscia telefonai a Gilson. " Venga a trovarmi ", mi rispose. Per tutto il pomeriggio non smise di pormi di fronte a problemi riguardanti la cultura monastica. Alla fine il suo consiglio fu sicuro: un sufficiente numero di ricercatori si stava occupando della scolastica; egli sperava che qualcuno si specializzasse nello studio degli antichi monaci. Subito misi in cantiere Jean de Fécamp, poi Pierre de Celle, che egli fece entrare nella sua collana di Etudes d'histoire de la spiritualité. Più tardi, quando potei inviargli L'amour des lettres et le désir de Dieu, ero in grado di assicurargli che quel libro, senza di lui, non sarebbe mai stato scritto. Richard William Hunt un giorno mi avrebbe detto alla Bodleian Library di Oxford: " Non sapremo mai ciò che dobbiamo a Gilson ". È quindi giusto che i discepoli che a lui sopravvivono, assolvano questo debito di riconoscenza. Agli occhi di alcuni egli sembrava avere, a suo tempo, un carattere difficile; io non me ne accorsi mai. L'ho sempre conosciuto come un uomo piacevole, un conoscitore di ogni sorta di cose buone. Era annoverato con onore tra gli Chevaliers du Taste-Vin, che si riunivano nella Cantina di Cìteaux a Digione. Nel suo discorso di accoglienza all'Académie Française, ironizzò bonariamente sulle difficoltà che si incontrano nel governare un popolo, il suo, per il quale ad ogni qualità di vino corrisponde un formaggio appropriato. Durante la guerra mi era capitato di portargli, nella penuria alimentare parigina, formaggi, ricevuti dalla mia provincia d'origine, la cui invenzione risaliva, secondo la tradizione, ai monaci dell'Abbazia di Marolles. Questa persona così umana era un buon cristiano. Il primo ricordo che conservo di lui mi venne da un sacerdote che aveva trascorso le proprie vacanze estive nel villaggio di Vermenton. Ogni mattina, alla Messa, c'era solo un parrocchiano, il quale lasciava la chiesa appena terminato il ringraziamento. Il sacerdote s'informò nel villaggio e gli dissero che era Gilson. Anche lui, più tardi, mi parlò più di una volta dell'emozione provata quando, durante la Grande Guerra, uno dei suoi compagni, caduto accanto a lui sul campo di battaglia, gli domandò di ascoltare la sua confessione. Egli rifiutò, ma il morente iniziò subito e il sergente Gilson non poté che pregare per lui. Quando negli anni sessanta mi capitò di soggiornare all'Istituto di Studi medievali di Toronto, dove egli veniva ancora regolarmente, constatai che quelli che lì lo vedevano vivere, avevano per lui una autentica venerazione. Uno di essi mi disse: " Noi lo consideriamo un santo ". La sua fede e il suo senso dell'uomo spiegano il suo interesse sia per la scienza che per la santità. Ciò apparve chiaramente quando inaugurò la cattedra di Storia della spiritualità all'Institut Catholique di Parigi. Era il momento in cui, stimolato dal nostro comune amico, Andre Combes, si entusiasmava per Teresa di Lisieux. Infatti, questo medievalista era sensibile a tutte le testimonianze dalle quali emanava, in ogni epoca, una intensa partecipazione al mistero di Cristo. L'esposizione che fece quel giorno, e che aprì una nuova collana, fu, oltre che una lezione di metodo, un programma di vita. II. Analisi e sintesi Prima di Gilson san Bernardo era ammirato, ma non veniva considerato seriamente dai teologi. Lo si riteneva un " autore devoto ", nulla di più. Ora un grande universitario laico scopre e mostra che possiede una dottrina, e fa apparire il termine " teologia " nel titolo di un libro che lo riguarda. Possiamo immaginare quale rivoluzione ciò abbia rappresentato? Nelle prime righe della sua prefazione, Gilson afferma chiaramente quale era stato il suo progetto: studiare la " sistematica " della " dottrina " di san Bernardo su un punto preciso: la " teologia su cui si fonda la sua mistica ". Punto centrale, è vero, a partire dal quale avremmo assistito allo sviluppo di tutto il resto. Ci si accorse allora che c'è, in san Bernardo, una autentica dogmatica. Sin dall'inizio, pur con ferma cortesia, Gilson si crede obbligato a contraddire lo storico della spiritualità il cui manuale, ristampato più volte e tradotto in varie lingue, faceva testo: P. Pourrat, il quale a quel tempo insegnava nel più illustre dei Grandi Seminari di Francia, quello di Sainti-Sulpice. Egli, come tutti, aveva non solo ignorato, ma espressamente negato il carattere " sintetico " e " scientifico " del messaggio di san Bernardo, considerato come esclusivamente " pratico ". Ma Gilson aveva la capacità di leggere i testi con stupore, in qualche modo ingenuamente, come se nessuno li avesse letti prima di lui, senza tener conto di ciò che era stato scritto su di essi. Si era così accorto che san Bernardo era " un teologo la cui capacità di sintesi e il cui vigore speculativo lo avvicinano ai più grandi ". Chi si esprimeva così aveva scritto varie opere su sant'Agostino, san Tommaso, san Bonaventura, Cartesio: ce n'era a sufficienza per conferirgli autorità quando ebbe il coraggio di rompere con una intera tradizione nell'interpretazione di un mistico del XII secolo. Questo fu il contributo decisivo di Gilson. Vero pioniere, egli aprì un campo d'esplorazione insospettato prima di lui. Tutto quanto fu fatto in seguito si deve alla sua iniziativa. Assistette con gioia a tutto quel lavoro, incoraggiando con benevolenza i ricercatori, ma fidandosi di loro e non intervenendo più. Circa venti anni più tardi, quando si stava preparando il Congresso organizzato in occasione dell'VIII centenario di san Bernardo, che doveva tenersi - e si tenne - a Digione nel 1953, io lo invitai a presiederlo o almeno a parteciparvi. Si scusò con una modestia non falsa, dichiarandosi soddisfatto di seguire quegli studi con simpatia, ma a distanza e senza lasciare il proprio ritiro estivo - quasi un eremo - di Vermenton. Quando apparvero gli atti, si assegnò loro un titolo ispirato al suo: Saint Bernard théologien. Sin dal discorso inaugurale mi ero sentito in dovere di rendergli omaggio e l'indice dei nomi permette di constatare che il suo nome fu uno di quelli citati più frequentemente. Non contento di constatare " il genio speculativo di san Bernardo ", i cui testi " si spiegano esattamente e tecnicamente come le pagine più dense di sant'Anselmo e di san Tommaso d'Aquino ", Gilson si impegnò a mettere in chiaro il suo " metodo "; tale preoccupazione di chiarezza si distacca dal " fondo scuro del misticismo " che Haskins era pronto a riconoscere agli autori cistercensi. Poiché Gilson era uno storico, inizia stabilendo una cronologia che gli permetta di collocare san Bernardo nell'evoluzione del " problema dell'amore " nel XII secolo. Anche questa formula era apparsa nel titolo di un'opera che aveva aperto nuovi orizzonti su quel periodo. Ma il suo autore, Pierre Rousselot, un giovane gesuita di belle speranze, era stato falciato, come tanti altri eruditi e scrittori di sicuro avvenire, dalla Grande Guerra. Gilson riprese la fiaccola e nello stesso tempo, sulla base di una precisa cronologia, rivelò l'esatta relazione che esisteva tra Bernardo e altri testimoni della teologia mistica del XII secolo, in particolare Guglielmo di Saint-Thierry. Quest'ultimo era già stato oggetto di alcuni studi dottrinali: Andre Wilmart strappava ai manoscritti i segreti sulla successione delle sue opere. Tuttavia lo sviluppo delle ricerche teologiche a suo riguardo sarebbe stato legato all'impulso dato da Gilson. San Bernardo è un uomo - " questo uomo scarno, dal viso pallido sotto i capelli rossi che infiammavano sulle guance gli ardori nascosti dell'anima ". Ha una storia ulteriore, si forma lentamente. A trentacinque anni, quando inizia a pubblicare i suoi primi trattati, ha raggiunto la piena maturità: Gilson - e questa conclusione è stata successivamente confermata - non riconosce più in lui, in seguito, alcuna evoluzione. L'abate di Chiaravalle, da quel momento, acquista rilievo su uno sfondo culturale, ecclesiale e monastico da cui non lo si può isolare. Il suo storico comprende immediatamente ciò che lo lega al passato umanistico: l'influsso che la sua concezione dell'amicizia riceve da Cicerone. La cronologia della sua lettura del De amicitia ha potuto essere successivamente precisata, ma prima era stato necessario accorgersi del fatto. Da qui sarebbe derivata una intera concezione dell'amore, la quale costituì la ricchezza di san Bernardo e di tutta la scuola cistercense, ma che proiettò anche qualche luce sui romanzi di Chrétien de Troyes e permise di considerare in modo positivo " il dramma passionale di Eloisa e Abelardo, più fecondo di idee di quanto normalmente si supponga ": Gilson gli avrebbe ben presto dedicato uno dei suoi libri più penetranti e commoventi. Nello stesso tempo apriva piste sulle quali altri sarebbero andati più lontano di lui, talvolta troppo lontano. Aveva ragione nel sottolineare l'influsso di Origene, che resta innegabile. Suggeriva quello di Gregorio di Nissa e di Massimo il Confessore. Senza saperlo, lanciava, per così dire, una sorta di moda, quella che consiste nell'orientalizzare all'eccesso i cistercensi del XII secolo e contro la quale è stato ora necessario reagire. Allo stesso modo le pagine dedicate alla regio dissimilitudinis avrebbero dato inizio a una vasta serie di ricerche, alcune delle quali di grande interesse, in particolare quelle di Pierre Courcelle. Questa formula, derivata da Platone, si trovava in sant'Agostino e, lo si è già detto, nell'ufficio della sua festa. Certamente il vescovo di Ippona è stato letto; ma Gilson, che aveva voluto far educare il proprio figlio dai benedettini, ha avuto l'occasione, che alcuni non hanno dimenticato, di dar loro la prova del fatto che conosceva la loro Regola: la ritrova in san Bernardo, e san Benedetto lo conduce a Cassiano. Procedendo con ordine, arriva così alle origini di una tradizione che non ha solo carattere letterario, ma che è ancora vivente. Gilson sa opporsi con fermezza a semplificazioni falsificatrici, come quella di George Gardon Coulton che, troppo a lungo, aveva fatto testo in alcuni ambienti di lingua inglese. Conia inoltre ammirevoli sentenze che, in francese, sono divenute quasi proverbi per parlare della conciliazione tra la rinuncia e il gusto del bello. L'itinerario dalla carità all'estasi è tracciato da san Bernardo nel suo trattato Sull'amore di Dio ( De diligendo Deo ). Anche là, contrariamenteè a luoghi comuni troppo facili, l'importanza, il " valore " del corpo è alla base di un'antropologia decisamente positiva, che non si finisce mai idi ammirare. Tutto ciò è possibile solo tenendo conto della " terminologia tecnica " di Bernardo. Una grande attenzione viene quindi dedicata ai termini, il cui significato è stabilito con rigore. Fa quindi piacere vedere applicato a un autore mistico un metodo filologico che non deve essere riservato agli scritti profani; anche questo, quando Gilson lo fece, era ancora una novità. Il suo libro è chiaro, solidamente costruito, facile da seguire. Nel testo, o nelle note, sono spiegati moltissimi temi, senza troppa erudizione. Questi dati sono stati così ben assimilati e poi ordinati, che ne risulta un testo di una bellezza straordinaria. Ma Gilson non ignora i pericoli della letteratura: non ne è vittima, controlla la propria arte e il proprio stile. Il tutto termina con pagine luminose sull'unione mistica. Dopo questa lettura si possono affrontare direttamente le opere di san Bernardo: vi si ritroveranno e vi si riconosceranno molti elementi sparsi, ma si saprà secondo quale ordine essi si organizzano in una sintesi coerente. III. Ricchezze ulteriori Il libro di Gilson avrebbe potuto terminare sulle vette dell' " amore puro ". Tuttavia, cammin facendo, lo storico aveva sollevato alcuni problemi che sembravano marginali, ma a proposito dei quali ha voluto far confluire, in una serie di appendici, tutto ciò che ancora percepiva o intravedeva. In seguito egli stesso e altri avrebbero scavato più profondamente quei solchi. Egli ha avuto il merito di far sorgere i problemi. Anzitutto le sue due pagine sulla Curiosits hanno sottolineato l'importanza di questo concetto che, successivamente, è stato utilmente inventariato e confrontato con l'uso che ne aveva fatto la tradizione. Poi l'excursus intitolato Abelardo tratta in realtà soprattutto di Eloisa la quale, se ciò era necessario, viene di colpo riabilitata. Tutto l'essenziale del libro di Gilson su Abelardo e su di lei si trova già in questa seconda appendice. È significativo il fatto che abbia intitolato un'opera Eloisa ed Abelardo, concedendo a lei il primo posto. Di fatto, avremmo mai avuto la meravigliosa corrispondenza scambiata tra di loro, senza questa partner, che non ne è una complice e che eguagliò il maestro e persino lo superò? Il povero Berengario di Tours, che si credette obbligato ad attaccare Bernardo per difendere Abelardo, ne ha ricavato solo del ridicolo per se stesso. Gilson lo ha affermato senza compiacenza nella sua terza appendice e alcune recenti ricerche hanno confermato il fondamento di questo giudizio. Ma le due appendici più arricchenti sono quelle che riguardano l'amore cortese e Guglielmo di Saint-Thierry. Riguardo alla seconda è già stato notato che Gilson ha aperto la strada a una serie di ricerche che proseguono ancora, particolarmente negli Stati Uniti. Infatti vi è un aspetto della sua opera che, di passaggio, bisogna segnalare: il suo influsso si esercitò contemporaneamente nei paesi di lingua inglese e francese; prima ancora di fondare l'Istituto di Studi medievali di Toronto, andò in America per tenere delle conferenze. In Gran Bretagna aveva tenuto ad Aberdeen quelle " Gifford lectures " che divennero L'esprit de la pbilosophie au moyen àge. La teologia di san Bernardo fu dapprima presentata all'" University College of Wales ". Poi, a partire da quel crocevia che è Toronto, da dove andava a parlare in altri luoghi o dove si andava a consultarlo e ad ascoltarlo, egli suscitò, nella generazione che seguì quella di Haskins, un interesse intelligente per gli autori che lui stesso scopriva. Era fiero di appartenere all'" Académie Canadienne Francaise ". Nel Québec, e in tutto il paese, come negli Stati Uniti, il suo influsso fu profondo. Oggi, Guglielmo di Saint-Thierry è senza dubbio l'autore del XIIi secolo più studiato e questa " Guglielmologia ", se ci si può esprimere così, è produttiva soprattutto nel Nuovo Mondo, dove è ad alto livello. Quando il Papa accordò il titolo di " Pontificio " all'Istituto di Toronto, riconobbe i servizi da lui resi alla cultura cattolica in questa vasta parte dell'universo. Quanto all'amore cortese, Gilson prese ugualmente posizione riguardo all'edizione de La Queste du Saint Grani di Albert Pauphilet. Il fatto che uno specialista della filosofia e della teologia del medio evo, amico di Martin Grabmann e di Clemens Baeumker, di cui parlava volentieri, fosse capace di scrivere con competenza anche sulla letteratura cortese, era e resta una rarità. In ognuno di questi campi esistevano illustri esperti, ma generalmente non si conoscevano o addirittura si misconoscevano. L'intuizione di Gilson fu di capire che non si poteva comprendere san Bernardo senza considerare, così come si direbbe oggi, il suo ambiente " socio-culturale " e la letteratura nella quale esso si era espresso. Con la propria inesorabile lucidità, Gilson scopre immediatamente che in ragione della propria vera natura, l'amore cortese non può in nulla essere assimilato all'amore mistico. In seguito si è potuto sostenere, talvolta con un'erudizione impressionante, il prò e il contro. Ora che tutto è stato detto, sembra proprio che il buon senso, ancora una volta, abbia visto giusto: tra questi due modi di amare esiste una differenza essenziale, a proposito della quale Gilson è radicale. Ciò non esclude affatto che tra queste due letterature e i loro autori siano esistite relazioni e anche influssi. Essi hanno potuto, e anche dovuto, utilizzare in parte il medesimo linguaggio. Quello di Bernardo è quasi unicamente biblico. Le analisi degli stati d'animo, anche quando sono formulate, da entrambe le parti, nel linguaggio dell'amore umano, sono molto più approfondite in Bernardo e in Guglielmo che non nei loro contemporanei profani. Esse hanno contribuito, presso i successori di questi ultimi, a un affinamento progressivo. Bernardo ha potuto ricevere dai romanzi alcuni temi che, d'altra parte, sono comuni a tutte le letterature d'amore. Egli, a sua volta, ha direttamente o indirettamente ispirato il Graal? Si continua a discuterne. La risposta va data a proposito di ciascun " ciclo " e, in ognuno di essi, di ciascun testo. Gilson ha avuto il merito di liberare il terreno da risposte premature. Questo settore è uno di quelli nei quali si desidererebbe maggiormente una sintesi. Prima di arrivarvi, occorre ancora dedicarsi a minuziosi confronti tra i testi, i temi, le idee sull'amore - la malattia, il languore e la forma di morte che causa - e sul matrimonio, in ognuno dei poeti e romanzieri, trovieri e trovatori, filosofi, teologi, mistici, storici, canonisti e così via. Ne siamo ancora lontani. Era necessario cominciare. Questo fu il ruolo di Gilson. Allo stesso modo, in questi ultimi dieci anni, un'intensa controversia ha rimesso in causa l'autenticità della corrispondenza tra Abelardo ed Eloisa. Questo capolavoro non sarebbe dovuto a un anonimo falsario del secolo successivo? Una immensa erudizione è stata utilizzata per sostenere o rifiutare questa ipotesi. Alla fine l'unanimità si è orientata a favore dell'autenticità, sostenuta da Gilson con una semplice argomentazione derivante sia dall'intuito che dall'erudizione: è troppo bello per non essere vero. Su questo punto egli era d'accordo, avendolo consultato, con un " amabile erudito benedettino " che non nominò affatto, ma che era facile identificare come un insigne esperto di critica testuale: Dom Andre Wilmart. Il senso critico e il buon senso si erano incontrati; si sarebbe tentati di aggiungere, pensando a un salmo, e rimanendo in una serie appropriata di immagini, che si erano abbracciati. In tutta la sua Théologie mystique de saint Bernard, vi è un punto sul quale Étienne Gilson non ha mai fatto concessioni: ciò che si potrebbe chiamare il radicalismo di Bernardo, la generosità incondizionata, senza limiti, del suo amore per Dio, in base al quale si avvicina o si allontana, secondo i casi, dagli altri letterati o teorici dell'amore del suo tempo. Quel folle amore è quello di Dio stesso, quello che è apparso nell'Incarnazione, che viene continuamente diffuso dallo Spirito Santo nel cuore delle donne e degli uomini che lo accolgono. È quello di Bernardo, quello che egli voleva far nascere nei propri lettori. Amore attivo e impegnato, come si diceva allora nel vocabolario di Emmanuel Mounier, che noi ammiriamo insieme a lui. Gilson desiderava vedere il maggior numero possibile di laici come lui presenti, in base alla propria competenza professionale, nelle funzioni secolari della società, per testimoniarvi Cristo e la sua Chiesa. Egli si è spiegato in un articolo della rivista " La vie intellectuelle ". Questo è il più grande ricordo che lascia a coloro che hanno gioito per il suo insegnamento e per la sua amicizia, della quale non era affatto avaro. Egli ha splendidamente scritto sulla schola caritàtis: nella sua persona e nella sua opera ha saputo unire " scuola " e " carità ". Prefazione Dopo aver studiato in più riprese i più importanti scritti mistici di san Bernardo, ho creduto di avere individuato le linee fondamentali della sua dottrina con una chiarezza tale da dedicargli un intero corso al College de France nel 1933. Invitato nello stesso anno dall'University College of Wales ( Aberystwith ), per tenervi cinque lezioni su un problema di storia delle idee medievali, ho tentato di riassumere per questo nuovo pubblico l'aspetto forse meno studiato della mistica cistercense: quello che si potrebbe definire la sua " sistematica ". Adempiendo alla promessa che avevo fatto, queste che ora pubblico sono quelle lezioni in parte arricchite nei contenuti, felice di testimoniare così la mia gratitudine all'Università gallese, che mi aveva invitato, e al pubblico sempre così ben disposto da non lasciarsi scoraggiare ne dalla difficoltà del problema, ne dalla timidezza di un professore che non si esprime nella propria lingua. L'argomento è chiaramente delimitato dal titolo stesso di quest'opera. Non si tratta né della vita di san Bernardo, né della sua teologia in generale e neppure dell'insieme della sua mistica, ma soltanto di quella parte della sua teologia su cui si fonda la sua mistica. Persino le personali esperienze mistiche di san Bernardo, il cui studio tuttavia è avvincente, sono state toccate solo incidentalmente e in occasione delle speculazioni teologiche che le interpretano. Questa limitazione si spiega con il desiderio di isolare, per mettere in risalto, l'unica conclusione di qualche importanza alla quale mi ha condotto questo studio: " La mistica di san Bernardo ", ha scritto P. Pourrat, " non si presenta sotto forma di sintesi; … non ha d'altra parte alcun carattere scientifico; essa è essenzialmente pratica ". Credo che questo sia un grave errore. Se, nonostante la sua schematicità, il disegno molto semplificato della sua dottrina che io propongo qui, può essere accettato come vero, sarà vero dire che Bernardo non fu in alcun modo un metafisico, ma dovrà anche essere da noi considerato un teologo la cui capacità di sintesi e il cui vigore speculativo lo avvicinano ai più grandi. Senza dubbio la sua teologia mistica è essenzialmente la scienza di una pratica, ma spero di mostrare che è anche una scienza e che era difficile spingere oltre il rigore della sintesi. Soltanto che, per vederlo, bisogna attendere con pazienza di averne individuato i principi. Dopo che lo si è fatto, tutto si chiarisce. Una volta conosciuti i principi e il linguaggio dell'autore, i suoi trattati e i suoi sermoni si spiegano esattamente e tecnicamente come le pagine più dense di sant'Anselmo o di san Tommaso d'Aquino. Nessuno commetterà l'errore di dimenticare l'anima del mistico; al contrario, penso che la si conoscerà meglio se in futuro si dimenticherà meno il pensiero del teologo. Precisiamo che le citazioni delle opere di san Bernardo - secondo il testo critico stabilito da J. Leclercq e H. Rochais - indicheranno la sigla dell'opera, la parte da cui è tratta ( sermone, libro, capitolo o paragrafo, in numeri arabi e talvolta romani ), il volume dell'edizione critica ( l'unico o il secondo numero romano ), le pagine e, quando necessario, le righe, ( ndt ) Atqui Deum et hominem, quia propriis exstant oc distant et voluntatibus et substantiis, longe aliter in se dterutrum manere sentimus, id est non substantiis confusos, sei voluntatibus consentaneo!. Et haec unio ipsis communio volunta-tum et consensus in cariiate. Felix unio, si experiaris; nulla si comparaveris. ( SC 71,10,II,221,8-12) Regula LXXIII Nel 1112 il giovane Bernardo entrò nell'abbazia di Cìteaux accompagnato da quattro fratelli e da circa venticinque amici. Questi arrivi inattesi ridiedero vita a una riforma monastica che stava per morire d'inedia. I fatti, nelle linee essenziali sono noti e non dobbiamo raccontarli ancora una volta, però è importante sapere ciò che quei giovani attendevano da Citeaux e ciò che vi avrebbero trovato entrandovi. Ignorandolo non si potrebbe spiegare l'esistenza stessa dell'ascetica e della mistica cistercense. Infatti la sua esistenza è un problema. Gli storici oggi parlano abitualmente del " Rinascimento " del XII secolo. L'espressione è facilmente giustificabile, ma l'aspetto più notevole è che, nella mente di coloro che ne parlano, questo rinascimento sembra dipingersi con colori chiari sul fondo scuro del misticismo cistercense: " Questo secolo, il secolo di san Bernardo e della sua mula, fu per molti aspetti un'età di vita fresca e vigorosa; contrassegnata dalle crociate, dalla nascita delle città e dei primi stati burocratici dell'Occidente, quest'epoca vide la pienezza dell'arte romanica e gli albori di quella gotica, il diffondersi delle letterature volgari, la riscoperta dei classici latini, della poesia latina e del diritto romano, lo studio della scienza greca con le sue appendici arabe e di buona parte della filosofia greca, il sorgere delle prime università europee. Il XII secolo ha lasciato la sua impronta sull'istruzione superiore, sulla scolastica, sugli ordinamenti giuridici europei, sull'architettura e la scultura, sul dramma liturgico, sulla poesia latina e volgare. Il tema è troppo ampio per un singolo volume e per un singolo autore ". Nulla di più vero, e lo è ancora più di quanto non pensi l'eminente storico. San Bernardo, e quella mula che egli si ostina a non guardare, non sono soltanto l'elemento di contrasto sul quale risalta questo Rinascimento, ma ne sono parte integrante; forse ne sono persino l'espressione migliore, perché san Bernardo è il contrario del monaco incolto; non ignora ciò che disprezza, semplicemente l'ha superato. La letteratura mistica del XII secolo completa armoniosamente la letteratura profana e la corona, e la riformerà rapidamente a propria immagine. Per chi non si accontenta di questi settori di storia paralleli, ciascuno dei quali è considerato da uno storico che non si preoccupa dei settori vicini, la nascita della poesia cortese e del romanzo cortese, e tutta questa letteratura amorosa in lingua francese, è preceduta o accompagnata da una ricca speculazione teologica sull'amore, le cui opere si snodano senza interruzione dall'inizio del secolo fino alla sua fine e si prolungano anche nei secoli successivi. Limitandoci al XIIl secolo, diciamo che tre gruppi di teologi sembrano aver preso l'iniziativa e la guida del movimento. Essi stessi non sono un inizio assoluto, ma il XII secolo, su questo punto come su molti altri, rappresenta nondimeno un nuovo punto di partenza, una sorta di ripresa della quale non possiamo ancora valutare la fecondità. La scuola certosina, di cui Guigo I sembra l'iniziatore, la scuola benedettina e cistercense, fondate da Guglielmo di Saint-Thierry e da san Bernardo, la scuola vittorina, con Ugo e Riccardo di San Vittore, hanno coltivato il problema dell'amore con gelosa predilezione. Ciascuno di questi dottori, o dei loro discepoli, ha voluto prendere posizione sulla questione e risolverla, senza pretendere di creare dal nulla gli elementi della soluzione, ma adattandoli al proprio modo di pensare e di sentire. Tra questi riserviamo un posto particolare ad alcuni autori isolati, come Abelardo, che a prima vista possono apparire come corpi estranei, ma le cui idee aberranti hanno agito talvolta da fermento e si sono rivelate feconde per le reazioni che hanno provocato. È forse troppo presto per compilare una tavola cronologica di questi autori e delle loro opere, tanto più che la data esatta di molte di esse potrebbe avere un'approssimazione di circa dieci anni; ma le pazienti ricerche di Dom Andre Wilmart, che tanto ha fatto per sbrogliare la matassa di questa letteratura, ci permettono almeno di fissare un certo numero di punti di riferimento, attorno ai quali il resto può essere collocato con sufficiente approssimazione. Nonostante le incertezze, o anche le inesattezze, tale quadro è sufficiente per dare l'impressione dell'importanza e della continuità dello sforzo che si è sviluppato, attraverso tutto il XII secolo, per chiarire il problema dell'amore. Ci limitiamo agli autori più importanti e alle loro opere più rappresentative nella scuola certosina, benedettina e cistercense. Date approssimative Autori Opere 1115 Guigo I, il Certosino Meditationes 1121 (o poco dopo) P. Abelardo Introduction ad theologiam 1119/35 Guglielmo di Saint-Thierry De contemplando Deo - De natura et dignitate amoris - Meditativae orationes 1125 San Bernardo Epistola de cantate ad Carthu-sianos ( costituisce l'ultima parte del De diligendo Deo, capp. XII-XV ) 1125/26 De gradibus humilitatis et su-perbiae 1127/35 De diligendo Deo, capp. l-XI 1135/38 Super Cantica Canticorum, sermoni 1-24 1136/40 P. Abelardo Super Epistolam ad Romanos 1138/53 San Bernardo Super Cantica Canticorum, sermoni 25-86 1138 Guglielmo di Saint-Thierry Expositio in Epistolam ad Romanos 1141/42 Aeiredo di Rievaulx Speculum Caritatis 1144 Guglielmo di Saint-Thierry Speculum fidei - Aenigma fidei 1145 Epistola aurea ad Fratres de Monte Dei, libri I-II 1145/50 Guigo II, il Certosino Scala claustralium 1154/67 Gilberto di Hoyland In Cantica Canticorum, sermoni 1-41 ( Il sermone 41, che contiene l'elogio funebre di Aeiredo di Rievaulx, è quindi del 1167 ) 1160/70 Guigo II, il Certosino Meditationes 1163/64 Aeiredo di Rievaulx De oneribus 1164/65 - Be spirituali amicitia 1166 - De anima 1167/72 Gilberto di Hoyland In Cantica Canticorum, sermoni da 46 alla fine 1187/89 Adamo il Certosino De quadripertito exercitio cellae 1190 Anonimo Meditationes piissimae de cognitione humanae conditionis Due uomini dominano tutta questa storia: san Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di Saint-Thierry. Sarebbe necessario considerarli tutti e due contemporaneamente e questa è una delle maggiori difficoltà di questo studio, poiché sono molto diversi e, allo stesso tempo, inseparabili. L'uno, Bernardo, prevale incontestabilmente per la santità e la profondità dottrinale, ma l'altro, Guglielmo, non gli è inferiore - anzi talvolta sembra superarlo - per la forza di cui dà prova nell'elaborazione della loro comune sintesi dottrinale. Il problema si complica ulteriormente a causa della cronologia dei loro rapporti. Sarebbe molto più semplice se potessimo considerare Bernardo come il maestro e Guglielmo come il discepolo. Guglielmo vorrebbe anche farcelo credere, ed in realtà lo è stato, ma il discepolo non ha insegnato nulla al maestro? Bernardo è nato nel 1090; Guglielmo, nato verso il 1085, forse addirittura nel 1080, era quindi maggiore di età di almeno cinque anni. Bernardo è morto nel 1153, Guglielmo verso il 1148, precedendo così nella tomba colui di cui aveva iniziato a scrivere la storia. Sono quindi quasi esattamente contemporanei; Guglielmo non può essere considerato come un giovane che, andando da san Bernardo come da un maestro dal quale deve imparare tutto, si sia accontentato di ricevere da lui una sintesi dottrinale già completa. Inoltre Guglielmo non è un cistercense della prima ora; educato a Reims, nel monastero benedettino di Saint-Nicaise, vi prende l'abito, viene eletto abate del monastero di Saint-Thierry nel 1119 ed è soltanto nel 1135 che si dimette da questa carica per entrare nel monastero cistercense di Signy. Con ogni probabilità nel 1135 la dottrina di Bernardo è completamente formata, così come quella di Guglielmo. Pur riconoscendo che dal 1125 l'influsso personale di Bernardo varca ampiamente i confini dell'Ordine nascente, è giusto notare che la formazione ascetica e teologica di Guglielmo non ne dipende direttamente. Nella misura in cui queste due vite si sono intrecciate, quando e in che senso si sono effettuati gli scambi? Ammesso che Bernardo abbia donato quasi tutto, a sua volta non avrebbe ricevuto nulla? Non lo sappiamo. Comunque sia, Guglielmo mantiene la propria personalità ben distinta, la sua opera è importante e, nel caso fosse andata completamente distrutta, quella di san Bernardo non basterebbe a rimpiazzarla. Dietro questi due maestri si delineano alcune figure di secondo piano. Appartenente a una generazione successiva, Aelredo di Rievaulx dipende, tuttavia, ancora direttamente da san Bernardo. Essendo vissuto nel XII secolo, la distanza cronologica che lo separa dal maestro non è considerevole; sebbene influssi dottrinali si siano interposti tra lui e san Bernardo, egli rimane, nonostante la forza delle differenze personali, un interprete qualificato del maestro di cui si sente costantemente la presenza nei suoi scritti. Se ne potrebbero citare altri, quali Gilberto di Hoyland e Isacco della Stella, ma questi tre nomi sembrano designare bene i tre fondatori e interpreti principali di quella che si può chiamare la Scuola Cistercense presa in sé stessa, indipendentemente dall'influsso, del resto così esteso e profondo, che ha esercitato, per esempio, sulla scuola certosina o, più in generale, al di fuori dell'Ordine Cistercense. Cosa avevano in comune e, almeno al livello in cui esiste, come si spiega la loro unità? Anzitutto non è possibile non notare una rimarchevole analogia di formazione intellettuale e di gusti tra questi uomini così diversi. A parte Isacco, in cui si notano i segni evidenti di un vivo interesse per la dialettica e la metafisica, nessuno sembra essere stato toccato dal movimento filosofico del loro tempo. Se fosse necessario classificarli, li annovereremo piuttosto tra gli anti-dialettici: san Bernardo attaccherà Abelardo e Gilberto della Porretta, ed è Guglielmo di Saiint-Thierry che lo spingerà all'attacco; Aelredo vivrà tranquillo al di fuori delle controversie di scuola, e Isacco, tranne che in qualche notevole sermone, coltiverà la psicologia più che la metafisica. In generale la loro cultura profana è soprattutto letteraria. Si distingue anche dalla scuola di Chartres perché Platone non vi è considerato più di Aristotele; l'uno e l'altro sono trattati come dei sofisti, la cui ragione era condannata in anticipo all'errore perché mancava loro la luce della fede. Invece, tutti i rappresentanti della scuola cistercense che abbiamo nominato scrivono con cura. Sono degli stilisti. Nutriti di Cicerone e di sant'Agostino, hanno rinunciato a tutto tranne che all'arte dello scrivere bene. San Bernardo ha anche saputo crearsi un latino molto personale, ricco, ma non sovraccarico di citazioni bibliche, armonioso e di una sonorità tutta interiore - Doctor mellifluus -,allo stesso tempo fedele alle tradizioni classiche e libero della libertà che si addice alle lingue vive. I suoi periodi sono molto articolati, spesso formati da opposizioni antitetiche. Ama raccogliere i propri pensieri, al momento opportuno, in brevi formule di un sorprendente vigore. Inclina raramente alla declamazione, abusa talvolta della arguzia, e l'allitterazione gli è così facile da apparire in luoghi dove, coloro a cui costa qualche sforzo, preferirebbero non incontrarla. Il fatto è che a lui non costa alcuno sforzo, non deve neppure cercarla; talvolta spiace soltanto che non l'abbia eliminata. È tutto quanto gli resta della grande esitazione della sua giovinezza: essere un uomo di lettere o diventare un santo? Bernardo ha trovato il modo di restare uomo di lettere e di divenire santo. Forse l'imponente serie delle loro opere interesserà solo parzialmente alcuni storici per i quali il modo di pensare e di sentire di un'epoca non fa parte della storia: tuttavia esso non è meno rivelatore di una corrente profonda e continua, di cui non si troverà certamente analogo nell'XI secolo e che cambierà sensibilmente direzione nel XIII. È uno degli elementi indispensabili nel panorama del XII secolo e si collega all'insieme del quadro con tratti la cui importanza non può sfuggire a nessuno, non appena li si individui. Infatti, tutti coloro che lo conoscono ammettono che il XII secolo fu, a suo modo, un'epoca umanistica. Lo fu sicuramente molto più di quanto lo si immagini. In quel periodo lo studio dei classici latini fu coltivato non solo a Chartres, ma un po' dovunque. A questo proposito si parla sempre di Chartres, e a ragione, ma quanti altri centri di studi letterari sono scomparsi senza lasciare traccia? Ad esempio non sapremmo quasi nulla della scuola molto modesta di Saint-Vorles, se non sapessimo che la letteratura latina medievale le deve san Bernardo. Questo non è senza importanza, anche per lo studio della mistica cistercense, perché rinunciando al mondo per entrare a Cìteaux, è proprio a questa cultura classica, tra le altre cose, che Bernardo rinunciò, ma, in un senso, era troppo tardi, poiché egli l'aveva già ricevuta. Egli stesso, più tardi, raccomanderà ai suoi novizi di lasciare i loro corpi alla porta del monastero e di lasciarvi entrare solo lo spirito. È ciò che egli aveva fatto prima di loro, ma quante cose erano entrate nel monastero insieme al suo spirito! robabilmente egli si imponeva di interdire l'ingresso a Ovidio, ma Grazio riuscì a prendervi piede; Persie e Giovenale hanno fornito spunti ai disprezzatori del mondo; e soprattutto un ospite imprevisto si è introdotto, insinuandosi attraverso le vie più nascoste fino al cuore stesso della teologia mistica: Cicerone. L'influsso di Cicerone sulla concezione cortese dell'amore nel XII secolo non è stato preso in sufficiente considerazione dagli storici della letteratura francese. La sua dottrina dell'amicizia disinteressata, nata dall'amore della virtù, basata sulla virtù, fonte di valore e di nobiltà morale, che trova in sé la propria ricompensa, non era certamente sconosciuta ai poeti di quel tempo. Non la si può considerare una delle fonti della mistica cistercense in senso stretto, perché questa dottrina, bisogna dirlo, non ha nulla di mistico; ma è necessario conoscerla, se si vuole collocare la teologia cistercense dell'amore al posto che le spetta nell'insieme del XII secolo. Per quanto hanno di comune, questi movimenti legati tra di loro, alcuni dei quali sono manifestamente estranei allo spirito del cristianesimo, devono verosimilmente ricollegarsi a una origine non cristiana; a prima vista, ve ne è una che si offre immediatamente come possibile e persino verosimile: è questo umanesimo del XII secolo, il cui influsso può essersi esercitato su san Bernardo così come sui poeti dell'amore cortese. È vero che, in primo luogo, non si vede bene ciò che l'antichità potrebbe aver insegnato ai cristiani riguardo alla natura dell'amore. Gli uomini del XII secolo leggevano solo il latino; nella letteratura latina Ovidio era il solo teorico dell'amore a cui essi potevano rivolgersi, ed è noto che i suoi consigli erano inutilizzabili per coloro che cercavano di costituire una dottrina dell'amore che fosse, se non mistica, almeno accettabile per i cristiani. Infatti, vedremo che l'invasione delle scuole di lettere operata da Ovidio provocherà la violenta reazione di Guglielmo di Saint-Thierry. Le scuole di carità cistercensi si schierano contro le scuole profane; contro il falso maestro del falso amore esse reclamano e proclamano i diritti del solo Maestro e del solo amore: lo Spirito Santo. Evidentemente non è in questa direzione che dobbiamo cercare. Al di fuori dell'amore propriamente detto c'era un altro sentimento sul quale gli Antichi sembravano aver riversato tutti i tesori di tenerezza, dignità, disinteresse, di cui si erano dimostrati così avari nei confronti dell'amore. È l'amicizia. Aggiungiamo che, su questo terreno, l'indagine può essere molto rapidamente circoscritta. Senza negare che altri influssi avrebbero potuto esercitarsi, o anche con la certezza che altri si sono esercitati, si può ammettere come estremamente verosimile che nulla si può paragonare per importanza al De amicitia di Cicerone. In effetti gli uomini del XII secolo hanno trovato in quest'opera un gran numero di elementi che potevano attingere direttamente o adattare alle proprie necessità. Per non cedere alla tentazione di accumulare delle analogie discutibili, ci limitiamo a un ristretto numero di nozioni il cui influsso non sembra possa essere negato. 1. Richiamando alla memoria il magnifico elogio che Cicerone fa dell'amicizia ( cap. VI ), ricorderemo espressamente, come un elemento tecnico importante, l'identificazione dell'amicizia con ciò che Cicerone chiama benevolentia. Il termine è reso molto male da " benevolenza ". " Ben volere " sembra già più accettabile. In realtà benevolentia significa: il sentimento che vuole il bene dell'oggetto amato, per l'oggetto amato in se stesso. Può esservi parentela senza questo sentimento, ma non amicizia. Da qui si vede come l'amicizia prevalga sul legame familiare: " sublata enim benevolentia, nomen amicitiae tollitur, propinquitatis manet " ( cap. V ). 2. L'origine dell'amicizia si trova nell'amore, in opposizione all'utilità. Intendiamo dire che la benevolentia è generata da un sentimento interno di affetto ( sensum diligendi ), una tenerezza ( caritatem ), che ci porta a volere soltanto il bene dell'oggetto amato ( cap. VIII ). 3. L'utilità è quindi conseguente all'amicizia, ma non si può ammettere che ne sia la causa: " Sed, quanquam utilitates multae et magnae consecutae sunt, non sunt tamen ab earum spe causae diligendi profectae " ( cap. IX ). " Amare autem, nihil aliud est, nisi eum ipsum diligere, quem ames, nulla indigentia, nulla utilitate quaesita " ( cap. XXVII ). 4. Di conseguenza, tutto il frutto dell'amicizia si trova nello stesso amore di benevolenza che portiamo per un nostro amico: " … sic amicitiam, non spe mercedis adducti, sed quod omnis eius fructus in ipso amore inest, expetendam putamus " ( cap. IX ). Cfr. " Atque etiam mihi qui-dem videntur, qui utilitatis causa fingunt amicitias, amabilissimum nodum amicitiae tollere: non enim tam utilitas parta per amicum, quam amici amor ipse, delectat … Non igitur utilitatem amicitia, sed utilitas amicitiam, consecuta est " ( cap. XIV ). Più avanti incontreremo, in san Bernardo, un riferimento quasi letterale a Cicerone: " fructus ejus, usus_ ejus ". 5. La causa che fa nascere l'amicizia è la virtu; ma nessun uomo si affeziona a un altro uomo per la sua virtù, a meno che egli stesso sia virtuoso. La causa più profonda di questo sentimento è quindi in fin dei conti, la somiglianza; la natura infatti non ama nulla tanto quanto ciò che le assomiglia: " Quod si etiam illud addimus, quod recte addi potest, nihil esse, quod ad se rem ullam tam alliciat, tam attrahat, quam ad amicitiam similitudo: concedetur profecto verum esse, ut bonos boni diligant, addiscantque sibi quasi propinquitate conjunctos, atque natura: nihil enim est appetentius similium sui, nihil rapacius quam natura " ( cap. XIV ). 6. Aggiungiamo infine quest'ultimo elemento, al quale a prima vista non si darebbe importanza, ma che, come vedremo più avanti, è di importanza notevole: l'amciziae è un sentimento essenzialmente reciproco. È un mutuo accordo delle volontà, una " consensio ". Non vi è uno solo di questi vari elementi che non sia entrato nella struttura della mistica cistercense e si può dire che i più importanti hanno esercitato un certo influsso sulla concezione cortese dell'amore. La benevolentia di Cicerone è molto simile alla " buona volonta " di Chrétien de Troyes; la dottrina del disinteresse dell'amore vero, almeno nella misura in cui appartiene alle due scuole, deriva sicuramente da Cicerone. Bisogna tuttavia aggiungere che c'è un aspetto che i nostri autori non sembrano aver gustato nel De omicida: la sua definizione dell'amicizia. Cicerone, nel capitolo VI del suo trattato, ne propone loro una densa, complicata, carica di risonanze stoiche: " Est autem amicitia nihil aliud, nisi omnium divinarum humanarumque rerum, cum benevolentia et charitate, summa concordia ". Conteneva troppe implicazioni stoiche e di metafisica latente per soddisfare i nostri autori. Tranne Aelredo, che si è imposto il compito di rifare il trattato di Cicerone, nessuno, che io sappia, pare essersene interessato. Invece, altre due definizioni dell'amicizia hanno attirato l'attenzione dei nostri mistici o teorici dell'amore. La prima è ancora tratta da Cicerone, ma non dal De amicitia; si trova nel De inventione rhetorica, libro il, n. 55: " Amicitia est voluntas erga aliquem rerum bonarum, illius ipsius causa, quem diligit, cum ejus pari voluntate ". La definizione era veramente perfetta, nel senso che riassumeva completamente l'insegnamento del De amicitia. Vi si trovava anzitutto il richiamo alla benevolenza, poi al carattere disinteressato dell'amore e infine al carattere di reciprocità dell'amore, di quel " redamare " del quale Cicerone aveva detto nel De amicitia che non vi è nulla " jucundius " ( De amicitia, cap. XIV ). Notare che " redamare ", così familiare a san Bemardo, è usato da Cicerone come una sorta di neologismo; avrà pieno successo nel medio evo e diverrà più tardi popolare nel " sic nos amantem quis nos redamaret ". A questa definizione è utile unire un altro passo del De amicitia che non da una definizione dell'amicizia propriamente detta, ma una che eventualmente poteva sostituirla: " Nam cum amicitiae vis sit in eo, ut unus quasi animus fiat ex pluribus … " ( cap. XXV ). L'analogia di queste espressioni con l'unitas spiritus cara ai nostri mistici, permette di comprendere come essi hanno potuto raccogliere questi dati, all'inizio così estranei al problema che li interessava, e utilizzarli per la sua soluzione. Per quanto sia necessario conoscerli, questi fatti non ci spiegano nulla dell'origine di questa ondata mistica, la cui forza è percepibile a partire all'incirca dal 1125 e che dilagherà nel XII secolo. La nascita di questo movimento è un problema urgente come quello della nascita della letteratura in lingua volgare o dell'arte ogivale. Fa parte della storia allo stesso titolo degli altri e la sua soluzione non è più facile da trovare. A dire il vero, problemi di questo tipo non hanno mai una soluzione, perché tali movimenti dipendono da condizioni materiali assai complesse, da noi moIto poco conosciute, e più ancora da condizioni spirituali tanto più misteriose quanto più pura è la loro stessa spiritualità. Ma soprattutto bisogna dire che questi movimenti prima di essere effetti, sono essi stessi avvenimenti che attendono di diventare cause. Ciò che noi sappiamo è che verso il 1120, nel monastero benedettino di Saint-Thierry, Guglielmo di Liegi iniziava a scrivere, o a pensare, un De natura et dignitate amoris, e che verso il 1125 san Bernardo indirizzava a dei certosini, in risposta a delle Meditationes colme di amore divino, una Epistola de Cantate che ben presto avrebbe integrato il suo De diligendo Deo. Al di là di questa teologia, il dramma passionale di Eloisa e Abelardo, più fecondo di idee di quanto normalmente si supponga, concentra tutte le attenzioni sul problema dell'amore. Questi sono, anzitutto, degli avvenimenti. Pertanto non è proibito domandarsi quali condizioni storiche abbiano, non tanto determinato, quanto occasionato, questo rinnovamento mistico i cui primi due focolai si accendono contemporaneamente a Saint-Thierry e a Cìteaux. Nessuno ignora che il monastero di Cìteaux era nato da un grande sforzo per restaurare nella sua purezza l'osservanza della regola benedettina. Roberto di Molesme e i suoi successori: Alberico, santo Stefano Harding, avevano energicamente perseguito l'impresa, la quale aveva già trovato il proprio orientamento definitivo quando Bernardo e i suoi compagni raccolsero il piccolo gruppo dei loro discepoli. È quindi naturale supporre che la Regola di san Benedetto abbia esercitato un notevole influsso sul pensiero di san Bernardo. È quindi con piena ragione che Dom Ursmer Berlière, all'inizio del proprio libro su L'Ascése bénédictine, scrive riguardo a Cìteaux: " La sua formazione ascetica si fonda sulla Regola; la letteratura che ha prodotto è un fiore straordinario, un frutto maturo dell'antico insegnamento benedettino ". Gli studi che seguiranno confermeranno, su molti punti, la verità di questo giudizio. Aggiungiamo tuttavia che qui non si tratta esattamente di questo, perché se è facile capire a prima vista che la meditazione della Regola benedettina ha provocato lo sbocciare di una teologia ascetica, non si vede immediatamente come possa aver favorito la nascita di una teologia mistica. San Benedetto si tiene volutamente su un piano più modesto; molti l'avevano letto; prima di Roberto di Molesme e di san Bernardo c'erano stati eccellenti benedettini, santi benedettini; l'Ordine, se aveva bisogno di una riforma, aveva però conosciuto epoche di splendore spirituale, anche nel corso del medio evo, e tuttavia in nessun momento si riscontra una spinta mistica il cui vigore sia paragonabile a quello di cui XII secolo fu lo stupito testimone. Come spiegare questo fenomeno? Sembra lo si possa fare solo conservando tutta la sua forza al desiderio di osservare la vita benedettina pura da cui erano animati Bernardo e i suoi compagni. Intendiamo con ciò dire che per loro non era sufficiente una perfetta osservanza letterale della Regola. Ciò verso cui tendeva la loro anima, non era solo una vita benedettina strettamente regolare, ma anche la perfezione cristiana alla quale questa vita può condurre. Ora, per essere un vero benedettino, basta praticare con zelo i primi settantadue capitoli della Regola. Già questo non è facile, e sebbene san Benedetto avesse pensato di non imporre ai suoi monaci nulla che fosse eccessivamente duro o doloroso, si comprende facilmente come molti tra loro abbiano giudicato sufficiente lo sforzo richiesto per osservarli; se anche molti ne sono rimasti al di sotto, gli storici che ne scrivono, confortevolmente seduti al loro tavolo da lavoro tra due lunghe notti e due dei loro tre pasti quotidiani, mostrerebbero cattivo gusto a giudicarli. Tuttavia è giusto dire che per san Benedetto stesso questo non era sufficiente per fare un perfetto cristiano, a meno di aggiungere a questa osservanza quella del settantatreesimo e ultimo capitolo. È sufficiente citarlo e valutarne i termini per convincersene. LXXIII. Che l'osservanza della giustizia non è interamente contenuta in questa regola Abbiamo scritto questa Regola per mostrare che coloro che la osservano nei monasteri danno prova di una condotta assai lodevole e un inizio di vita religiosa. Quanto a coloro che tendono verso questa vita nella sua perfezione, hanno gli insegnamenti dei santi Padri, la cui osservanza conduce l'uomo al vertice della perfezione. Infatti quale pagina, quali parole, garantite dall'autorità divina nell'Antico o nel Nuovo Testamento, non sono una regola inflessibile della vita umana? Quale libro dei Padri santi e cattolici non risuona di inviti da seguire per arrivare seguendo il diritto cammino al nostro creatore? Vi sono inoltre le Conferenze dei Padri, le loro Istituzioni e le loro Vite e anche la Regola del nostro santo padre Basilio, infatti esse cosa rappresentano se non mezzi di virtù per monaci buoni e obbedienti? Per noi, pigri, malvagi e negligenti, vi è in ciò di che arrossire di confusione. Quindi, chiunque tu sia, tu che affretti il passo verso la patria celeste, segui fino in fondo, con l'aiuto di Cristo, questa minima regola di inizio che ho scritto, e così perverrai infine, con la protezione di Dio, a quelle più alte vette della dottrina e della virtù che ho appena ricordato. Così sia. Fine della Regola Fine della Regola, il che significa che la Regola non ha fine. L'Amen di san Benedetto è stato ascoltato. Per capire come Bernardo abbia arricchito con una rinascita mistica il rinnovamento di cui sovrabbonda il XII secolo, è sufficiente ammettere che queste ultime parole siano risuonate nella sua anima come un richiamo irresistibile. Perché esse siano state intese così non è cosa che la storia possa spiegare, può solo constatare e mettersi in condizione non solo di chiarire la genesi della mistica cistercense, ma anche di mettere un po' di ordine nel problema così difficile delle sue fonti. La prima questione che si pone è, in effetti, di sapere chi può aver suggerito a Guglielmo di Saint-Thierry e a san Bernardo l'idea che la_vita mistica di unione a Dio è il coronamento della vita monastica. Non mi nascondo ciò che il problema, considerato in una certa prospettiva, potrebbe avere di ingenuo, ma spero di considerarlo da un altro punto vista. Certamente la vita mistica ha origini diverse rispetto ai libri; probabilmente non mancano grandi mistici, a noi sconosciuti, che non hanno mai scritto nulla e non hanno letto molto. Non è la stessa cosa se cercano le origini di una mistica speculativa, perché allora si tratta di una teologia e nessuna teologia nasce dal nulla o si riduce alla trasposizione concettuale di una esperienza non riflessa. In realtà non è sempre così neppure per l'esperienza mistica, perché sebbene possa nascere spontaneamente in un'anima isolata, essa è spesso la ricompensa di un lungo sforzo, il compimento di una promessa, la realizzazione di una speranza e di un'ambizione nata dall'esempio. Quali incoraggiamenti, quali stime li avevano ricevuto Guglielmo e Bernardo? Il rapimento di san Paolo? Probabilmente, ma chi allora avrebbe osato aspirarvi? Qualche parola di Teartulliano, i commentari di Origene sul Cantico dei Cantici, che Bernardo ha conosciuto, ma il cui spirito è così diverso da quello del suo; l'ammirevole dottrina di Gregorio di Nissa, " il cui influsso su san Bernardo attraverso Massimo è indubbio, ma che forse non ha conosciuto di prima mano. In tutto ciò non vi è nulla che sia un formale invito alla vita estatica o almeno un invito che Bernardo abbia con certezza inteso. Si può andare oltre e fare la medesima osservazione per quanto riguarda sant'Agostino. A parte il caso unico del rapimento di Ostia, le esperienze mistiche personali sono assenti nell'opera di Agostino. Tra tutti coloro che prima di san Bernardo, a partire dall'inizio del IX secolo, lo avevano letto e meditato, nessuno, nemmeno lo stesso Anselmo, aveva pensato che se ne potesse ricavare una mistica. Per determinare un movimento come il movimento cistercense erano necessarie cose diverse rispetto alle considerazioni teologiche, profonde ma astratte. Era necessario il travolgente contagio dell'esempio, ed è proprio ciò che Bernardo e i suoi compagni trovavano nelle Vitae Patrum: le Vite dei Padri del Deserto. Anzitutto devono a loro l'aver conosciuto il modello di una mortificazione, nei confronti della quale, tutto quanto si sarebbe potuto in seguito tentare, non sarebbe stato altro che una penitenza moderata. L'ascetismo cistercense, come d'altra parte quello dei Certosini, risale certamente ai Padri del Deserto; i cenobiti dell'Egitto rivivono in Francia negli uni, gli eremiti dell'Egitto negli altri. Cìteaux e la Chartreuse sono i " deserti " popolati dagli asceti del XII secolo e che si moltiplicano con una rapidità incredibile. Voler praticare alla lettera la Regola di san Benedetto, ivi compreso l'ultimo capitolo, significa quindi impegnarsi al seguito di sant'Antonio, di Macario o di Pacomio. La Storia Lausiaca era una sorta di racconto meraviglioso per mostrare ciò che atleti spirituali potevano imporsi per amore di Cristo. I racconti di queste vite di mortificazione, letti davanti alla comunità radunata, erano, per anime avide di perfezione, altrettante provocazioni all'eroismo. Qui hanno appreso il significato delle espressioni usate da san Benedetto per designare la vita monastica: " Ad tè ergo nunc meus sermo dirigitur; quisquis abrenuntians propriis voluntatibus. Domino Christo vero regi militaturus oboedientiae tortissima, atque praeclara arma sumis "; ma contraendovi il loro ardore ascetico, vi raccolsero anche pressanti inviti alla vita mistica. Sant'Antonio stesso era stato un mistico e le grazie straordinarie non erano sconosciute nel deserto d'Egitto. Inoltre, invitando i monaci a ricorrere a Cassiano, la Regola li indirizzava a un maestro che aveva espressamente descritto l'estasi come la massima ricompensa della vita ascetica condotta dai Padri del Deserto. L'influsso di Cassiano sulla scuola benedettina è stato affermato parecchie volte e con piena ragione. È stato detto che Cassiano era la lettura preferita da san Benedetto e, infatti, tutte le edizioni critiche della Regola rinviano frequentemente a queste tre fonti principali: la Scrittura, san Basilio, Cassiano. La dottrina di Cassiano non si limita all'ascetismo, fosse pure ìl più eroico. La via purgativa vi è considerata come assolutamente necessaria, ma a titolo di introduzione alla vita contemplativa, il cui punto culminante è la " Visione di Dio "; la meditazione sulla Scrittura vi si trasforma spesso in preghiera, come in Origene, e la preghiera " pura " termina talvolta nell'estasi: " Ad coelestes illos rapiebamur excessus … ". I testi in cui Cassiano descrive queste esperienze sono troppo noti perché valga la pena riprodurli, ma è importante sottolineare il fatto che impegnandosi a seguire la Regola sino alla fine, san Bernardo e i suoi compagni si siano messi alla scuola del maestro per il quale l'estasi era l'ambizione più alta del cristiano. San Gregorio Magno, che non senza ragione viene considerato come benedettino, non poteva che rafforzare, su questo punto, l'esempio di Antonio e l'insegnamento di Cassiano. Non è esagerato dire che gli scritti di san Bernardo sono impregnati della sua dottrina e della sua terminologia quasi quanto quelli di sant'Agostino. Nulla di straordinario, d'altra parte, dal momento che Gregorio stesso si era spesso ispirato ad Agostino. Prima di Bernardo, Gregorio insegna che non si può raggiungere il vertice della vita spirituale senza passare attraverso alcuni gradi. Per possedere pienamente Dio, bisogna staccarsi completamente da se stessi: " Tunc vero in Deo piene proficimus, cura a nobis ipsis funditus defecerimus ". La via da seguire è regolare e annuncia quella che sarà proposta da san Bernardo; anzitutto il disprezzo di sé e l'umiltà: contemp tus sui, poi il timore di Dio: timo,r infine l'amore, amor. L'amor d'altra parte è per lui, come per Agostino, la forza motrice dell'anima: machina mentis ed è ciò che ci conduce alla contemplazione mistica di Dio. Questa contemplazione non può che essere gioia e dolcezza, come l'amore che essa corona. Nessuno sa come la luce divina penetri nell'anima , ma almeno si sa che talvolta essa la infiamma al punto da separarla completamente dalla carne e da sottometterla interamente a Dio. Esperienza breve, conoscenza oscura, l'estasi non può venir confusa con la visione beatifica, ma è come uno sforzo momentaneo dell'uomo per raggiungerla senza avere sopportato la morte del corpo. Si può quindi affermare con grande verosimiglianza che il primo invito alla vita mistica è venuto a san Bernardo dalla meditazione della Regola di san Benedetto e dagli esempi che essa consigliava di seguire: Collationes Patrum et Institufa et Vitas eorum. Tuttavia qui siamo solo all'inizio di una strada veramente interminabile, perché dobbiamo ancora chiederci da cosa è costituita la mistica speculativa di san Bernardo, da quali precedenti sintesi ha tratto gli elementi della propria. Un'indagine sulle fonti del testo di san Bernardo dovrebbe prendere in considerazione tutte le formule che ha preso in prestito o alle quali si è ispirato. Nutrito come era della Bibbia e dei Padri, una tale ricerca non avrebbe mai fine. Questo non significa che sarebbe priva di utilità: lungi da ciò; non si può tentare di comprenderlo senza risalire spesso alle fonti scritturistiche dove il suo pensiero più che attingere vi è immerso. Tuttavia, per tentare di ricostruire la sua sistematica, non ci si può impedire di pensare che convenga, in vista di questo scopo particolare, procedere diversamente. La teologia mistica di san Bernardo è una creazione incontestabilmente originale, nella quale tutti gli elementi sono nondimeno tradizionali, e che sembra essere nata dalla combinazione di vari blocchi dottrinali, ciascuno dei quali conserva, anche nella nuova sintesi, la propria struttura e il segno evidente della propria origine. Tutto si svolge infatti come se san Bernardo si fosse posto un problema personale ma anche come se avesse fatto la scommessa di risolvere questo problema con l'ausilio di dati nessuno dei quali fosse estraneo alla tradizione scritturistica e patristica. Aggiungiamo che l'ha vinta e che ha vinto la partita. Forse questo è uno dei segreti dell'incessante rinnovamento del pensiero cristiano e della sua inesauribile vitalità. Ogni volta che un santo pone una nuova domanda, o una vecchia domanda sotto una nuova forma, la tradizione cristiana fornisce gli elementi della risposta; ma bisogna che vi sia il santo che la pone. San Bernardo ha posto la propria: come può la vita benedettina essere utile per realizzare questa vita di unione a Dio nell'amore verso la quale egli tendeva con tutte le proprie forze? La tradizione gli ha fornito gli elementi per la risposta; essa gli avrebbe fornito gli elementi per la risposta a ogni altro problema riguardante i mezzi o il fine della vita cristiana; ma solo lui poteva ordinarli in una sintesi che fu quella della sua stessa vita spirituale, poiché la sua vita non è che la realizzaziqne concreta della sua dottrina, e la sua dottrina la formula astratta della sua vita. Ora, prima di ogni altra cosa, bisogna collocare all'inizio del suo pensiero un primo blocco: l'insieme dei testi scritturistici tratti dal capitolo IV della prima Lettera di san Giovanni sull'unione dell'anima a Dio nell'amore. Forse san Bernardo ha trovato e citato molti altri testi nei quali si esprime la medesima dottrina, ma non si può negare l'impressione che, nel suo pensiero, tutto inizi da qui e vi debba ritornare. L'unica riserva da fare riguarderebbe lo stesso Vangelo di san Giovanni; tuttavia bisogna dire non che l'autorità di questo Vangelo sia minore, ai suoi occhi, di quella della Lettera - il che sarebbe decisamente assurdo - ma che persino i testi più illustri del quarto Vangelo sull'unione a Dio nell'amore vengono ordinati, nel pensiero di Bernardo, attorno alla sintesi così densa, ricca e completa, contenuta nella prima Lettera. Cerchiamo di ricavarne gli elementi essenziali. I. L'unione a Dio nell'amore ( 1 Gv 4 ) 1. Innanzitutto la nozione fondamentale su Dio per chi lo considera non come causa metafisica, ma come il fine e il mezzo della vita spirituale; Dio è amore. " Deus caritas est " ( 1 Gv 4,9 ). 2. Se Dio è carità ne consegue che il possesso della carità è la condizione necessaria per ogni conoscenza di Dio. Non si poteva caricare questo testo di tutto ciò che la speculazione teologica vi avrebbe successivamente trovato, ma non si può neppure contestare che questa speculazione sia stata sollecitata, provocata da questo testo. Vi si trova infatti l'origine della dottrina, divenuta poi famosa, della carità come conoscenza o anche come visione di Dio. Il minimo che si possa dire è che un tale testo suppone che colui che in sé non ha nulla di ciò che Dio è per essenza è incapace di conoscere Dio. San Bernardo stesso non aggiungerà quasi nulla al testo; ritengo infatti che non aggiungerà assolutamente nulla poiché si accontenterà di precisare che la " somiglianza " dell'uomo a Dio è la condizione della nostra conoscenza di Dio e che tale somiglianza è l'opera della carità. Che questa precisazione sia o non sia sottintesa nel testo di Giovanni non ha molta importanza e la nozione fondamentale rimane: " Qui non diligit, non novit Deum, quoniam Deus caritas est " ( 1 Gv 4,9 ). 3. Se Dio è carità e se per conoscerlo è necessario che la carità sia in noi, bisogna necessariamente che la carità sia donata da Dio. Questa è l'origine della distinzione, cosi importante in san Bernardo, tra la Carità che è Dio e la carità che è in noi il " dono " di Dio. La distinzione viene suggerita dal testo dove si dice che la carità viene da Dio: " Caritas ex Deo est " ( 1 Gv 4,7 ). 4. Una nuova tesi, non meno importante, si aggiunge alle precedenti con l'identificazione del dono della carità con il dono dello Spirito Santo. È un punto che i mistici cistercensi hanno sempre presente nel loro pensiero; questo spiega perché, nella loro dottrina, lo Spirito Santo ha sempre il ruolo di legame per mezzo del quale l'anima si trova unita a Dio e la vita spirituale diviene una partecipazione a quella divina: " In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis, quoniam de Spiritu suo dedit nobis " ( 1 Gv 4,13 ). 5. Facciamo un passo ulteriore; questa presenza in noi della carità, che è dono dello Spirito Santo, e che solo ci permette di conoscere Dio, è per noi anche il sostituto della visione di Dio che ci manca. Nessuno ha mai visto Dio, ma se la carità è in noi, poiché essa è il dono di Dio, Dio dimora in noi e il nostro amore per lui allora è perfetto. Esista quindi, ( in mancanza di una visione di Dio che non ci è concessa, una presenza di Dio nell'anima che segna il punto di perfezione della carità in noi: " Deum nemo vidit unquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis inanet et caritas eius in nobis perfeota est " ( 1 Gv 4,2 ). " Et nos cognovimus et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis. Deus caritas est: et qui manet in cantate, in Deo manet, et Deus in eo " ( 1 Gv 4,16 ). 6. Il motivo per cui dobbiamo amare Dio Carità è chiaro: Egli ci ha amati per primo. È forse superfluo insistervi per mostrare che questo è il problema del De diligendo Deo di san Bernardo e qual'è la sua risposta: " Nos ergo diligamus Deum, quonaim Deus prior dilexit nos " ( 1 Gv 4,9 ). 7. Da quali segni riconosceremo che abbiamo seguito questo precetto? Come sapere che la carità di Dio è in noi? Da due segni, il primo dei quali è l'amore che abbiamo per il prossimo. Tutti gli uomini sono fratelli in Gesù Cristo, quindi se qualcuno sostiene di amare Dio, che non vede, e non ama i propri fratelli, che vede, è un mentitore. Troviamo qui il punto di partenza di tutti gli sviluppi nei quali san Bernardo richiede l'amore del prossimo come un momento necessario dell'iniziazione alla carità: " Si quis dixerit quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est " ( 1 Gv 4,20 ). 8. Ecco il secondo indizio della presenza della carità nell'anima: scaccia il timore. Là dove regna si stabilisce infatti, allo stesso tempo, la fiducia per il giorno del giudizio. Questa fiducia nata dalla carità è un elemento essenziale della dottrina di san Bernardo. Penetrati dalla carità, siamo divenuti in questo mondo, in virtù di questo dono, ciò che Dio è in virtù della sua natura; come possiamo quindi temere il suo giudizio? " In hoc perfecta est caritas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die judicii; quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo " ( 1 Gv 4,17 ). Si capisce quindi perché la contemplazione di san Bernardo passi attraverso la considerazione del giudizio e come il punto preciso nel quale il timore del castigo divino cede il posto alla " fiducia " segni l'entrata dell'anima nell'estasi. Si vede anche perché, più semplicemente, il progresso dell'amore consiste nel far passare l'uomo dallo stato in cui egli è asservito al timore ( servus ) a quello in cui soltanto ama. L'amore bandisce il timore: " Timor non est in caritate: sed perfecta oaritas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet; qui autem timet, non est perfectus in caritate " ( 1 Gv 4,18 ). Sì può quindi vedere che si tratta di un blocco dottrinale passato tale e quale, con tutte le sue articolazioni essenziali, nella teologia mistica di san Bernardo. Si può anche dire che è presente ovunque, come la solida roccia sulla quale è costruito tutto l'edificio. Pertanto non è unico. Su questa base era necessario costruire un'altra dottrina, per spiegare come l'amore può far sì che Dio dimori in noi e noi in Dio. San Bernardo ha fatto appello per questo aspetto a una seconda fonte che, data la natura speculativa del problema posto, non poteva più essere scritturistica, ma doveva essere teologica. È a Massimo il Confessore tradotto da Scoto Eriugena, che ha chiesto una dottrina dell'estasi e della divinizzazione dell'anima nell'amore. II. La divinizzazione nell'estasi È molto difficile misurare l'influsso esercitato da Dionigi sulla mistica cistercense. È notevole che lo stile dionisiano non abbia lasciato alcuna traccia nel modo di scrivere di san Bernardo; il linguaggio dionisiano, così caratteristico, non ha fornito quasi nessun elemento alla terminologia usata da san Bernardo: nessun superlativo, nessun periodo pesante e ingombrante che imita termini greci a fatica mascherati in latino. Il termine " teofania ", quasi inevitabile in uno scrittore che ha frequentato Dionigi, e che si ritrova almeno una volta in Guglielmo di Saint-Thierry, non sembra appartenere al vocabolario di san Bernardo. Ci si può persino chiedere se abbia letto Dionigi o, piuttosto, ce lo si potrebbe domandare se la cosa, in se stessa verosimile, non lo fosse diventata ancora di più dal momento che egli ha certamente letto, nella traduzione di Scoto Eriugena, un testo di Massimo il Confessore a cui si è ampiamente ispirato. Il fatto è importante non solo in se stesso, ma anche per la storia della mistica cistercense e dell'influsso di san Bernardo; infatti egli ha sempre avuto avversari, talvolta illustri, che si sono interessati in modo particolare a questo tallone d'Achille. Ci saranno molte occasioni per convincersi che questa mancanza è stata più apparente che reale, ma la vera funzione di un avversario non è proprio quella di considerare le mancanze apparenti come se fossero reali? Si dà il caso che Scoto Eriugena, non contento di tradurre Massimo, abbia inserito nel proprio De divisione naturae lo stesso frammento al quale san Bernardo si sarebbe ispirato. Da qui a sospettare e accusare san Bernardo di panteismo eriugeniano, non vi era che un passo, il quale è stato compiuto. Forse, per essere corretto, avrebbe dovuto accertarsi subito se Eriugena stesso era panteista, o se lo era Massimo, o stabilire che non ci si poteva ispirare a un testo non panteista dal momento che era stato utilizzato da un autore accusato di panteismo, sia che fosse stato accusato a torto o a ragione e che ne fosse consapevole o no. Un controversista trascinato dalla foga non si preoccupa di queste distinzioni e di fatto la presenza di un " blocco " massimiano nella sintesi di san Bernardo gli ha talvolta nuociuto nell'opinione dei teologi. Quali elementi principali l'analisi permette di distinguervi? 1. Innanzitutto è da Massimo ( o da Dionigi, ma non siamo sicuri di Dionigi mentre lo siamo di Massimo ) che san Bernardo sembra aver tratto il termine che in lui designa l'estasi: excessus. Tutte le cose si muovono verso Dio, come verso il supremo Bene immobile. Il fine del loro movimento, che è anche il loro bene, è il raggiungimento di questo Bene immobile. Gli esseri naturali tendono verso di lui per loro stessa natura; gli esseri intelligenti tendono verso di lui per la conoscenza e l'amore. Da qui il movimento estatico che li porta a lui: " Si autem intelligit, omnimo amat quod intelligit; si amat, patitur omnimo ad ipsum ut amabile excessum " ( Massimo, Ambigua, cap. il, P.L. 122, 1202 A ). 2. L'effetto di questo " excessus " è di far sì che colui che ama " fiat totum in toto amato " ( op. cit., 1202 A ), in modo tale che non desideri altro che lui stesso; da ogni lato circoscritto da Dio è come l'aria totalmente illuminata dalla luce o il ferro liquefatto nel fuoco: " Sic aer per totum illuminatus lumine, et igne ferrum totum toto liquefactum, aut si quid aliud talium est " ( op. cit; 1202 B). San Bernardo riprenderà le stesse immagini nel De diligendo Deo, X,28, III,143. L'espressione " liquescere " si ritrova anche in Dil x,28, m,143,21. 3. Questa liquefazione, o fusione, dell'anima nell'estasi non è la sua distruzione; al contrario la sostanza dell'anima resta intatta e, anzi, dal l'excessus è stabilita nella sua vera natura: " Non conturbet vos, quod dictum est; non enim ablationem propriae potentiae fieri dico, sed positionem magis secundum naturam fixam et immutabilem, id est excessum intellectualem " ( Massimo, op. cit., 1202 C-D ). 4. L'excessus non può essere completo in questa vita; si compirà solo nell'altra. Nell'attesa questa fusione dell'anima nell'amore è una partecipazione analogica alla beatitudine futura: " participationem per sinulitudinem solummodo accipimus " ( op. cit., 1202 B ), ed è ineffabile. 5. L'excessus rende così l'anima simile a Dio, perché riporta l'immagine verso il suo modello: 174 velut imagine redeunte ad principale exemplum " ( op. cit., 1202 D; cfr. 1207 B ). 6. Il risultato di questa assimilazione è una deificazione: deificatio: " magis autem Deus per deificationem facta " ( op. cit., 1202 D ); " theosin " ( 1206 B ); " et totus factus Deus … ", ecc. ( 1208 B ). È importante notare qui, come nel caso della prima lettera di san Giovanni, che san Bernardo sembra aver usato a fondo tutte le risorse che un unico testo metteva a sua disposizione. La somiglianza letterale di alcune frasi - i due paragoni tratti da Massimo - rafforza l'impressione, già fondata in se stessa, che questa sequenza di idee, comune alle due dottrine, sia realmente passata da Massimo a san Bernardo. Ma è importante aggiungere che, mentre la usava, Bernardo la saldava al blocco giovanneo così da unificarli. Dio è carità, ci dona la carità, dimora così in noi e fa che noi dimoriamo in lui. In che modo? Riconducendo le immagini che noi siamo, al loro modello, spogliandoci del nostro volere per unirci al suo; liquefacendoci, per così dire, affinché passiamo in lui nell'estasi, attendendo di passarvi completamente nella gloria, non per perderci, ma per stabilirci in una perfezione eterna. Queste sono già fonti di ispirazione di cui è superfluo sottolineare l'importanza. Tuttavia non è tutto, perché se è importante conoscere il fine e i mezzi, non è sufficiente averne una conoscenza teorica, ma è altrettanto necessario sapere con quali metodi pratici potremo mettere in opera questi mezzi e raggiungere il fine verso il quale essi conducono. San Bernardo, ancora una volta, era lontano dal trovarsi senza risorse, poiché aveva a sua disposizione tutto il tesoro della tradizione patristica. Nessuno più di lui era capace di attingervi, poiché ne aveva fatto l'inventario, e si resta sorpresi, leggendolo, per l'abilità con la quale sceglie, interpreta e adatta ai propri fini le dottrine dei Padri. È vero che anche qui un influsso domina ancora su tutti gli altri e che si può nuovamente parlare di un blocco dottrinale utilizzato da san Bernardo: è quello dell'ascesi benedettina. III. L'ascesi benedettina La Regula monasteriorum non è ne un trattato di filosofia ne un trattato di teologia mistica o ascetica; è una regola di vita monastica, ma che assomiglia ai testi della Scrittura per il contenuto con il quale nutre all'infinito il pensiero. Non dimentichiamo d'altra parte che è appesantita da tutta la speculazione di Cassiano, che essa riassume o alla quale spesso si ispira, e che, per chi conosceva l'opera di Cassiano, era legittimo leggere dietro le parole che ne suggerivano la presenza. In questo testo così denso alcuni elementi sembrano aver particolarmente attirato l'attenzione di san Bernardo e sono questi che tentiamo di ordinare. 1. Ricordiamo anzitutto l'idea centrale che attraversa tutta la Regola: il primo dovere di colui che vuole servire Dio è di rinunciare alla propria volontà: " Abrenuntians propriis voluntatibus " ( Regula, Prologo, ed. Linderbauer, p. 13, r. 6-7 ). San Benedetto lo intende in un modo del tutto pratico; con ciò vuole infatti dire che non ci si può impegnare completamente nel servizio di Dio senza sottomettersi agli ordini di un Abate e obbedirgli; è quello che non fanno i " girovaghi " ( op. cit., I, p. 20, r. 23 ), ma è ciò che bisogna fare in un monastero benedettino: " Nullus in monasterio proprii sequatur cordis voluntatem ". ( III, p. 23, r. 33-34 ). Il precetto ritorna costantemente: " Abnegare semetipsum sibi …; voluntatem propriam odere " ( IV, p. 24, r. 7 e 32-33 ); " … voluntatem propriam deserentes … " ( V, p. 25, r. 9 ). Citiamo infine per completare con una citazione scritturistica, quest'ultimo testo: " voluntatem vero propriam ita tacere prohibemur, cum dicit Scriptura nobis; et a voluntatibus tuis avertere ( Sir 18,30 ) " ( VII, p. 28, r. 39-40 ). Nulla è più importante - per chi vuole comprendere san Bernardo e il ruolo giocato nella sua dottrina dall'eliminazione sistematica del proprium; bisogna però aggiungere il metodo con il quale questa eliminazione deve essere realizzata. 2. Questo metodo è la pratica dell'umiltà, alla quale è dedicato l'intero capitolo VII della Regola. San Benedetto vi descrive i dodici gradi ascendenti di questa virtù. La nostra vita viene paragonata a una scala - la scala di Giacobbe - i cui lati sono il corpo e l'anima; i gradini: i dodici gradi dell'umiltà che noi saliamo faticosamente con le nostre azioni per elevarci a Dio ( VII, p. 27, r. 11-21 ). Si può dire, senza timore di sbagliare, dal momento che lo stesso san Bernardo lo afferma all'inizio del suo trattato, che il De grodibus humilitatis et superbiae non è che un commento teologico di questo capitolo. 3. Un terzo elemento della Regola, particolarmente importante in quanto si eleva quasi al livello della speculazione, assegna all'umiltà lo stesso ruolo che essa avrà nella mistica di san Bernardo. Prima di tutto conduce alla carità: " Ergo bis omnibus humilitatis gradibus ascensis monachus mox ad caritatem Dei perveniet … " ( VII, p. 31, r. 131-132 ). Invano domanderemmo a san Benedetto di descriverci il modo in cui l'umiltà introduce la carità mediante la rinuncia al proprio volere; sarà proprio l'opera di san Bernardo ad approfondire questo aspetto e a ricostruire questo meccanismo, nella Regola ha trovato almeno la formulazione del problema da risolvere e l'enunciato della sua soluzione; il suo apporto personale è stato quello di fornirne la dimostrazione. 4. Superando questo punto nella stessa frase in cui lo presenta, san Benedetto aggiunge immediatamente: " ad caritatem Dei perveniet illam quae perfecta foris mittit timorem " ( VII, p. 31, r. 132 ). Si ricollega quindi, in un sol colpo, al testo della prima lettera di san Giovanni 4,18 che abbiamo già citato e che si trova quindi doppiamente raccomandato all'attenzione di san Bernardo. Per capire tutta la portata di questa citazione nel luogo in cui si trova, bisogna ricordarsi che, dall'inizio della Regola, san Benedetto non ha smesso d'insistere sull'importanza della meditazione del giudizio. Il timore, e non solo il timore di Dio, ma anche quello del castigo di Dio, gioca un ruolo fondamentale nella iniziazione alla vita spirituale così come egli la concepisce - è altrettanto importante vedere che alla fine di questa iniziazione la carità si sostituisce, come motivo delle nostre azioni, al timore: " Per quam ( caritatem) universa quae prius non sine formidine óbservàbat, absque ullo labore velut naruraliter ex consuetudine incipiet custodire, non jam timore gehennae, sed amore Christi et consuetudine ipsa bona et delectatione virtutum " ( VII, p. 31, r. 133-136 ). Aggiungendo, molto brevemente, che lo Spirito Santo mostrerà questi effetti della carità nell'anima purificata, san Benedetto termina di abbozzare la sintesi a cui san Bernardo darà la giustificazione dottrinale: la sostituzione dell'amore al timore per mezzo dello Spirito Santo, come ricompensa della lunga iniziazione all'umiltà, è infatti il tema che svilupperanno in più riprese il De diligendo Deo e i sermoni sul Cantico dei Cantici. Il suo posto è al centro dell'ascesi di san Bernardo e poiché è ancora a Cassiano che ne risale l'origine, non cessiamo di muoverci nello spazio delimitato dal capitolo LXXIII della Regola: " necnon et Collationes Patrum et Instituta et Vitas eorum … ", sono da leggere: Collationes, XI,8 e Instituta, IV,39. Tentiamo ora di collegare questo terzo blocco agli altri due, otterremo così una sorta di scheletro della teologia mistica di san Bernardo. Dio è carità; per il dono della carità egli dimora in noi e noi in lui; questa unione si realizza sin d'ora nell'estasi che è coronamento in noi della vita di carità e che ci unisce a Dio rendendoci simili a lui; ma per raggiungere questa unione beatificante bisogna partire dal timore, spogliarsi nell'umiltà di tutto il volere proprio, sino a quando, sostituendosi la carità al timore, realizzeremo per amore la volontà di Dio. Ricostruiamo la medesima sintesi in senso inverso, a partire dal " neque aliud habere proprium " ( XXXIII, p. 46, r. 10 ), otterremo così un valido schema della dottrina di san. Bernardo. Questo è vero; ma osserviamo subito che non avremmo altro che una specie di quadro che resterebbe da riempire per fare, di questo insieme di precetti, un'autentica teologia. Osserviamo soprattutto che nulla è più facile per uno storico che combinare gli elementi ricavati da san Bernardo per ricostruire l'ossatura della sua dottrina; è lui che ci ha insegnato a farlo. Avremmo mai pensato di unirli secondo questo ordine, se la sintesi che egli ne ha fatto non fosse mai esistita? Evidentemente no. È quanto non dobbiamo mai dimenticare studiando le fonti di san Bernardo. Lui stesso si è spesso gloriato di non aver quasi mai proposto delle dottrine che non fossero state insegnate prima di lui. Questa non è, da parte sua, finta umiltà, ma l'espressione sincera di ciò che fu sempre il suo atteggiamento di fronte a questi problemi, poiché era convinto che dovesse essere così. Non si finirà quindi mai di trovare negli scritti a lui anteriori espressioni o pensieri simili ai suoi; si potrà sempre mostrare, anche al di fuori delle fonti principali che abbiamo appena analizzato, che san Bernardo segue ora sant'Ambrogio, ora sant'Agostino, o che si ispira ai commentati di Origene e di Beda al Cantico dei Cantici; non si dirà nulla su di lui che non sia stato detto prima di noi. Per ricavare, da questo insieme di dati sparsi nella Scrittura e nelle opere dei Padri, la teologia mistica di san Bernardo, era necessaria la vita spirituale e il genio speculativo propri di san Bernardo. Se con l'immaginazione la si sopprime, cosa resta al suo posto? Il XII secolo non si è sbagliato; se noi non sentiamo quale vuoto lascerebbe la sua assenza, i contemporanei di san Bernardo si sono nutriti dell'abbondanza della sua pienezza. Tentare di vivere integralmente la Regola di san Benedetto, come tentare di vivere quella di san Francesco, è tentare di vivere integralmente la vita del Vangelo, e non ci sarà mai nulla di più raro né di più originale. Regio dissimilitudini Lo studio del pensiero di san Bernardo è spesso condotto in modo frammentario, come se fosse possibile discutere il senso di testi staccati dal loro contesto. È quanto è accaduto in particolare per la sua famosa dottrina del primato dell'amore egoista e carnale, considerato spesso come punto di partenza del suo sistema, con il rischio di rimproverargli poi di aver tentato la quadratura del cerchio nel tentativo di condurci all'amore puro partendo da un amore necessariamente interessato. La verità è ben diversa ma la si può scorgere solo cominciando, come lo stesso san Bernardo, da ciò che l'amore dovrebbe essere, invece di cominciare da ciò che è. In sé, l'unico amore vero è l'amore di Dio, e se ci si domanda perché e come Dio debba essere amato, la risposta di san Bernardo è la stessa data da Severo di Milevi a sant'Agostino: il motivo per cui noi dobbiamo amare Dio, è Dio; la misura, è di amarlo senza misura. Questa profonda frase è sufficiente per i saggi, ma sentendosi, come l'apostolo, debitore anche verso gli stolti, Bernardo inizia a enumerare le ragioni che giustificano la sua tesi. Nulla di più facile se ci si rivolge a dei cristiani. Per coloro che credono che Dio stesso si è donato per salvarci è chiaro che egli merita il nostro amore e un amore senza limiti. Ma cosa dire dei pagani? È su questo punto che la posizione di san Bernardo si definisce con la più grande chiarezza. La sua dimostrazione è un'applicazione sistematica del metodo che altrove abbiamo definito il " socratismo cristiano ". L'uomo si esamini e cerchi di conoscere se stesso; cosa trova in se? I beni del corpo, ma al di sopra di questi e decisamente a loro superiori, i beni dello spirito. Anzitutto trova ciò che Bernardo definisce, con una sola parola, " dignitas ", la dignità umana per eccellenza; il libero arbitrio. Se merita questo nome, è per un duplice motivo: eleva l'uomo al di sopra di tutti gli altri animali e gli conferisce il potere di dominarli per metterli al servizio dei propri bisogni. Onore di preminenza, potere di dominio, questi sono quindi i due caratteri che l'uomo scopre in sé quando, cercando di conoscersi, prende coscienza del proprio libero arbitrio. Ma cosa intendiamo con l'affermazione " prendere coscienza del proprio libero arbitrio "? Sapersi libero è conoscere. L'uomo non può quindi affermare la propria eminente dignità senza possedere contemporaneamente questa seconda: la " Scienza ". Ma questa scienza della nostra dignità non sarebbe completa se non la unissimo alla conoscenza di Colui dal quale la riceviamo. Il desiderio di scoprire l'autore della nostra dignità e di attaccarci saldamente a lui dopo che lo abbiamo trovato, è la " virtù ". Queste tre cose non devono mai essere separate tra di loro. Possedere questa dignità senza averne la scienza, cioè essere liberi senza saperlo, quale gloria comporta? Possedere la dignità e la scienza del libero arbitrio, ma senza la virtù che lo fa risalire a Dio, forse è una gloria, ma è una gloria vana, dimentica della parola dell'Apostolo: " Quid habes quod non accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? " ( 1 Cor 4,7 ). Questi tre attributi della natura umana perderebbero quindi la loro natura propria, se si trovassero separati. È quindi l'uomo stesso, in fin dei conti, che perde la propria natura. Perché si trova sempre nel duplice pericolo o di dimenticare la " dignità " che fa la sua gloria, o di dimenticare che non ne è l'origine. Nel primo caso dimentica la propria gloria; nel secondo cade nella vanagloria. Ora, dimenticare ciò che fa la propria gloria, significa perdere di vista ciò che gli dona preminenza e potere sugli animali e divenire simile a uno di essi. Non sapendosi libero, l'uomo perde il privilegio della propria ragione, che lo distingue dalle bestie, e si espone così a divenire come una di esse. Il primo momento della conoscenza di se stessi, secondo san Bernardo, è la coscienza che l'uomo acquisisce della propria grandezza: " Capita quindi, se tu non ti riconosci una creatura gratificata dall'insigne privilegio della ragione, che tu cominci a unirti alle greggi degli esseri senza ragione; ignorando la propria gloria, che è all'interno, l'anima si lascia deviare dalla propria curiosità e, conformandosi alle cose sensibili esterne, diviene una di esse per aver creduto di non aver ricevuto qualcosa in più ". Il pericolo di non conoscere la propria grandezza è una grave minaccia per l'uomo, ma ancora più grave è il pericolo contrario di non sapere da chi la riceve: " Utrumque ergo scias necesse est, et quid sis, et quod a tè ipso non sis, ne aut omnino videlicet non glorieris, aut inaniter glorìeris ". Nel primo caso perdiamo la nostra gloria, nel secondo ci glorifichiamo di quanto non ci appartiene. È da notare che san Bernardo si preoccupa, dopo san Paolo, di sottolineare il carattere obbligatorio della conoscenza di Dio per tutti gli uomini. Ut sint inexcusabiles: non sono solo i cristiani, ma gli stessi infedeIi, che possono e devono conoscersi come creature eminenti, ma pur sempre creature. Il Nosce te ipsum è una prescrizione valida per tutti. Ciascuno, cristiano o no, può e deve conoscersi come libero - ed è questa la sua grandezza, essere libero e sapere d'esserlo -,ma deve anche comprendere che non deriva da se stesso né il proprio essere, né la propria libertà, né la scienza dell'uno e dell'altra. Da qui deriva per tutti gli uomini allo stesso modo, l'obbligo di amare Dio con tutta la propria anima, con tutte le proprie forze e sopra ogni cosa, indipendentemente dal fatto di essere cristiani. Non è necessario conoscere Cristo per rendersi conto di questo dovere, è sufficiente conoscere se stessi: meretur ergo amari propter seipsum Deus, et ab infideli, qui etsì nesciat Christum, scit tamen seipsum. Ovviamente quanto è vero per l'uomo in generale, lo è ancora di più per l'uomo cristiano. Né il giudeo, né il pagano si sanno amati così come il cristiano: si sanno creati, ma non si sanno riscattati, e a quale prezzo! Ogni cristiano si sente quindi doppiamente debitore di se stesso nei confronti di Dio, in quanto sa di esser stato creato e ricreato, donato a se stesso e ridonato: datus et redditus, me prò me debeo e bis debeo. Eccolo quindi non solo nella stessa posizione del pagano, ma di fronte a un problema ancor più difficile da risolvere. Come uomo deve amare Dio sopra ogni cosa, e come cristiano deve rendere a Dio il prezzo di questo amore infinito per mezzo del quale Dio ha donato se stesso per salvarci. Come potrebbe, creatura finita, saldare un simile debito? Abbiamo quindi ragione nel dire che il motivo per cui dobbiamo amare Dio è Dio, poiché egli ci ha amati per primo, e che la misura del nostro amore per lui deve essere il rifiuto di ogni misura. Se non possiamo amarlo con un amore infinito, gli dobbiamo un amore totale, senza riserve, nel quale si esaurisce tutto il potere di un amore umano. Ecco quale sarebbe lo stato normale dell'amore, se il peccato originale non l'avesse alterato in tutti gli uomini e se la negligenza dei cristiani stessi non li rendesse sordi all'appello della grazia. Se si vuole comprendere san Bernardo bisogna quindi distinguere con cura la definizione dell'amore che l'uomo deve a Dio dalla descrizione dell'amore che gli rende. Tutto ciò che abbiamo detto è e resta vero della natura non decaduta, o di una natura decaduta che si offra ai movimenti della grazia. Tutto quanto diremo è vero della volontà di una natura decaduta, negligente o ribelle, in ogni caso di una natura non ancora restaurata. Le necessità di fatto che pesano ormai su di noi sono necessità morali, che non diminuiscono in nulla la necessità metafisica del primato dell'amore divino. È per questo che Bernardo, dopo aver definito l'amore di Dio come il primo amore che l'uomo deve provare, dice altrove che l'amore si sviluppa necessariamente seguendo un certo numero di gradi, il primo dei quali è, quasi per definizione, egoista; il nome che san Bernardo gli dà e che bisogna conservare, poiché il suo valore è in qualche modo tecnico, è: l'amore carnale. Eccone la definizione: " l'amore carnale è quello per il quale l'uomo ama se stesso, per se stesso e prima di ogni cosa ". L'affermazione dell'anteriorità di questo amore, e anche della sua priorità in rapporto a ogni altro, è costante in san Bernardo; essa solleva un difficilissimo problema d'interpretazione, perché se questa necessità è veramente inscritta nella natura stessa dell'uomo, non si vede come egli possa liberarsene. L'uomo sarebbe quindi condannato dalla natura a far passare l'amore di sé davanti a quello per Dio. Abbiamo detto però che l'amore umano si deve a Dio prima di ogni cosa; questo sembra metterlo in una situazione impossibile, domandargli di anteporre un altro amore a quello dal quale la sua stessa natura lo obbliga necessariamente a incominciare. Tuttavia san Bernardo ha così spesso affermato l'uno e l'altro da non aver potuto non accorgersi della difficoltà. Andiamo oltre, questa difficoltà è la ragione d'essere della sua dottrina; infatti se l'amore dell'uomo si volgesse spontaneamente verso dove deve indirizzarsi, non ci sarebbero da risolvere problemi relativi all'amore. San Bernardo non può non aver visto il problema che si è instancabilmente impegnato a discutere. Bisogna quindi cercare in che senso ciascuno di questi due amori è primo in rapporto all'altro; la risposta non può d'altra parte lasciar adito ad alcun dubbio: l'amore di Dio è primo di diritto l'amore carnale è primo di fatto; il problema consiste nel come ritornare da questo stato di fatto a quello di diritto che dovrebbe esistere. Notiamo subito che, affermando la priorità dell'amore carnale, Bernardo si sente garantito nella sua posizione dall'autorità di san Paolo. Egli ricorda incessantemente nei suoi sermoni il famoso testo: prius quod animale, deinde quod spirituale ( 1 Cor 15,46 ). La conoscenza di questa dipendenza dottrinale è importante per orientare sin dall'inizio la nostra interpretazione dei testi cistercensi. Qui, come sempre, bisogna considerare questa citazione medievale come un invito a rileggere tutto il passo da cui è tratta e di cui non è che un sommario richiamo: " Non vi fu prima ciò che è spirituale, ma ciò che è animale; ciò che è spirituale viene dopo. Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo viene dal cielo. Quale è l'uomo terrestre, tali sono anche i terrestri, quale è il celeste, tali sono anche i celesti. E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo terrestre, così porteremo anche l'immagine dell'uomo celeste. Ciò che affermo, o fratelli, è che ne la carne ne il sangue entreranno nel Regno di Dio e che la corruzione non erediterà l'incorruttibilità ". Ciò che Bernardo vuole anzitutto ricordarci è la necessità per l'uomo di subire una trasformazione che lo elevi dal carnale allo spirituale, se deve raggiungere l'immortalità che Gesù Cristo gli ha promesso e di cui la sua resurrezione è il pegno; ma poiché questa trasformazione è necessaria, vuol dire che nell'uomo c'è qualcosa da cambiare e ciò che deve essere cambiato deve essere antecedente a ciò che lo cambia. L'uomo terrestre, ciò che è terrestre, è esattamente ciò che riceverà l'uomo celeste, che si rinnoverà a immagine di Dio. Quindi ciò che è animale viene prima in noi; ma in che senso? In un duplice senso: quello di una necessità naturale, però pesantemente aggravata dal peccato, e quello di una inclinazione morbosa, per nulla naturale, che di conseguenza si aggiunge a questa necessità naturale; cerchiamo di distinguerle. Anzitutto necessità naturale. Essa dipende dal fatto che l'uomo non è un puro spirito, ma un essere misto composto di un'anima e di un corpo. Qui " carne " deve essere in primo luogo considerata nel senso ovvio di " corpo ". Da questo punto di vista, l'anteriorità dell'amore carnale rispetto all'amore di Dio significa semplicemente che l'uomo si trova inizialmente obbligato a provvedere ai bisogni del proprio corpo. È questo ciò che avviene; il bambino che viene al mondo è occupato dal proprio corpo per molti anni prima di poter pensare a volgere i propri desideri verso oggetti dell'ordine spirituale; e non solamente il bambino, ma anche l'adulto; anche il più severo degli asceti non può dedicarsi alla contemplazione delle cose divine più a lungo di quanto il corpo glielo permetta. Questa fondamentale necessità ha numerose ramificazioni; da origine all'arte dell'abbigliamento, a quella del costruire le case, del guarire le malattie, in breve a tutte le arti maggiori alle quali l'attività degli uomini è quasi unicamente rivolta. Inutile perdere il nostro tempo a enumerarle, perché è sufficiente vivere per prendere coscienza del carattere imperioso di questa necessità: ipsa nos erudii experientia, ipsa vexatio dat intellectum. Il vero nome di questo amore del corpo è necessità. Si tratta quindi, nel pensiero di san Bernardo, della necessità puramente naturale di provvedere anzitutto ai bisogni del corpo; in questo senso l'amore carnale si oppone a quello di Dio solo come una infermità legata alla natura animale, soprattutto decaduta; l'uomo può soffrirne, può sperare di esserne liberato in un'altra vita, ma è una debolezza congenita, dalla quale non potrà essere rialzato nella vita presente e della quale non deve rimproverarsi. Ciò che complica la questione è che, se questa necessità non è in se stessa una colpa, essa grava molto più pesantemente su di noi in seguito al peccato originale; ciò è vero, ma il fatto deve essere interpretato, perché questo castigo per la colpa non ci è imputato come colpa. Poiché gli uomini non potrebbero nascere adulti, in ogni caso sarebbe loro necessario passare attraverso un periodo di vita animale che riproporrebbe il problema. Non potendo in nessun caso essere eliminata l'animalità costitutiva della natura umana, l'anteriorità della vita animale rispetto alla vita spirituale nell'essere umano non potrebbe essere più netta. San Bernardo non va oltre quando afferma in questo primo senso l'anteriorità dell'amore carnale rispetto a ogni altro amore. Ciò crea una difficoltà, un fastidio, forse anche un'impossibilità pratica per l'amore di Dio di svilupparsi liberamente in questa vita, ma non implica nell'uomo una sottomissione essenziale dell'anima al corpo che le impedisca di preferirsi alla carne che essa anima e ancor meno di preferire Dio. La terminologia di san Bernardo è, d'altra parte, molto più tecnica di quanto non si immagini, ed è sempre facile riconoscere questo amore carnale nei testi in cui egli ne parla. Il carattere che lo distingue è designato col termine necessitas e la maniera con la quale agisce sulla volontà con il verbo urget. Lo si può quindi facilmente distinguere da quest'altra forma di amore carnale, che ora esamineremo e che deriva dalla concupiscenza, poiché i termini tecnici che la esprimono, sia in se stessa sia nei suoi effetti, non sono i medesimi: il carattere che la distingue è designato col termine cupiditas e la maniera con la quale agisce sulla volontà con trahit; così opporremo sempre la necessità della natura, con il bisogno che essa genera, alla cupidigia, con la forza che ne deriva. Lo stato normale del corpo è la salute, lo stato normale del cuore è la purezza: sicut autem corporis natura est sanitas, ita cordis est puritas. È purtroppo un fatto che il desiderio umano solo raramente si mantiene nei limiti dell'una o dell'altra. Invece di incanalarsi nel letto della necessità naturale, la volontà s'impegna a perseguire voluttà inutili, le quali cioè non sono desiderabili come requisiti per l'esercizio di funzioni necessario alla conservazione della vita, ma sono desiderate semplicemente per se stesse, in quanto voluttà. Si constata che la volontà ha superato i limiti della necessità naturale dal fatto che per lei non esiste più alcun motivo per limitarsi nei propri desideri. San Bernardo ha descritto questa caccia al piacere, e il rilassamento cui si accompagna, in pagine che lo storico delle idee si dispiace di non dover commentare, perché la loro bellezza è pari solo alla loro chiarezza. Ciò che invece dobbiamo sottolineare è il nuovo senso che qui riceve la priorità dell'amore carnale su ogni altro amore. Infatti capita spesso che san Bernardo attribuisca questa anteriorità non più alla necessità naturale, ma a questa cupidigia che abbiamo appena descritto. Perché, in questo secondo senso, la volontà è costretta a cedere prima all'amore carnale? Anche qui san Paolo ci offre la risposta: perché siamo carnali e nati dalla concupiscenza della carne. Se ciò che è animale precede lo spirituale in questo secondo senso, non è per il fatto che la natura lo voglia, ma al contrario perché la natura è stata corrotta dal peccato. È questo l'unico punto nel quale si deve notare un'imprecisione nel linguaggio di san Bernardo e bisogna riconoscere che infastidisce. Egli usa il medesimo vocabolo necesse per designare due distinti stati della volontà, senza distinguere i due sensi che in tal caso questo termine riceve. Il naturale è quello normale. In linea di principio, è naturale per l'uomo amare sopra ogni cosa Dio che è l'autore della natura, ed è ciò che l'uomo faceva spontaneamente prima della colpa, quando la somiglianza divina non era ancora cancellata dal peccato. Di fatto, è necessario per l'uomo iniziare ad assicurare la sussistenza del proprio corpo e in tal senso è giusto dire che l'amore carnale precede necessariamente tutti gli altri, ma ciò non significa che l'amore per il nostro corpo consista naturalmente nel preferirlo a Dio; può esservi anteriorità senza preferenza, nel qual caso l'amore in questione non è colpevole, o meglio, se la concupiscenza vi si mescola con preferenza, in quel caso la preferenza è necessaria, ma contro natura. Se quindi san Bernardo parla del carattere necessario dell'amore di concupiscenza, egli usa il termine nel senso di necessità morale, così come fa spesso sant'Agostino, per designare la natura, non nella sua definizione essenziale, ma nello stato di fatto in cui essa si trova collocata in seguito al peccato originale. Non si possono confondere questi diversi sensi senza far entrare san Bernardo in difficoltà inestricabili che si potrebbero introdurre nel suo sistema a seguito di questa imprecisione terminologica, ma che evidentemente non sono mai esistite nel suo pensiero. Così distinta dalla natura, la cupidigia determina una completa inversione nell'ordine dei valori e distrugge la gerarchia dei beni quale Dio l'aveva stabilita; non solo inizia dalla carne, ma la fa passare avanti a tutto il resto perché la preferisce. San Bernardo mostra chiaramente ciò che distingue i due casi, facendo osservare che noi non possiamo neppure domandare a Dio di liberarci dalla necessità che ci lega al nostro corpo; tutto quello che possiamo fare è domandargli di liberarci dalle nostre " necessità ", cioè di permetterci di soddisfarle una per una nella misura in cui si fanno sentire. Essere liberi dalla necessità naturale significherebbe per noi cessare di essere uomini o almeno di essere uomini terrestri, in quanto significherebbe cessare di avere dei corpi. Essere liberati dalla cupidigia è al contrario qualcosa che è legittimo domandare a Dio, in quanto essa non appartiene alla nostra natura, ma ne è una deformazione. " L'anima mendica il pane altrui perché ha dimenticato di mangiare il proprio; essa aspira alle cose della terra perché non medita quelle del cielo ". Rendersi conto di questo carattere avventizio e in qualche modo accidentale della concupiscenza, è importante per spiegare che essa necessariamente sbaglia nel soddisfarsi, perché non si regola né sulla natura delle cose né su quella dell'uomo. Il corpo riceve da essa più di quanto ha bisogno; quando viene superato anche il limite naturale non c'è più da attendersi per essa alcun limite da parte delle cose; d'altra parte ciò con cui spera di soddisfarsi è per definizione incapace di soddisfarla in quanto non è l'oggetto per il quale è fatta la volontà; essa si trova quindi impegnata in una direzione sbagliata e non è impegnandosi ulteriormente che potrà liberarsi, ma, al contrario, liberandosi da quei legami che la trattengono, e lo può fare solo con un movimento di " conversione ". Movimento a cui d'altra parte tutto ci invita, perché l'uomo può scegliere solo tra questo e la più profonda miseria. San Bernardo insiste continuamente sull'inevitabile disperazione alla quale l'uomo si condanna da solo se segue le vie della cupidigia. Colui che vi si abbandona entra in ciò che Bernardo chiama, con un'altra di quelle metafore scritturistiche che hanno in lui valore tecnico: il consiglio degli empi. Perché è un circolo vizioso quello in cui essi si rinchiudono. Animati dal desiderio, cercano naturalmente tutto quanto possa appagare il loro desiderio, ma lo cercano sempre nel medesimo ambito, invece di uscirne una volta per tutte per entrare nella via diritta che li avvicinerebbe al loro fine. Non più a uno di questi falsi fini che consumiamo e che ci consumano, ma a quello che ci porta al compimento: fini dico non consumptioni, sed consummationi. Ciò che sarebbe necessario, invece di camminare tra le cose e metterle una per una alla prova, sarebbe pensare di raggiungere il Signore del mondo. Perché un uomo vi pensi, è forse necessario che, dopo aver soddisfatto la propria ambizione di possedere la terra, si impossessi di tutte le cose, tranne che del loro principio. Forse solo allora, per la stessa legge della propria cupidigia, la quale gli fa disprezzare ciò che ha per desiderare ciò che non ha, rigetterebbe con disgusto tutti i beni della terra per attaccarsi all'unica cosa che gli mancherebbe: Dio. Ma il mondo è grande e la vita è corta. Perché quindi seguire questo cammino faticoso e indiretto? Il solo rimedio al male è far sì che la ragione preceda il senso, invece di seguirlo. Cosa ci dice infatti la ragione? Anche l'impotenza del desiderio di soddisfarsi deve avere un senso positivo. Una tale inquietudine che spinge l'uomo a separarsi dal bene che possiede per cercarne senza sosta un altro, non è forse, oltre che un fatto, un problema? Ecco la risposta: il Bene ci attira. L'inquietudine, l'instabilità del desiderio, non sono che l'eccesso di un amore troppo grande per ciò che ama, perché sbaglia oggetto. Come potrebbe arrestarsi su un bene finito colui che solo un bene infinito può soddisfare? Creato da Dio, per Dio, non senza motivo l'amore umano rifiuta di interrompere la propria ricerca sino a che non ha trovato l'unico oggetto che lo può appagare. Tutto quello che ci rimane da sapere, ora che possediamo la risposta al problema, è il motivo per cui esso si pone. Perché questa follia? Perché questa ostinazione dell'empio a girare senza fine nel " circuito " in cui si consuma, desiderando senza saperlo e tuttavia rifiutando ciò che lo condurrebbe al proprio fine? La cupidigia non è altro che Femore di Dio che si ignora; bisogna cercare la ragione di questa situazione. " Il fatto è che, servendosi di un paragone più volte usato da san Bernardo, l'uomo è un esiliato; non abita più nel paese in cui è nato. Si potrebbe dire, in termini leggermente diversi, che vive in un clima che non è il suo. Così come Dio l'aveva creato, era una nobile creatura - nobilis creatura - ed era tale perché Dio l'aveva creato a propria immagine. figurato a causa del peccato originale, l'uomo si è allontanato dal paese della somiglianza per entrare nella terra della dissomiglianza: " Regio dissimilitudinis ". Questa è la inversione originaria dalla quale è derivato tutto il male. Conversione alla rovescia, " conversione esecrabile ", nella quale l'uomo cambiò la gloria dell'immagine divina con la vergogna dell'immagine terrestre, la pace con Dio e con se stesso con la guerra contro Dio e se stesso, la libertà sotto la legge della carità con la schiavitù sotto la legge della propria volontà. Si può andare oltre e dire che l'uomo ha scambiato il cielo con l'inferno, affermazione che riassume le precedenti perché l'inferno è a volte la propria volontà, la dissomiglianza con Dio che ne deriva, la guerra che essa stabilisce tra la creatura e il creatore. Questo male introdotto nel mondo da Adamo è ereditario e la vita cristiana ha per oggetto proprio il lottare contro i suoi effetti. Nasciamo corrotti: " Generati dal peccato, generiamo dei peccatori; nati debitori, dei debitori; corrotti, dei corrotti; schiavi, degli schiavi … Siamo feriti sin da quando entriamo nel mondo, lo siamo mentre viviamo e lo siamo ancora quando ne usciamo; dalla pianta dei piedi fino alla sommità della nostra testa in tutto il nostro essere non vi è nulla di sano ". Se la cupidigia ci trascina necessariamente di bene finito in bene finito, allora la natura dell'uomo non è più nello stato in cui dovrebbe trovarsi; ormai ogni uomo che nasce, nasce sfigurato. Il problema che immediatamente si pone allo spirito è di sapere se il male è irrimediabile. Si può rispondere solo analizzando più attentamente la natura di questa somiglianza divina e quella dei danni prodotti dal peccato. Seguire san Bernardo su questo terreno, significa andare incontro a una dottrina dove sono facilmente riconoscibili gli influssi combinati di sant'Agostino e di sant'Anselmo e della quale non si può tuttavia disconoscere il carattere profondamente originale. Tutti gli elementi che prende in prestito vengono da lui ordinati in modo da preparare la soluzione al suo problema: dare un'interpretazione dottrinale coerente e una giustificazione teologica completa della vita cistercense, affinché, nata e nutrita da quella vita, questa dottrina a sua volta la nutra e la faccia vivere. D'accordo con sant'Agostino, Bernardo situa l'immagine di Dio nel pensiero dell'uomo: mens; ma mentre Agostino la cerca preferibilmente nella conoscenza intellettuale, dove l'illuminazione divina attesta la presenza incessante del creatore nella creatura, Bernardo la situa piuttosto nella volontà e in modo particolare nella libertà. Tuttavia è importante fare qui delle distinzioni. La Scrittura insegna che Dio ha fatto l'uomo " a sua immagine e somiglianza " ( Gen 1,26 ); i due termini sono importanti e dobbiamo definirli separatamente. Dio ha creato l'uomo per assodarlo alla propria beatitudine; ogni nostra storia inizia con questa libera decisione. Per essere felici, bisogna gioire; per gioire, occorre una volontà; la volontà gioisce solo impossessandosi del proprio oggetto con un atto di consenso; consentire vuol dire essere liberi. È per questo che Dio, creando l'uomo per associarlo alla propria beatitudine, l'ha creato dotato di una volontà libera ed, è soprattutto in ragione della propria libertà che l'uomo è una creatura nobile, fatta a immagine, di Dio, capace di vivere in comunione con lui. Questo dono della libertà, fatto dal creatore alla sua creatura, è, d'altra parte, un dono complesso perché implica tre libertà: una che è immutabile e due che non lo sono. Consideriamo il libero arbitrio in se stesso; si scompone in due elementi: il consenso volontario, il potere di arbitrio. La libertà del libero arbitrio si identifica anzitutto col potere di consentire o non consentire, che è inseparabile dalla volontà in quanto tale. Un essere dotato di volontà può accettare o rifiutare questo o quell'oggetto, dire di sì o no, e questo solo per il fatto che è dotato di volontà. È questa libertà naturale, inerente all'essenza stessa del volere, che si chiama " libertà dalla necessità " - libertas a necessitate. L'espressione significa quindi, innanzitutto, che la nozione di volontario è radicalmente incompatibile con quella di costrizione, è per questo che talvolta la si denomina anche " libertà dalla costrizione " - libertas a coactione. Qualunque siano infatti le circostanze esterne che possono contribuire a far maturare una decisione, quando essa è presa, è la volontà che consente e a rigor di logica è contradditorio che si possa " consentire proprio malgrado ". Questa libertà è a tal punto un privilegio inseparabile da ogni essere dotato di volontà che in noi non potrebbe essere minore di quanto non sia in Dio stesso: " La libertà dalla necessità conviene in ugual modo e indifferentemente a Dio e in generale a ogni creatura razionale, sia buona sia cattiva. Non la si perde né per il peccato né per la miseria: non è più grande nel giusto che nel peccatore, né più piena nell'angelo che nell'uomo. Infatti, come il consenso della volontà umana, quando la grazia lo volge verso il bene, diventa per questo buono liberamente e rende l'uomo libero nel bene, cioè lo porta a volerlo e non lo trascina suo malgrado; così, allo stesso modo, quando questo consenso si getta spontaneamente nel male, l'uomo resta anche nel male libero e spontaneo, poiché è la sua volontà che ve lo conduce e non un obbligo estraneo. E come un angelo del cielo, o anche Dio, rimane buono liberamente, cioè per propria volontà e non per qualche necessità esterna, così è liberamente che il demonio si è precipitato nel male e vi rimane, poiché vi si trova per un movimento volontario e non per un impulso esterno. La libertà quindi, anche là dove il pensiero è in schiavitù, rimane completa sia nei malvagi che nei buoni, ma in questi ultimi più sottomessa all'ordine; completa, a suo modo, sia nella creatura che nel creatore, ma in quest'ultimo più potente ". Si vede bene fino a che punto san Bernardo si opponga a tutte le dottrine sul servo arbitrio. Poiché egli arriva, nella sua affermazione della libertà, sino a mantenerne l'esistenza anche nei dannati, si può dire che nessun crimine è in grado di distruggerla. E se si obiettasse che questo libero arbitrio, ormai inefficace, in lui non è altro che una parola priva di senso, ci si scontrerebbe con l'altra tesi fondamentale che fa del libero arbitrio dell'uomo, anche dopo il peccato, anche nella dannazione, un analogo del libero arbitrio dei beati in cielo, degli angeli e di Dio stesso. È un punto sul quale l'insistere non può essere eccessivo: questa libertà dalla necessità, qualunque sia in noi la miseria presente, opera nell'atto umano non meno di quanto operi in quello angelico. Presa in se stessa e indipendentemente dalle condizioni che la qualificano, la volontà del giusto che aderisce al bene, del peccatore che consente al male o del dannato che vi si è insediato per sempre, si impossessa efficacemente del proprio oggetto quanto quella per la quale Dio vuole eternamente la propria perfezione e la propria beatitudine. È per questo che la libertà dalla necessità, che è tutt'uno con la facoltà di consentire e conseguentemente con la volontà, lungi dall'essere e dal poter mai divenire in noi un fattore trascurabile, è al contrario un titolo d'onore del quale nessuna creatura ragionevole, in qualunque stato si trovi, può mai essere privata; può degradarla, ma non può perderla senza, per questo, cessare anche di esistere. Ecco anche perché questa libertà, che non si può perdere né distruggere, è in noi principalmente ciò per cui siamo a immagine di Dio. Anche questa immagine dunque, come la libertà dalla costrizione e la stessa volontà, non si può né perdere né distruggere: " Forse è perché solo il libero arbitrio non sopporta di essere danneggiato o diminuito che, soprattutto in lui, sembra sia impressa una sorta di immagine sostanziale della divinità eterna e immutabile. Infatti ha avuto un inizio, ma non conosce fine; la giustizia e la gloria non lo accrescono in nulla, come il peccato e la miseria non lo diminuiscono. È possibile assomigliare di più all'eternità senza essere l'Eternità? ". Sin qui tutto è chiaro. Bisogna solamente aggiungere un'ulteriore complicazione necessaria: se ciò che noi abbiamo appena descritto riguardo al libero arbitrio non può essere perduto, esso è l'unica cosa in noi ad essere tale. In noi esistono altre cose. Sopprimendo la libertà dalla necessità, si sopprime la volontà, si sopprime cioè l'uomo stesso. Ma se non si può immaginare un uomo incapace di volere, si può immaginarlo incapace di volere il bene. Infatti supponendolo incapace di volere il bene, non si dimostra con ciò che gli manchi il libero arbitrio, ma un'altra cosa che ci resta ancora da definire. Supponiamo che sia capace di volere e di volere il bene, ma incapace di fare il bene che vuole, avrà conservato ancora il proprio libero arbitrio, ma esiste una terza cosa che gli mancherà. Che cosa? Per saperlo riprendiamo, completandola, l'analisi del libero arbitrio. Innanzitutto è, come è stato detto, una libertà coessenziale alla volontà: quella di consentire o di non consentire; questo è ciò che si esprime con il termine libero. Inoltre è una capacità di giudicare il nostro consenso, cioè la nostra stessa volontà, e di dichiararla buona, se è buona, o cattiva, se è cattiva; questo è ciò che si esprime con il termine arbitrio. In un certo senso si potrebbe dire che è la volontà che giudica se stessa; nulla sarebbe più giusto, in quanto la volontà è tale solo in virtù della sua stretta associazione con la ragione. Altrimenti non sarebbe più una volontà, ma un appetito. È altrettanto vero, rigorosamente parlando, che è il liberum che consente e l'arbitrium che giudica; ora, arbitrare è giudicare e come ogni uomo, in quanto uomo, è sempre capace di volere, così è sempre capace di formulare un giudizio sulle proprie decisioni volontarie. San Bernardo, che qui si ricorda probabilmente dell'ut sint inexcusabiles di san Paolo, è di una fermezza estrema su questo punto: ciò che noi chiameremo la voce della coscienza, non si spegne mai nell'uomo; sempre capaci di distinguere il bene dal male, siamo sempre capaci di giudicare le nostre decisioni, abbiamo quindi sempre in noi il nostro libero arbitrio. Consentire e giudicare il proprio consenso non è però tutto. Si può volere il male, sapere che ciò è male e tuttavia scegliere di farlo. Al " giudizio " si aggiunge allora una " scelta " e questo atto di scegliere ( eligere ) è esso stesso il risultato di una " decisione " ( consilium ). Ora, in conseguenza del peccato originale, noi non siamo necessariamente capaci di scegliere il bene o di evitare il male, anche se giudicati tali dalla nostra ragione. Bisogna quindi dire che, se non ci manca mai il liberum arbitrium, ci può mancare, senza per questo cessare di essere uomini il liberum consiltum. È anche da ipotizzare che, sapendo ciò che è bene, scegliamo di farlo, ma che ci possa mancare la forza per compierlo; se ci venisse a mancare tale potere, avremmo però ancora il liberum arbitrium e il liberum consilium, ma con il posse sarebbe sparito il liberum complacitum. Ecco quindi l'uomo, struttura complessa i cui elementi sono lontani dall'essere tutti ugualmente indistruttibili. Il punto centrale della dottrina di san Bernardo è che l'immagine di Dio in noi non può perdersi: è per questo che l'uomo rimane uomo, dopo come prima del peccato: ipse liber sui propter voluntatem, ipse judex sui pròpter rationem; ma la somiglianza con Dio in noi può perdersi: è per questo che l'uomo perdendo le virtù delle quali Dio l'aveva dotato per unire le proprie decisioni, scelte e azioni al giudizio della propria ragione, ha perso la propria somiglianza divina. Sempre dotato del libero arbitrio, non ha più né la libertà di scegliere, che lo liberava dal peccato, né quella di agire in base alle proprie scelte, che lo liberava dalla miseria di una volontà impotente. In breve, la libertas a necessitate ci rimane, ma abbiamo perso la libertas a peccato e la libertas a miseria. Abusando della prima, l'uomo ha perso le altre due; ha conservato l'immagine e le due somiglianze se ne sono andate. Perché? Perché, a differenza della prima, queste ultime due libertà comportano dei gradi. L'uomo poteva quindi riceverle in una certa misura, secondo una certa proporzione, che avrebbe potuto essere più grande e poteva anche divenire più piccola. Il livello più alto di queste libertà sarebbe stato, per l'uomo, di trovarsi così completamente liberato dal peccato e dalla miseria da essergli impossibile il cadervi. Dio avrebbe potuto crearlo in questo stato, nel qual caso, gratificato da queste due libertà nella loro pienezza, l'uomo non avrebbe mai potuto perderle: si sarebbe allora trovato, sin dalla sua creazione, confermato nel bene, come lo sono attualmente gli angeli e gli eletti nel cielo. Ma al di sotto di questo grado superiore ve ne è un altro: poter peccare o no, poter soffrire o no, ed è proprio quello dove Dio pose l'uomo creandolo. Per la propria colpa la natura umana è caduta dalla possibilità di non peccare dove si trovava, all'impossibilità di non peccare, e dalla possibilità di non soffrire all'impossibilità di non soffrire. Colpa libera, della quale l'uomo è quindi interamente responsabile, e che l'ha spogliato, per una inevitabile conseguenza, delle virtù che gli permettevano di evitare, se lo voleva, il peccato e la miseria. Abbiamo detto che queste due libertà costituivano la somiglianza divina nell'uomo; perderle significava quindi perdere tale somiglianza ed esiliarsi nel deserto della dissomiglianza, dove, ancora oggi, si trova dispersa la folla degli uomini sfigurati. Tentiamo di precisare la natura del male che li ha colpiti. L'uomo è indefettibilmente a immagine di Dio; tuttavia è semplicemente fatto a immagine: solo il Verbo è questa stessa immagine, perché solo lui è espressione adeguata e sussistente del Padre. Se quindi portare in sé l'immagine di Dio è la grandezza dell'uomo, questa grandezza è in lui come un dono. Creatura elevata, capace di partecipare alla maestà divina - celsa creatura in capacitate majestatis - la sua dignità non gli appartiene di diritto. Per esprimere in che modo la grandezza dell'anima appartenga alla natura dell'anima senza confondersi con essa, Bernardo usa una terminologia che ci può facilmente disorientare: questa grandezza, afferma, è la " forma " dell'anima e nessuna forma è ciò di cui è forma, sebbene non ne possa essere separata. Ciò che chiama " forma " non è evidentemente la forma essenziale di Aristotele; d'altra parte sappiamo che non è neppure un semplice accidente, perché gli accidenti sono separabili dalla sostanza ( tali sono le somiglianze divine che noi abbiamo perso ); la " forma " di cui qui si parla non può quindi essere che un " proprio ", cioè una qualificazione inseparabile dal soggetto in cui risiede e dal quale tuttavia rimane distinta. La diminuzione inflitta all'uomo dal peccato non riguarda quindi la sua grandezza. Ci restano da esaminare le sue somiglianze. Indichiamole con una parola e chiamiamole la " rettitudine " dell'uomo. L'anima è " grande " in quanto capace di partecipare alla vita divina, ma è " retta " in quanto desidera parteciparvi. Come la grandezza, la rettitudine dell'anima è distinta dall'anima e inoltre esse sono distinte tra di loro, lo dimostra il fatto che, sebbene la grandezza dell'anima ne sia inseparabile, non lo è la rettitudine. Incapace di cessare di essere grande e a immagine di Dio senza cessare di esistere, l'anima può cessare di essere retta e a somiglianza di Dio senza essere distrutta. Per questo non ha che da perdere le proprie virtù, cioè l'amore per i beni eterni, e preferirgli quelli terreni, temporali, perituri. L'eterno è la parte di Dio, che resta essenzialmente sua anche quando ci viene offerta; il temporale, il terreno, è la parte dell'uomo, che resta sua anche quando Dio lo invita a una più alta eredità. Rifiutando il divino per il terreno, l'uomo rivendica quindi la propria parte preferendola a quella di Dio; facendo ciò perde la propria rettitudine, si piega, si " incurva ", si distoglie dal cielo, verso cui Dio l'aveva rivolto, per inclinarsi verso questa terra attirato dal suo essere animale. Qual è esattamente il suo nuovo stato? Da " retta " quale era, la sua anima è diventata " curva ", altro termine tecnico la cui fortuna successivamente sarà considerevole. Tuttavia, in virtù della distinzione che abbiamo introdotto, la perdita della sua rettitudine non ha determinato per l'anima quella della sua grandezza. Spogliata di questo amore dell'eterno che costituiva la sua rettitudine, essa però ne resta capace; se ciò non fosse, non ci rimarrebbe, dopo il peccato, alcuna speranza di salvezza. Fortunatamente non è così: come Adamo era in grado, essendo a immagine di Dio, di ricevere inoltre da lui la sua somiglianza, noi restiamo capaci di riceverla di nuovo, se egli vuole restituircela. È importante capire bene questo punto in quanto è la base di tutta la mistica cistercense: è da qui che l'anima deve partire, " ut … ad amplexus Verbi fidenter accedat ". Ciò che ci sfigura è questo incurvamento verso il terrestre, questa perdita del gusto per i beni divini, cioè la perdita della carità; invece di essere mossi dall'amore, siamo ormai soggetti al timore e non solo al timore di Dio, che è necessario, ma al timore del castigo di Dio, che avremmo potuto evitare. Tuttavia la dissomiglianza non ha cancellato l'immagine; la paura non ha annientato l'amore, la schiavitù del peccato non ha distrutto la libertà naturale; in breve, tutti i mali di cui noi soffriamo solo per nostra colpa, non si sono sostituiti ai beni di cui Dio ci aveva colmati, essi li hanno ricoperti come un vestito, li nascondono senza eliminarli. Al di sotto di questa rigida crosta che la dissimula, l'immagine sussiste indeformabile, indistruttibile; l'immagine, vale a dire la natura umana stessa in ciò che ha di più nobile: la libertà. Scendiamo ancora più nel profondo del nostro cuore, perché san Bernardo non ha voluto rimanere in superficie, ma portare il bisturi fino nella ferita che ci tormenta. Cosa è esattamente questa " curvatura " che ci distoglie da Dió e ci fa ripiegare su noi stessi? Come riconoscerla e svelarne gli effetti? Per scoprirlo è sufficiente analizzare i procedimenti particolari della nostra volontà. Essi sono di due tipi e conseguentemente si dice che la volontà e duplice: comune o propria. Queste espressioni non significano naturalmente che in noi ci sono due facoltà del volere, ma che noi possediamo due modi di volere, l'uno che si chiama voluntas communis, l'altro voluntas propria. Essi si oppongono apertamente e il loro carattere antitetico permette di definirli reciprocamente. La volontà comune non è altro che la carità. In effetti ciò che caratterizza la carità è che essa implica una disposizione del volere a condividere i beni di cui gioisce. Condividerli non significa perderli, ma al contrario conservarli in modo più sicuro, e persino accrescerli, come avremo occasione di constatare più avanti. Il suo contrario, la volontà propria, è quindi il rifiuto di avere qualsiasi cosa in comune con altri, la decisione di volere solo per noi e in vista di noi stessi. Decisione che sembra saggia, e che tuttavia è folle, perché appena la volontà propria occupa il cuore dell'uomo, perdendo la carità, il suo volere si separa da quello di Dio e si esclude così anche dalla vita divina. La " curvatura " dell'anima è quindi la volontà propria, cioè il ripiegamento su di sé di una carità che si degrada in cupidigia. Si comprende allora perché la volontà propria e la carità si oppongono. Dio è carità; la volontà propria, opponendosi alla carità, conduce quindi contro Dio la più crudele delle guerre. All'inizio, diventando propria, si sottrae al dominio di colui che dovrebbe servire come suo creatore. Inoltre afferra e saccheggia tutto ciò che appartiene a Dio; si impadronirebbe dell'universo intero se ne avesse il potere e si può affermare senza timore che tutto ciò non basterebbe a soddisfarla. Ancora di più, non contenta di appropriarsi della creazione, si rivolta contro Dio per negarlo e annullarlo nella misura in cui ne è capace. Non potendo eliminarlo, vorrebbe almeno che non fosse Dio, poiché quando l'uomo desidera che Dio non conosca i suoi peccati, o non voglia o non possa vendicarli, cosa fa se non sperare che Dio sia privato della propria conoscenza, della propria giustizia o della propria potenza, cioè che non sia più Dio? " Malvagità crudelissima e assolutamente detestabile quella che desidera che Dio perda la potenza, la saggezza e la giustizia! È una bestia crudele, la peggiore delle belve, una lupa rapacissima e una iena ferocissima. Questa è inoltre una immondissima lebbra per la quale dobbiamo immergerci nel Giordano e imitare Colui che non è venuto per fare la propria volontà: non mea voluntas, disse infatti nella Passione, set tua fiat. Esiste tuttavia una lebbra ancora più dannosa, in quanto colpisce il libero arbitrio nel suo stesso elemento razionale, è il consiglio proprio - proprium consilium. Abbiamo infatti visto che il libero arbitrio è allo stesso tempo un potere volontario di consentire e un potere razionale di giudicare; ora la patologia dell'anima segue rigorosamente la sua anatomia e san Bernardo, che si dimostra così poco curioso riguardo a problemi sterili, da qui prova di una notevole capacità di costruzione sistematica, perché si tratta di un problema la cui risposta è di grande importanza per la condotta della vita spirituale. I disordini della volontà propria dipendono immediatamente dall'elemento volontario del libero arbitrio; questo elemento non è altro che la libertà dalla necessità, cioè l'immagine di Dio in noi, che sappiamo essere indistruttibile. È quindi evidente che i disordini di cui la volontà è sede, poiché non potrebbero alterarne l'essenza, sono di natura secondaria; devono avere altrove la loro causa, della quale non sono altro che le ripercussioni e gli effetti. Ma non si può esitare più a lungo sul luogo di questo disordine fondamentale. L'uomo ha perso la somiglianza divina perdendo le proprie virtù; queste virtù risiedevano in ciò che aggiunge al nostro libero arbitrio un liberum consilium; e quindi nel consilium che si trova il germe del male, e l'origine segreta della volontà propria non può essere che il proprium consilium. Questo è un male terribile, perché più il " senso proprio " abbonda in noi, più siamo cattivi e più ci crediamo giusti. Nessun'altra disposizione dell'anima si accompagna più facilmente di questa all'illusione della giustizia, perché non pecca per mancanza di zelo, ma per mancanza di scienza; è veramente uno zelo mal diretto. È ciò che si vede diffondersi ampiamente nei fautori di eresie e di scismi. È vero che essa esalta la giustizia, ma la propria, non quella di Dio. " Essa risiede in coloro che hanno lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza; seguendo il loro errore, essi si ostinano sino al punto di non voler ascoltare i consigli di nessuno. Questi sono i divisori dell'unità e i nemici della pace; privi di carità, gonfi di vanità, pieni di compiacenza e grandi ai propri occhi, ignorano la giustizia di Dio e vogliono stabilire la loro. Quale orgoglio più grande si può trovare in un uomo se non quello di preferire il proprio unico giudizio a quello di un'intera assemblea, come se fosse il solo a possedere lo spirito di Dio? ". In fondo il senso proprio è un'idolatria: adorazione di se stessi e ribellione contro Dio. Ecco l'origine di tutto il male. Preferendosi a Dio, la ragione ha pervertito la propria facoltà di scegliere, alterato la propria attitudine a non compiacersi che nel bene e messo in disordine la propria volonta. Finché il consilium e il complacitum della ragione sono malati, non ci può essere salute per il libero arbitrio. È per questo che, perdendo la rettitudine dei consigli e di conseguenza la somiglianza divina, la volontà dell'uomo ha perso la libertas a peccato; e perdendo la rettitudine del complacitum è ormai incapace di compiacersi nel bene anche quando la volontà vorrebbe realizzarlo, ha perso cioè la propria libertas a miseria. D'altra parte è per questo che l'ascesi e le mortificazioni rimangono faticose, anche per colui che si libera completamente dal proprio volere; noi possiamo, con la grazia, domare la carne, ma l'anima ne soffre, perché ormai non sa più fare con gioia ciò che prima della colpa avrebbe fatto senza sforzo. Questa è la condizione di quelli che vivono nel paese della dissomiglianza. Essi non sono felici. Errando, girando senza speranza per le " vie degli empi ", gli uomini che si trovano in questo triste cerchio non soffrono solo per aver perso Dio: si sono persi essi stessi; la loro anima non ha più nemmeno il coraggio di guardarsi e, se vi si costringe, non si riconosce più. Infatti non essendo più simile a Dio, non è più simile a se stessa: inde anima dissimilis Deo, inde dissimilis est et sibi; una somiglianza che non assomiglia più al proprio modello non può più assomigliarsi. È vero che essa resta un'immagine; nel più profondo della propria miseria, questa realtà veramente divina, che è il libero arbitrio, continua a brillare in sé come un gioiello nell'oro, ma è proprio questo che porta al culmino la sua miseria, perché sentendosi, allo stesso tempo uguale e diversa, ancora un'immagine, ma incapace di restituirsi la bellezza perduta, è ancora capace di giudicare la propria bruttezza. L'empio consideri quindi se stesso, guardi in faccia questo viso malato e corroso dalla lebbra: oserà ancora pretendere di somigliare a Dio? Meglio farebbe a esclamare con il salmista: " Chi è come te, Signore? " ( Sal 35,10 ). Come l'immagine indistruttibile di Dio giudica in quest'uomo la somiglianza distrutta, così la somiglianza eterna piange in lui ciò che egli ha perso: nam manet prima similitudo, et ideo illa plus displicet, quod ista manet. Come uscire da questa miseria, come ritrovare la somiglianza di Dio? Affinché le tre libertà si ricostituiscano nell'anima dell'uomo, bisogna che cessi la volontà propria; essa cesserà solo se l' " intenzione " si lascerà condurre dalla carità; ma perché l'intenzione si corregga, bisogna innanzitutto che cessi il senso proprio e la ragione si sottometta alla verità. Carità nell'intenzione, verità nell'elezione; semplici come colombe, ma prudenti come serpenti; prudenza innanzitutto: oculus videlicet cordis, non solum pius qui fallere nolit, set et cautus sit qui falli non possit, questi sono i primi consigli di san Bernardo all'anima che cerca se stessa in Dio. La " cecità " della ragione è il primo male da guarire per chi vuole rimediare alla " perversità " della volontà. Cos'è che illuminerà l'occhio interiore, e gli restituirà la dirittura del consiglio? La fede. Non solo la convinzione, ma la fede vera, cioè la vera fede. " Tutto quello, infatti, che non viene dalla fede, è peccato " ( Rm 14,23 ). Accettandola essa ci darà la verità, una scienza molto più sicura di quella di cui la ragione di un Abelardo persegue la conquista; illuminando la ragione, eliminerà il consilium proprium; la volontà si aprirà alla carità, che caccerà la propria voluntas e la somiglianza divina risplenderà nuovamente nell'anima poco prima sfigurata. Il rimedio è sicuro, ma la cura è lunga; la si può seguire ovunque; ma vi sono dei luoghi privilegiati dove agisce meglio che in altri: i monasteri. Bernardo si guarda attorno e cerca con lo sguardo quello dove essa opera meglio che in tutti gli altri; non esita, è Cìteaux. Schola caritatis Bernardo e i suoi compagni cosa venivano a chiedere a Cìteaux quando, nel 1112, bussarono alla porta del monastero? Non si può pensare che essi vi abbiano portato una dottrina già costituita, la stessa che noi oggi studiamo negli scritti dell'abate di Chiaravalle; al contrario, quei giovani venivano a istruirsi sulle regole della vita cristiana e a imparare a praticarla. Possiamo almeno dire che non è senza aver riflettuto a lungo, né senza cognizione di causa, che, dopo il loro mese di ritiro a Chàtillon-sur-Seine, si rivolsero a Cìteaux. Dobbiamo a un anonimo monaco di Chiaravalle, che più tardi scrisse l'Exordium magnum Ordinis Cisterciensis, una spiegazione così chiara del senso della vita cistercense per coloro che l'abbracciarono agli inizi, che la cosa migliore che possiamo fare è quella di apprendere da lui i motivi della loro decisione. Come la concepiscono i suoi primi partecipanti, la riforma cistercense non è una innovazione nella vita benedettina e la vita benedettina non è una innovazione nella vita cristiana. Per gli autentici discepoli di Cristo non c'è più nulla da inventare, ma troppo spesso vi è la necessità di riformarsi. È quanto fanno Bernardo, Stefano Harding, Roberto di Molesme: essi ritornano a san Benedetto, e attraverso san Benedetto, alla forma di vita perfetta che fioriva nella Chiesa primitiva. Anche nel XII secolo non si aveva l'ingenua illusione di una Chiesa primitiva nella quale tutti i membri fossero stati dei perfetti cristiani. Il numero dei santi è sempre stato esiguo; predicato a tutti, il Vangelo non è mai stato recepito se non sulla misura di coloro che lo ricevevano, ma è proprio per questo che si è formato, dagli inizi, un gruppo ristretto di perfetti imitatori di Cristo, la cui presenza, agendo come lievito, fermentava la massa dall'interno, e le impediva di corrompersi. Sembra che gli Apostoli, subito dopo la morte di Cristo, abbiano formato un gruppo di questo tipo, cioè una scuola di maestri la cui stessa vita era un insegnamento; essi non insegnavano altro che il Vangelo offerto a tutti e tuttavia si temeva di unirsi a loro a causa del rigore con il quale ne seguivano gli insegnamenti: " Erano soliti stare insieme sotto il portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava " ( At 5,12-13 ). Essi furono i primi monaci e il loro esempio ci rivela quello che sempre fu il senso della vita monastica: vita di una élite che, con la predicazione e l'esempio, mantiene lo spirito assoluto del Vangelo in un mondo incapace di conformarvisi. Il nome che l'autore dell'Exordium dà a questo gruppo è tipicamente benedettino; è una scuola, la scuola della Chiesa primitiva: schola primitìvae Ecclesiae. Già san Benedetto aveva annunciato all'inizio della Regola che aveva intenzione di aprire una scuola del servizio divino: dominici schola servitii. I Cistercensi avevano molte ragioni per riprendere questa espressione dandole un senso nuovo. Nel XII secolo la Francia si popola di scuole dove si insegnano le scienze profane e le lettere antiche. Non esiste solo Saint-Vorles, dove il giovane Bernardo aveva studiato e il cui programma doveva aver ben presto sorpreso o almeno inquietato il suo animo avido di Cristo, ci sono anche Parigi, Reims, Laon, Chartres, tanti altri nomi celebri, i cui maestri però sono sempre gli stessi: Cicerone, Virgilio, Ovidio, Grazio, portavoci eloquenti di un mondo che non aveva letto il Vangelo. Perché non richiedere un altro maestro, l'unico che ha parole di vita eterna? Unus est enim magister vester ( Mt 23,8 ); l'uomo non ha che un maestro, il Cristo: magister vester unus est, Christus ( Mt 23,10 ). Cìteaux, Chiaravalle e Signy si mettono quindi contro Reims, Laon, Parigi e Chartres, scuole contro scuole, e rivendicano, in terra cristiana, i diritti di un insegnamento più cristiano di quello con cui veniva inquinata una gioventù avida di Cristo. In questo non vi è nulla che debba sorprendere, perché Cìteaux e Chiaravalle non sono altro che filiali e continuatrici di quella Scuola di Gerusalemme, fondata dai primi apostoli, o di quella di Antiochia, i cui illustri maestri furono Paolo e Barnaba. Il vero nome dei loro allievi è " Cristiani "; la dottrina di Cristo è la sola che vi si insegna ed è quella che ha sempre la maggior importanza quando si fonda una nuova scuola. Antonio, Pacomio, Macario, Pafnuzio, Basilio non hanno desiderato altro che ricondurre i loro discepoli alla vita dei perfetti della Chiesa primitiva. Benedetto stesso si appella a loro redigendo questa Regola dove tutta la perfezione è ricondotta all'amore di Dio e del prossimo. Cìteaux, a sua volta, non ha altra ambizione che quella di ristabilire nel suo rigore l'osservanza della Regola benedettina, cioè della vita cristiana, che è la vita di carità. Se si aggiunge che il monaco anonimo che ci riferisce queste notizie, non può trattenersi dal citare due volte Grazio e una volta Ovidio, avremo un'immagine abbastanza esatta dello spirito che conduceva quei giovani atleti al chiostro. Essi vi fuggivano il mondo, ma la più grande tentazione del più distaccato tra di loro era stata quella di diventare un uomo di lettere ed egli ha trovato il modo di divenire santo pur cedendo ad essa. Malgrado il suo severo ascetismo, san Bernardo non è mai caduto nel puritanesimo letterario; i muri dei suoi monasteri sono nudi, ma non senza stile. Non a caso compone come Guglielmo di Saint-Thierry o Aeiredo di Rievaulx. Questi Cistercensi hanno rinunciato a tutto tranne che all'arte dello scrivere bene; ognuno di questi severi asceti porta in sé un umanista che non vuole morire. Comunque sia, resta vero che i Cistercensi non si sono fatti una concezione scolare della vita monastica, ma una concezione monastica della vita di scuola. Essi hanno riportato la Scuola nel Chiostro e quando hanno paragonato quest'ultimo alle scuole, lo hanno fatto per mostrare che esso si sostituisce ad esse e ne dispensa, come la fede si sostituisce alla filosofia e ne dispensa. In effetti la Regola di san Benedetto è proposta a tutti, ma non è imposta a nessuno. Nessuno è obbligato a seguirla e si può ottenere la salvezza senza assoggettarvisi. Tuttavia, se la si abbraccia, aiuta efficacemente a ottenerla, a condizione che la si segua fedelmente dopo averla abbracciata. Finché non si è preso l'impegno di assoggettarvisi, la Regola non impone nulla come necessario e la volontà rimane completamente libera nei suoi confronti; ma una volta che se ne è liberamente fatta professione, ciò che era rimasto facoltativo diviene necessario. Il monaco quindi assume liberamente la Regola, ma in seguito deve necessariamente osservare la legge che si è liberamente imposto. Felice necessità, d'altra parte, quella che lo obbliga alla perfezione. In ogni modo, gli articoli della Regola benedettina, una volta che viene accettata, non sono più consigli, ma precetti - ante professionem voluntaria, posi professionem necessaria - e ogni disobbedienza grave ai suoi ordini è una colpa. Ciò che la Regola prescrive è essenzialmente ciò che bisogna fare per acquisire e conservare la carità, che è il fine della vita cristiana. Solo e soltanto questo, che si impara bene esclusivamente in un chiostro, e in nessun modo nelle scuole. Perché quindi preoccuparsi di ciò che è inutile, col rischio di perdere il necessario? Guardate Abelardo, il professore per eccellenza, cosa insegna? Troppo spesso insegna errori che mettono in pericolo la vita della fede e nei quali cade per averle voluto sostituire la filosofia. Anche dove il suo insegnamento non è falso, è pericoloso per lo spirito che lo anima. È l'orgoglio che spinge la ragione a voler comprendere ciò che dobbiamo umilmente accettare per fede; svuotare il mistero, significa eliminare il nostro merito, perché significa rifiutare quell'atto di umiltà che Dio ci chiede di compiere se vogliamo raggiungere un giorno la verità. Ciò che rende pericoloso l'atteggiamento di Abelardo è quindi, soprattutto, la sua pretesa di vedere tutto faccia a faccia e di lasciare campo libero alla ragione nei misteri che la superano. D'altra parte, le intenzioni dei professori raramente sono pure e Abelardo purtroppo non è l'unico di questa categoria. Alcuni imparano per sapere, altri perché si sappia che sanno, altri ancora per vendere la loro scienza. Imparare per sapere, è una curiosità vergognosa - turpis curiositàs - l'uso dell'intelligenza che prende il proprio gioco come fine; imparare affinché gli altri ci riconoscano sapienti, è vanità; imparare per vendere la propria scienza è cupidigia e, peggio ancora: simonia, poiché è commercio di beni spirituali - turpis quaestus, simonia. La verità è che bisogna scegliere le scienze in vista della propria salvezza, cioè per acquisire la carità, così come si scelgono gli alimenti del corpo per la salute. Ogni scienza così scelta e acquisita è " prudenza ", tutto il resto è " curiosità ", non è alla scuola di Abelardo che si impara a scegliere la scienza, ma a quella di Benedetto, a quella di Cristo. Per sapere quali scienze sono utili, è sufficiente pensare a coloro che le insegnano: " Pietro, Andrea, i figli di Zebedeo e tutti gli altri condiscepoli non sono stati scelti in una scuola di Retorica o di Filosofia, ed è tuttavia per mezzo loro che il Salvatore ha compiuto l'opera di salvezza nel centro della terra ". L'espressione ricorre spesso negli scritti di san Bernardo e sempre con il medesimo significato: " Gaudeo vos esse de hac schola, de schola videlicet Spiritus, ubi bonitatem, et disciplinam, et scientiam discatis … Numquid quia Platonis argutias, Aristotelis versu-tias intellexi, aut ut intelligerem laboravi? Absit, inquam, sed quia testimonia tua exquisivi ". Ciò che il cistercense apprende a questa scuola è la più importante fra tutte le arti, quella di vivere, e l'apprende direttamente da Cristo: " Tu es enim magister et dominus, cuius schola est in terris et cathedra in coelo … Exultaverunt gigantes philosophi non ad currendam viam tuam, sed ad quaerendam gloriam vanam ". Ma Cristo si serve anche di altri maestri, in quanto ciò che Egli stesso insegna è la carità, che Egli solo può dare, mentre gli altri maestri insegnano il timore di Dio, il rispetto della Regola, in una parola, la vita di penitenza attraverso la quale il cuore si purifica e si prepara a ricevere la carità: " In schola Christi sumus; siamo nella scuola di Cristo " - è a Chiaravalle che furono pronunciate queste parole - " e noi veniamo istruiti con una duplice dottrina: una ci è insegnata dall'unico e vero - Maestro, l'altra, dai suoi ministri. Dai suoi ministri, il timore; da Lui stesso, la dilezione. È per questo che, quando manca il vino, egli ordina ai propri ministri di riempire le idrie di acqua e, ancora oggi ogni giorno, se la carità si raffredda, i ministri di Cristo riempiono d'acqua le idrie, cioè di timore i nostri pensieri. E a ragione si interpreta " acqua " con " timore ", perché come l'acqua spegne il fuoco, così il timore spegne il desiderio libidinoso, e come l'acqua pulisce la sporcizia del corpo, la paura purifica quella dell'anima. Riempiamo dunque con acqua questa idria, cioè il nostro pensiero, perché colui che teme non trascura nulla, ed è un pensiero pieno quello nel quale non può cadere la negligenza. Ma l'acqua appesantisce, il timore è dolore; andiamo quindi da colui che trasforma l'acqua in vino, che trasforma cioè il timore e il suo dolore in amore, e potremo così capire ciò che insegna sulla dilezione. Infatti dice: ecco qual è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri, quasi dicesse: Vi prescrivo molte cose per mezzo dei miei ministri, ma questo ve lo raccomando io stesso e in modo particolare. E in un altro passo: da questo tutti sapranno che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli altri. Quindi amiamoci gli uni gli altri, per dimostrare che siamo i discepoli della verità. E in questa mutua dilezione facciamo attenzione a tre cose, perché Dio è carità - Deus caritas est - e noi dobbiamo preoccuparci solo di essa: che nasca, che cresca, che si conservi ". Questa lezione non è stata dimenticata dai compagni di san Bernardo e si è anche magnificamente sviluppata nell'opera di Guglielmo di Saint-Thierry. Infatti la famosa Epistola ad Frafres de Monte Dei, che è certamente uno dei suoi capolavori, si basa interamente su questa concezione. Scritto per i Certosini, questo trattato è l'opera di un monaco che si rivolge a monaci e che prima di tutto vuole sapere qual è il vero senso della vita monastica. I saggi di questo mondo, pieni dello spirito di questo mondo, mirano alla più alta saggezza, ma lambiscono la terra; lasciamoli saggiamente discendere all'inferno. Ben diversa è la vita del monaco, perché per lui non si tratta soltanto di servire Dio, ma di aderirvi: " Anche altri credono in Dio, lo conoscono, lo amano e lo riveriscono, a voi appartiene di averne la sapienza, l'intelligenza, la conoscenza, la gioia. Ciò è grande, è difficile ". Ma, dopotutto, perché un certosino si rinchiude nella propria cella? Per dedicarsi a Dio, risponde il nostro Cistercense, e per gioire di Lui. Certamente non si raggiunge questo ideale senza sforzi, ma l'Abate non è lì per incoraggiarli e dirigerli? Infatti egli insegna; è un vero professore i cui allievi sono i novizi: " Primumque docendus est rudis incola eremi, secundum apostolicam Pauli institutionem … Rursumque docendus est caverò … ", " Deinde docendus est ani-malis incipiens et Christi tyrunculus Deo appropinquare ". " Docendus est etiam in oratione sua sursum cor levare ". Scuola di esperti di Cristo più che non di studenti, perché gli esercizi sono azioni concrete; scuola speciale di carità - specialis caritatis schola -, dove se ne coltiva lo studio, se ne discutono i problemi e determinano le soluzioni, non tanto con dei ragionamenti, quanto con la ragione, la verità stessa delle cose e l'esperienza. Perché e come insegnare l'amore, è ciò che ci resta ora da determinare. Si tratta di restituire all'uomo sfigurato la somiglianza divina che ha perso. Se la Regola benedettina, come la interpretano i cistercensi, mira anzitutto all'acquisizione e conservazione della carità, è per il fatto che è una regola di vita e che, come l'anima è la vita del corpo, la carità è la vita dell'anima. Il legame che unisce l'anima al corpo è ben diverso da quello che la unisce a Dio; infatti essa da vita " per necessità " a quella parte di materia a cui è unita e, d'altra parte, è per questo che abbiamo detto che il suo amore inizia " necessariamente " con l'essere carnale. Non è così per l'amore che ha verso Dio, poiché in quanto cosciente di sé e volontario, è libero. L'anima esiste là dove essa ama. Non potendo impedirsi di amare il proprio corpo, essa non può non essere nel proprio corpo, ma essa è in Dio solo se ama Dio. Se lo ama, si trova alla sorgente della propria vita in quanto anima; se non lo ama, la sua vita spirituale è morta poiché, privata della sorgente che la vivifica, essa appassisce. L'anima ama Dio per mezzo della carità; è quindi mediante la carità che comunica con la sorgente della propria vita e la prima cosa da fare per ridarle la vita è di iniziarla alla carità. Quale sarà il primo momento di questa iniziazione? È chiaro che il primo ostacolo da superare è l'amore smodato del corpo che trattiene l'anima lontana da Dio; si spiega così la severità dell'ascetismo cistercense. Non si tratta di uccidere il corpo: questo sarebbe uccidere l'uomo, ma innanzitutto si può cercare di riportare l'anima nei limiti della necessità naturale e di ridurre la cupidigia. Occorre fare ancora di più. Accontentarsi dei piaceri naturali e necessari è un programma che Epicuro aveva già proposto agli uomini; non poteva bastare al Cistercense, perché ci si potrebbe limitare a questo se la natura fosse come Dio l'ha creata, non ancora viziata dal peccato originale. La colpa è sempre presente, con quel tremendo castigo: la concupiscenza, tanto che, prima di poter seguire la natura, bisogna risollevarla. È per questo che il Cistercense mortifica il proprio corpo, che ostacola la carità con le proprie continue esigenze. Per mortificarlo bisogna ricondurlo al di qua dei limiti della necessità naturale e impedirgli di morire più che permettergli di vivere: misura delicata da rispettare, ma che san Bernardo ha saputo mantenere sino a sessantatre anni. Il primo obiettivo di chi vuole vivere la vita di carità, non è quindi neppure di ridurre il corpo a ciò che è sufficiente per assicurargli la salute, cosa che in sé è tuttavia buona e desiderabile ma di infliggergli una dura disciplina; questo è il prezzo con cui l'anima paga la propria libertà. Questo ascetismo del corpo, il cui precetto è contenuto in poche righe, ma la cui pratica dura tutta una vita, non è che la condizione necessaria per una ascesi del pensiero, che ora dobbiamo descrivere. La cosa è tanto più facile in quanto, a parte le inevitabili variazioni su un tema familiare che san Bernardo ha ripreso più volte, l'ordine che raccomanda di seguire resta costante. Ciò d'altra parte è imposto dalla natura del problema. Recole primordia, attende media, memorare novìssima tua: haec pudorem adducunt, ista dolorem ingerunt, illa metum incutiunt. Ciò che conferisce all'esecuzione di questo programma il suo carattere propriamente cistercense è che essa suppone l'applicazione di quel metodo di analisi psicologica del quale, come abbiamo detto, san Bernardo ha fatto uno dei fondamenti della sua mistica. Ne è annunciata l'idea immediatamente dopo le parole che sono state appena citate, con un richiamo di questa parola dal Cantico dei Cantici ( Ct 1,7 ): Si ignoras tè, o pulcherrima mulierum. Sapere da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo; significa sapere ciò che eravamo, ciò che siamo, ciò che saremo; in breve, significa conoscere se stessi. La prima cosa da fare, per chi vuole istruirsi sulla carità, è quindi imparare a conoscersi, e questa è la vera scienza, la sola necessaria al cistercense, quella che deve rimpiazzare per luì le arguzie dialettiche di Fiatone o i sofismi di Aristotele. Dall'inizio del proprio insegnamento, Bernardo si impegna quindi nello studio dell'uomo e della sua dottrina, si allontana dalla filosofia speculativa solo per impegnarsi più profondamente in questo studio della vita inferiore dove lo aveva preceduto sant'Agostino e lo seguiranno Pascal e Maine de Biran. Imponendo quindi all'uomo che si volge a Dio il dovere di conoscere innanzitutto se stesso, san Bernardo è l'erede di una lunga tradizione che si era formata presso i Greci, ma il cui corso era stato modificato dai Padri della Chiesa. Per quanto ci è possibile giudicare, le fonti dalle quali egli stesso ha attinto questa idea sono sant'Agostino e colui che sant'Agostino aveva ascoltato a Milano: sant'Ambrogio. Si ha la prova che il testo di sant'Ambrogio era familiare all'amico intimo di san Bernardo, Guglielmo di Saint Thierry. Nella prefazione alla sua Epistola aurea quest'ultimo riferisce che tra le opere da lui scritte si annovera un commentario al Cantico dei Cantici, interamente composto da testi disseminati nelle opere di sant'Ambrogio che si riferiscono a questo argomento. Ciò che sant'Ambrogio stesso non aveva fatto, Guglielmo glielo fa fare. Nulla di sorprendente per un uomo del quale si sa che, come san Bernardo, considerava il Cantico come l'iniziazione per eccellenza alla vita mistica. È logico che sant'Ambrogio deve di conseguenza essere considerato come una fonte importante della mistica cistercense. Ora, nel commentario ambrosiano compilato da Guglielmo, si trova raccolta una lunga serie di testi sulla necessità, per il cristiano, di conoscere se stesso e sulle ragioni che fondano questa necessità. È sufficiente lasciare parlare san Bernardo per vedere come egli intenda questa conoscenza e cosa si attenda. Conoscersi è per lui essenzialmente prendere coscienza di essere una immagine divina sfigurata: " Non ti vergogni di sollevare il capo, tu che non sollevi il tuo cuore? Di stare con il corpo eretto, tu che hai il cuore che striscia per terra? Avere il piacere della carne, desiderare ciò che è carnale, perseguire ciò che è carnale, non è strisciare per terra? Tuttavia, poiché sei stato creato a immagine e somiglianza di Dio, divenuto simile alle bestie perdendo la sua somiglianza, la tua vita è ancora quella di una immagine. Se quindi, quando eri nella grandezza, non hai capito che eri fango della terra, preoccupati, ora che sei caduto nel fango dell'abisso, di non ignorare che sei l'immagine di Dio e arrossisci per averla ricoperta con una somiglianza estranea. Ricordati della tua nobiltà e vergognati di un simile abbassamento. Non ignorare la tua bellezza, per essere ancora più confuso dalla tua bruttezza ". Frasi di una densità meravigliosa, nelle quali è contenuto tutto l'ascetismo cistercense. Miseria dell'uomo: avere perso la somiglianza divina; grandezza dell'uomo: aver conservato l'immagine divina; dò che il novizio impara subito a Cìteaux è togliersi di dosso la somiglianza estranea con la quale il peccato l'ha rivestito. Ma, per toglierla, è necessario riconoscerla, cioè conoscersi così come siamo diventati. Torniamo ora alla regola di vita che il Cistercense fa professione di seguire; è proprio questa la prima cosa che essa gli insegna, perché imparare a conoscere la propria miseria significa essere iniziati all'umiltà. San Benedetto ne ha descritto i dodici gradi che ha posto come altrettanti gradini, da salire con le nostre azioni e non soltanto da conoscere con il pensiero; scala i cui due lati sono il nostro corpo e la nostra anima e che innalza verso Dio la nostra vita in questo mondo, perché è umiliandosi che ci si eleva fino a lui. San Bernardo ha costruito su questo tema tutta la propria dottrina del De gradibus humilitatis e si può vedere qui come il suo pensiero sia profondamente radicato nel terreno della vita benedettina. Ciò che attinge dalla Regola è, nello stesso tempo, la nozione fondamentale dell'umiltà e quella del termine al quale conduce: la carità. " Dopo aver salito tutti i gradini dell'umiltà, il monaco raggiungerà subito la carità di Dio, quella che, quando è perfetta, caccia il timore ( 1 Gv 4,18 ). Con essa, tutto ciò la cui osservanza si accompagna in lui a qualche timore egli comincerà a osservare senza sforzo e come per una abitudine naturale, non più per paura dell'inferno, ma per amore di Cristo, per buona abitudine e amore delle virtù ". Sostituire la paura con la carità, grazie alla pratica dell'umiltà, questa è tutta l'ascesi di san Bernardo: il suo inizio, il suo sviluppo, il suo termine. É quella di Cassiano, quella di san Basilio; è la disciplina attraverso la quale si realizza la promessa di san Giovanni: limar non est in cantate, sed perfecta caritas foras mittiti timorem, quoniam timor poenam habet: qui autem timet, non est perfectus in cantate. In che modo la progressiva acquisizione dell'umiltà conduce l'uomo a questo fine? Conducendolo alla verità e, prima di tutto, alla verità su se stesso. Humilitas est virtus, qua homo verissima sui cognitione sibi ipse vilescit. Umiliarsi è quindi essenzialmente mostrare con azioni del corpo e del pensiero che si conosce la propria miseria e che la si giudica. Tema di meditazione familiare a san Bernardo, che egli ricorda continuamente, e che è patrimonio comune di tutte le scuole cistercensi, ma che egli solo ha saputo approfondire sino alle sue giustificazioni teologiche. Infatti vi è un problema che il suo genio non poteva non scorgere e analizzare. Ogni direttore di coscienza sa che occorre umiliarsi; Bernardo sa e dice di più: discerne e mostra il profondo legame che unisce la conoscenza di sé al giudizio di sé e il giudizio di sé alla carità. La carità abbiamo gia visto è " volontà comune " in opposizione alla volontà propria; rigorosamente parlando è la volontà comune all'uomo e a Dio. Éssa quindi regna nel cuore quando la nostra volontà vuole ciò che vuole quella di Dio. Cosa fa l'uomo quando pratica l'umiltà? Dimostra di conoscere la propria miseria e di giudicarla; si giudica quindi come Dio lo giudica; il proprio consilium inizia a rettificarsi quando inizia a conoscersi con la propria ragione come Dio stesso lo conosce. Su questo piano inferiore, ma necessario, l'uomo può già dire di conoscersi così come è conosciuto. Affinché questo possa essere detto di lui, più tardi, nella gloria, bisogna che prima possa essere detto nella sua miseria; e ciò si può dire dell'uomo che si umilia e di lui soltanto. Giudicandosi miserabile come Dio lo giudica miserabile, conosce l'enormità del proprio crimine e sa che merita di essere punito. Il castigo è già presente nella orribile deformità di un'anima sfigurata che soffre nel sopportare la propria vista, ma non è compiuto, e l'uomo sa che lo sarà senza la grazia. Non è sufficiente saperlo, egli lo accetta, lo vuole per quanto lo merita, ed è per dimostrare che lo vuole che egli stesso si punisce sino al limite delle proprie forze, mortificandosi. Raddrizzamento di una natura in rivolta, l'ascetismo cistercense è quindi anche la prova che l'uomo va spontaneamente incontro alla punizione che sa di aver meritato. Facendo ciò non unisce solamente il proprio giudizio a quello di Dio, ma anche la propria volontà alla sua ed è per questo che, nella propria essenza, l'umiltà è gia carità. Questo primo passo, inizio necessario della restaurazione dell'immagine perduta, ne comporta subito un altro, perché la colpa originale ha avuto le medesime conseguenze per tutti i figli di Adamo. La mia storia è la vostra storia; la mia condizione, la vostra condizione. Quando un uomo si riconosce miserabile, colpevole, condannato e degno d'esserlo, sa anche che ogni altro uomo è simile a lui. Sapere la verità su se stessi è quindi saperla sul proprio prossimo, ed è necessario saperla, non più questa volta per giudicare come quando si trattava di noi stessi, ma per compatire. Compassione che materialmente si esprimerà con l'elemosina, ma la cui fonte è nel cuore stesso del cristiano; esaminiamola sotto questi due aspetti procedendo dall'esterno all'interno. L'elemosina cistercense è senza dubbio l'elemosina cristiana, ma con una sfumatura particolare. Non per nulla fare l'elemosina viene detto " fare la carità ", perché l'elemosina esprime bene la compassione, la compassione per il prossimo nasce dalla conoscenza della nostra personale miseria, la conoscenza di sé è l'umiltà, l'umiltà è già carità. La carità di san Bernardo per i poveri era ardente; si osa a malapena dire, e tuttavia è necessario, che essa era feroce, ed è ciò che spiega la violenza delle sue invettive contro il lusso delle abbazie cluniacensi. È difficile rileggerle senza rimanere stupiti, se si pensa ai motivi che animavano coloro cui erano rivolte. Il " lusso per Dio " dei cluniacensi è un sentimento anch'esso profondamente cristiano, molto bello e fonte inesauribile di bellezza, ma una delle ragioni principali che provoca l'indignazione di san Bernardo è che, spendendo i soldi per ornare le chiese, si lascia Cristo soffrire nella persona dì coloro che soffrono la fame: " I muri della chieda risplendono, ma i suoi poveri sono nel bisogno. Essa veste d'oro le sue pietre e lascia andare nudi i suoi figli. Si lusingano gli occhi dei ricchi a spese dei poveri. I raffinati vi trovano di che gratificare il proprio gusto, ma i miseri non vi trovano di che mangiare ". Sentimento profondo, certamente, e passione violenta, ma anche idee. Quali? Poiché è carnale, l'uomo è legato al proprio corpo da un rapporto di necessità. Non ha diritto a più di quanto tale necessità esige, ed è una encomiabile prudenza restare un po' al di sotto dei propri limiti medi. Tuttavia, poiché è una necessità, essa determina un diritto, e, in rapporto ad esso, poiché i bisogni degli uomini sono generalmente i medesimi, essi sono uguali. Nati così, da questo punto di vista essi lo sarebbero ancora, se la cupidigia non ne avesse trascinato la maggior parte a straripare dal letto della necessità naturale, per lanciarsi all'inseguimento di una quantità di beni maggiore di quella che possono realmente consumare. Supponiamo che il peccato originale non abbia corrotto la volontà dell'uomo, accontentandosi ognuno del necessario ci sarebbe per tutti più di quanto è necessario. Queste sono cose che un vero cistercense può dire, perché vive con poco, e lavorando con le proprie mani nei campi del monastero, il poco che consuma lo produce. Produce a sufficienza per dare persino del proprio misero superfluo a coloro che sono pressati da simili necessità. Ben diverso è l'atteggiamento di coloro che vivono nel mondo: avidi, non possiedono mai a sufficienza; quando la natura è sazia, s'impadroniscono, per soddisfare le proprie passioni, di ciò che dovrebbe essere il necessario degli altri; orgogliosi, spinti dalla " volontà propria ", desiderano se stessi e per se stessi; allontanandosi dalla " volontà comune ", si reputano maestri al di sopra di coloro che Dio ha creato loro simili. Infatti " la natura ha creato tutti gli uomini uguali - equidem omnes homines natura aequales genuit- , ma poiché il modo naturale di vivere bene si è degradato sotto l'influsso dell'orgoglio, gli uomini sono divenuti impazienti di questa uguaglianza, lottando a gara per dominarsi gli uni gli altri e per superarsi ". È ciò a cui il monaco rinuncia praticando l'obbedienza nella propria cella, cioè rinunciando alla " volontà propria ", e, rinunciandovi, recupera la " volontà comune " che è carità. La recupera nei due sensi, materiale e spirituale, l'uno trascina l'altro con sé. Intesa come è stata precedentemente definita, l'elemosina è un atto con il quale la cupidigia toglie il proprio superfluo, affinché gli altri abbiano il loro necessario. Essa ristabilisce quindi l'ordine voluto da Dio; dimostra, con questo atto esterno, che la volontà, nella propria segreta intimità, si accorda con la volontà divina; è quindi l'espressione concreta di una comunione del nostro volere con quello di Dio, il quale è la carità spirituale stessa. D'altra parte è per questo che, anche su questo piano inferiore dell'amore carnale dove ancora ci troviamo. Dio ci comanda di amare il nostro prossimo e di amarlo come noi stessi, ma per amore Suo; infatti non si può amare il proprio prossimo come se stessi senza sacrificare il proprio superfluo per rientrare nei limiti della necessità; ma in tal modo, oltre che ristabilire se stessi nella giustizia personale, si ristabilisce la giustizia sociale. Chi vuole che ogni creatura di Dio abbia il proprio necessario, sacrificando il proprio superfluo ottiene più che la liberazione della propria anima da un fardello pericoloso: conoscendo la propria miseria conosce quella del proprio prossimo e se si priva dei beni inutili, perché ad altri non manchi ciò che per esperienza sa essere necessario, rifiuta di pretendere come propri dei beni che Dio ha voluto comuni. Il Cistercense che si priva non dona, restituisce; ristabilire la giustizia sociale, significa per lui unirsi nella volontà alla volontà divina di giustizia; ama veramente il proprio prossimo come se stesso per amore di Dio. È l'amore carnale sociale. Così inizia a sgretolarsi sotto la forza dell'ascesi quel consilium proprium, fonte di ogni male. C'è di più. Se, elevandosi dall'ordine individuale all'ordine sociale, l'amore carnale avanza notevolmente nella vita della carità, è senza dubbio perché la conoscenza di se stessi è immediatamente conoscenza di tutti, ma soprattutto perché la conoscenza della nostra miseria supera, per un cristiano, la conoscenza dell'uomo; da quando Gesù Cristo si è fatto carne e ha abitato in mezzo a noi, la nostra miseria è diventata quella di Dio. Quale modello! Ma soprattutto quale trasfigurazione dell'amore carnale e quale infinito approfondimento della conoscenza di sé! Magnifica iniziazione, in verità, quella del giovane novizio che scopre Gesù Cristo e impara a conoscersi e sa ormai che non conoscerà se stesso senza Gesù Cristo. Gli basta infatti ricordarsi di Gesù Cristo per ottenere l'immagine perfetta di ciò che è l'umiltà e vedere che essa ha per fine la compassione. L'incarnazione del Verbo, questa umiliazione infinita, Dio l'ha desiderata per se stesso e per noi, e i due desideri sono uno solo, ma si possono guardare da due parti. In quanto Dio, il Verbo conosceva dall'eternità la nostra miseria; la conosceva meglio di noi: perfettamente, ma non la conosceva come noi perché non l'aveva sperimentata e non poteva sperimentarla se non facendosi uomo: sciebat quidem per naturam, non autem sciebat per expe-rientiam. È per questo che questo Dio, impassibile, si è abbassato sino a soffrire; assumendo la forma di schiavo, ha sperimentato la miseria e la sottomissione, per provare la misericordia e l'obbedienza: l'obbedienza nella sottomissione, la miseria umana nella sua passione. Esperienza della quale non aveva certo bisogno per arricchire la propria scienza - conosceva ogni cosa - ma per provare, dal punto di vista umano, quella sofferenza di cui aveva una conoscenza solamente divina. In questo senso, non è esagerato dire che Dio si è istruito con la propria Incarnazione; ciò che Cristo già sapeva per propria natura divina, ha voluto sentirlo, cioè conoscerlo in altro modo, nella sua natura umana, e ha voluto conoscerlo per noi, per avvicinarci, con le proprie sofferenze, a colui da cui noi ci siamo tanto allontanatisi. Dio infatti, se così si può dire, non aveva altre risorse. Non gli restava altro da fare che questo ultimo e incredibile tentativo: sperimentare egli stesso la miseria di cui noi soffriamo per aver peccato contro di lui, experiri in se, quod illi fadendo contro se merito paterentur. Se, mentre la sua giustizia ci castiga, la sua misericordia si sottomette al nostro castigo per salvarci, è perché egli aveva vanamente fatto ogni tentativo o, almeno, tutto quanto era possibile tentare per riportare a sé una creatura quale l'uomo, che viene mossa da passioni elementari molto semplici: il timore, la cupidigia, l'amore. Nulla sarebbe stato più facile per Dio che dominare con la paura il cuore dell'uomo decaduto, ma così non lo avrebbe conquistato. Divenuti carnali, noi restiamo tuttavia delle " nobili creature ": uomini, quindi esseri liberi, spontanei, e la paura è la negazione stessa della spontaneità. " Volendo quindi recuperare questa nobile creatura che è l'uomo, "se io lo castigo suo malgrado - Dio disse tra sé - avrò un asino, non un uomo, perché non verrà a me spontaneamente né volentieri " ". Bisognava quindi tentare un'altra via. Dio poteva ancora pensare di tentare l'uomo nella sua cupidigia e lo ha fatto impegnandovi tutte le risorse di un Dio, poiché gli ha promesso il guadagno infinito della vita eterna in cambio della sua buona volontà. La promessa è magnifica, la più capace di tentare l'uomo, perché se gli piace l'oro, ad esso preferisce la vita, ed è una vita eterna che gli viene promessa. È evidente, anzi evidentissimo. Sfortunatamente la vita eterna viene dopo, e l'oro subito; il desiderio dell'eterno non era ancora abbastanza forte per vincere quello temporale: " Vedendo quindi che ciò non serviva a nulla, Dio disse tra sé: "Non mi resta che una sola cosa, perché nell'uomo non ci sono solo il timore e la cupidigia, c'è ancora l'amore e in lui nessuna forza di attrazione è più forte di questa " ". Ecco come Dio si è fatto uomo e ha sofferto la morte per conquistare il nostro amore, facendoci vedere il suo. Così la conoscenza di sé, che si era ampliata nell'amore carnale " sociale " per il prossimo, così simile a noi nella miseria, si ampliò una seconda volta nell'amore carnale di Cristo, modello della compassione da quando egli, per salvarci, è divenuto l'uomo dei dolori. Questo è il posto che occupa, nella mistica cistercense, la meditazione sull'umanità sensibile di Cristo. Essa è solo un inizio, ma un inizio assolutamente necessario. Questo Dio umiliato ci mostra l'umiltà, questa Misericordia ci fa vedere la misericordia; questa " Passione per compassione " ci insegna a compatire. Abituare la nostra volontà a estendersi da noi al nostro prossimo e dal nostro prossimo a Dio, significa estirpare la cupidigia che si attacca alla nostra carne e raddrizzare la volontà sfinita che non può più rialzarsi da sola. Nell'uomo divenuto carnale bisogna che l'iniziazione alla carità cominci da qui. Certamente la carità è spirituale e quindi questo non può essere che il primo momento del suo studio. Questo amore è troppo sensibile se non vi si aggiunge la prudenza e se non ci si appoggia su di essa per superarlo. Esprimendosi così, Bernardo non fa che codificare gli insegnamenti della propria esperienza, perché da lui stesso sappiamo che si era intensamente dedicato alla pratica di questo amore all'inizio della sua " conversione "; successivamente considererà un progresso l'averlo superato, cioè non l'averlo dimenticato, ma l'avergliene aggiunto un altro che lo supera, come il razionale e lo spirituale superano il carnale. Tuttavia questo inizio è già un vertice. L'amore sensibile di Cristo è sempre stato presentato da san Bernardo come di ordine relativamente inferiore. Lo è per il suo stesso carattere sensibile, poiché la carità è di essenza puramente spirituale. In linea di principio l'anima dovrebbe potersi unire direttamente, con le potenze dello spirito, a un Dio che è puro spirito. D'altra parte si deve considerare l'Incarnazione come una delle conseguenze della colpa, tanto che l'amore della persona di Cristo si trova, di fatto, legato alla storia di una caduta che avrebbe potuto e dovuto non avvenire. Inoltre san Bernardo ha più volte notato che questo sentimento non basta a se stesso e che vi si deve unire ciò che egli chiama la " scienza ". Egli conosce alcuni esempi di deviazioni alle quali può condurre la devozione più fervida, quando non si unisca a una sana teologia che la regoli. Tuttavia, essa è necessaria e Dio stesso l'ha giudicata tale, infatti si è incarnato e ha sofferto nella carne per toccare con questo spettacolo sensibile degli esseri sensibili. Ci si ingannerebbe quindi sul ruolo che essa occupa nella sua concezione spirituale, se si concludesse che essa può essere trascurata. Superarla non significa distruggerla, ma conservarla completandola con un'altra. Si pretenderebbe vanamente di elevarsi a quest'altra se non si passasse prima attraverso questa esperienza preparatoria, che, d'altra parte, deve prolungarsi e accompagnare la carità puramente spirituale dopo che è stata ottenuta. Lo spirituale supera il carnale, questo non è che un inizio, ma vediamo che, già da questo inizio, l'anima raggiunge un vertice. È indubbio che la devozione sensibile alla persona del Cristo sia ricompensata con stati mistici nettamente caratterizzati. La Chiesa, cioè, in questo contesto, l'anima dei cristiani, in opposizione a quella dei Giudei o dei Pagani, si sente trafitta da aculei sconosciuti agli altri, di fronte alla testimonianza d'amore infinito che essa sola riceve. Davanti a questo spettacolo, che solo lei può contemplare, di un Dio morto sulla croce per salvarla, essa non può non esclamare con la Sposa del Cantico: vulnerata cantate ego sum. È per questo che la meditazione della passione e della resurrezione che la corona, per il fatto stesso che provoca nei cuori degli slanci d'amore più ardenti, si accompagna a una crescita della carità tale da preparare l'anima a ricevere la visita del Verbo. Essa allora va direttamente all'unione attraverso la compassione: compatimini et conregnabitis. Basta leggere con attenzione il terzo capitolo del De diligendo Deo per assicurarsi che qui si tratta di stati di unione mistica caratterizzati: " Gaudet Sponsus caelestis talibus odoramentis, et cordis thalamum frequenter libenterque ingreditur …; ibi profecto adest sedulus, adest libens … Oportet enim nos, si crebrum volumus habere hospi-tem Christum ". Tali espressioni, e altre che si potrebbero facilmente raccogliere, non lasciano alcun dubbio sul carattere di queste visite. Abbiamo detto che sono il primo frutto mistico della vita di carità, ma aggiungiamo che la meditazione sensibile di Cristo, l'amore carnale della sua umanità, deve continuare lungo tutta la vita del cristiano, anche quando un altro amore, più spirituale, ha iniziato a stabilirsi nell'anima. Noi siamo e restiamo esseri carnali e la nostra sensibilità reclama sempre i propri diritti. Una meditazione puramente spirituale esige una tensione che se prolungata, diviene uno sforzo insopportabile; è necessario che il pensiero si distenda, e lo fa ridiscendendo verso l'amore carnale di Cristo. Questo ricorso alla meditazione della passione deve anche essere frequente, se non si vuole che l'amore di Dio si intiepidisca: " Haec mala, hi flores, quibus sponsa se interini stipari postulai et fulciri, credo sentiens facile vim in se amoris posse tepescere et languescere quodammodo, si non talibus iugiter foveatur incentivis ". Questo testo, dello stesso capitolo terzo, serve come introduzione a quell'idea, molto importante, che la memoria, intendendo con questo termine la memoria e il ricordo sensibile della passione di Cristo, è in noi la condizione e l'annuncio della praesentia, cioè, in senso stretto, della visione beatifica della vita futura, ma anche già di queste visite dell'anima da parte del Verbo in questa vita. " Dei ergo quaerentibus et suspirantibus praesentiam, presto interina et dulcis memoria est, non tamen qua satientur, sed qua magis esuriant unde satientur ". Si capisce chiaramente, da tutto il contesto, che si tratta qui della memoria passionis. Colui che trova penoso il ricordo frequente della passione, come sosterrà la presenza del Verbo che viene come giudice? " Verbum modo crucis audire gravatur, oc memorìam passionis sibi iudicat onerosam. Verum qualiter verbi illius pon-dus in praesentia sustinebit? " Avviene esattamente il contrario a colui a cui è caro e familiare il ricordo della passione. " Ceterum fidelis anima et suspirat praesentiam inhianter, et in memoria requiescit suaviter ". Incontriamo qui un tema teologico, divenuto celebre nella storia della poesia latina del medio evo grazie al famoso " Jesu dulcis memoria ". Allo stesso tempo si nota che, se questo poema non è stato scritto da san Bernardo, dipende strettamente dal suo influsso ed esprime uno degli aspetti più importanti della sua dottrina mistica. E, cosa ancora più utile, gli si può ormai dare il suo senso autentico. Descrive il movimento con cui l'anima si eleva dal ricordo della passione di Cristo all'unione mistica, nell'attesa di essergli unita per sempre nell'eternità. In effetti, l'opposizione di memoria e praesentia ha sempre valore tecnico negli scritti di san Bernardo o in quelli che si rifanno alla sua dottrina. Si potrebbero, d'altra parte, riallacciare a questo aspetto della dottrina di san Bernardo gli altri poemi raggruppati dalla tradizione sotto il suo nome e che sono altrettante meditazioni sulle sofferenze di Cristo in croce. Il " Salve caput cruentatum " se non è della sua mano - ed è poco probabile che lo sia - è certamente del suo pensiero o di un pensiero strettamente imparentato con il suo. La tradizione ha probabilmente commesso un errore materiale attribuendoglieli, ma non capire quale profonda verità si nasconda sotto questo errore è un errore ancor più grave. Superare il carnalis amor Christi significherebbe terminare la fase della iniziazione alla vita di carità, poiché significherebbe passare dall'amore carnale all'amore spirituale di cui è il preludio. Nell'attesa che si compia tale passaggio, la rinuncia alla volontà propria comincia a portare frutto. Il disprezzo del mondo, che all'inizio non era altro che l'effetto di una volontà violentemente tesa contro di esso, si trasforma perché esprime il disgusto spontaneo di una volontà ormai protesa verso altre cose. L'anima ama in un'altra direzione, il suo disprezzo per tutto il resto è ormai solo l'altro versante del suo amore per Dio. Così, sotto l'influsso della grazia, la libertas consilii si ricostituisce, in quanto la ragione inizia a conoscere ciò che bisogna preferire a tutto il resto. Ma, nello stesso tempo, la libertas complaciti inizia ad aggiungersi, in quanto spontaneamente la volontà si allontana ormai dal mondo per rivolgersi a Cristo sofferente, cui vuole ricambiare l'amore con l'amore. Inizia a cambiare il proprio atteggiamento anche nei confronti della vita di mortificazione. Certamente non si tratta di farla diventare un piacere: cesserebbe di esistere se cessasse di essere accompagnata dallo sforzo e dalla sofferenza. La carne è e resta ferita dal peccato; è quindi sempre in rivolta contro la volontà e contro la disciplina che essa le impone. Se la volontà propria fosse completamente estirpata dall'uomo in questa vita, la carità non avrebbe più nulla da punire nel corpo. Unendosi, contro di lui, al decreto punitivo divino essa si schiera dalla parte della giustizia di Dio contro una carne divenuta ribelle e, poiché le proteste della carne si fanno sempre sentire, il penitente non cesserà mai di provocarsi delle sofferenze. Tuttavia egli ormai trova una gioia del cuore nel mortificarsi. Le sofferenze che impone al corpo sono da lui stesso volute, nel desiderio di associarsi a quelle di Cristo in croce. A sua volta nel dolore collabora al riscatto dell'uomo peccatore; la sua sofferenza è divenuta, in senso stretto, una compassione alla passione di Cristo; si associa alla sua opera di redenzione e inizia così a ristabilirsi in uno stato cui la volontà dell'uomo si libera dalla miseria alla quale è stata sottomessa dopo il peccato. Castigarsi per amore non è più essere castigati nel timore; questo accordo della volontà con lo stato nel quale l'uomo si trova collocato è esattamente la libertas a miseria. Questo è vero a tal punto che se i dannati all'inferno potessero fare ciò che l'uomo può ancora fare in questa vita, cioè abbracciare con amore i tormenti da cui essi sono oppressi dalla giustizia celeste, cesserebbero subito di essere in quello spaventoso eccesso di miseria, l'inferno cesserebbe di esistere: " cesset voluntas propria et infernus non erit ". Almeno per il novizio che, nel ricordo sensibile della passione e nell'amore carnale di Cristo, si introduce all'amore divino, la mortificazione si riveste di dolcezza e il giogo del Signore, senza cessare di essere un giogo, diviene più leggero. Il Certosino nella propria cella comincia ad amare la solitudine; il Cistercense inizia ad amare teneramente, come una amicizia, il peso, forse ancor più pesante, della vita comune: Ecce quam bonus est …; uscendo progressivamente dalla terra della dissomiglianza per avvicinarsi a quella della somiglianza, esce da quell'analogo dell'inferno che è il mondo, per entrare in quell'analogo del Ciclo che è una vita monastica di unione al volere divino: paradisus claustrali!. Paradisus claustralis La beatitudine celeste è l'unione a Dio che è Carità; restaurare nel cuore dell'uomo questa vita di carità, che non avrebbe mai dovuto spegnersi, significa quindi riavvicinarla a ciò che sarà la vita eterna: il chiostro, scuola dove si insegna la carità, è veramente l'anticamera del paradiso. È vero che tutto dipende dal sapere se e come l'amore divino si può insegnare? Ancora più in particolare si tratta di sapere se questo insegnamento è possibile secondo i metodi proposti da san Bernardo. Di ciò si è dubitato. Per comprendere il suo pensiero, siamo ormai obbligati ad attraversare la foresta di filo spinato con cui è stato circondato; come ignorarlo? Esso forse costituisce l'unico contributo positivo della storia alla comprensione della teologia mistica di san Bernardo. Tentiamo quindi di comprendere quale sviluppo segue il suo pensiero e a quale meta conduce. La prima difficoltà che si incontra, appena ci si sforza di scoprirne la coerenza, è legata all'apparente contraddizione che esiste tra il punto dì partenza e il punto di arrivo. Il punto di arrivo è l'amore puro e disinteressato di Dio, che ci pone in uno stato analogo alla visione beatifica; il punto di partenza è un amore egoista e anche " un amor proprio angusto, un amor proprio viziato, quello che caratterizza la natura peccatrice ". Come meravigliarsi allora del fatto che san Bernardo trovi qualche difficoltà a fare dell'amore un movimento unico e continuo? Per riuscirvi dovrebbe essere in grado di dimostrare che il disinteresse è tipico dell'amor proprio e la carità della cupidigia. È evidentemente una sfida che non si può accettare. Nulla di più vero, ed è anche per questo che san Bernardo non l'ha accettata. Il problema che gli si impone e a cui lo si sfida a trovare una soluzione è, in effetti, insolubile; egli non lo ha mai posto. Il punto di partenza della sua analisi dei gradi dell'amore è sempre l'amore di sé, ma è opportuno ricordare che questa cupidigia, questa concupiscenza, questo amore carnale dai quali di fatto si comincia, non sono il vero inizio della storia dell'amore. Se si trattasse di trasformare una " cupidigia essenziale " in carità, il compito sarebbe evidentemente contraddittorio, ma si tratta semplicemente di ricondurre un amore per Dio degenerato in amor proprio, al suo stato primitivo di amore per Dio. Il problema è quindi completamente differente. Non dico che sia così semplice - in realtà ci vorrà la grazia divina per risolverlo -, ma non è certamente contraddittorio porlo in questi termini. In breve, san Bernardo viene accusato di aver vanamente tentato di cercare come la somiglianza divina possa essere restituita all'uomo, senza aver tenuto conto del fatto che egli ne ha conservato l'immagine. Ciò che si considera come il punto di partenza dell'operazione in realtà ne è solo il secondo momento; lungi dall'essere un carattere essenziale dell'uomo, questo " amor proprio vizioso " ne è una corruzione contingente e, conseguentemente, eliminabile e che sarà guarita per effetto della grazia. Non essendosi accorti di questo aspetto, ci si è immersi in difficoltà inestricabili, col rischio di attribuirle a san Bernardo. È giusto dire: " esiste una sola corrente dell'appetito umano che bisogna incanalare ", ma non è esatto dire che la cupiditas sia concepita da san Bernardo " come il fondo stesso dell'appetito naturale che la caritas manterrà guidandolo ". Esprimersi così significa considerare una parte della storia dell'amore cistercense e credere che questa storia inizi con la considerazione di questa parte. No, la corrente che bisogna incanalare non è la cupiditas: è l'amore divino che, accidentalmente sviato in noi sotto forma di cupidigia, non chiede altro che di riprendere il proprio corso normale e originario. Quindi, il punto di partenza dell'analisi è per san Bernardo, e deve restare anche per noi, la situazione di fatto, senza la quale non si porrebbe la questione e non ci sarebbero problemi da risolvere, ma per lui questo problema consiste nel ritrovare la salute durante una malattia, non nel canalizzare così bene una malattia da farla diventare la salute. È vero che san Bernardo stesso talvolta si esprime come se questa fosse la sua intenzione. La carità, dice, non sarà mai senza timore, ne senza cupidigia, ma la ordina; in breve, non si tratta mai di arrivare a non amare più noi stessi, ma di non amare più noi stessi se non per Dio. Non è forse questo il fondo comune di cupidigia, non sradicabile, che bisogna incanalare nella carità? L'obiezione è tanto più forte in quanto può essere rafforzata dalla celebre analisi dei gradi dell'amore che si trova nel De diligendo Deo o, meglio, nella Epistola de cantate indirizzata ai Certosini e che costituisce la conclusione di questo trattato. San Bernardo vi distingue infatti quattro gradi dell'amore: nel primo, l'uomo si ama per se stesso e si trova in uno stato di cupidigia quasi pura; nel secondo grado, l'uomo comincia ad amare Dio perché, prèndendo coscienza della propria miseria, si rende conto che ha bisogno dell'aiuto divino per uscirne. Amare così Dio è ancora cupidigia, ma si nota che fissandosi sull'oggetto proprio dell'amore, la cupidigia prepara la guarigione della malattia di cui l'uomo soffre e lo mette sul cammino della carità. Ciò che ancora ama in modo sbagliato, ha tuttavia ragione di amarlo, anche se male, perché è l'unica maniera per arrivare ad amarlo meglio. In effetti, questo secondo grado conduce rapidamente ad un terzo, che gli è superiore. A forza di rivolgersi a Dio per bisogno, l'anima comincia presto a sentire che é dolce vivere con lui, inizia quindi ad amarlo per se stesso, senza cessare però di amarlo ancora per se stessa, così che esita alternativamente tra l'amore puro e una cupidigia interessata, anche se ben ordinata. Questa è la condizione nella quale l'anima dimora più a lungo, dalla quale è anche impossibile che esca completamente in questa vita. Oltrepassare completamente questa mescolanza di cupidigia e di amore disinteressato, elevarsi all'amore puro di Dio, significherebbe uscire da questa vita e vivere già quella dei beati in cielo. Sottolinearne bene questo punto, sul quale dovremo tornare e che è essenziale: mai, in nessuna condizione, l'amore umano per Dio è, in questa vita, un amore assolutamente puro e questo perché vi sarà sempre una rottura netta tra gli stati mistici più sublimi e la visione beatifica. Ma aggiungiamo questo secondo aspetto che non è meno importante: la differenza tra il terzo grado dell'amore e il quarto non consiste nel fatto che il terzo comporta ancora un certo amore di sé dal quale il quarto sarà libero. La differenza è necessariamente altrove, poiché l'amore di sé sussiste persino nella visione beatifica. San Bernardo si esprime chiaramente su questo punto: l'amore puro di Dio non è una condizione nella quale l'uomo cessa di amare se stesso, ma nella quale egli non ama se stesso se non per Dio: " Iste est tertius amoris gradus, quo iam propter seipsum Deus diligitur Felix qui meruit ad quartum usque pertingere, quatenus nec seipsum diligat homo nisi propter Deum ". Come non vedere in queste espressioni, con la permanenza della cupidigia che noi speriamo di eliminare, la contraddizione in termini che negavamo gravasse sulla impostazione del problema in san Bernardo? Le contraddizioni in termini non sono pericolose quando sono solo nei termini, è sufficiente spiegare i termini perché la contraddizione si dissolva. Per rispondere al problema così posto, bisogna riprendere e approfondire tutto il problema della vita di carità così come si conduce in un chiostro cistercense, perché non si spiegherà mai completamente l'amore così senza aver definito la relazione tra l'amore e i suoi diversi oggetti. L'unione mistica non è che il coronamento dell'amore di Dio in questa vita; vi è quindi implicata tutta l'interpretazione della mistica cistercense. L'origine di tutte le difficoltà sembra essere la tendenza, che alcuni storici hanno, di definire astrattamente i termini di cui si servono i filosofi o i teologi, invece di definirli in funzione dei problemi concreti di cui essi cercano la soluzione. Per esempio, la definizione dell'amore fornita da san Bernardo potrebbe essere considerata come una delle possibili risposte alla questione astratta: cosa è l'amore? Per san Bernardo la domanda ha già ricevuto la propria risposta: l'amore è Dio. Inutile quindi domandarsi a quali conseguenze potrebbero portare le sue formule in una dottrina dove Dio non fosse amore, perché Egli lo è, e questo è quanto basta. Il problema si pone allo stesso modo per quanto riguarda un altro elemento della soluzione: la natura dell'uomo, ciò che essa fu e potrebbe ancora essere, ciò che essa è e ciò che potrebbe tornare ad essere. L'uomo, e per Bernardo è un'altra realtà fondamentale, è una immagine divina che ha perso la propria somiglianza e che, a condizione che Dio gliela restituisca, può recuperarla. Tentare di interpretare indipendentemente da queste realtà formule che hanno senso solo in rapporto ad esse, significa evidentemente imbattersi in difficoltà inestricabili, dalle quali dobbiamo cercare di uscire. Ritorniamo quindi alla situazione concreta del Cistercense che, sotto la direzione del proprio abate, termina l'iniziazione alla carità. Così come l'abbiamo definita, la carità è una liberazione della volontà. È in questo senso che, attraverso di essa, il nostro volere si libera progressivamente dalla " contraddizione " che le impone il timore e dalla " curvatura " del voler proprio. In altri termini, invece di volere una cosa perché ne teme un'altra, o di volere una cosa perché ne desidera un'altra, essa ormai, avendo scelto il solo soggetto che si possa volere per se stesso, può tendere verso di lui con un movimento diretto, semplice, cioè con un movimento " spontaneo ". Intendiamo con " spontaneo " un movimento la cui spiegazione non comporti alcun elemento esterno al movimento stesso, ma che al contrario contenga in sé la propria completa giustificazione. Desiderare una cosa per timore di un'altra, non è un movimento spontaneo; desiderare una cosa per ottenerne un'altra, è ancora un movimento determinato dall'esterno; al contrario, amare significa volere ciò che si ama in quanto lo si ama, ed è in questo che consiste la spontaneità. Se quindi la spontaneità è la manifestazione della volontà nella forma pura, si può dire che rendendola spontanea, l'amore la rende volontaria, la restituisce a se stessa, la fa ritornare una volontà. D'altra parte, è stato detto che la sola misura che si addice all'amore dell'uomo per Dio è l'assenza di misura. Quindi dove si arresterà la volontà amante sulla via dell'amore? Diciamo piuttosto: quale può essere la natura del fine perseguito da una simile volontà, quando si propone di amarlo senza misura? Senza dubbio raggiungere Dio, possederlo; ma come, in quale senso, sotto quale forma? È questo il problema che occorre risolvere prima di cercare in cosa l'amore è o non è disinteressato, perché è solo in rapporto a un fine determinato che ci può apparire la sua natura e divenire intelligibile. Cerchiamo quindi di precisare la natura di questo fine. In primo luogo, notiamo che se il chiostro è un paradiso, non è il paradiso. Si può collocare il termine della vita mistica e l'oggetto dell'amore all'altezza che si vuole in questa vita, ma in nessun caso lo si dovrà confondere con la visione beatifica. Si dice spesso che l'estasi è un'anticipazione della beatitudine e l'espressione, non errata, tuttavia non è che una metafora. È proprio dell'essenza della beatitudine l'essere eterna; cosa sarebbe infatti, se non miseria, una beatitudine costantemente minacciata di cessare? L'estatico, colui che viene elevato al terzo cielo dall'estasi, nondimeno resta un abitante della terra; è contraddittorio immaginarlo come una sorta di eletto provvisorio e di conseguenza è giusto dire che il termine dell'amore, in questa vita, non può essere la visione di Dio faccia a faccia, né il possesso del bene supremo quale egli è, per quanto brevi possano essere un tale possesso e una tale visione. È tuttavia esatto dire che il termine della vita di carità è, sin d'ora, raggiungere direttamente Dio, vederlo, in un certo senso, con una visione immediata, gustarlo, toccarlo. Per valutare sino a che punto questa ambizione del mistico cistercense possa essere presa sul serio, basta ricordarsi dell'accentuato " spiritualismo " che caratterizza questa dottrina. San Bernardo - su questo punto ritorneremo - ritiene possibile l'unione dell'anima a Dio, in ragione della spiritualità assoluta di Dio e della spiritualità dell'anima umana. Poiché si tratta di due spiriti è possibile il loro contatto, la loro unione, persino la loro fusione; da qui risulta immediatamente che l'anima può raggiungere Dio solo dopo aver superato ogni realtà materiale e ogni immagine corporale. Non è quindi sufficiente offrire a san Bernardo un sogno mistico e neppure un'apparizione soprannaturale, fosse anche quella di Dio. Certamente sono grazie molto grandi e che sarebbe insensato disprezzare, ma non sono quelle a cui tende san Bernardo o che egli consiglia di desiderare. Il termine della sua ricerca mistica in questa vita è uno stato di unione a Dio che non sia la visione beatifica, perché Dio non vi si rivela così come è, ma uno stato dove Dio ci rivela, tuttavia, qualcosa di ciò che é. Per comprendere la natura degli stati di questo tipo, qualunque sia il nome dato loro da san Bernardo e in qualunque modo egli li descriva, l'essenziale è ricordarsi che la prima condizione di ogni tipo di conoscenza è una modalità dell'essere. Fedele all'antica dottrina greca: solo il simile può conoscere il proprio simile, Bernardo afferma che la somiglianza dell'anima a Dio è la condizione necessaria per la conoscenza che essa ha di Dio. L'occhio non vede il sole così come esso è, ma nel modo in cui illumina gli oggetti, siano essi l'aria, una montagna o un muro; non vedrebbe questi oggetti se non fosse partecipe della natura della luce per la propria trasparenza e limpidezza; e inoltre, trasparente e limpido, vede la luce solo in proporzione alla propria limpidezza e trasparenza. Questi sono solo dei paragoni, ma possiamo utilizzarli se ci preoccupiamo di attribuire loro un senso propriamente spirituale. Essi infatti vogliono esprimere che la condizione immediata della visione beatifica sarà una somiglianza perfetta dell'uomo a Dio, che questa somiglianza è ora troppo imperfetta perché possiamo aspirare alla visione beatifica, e infine che più si sviluppa la nostra somiglianza a Dio, tanto più aumenta la conoscenza che abbiamo di lui. Le tappe del cammino che ci avvicina a lui sono quindi i progressi spirituali del nostro spirito nell'ordine della somiglianza divina. Progressi che si realizzano per l'azione dello Spirito Santo, ma nel nostro spirito, e grazie ai quali noi ci avviciniamo poco a poco a quello stato divino in cui l'anima vedrà Dio così come egli è, perché essa diventerà non ciò che egli è, ma così come egli è. Porro iam praesentibus non aliud est videro siculi est, quam esse sicuti est, et aliqua dissimilitudine non confutati. Sed id tunc, ut dixi. La formula è di fondamentale importanza. Ci spiega anzitutto perché l'unione a Dio deve essere esclusivamente spirituale. Fondata su una trasformazione interna dell'anima, non potrebbe realizzarsi attraverso una conoscenza di Dio nelle sue creature e neppure con una visione di Dio sotto forma di immagini esteriori; affinché questa unione si realizzi, bisogna che l'anima stessa sia trasformata dall'interno, purificata, chiarificata, restaurata nella somiglianza al proprio creatore. Tutto deve quindi concludersi all'interno, in quanto nulla può supplire questa purificazione interna dell'anima che la rende simile al proprio oggetto. Ma, contemporaneamente, vediamo qual è la natura di questa necessaria trasformazione: una progressiva eliminazione della dissomiglianza, che ce la farà conoscere nella misura in cui ci renderà nuovamente simili a lui. San Bernardo ha più volte ripreso la descrizione di queste trasformazioni unificanti e di queste assimilazioni progressive. È molto difficile dire se, in lui, gli stati mistici vengono classificati secondo una gerarchia definita e quale possa essere. I due principi ai quali è fermamente, legato sono la superiorità degli stati puramente " spirituali " su quelli dove le immagini hanno ancora un ruolo e il carattere essenzialmente diverso, senza caratteristiche comuni, delle esperienze mistiche individuali. Abbiamo già commentato il primo, il secondo si ricollega allo stesso modo a quella idea fondamentale che abbiamo ricordato: in questa vita Dio non può essere visto così come egli é. In effetti ne consegue che Dio può essere visto solo come egli stesso vuole farsi vedere e, poiché la sua libertà nella distribuzione delle grazie è assoluta, nulla consente di operare deduzioni riguardo alla natura di un favore mistico rispetto a un altro accordato da Dio in condizioni diverse o a un soggetto diverso. Proprio per questo la natura dell'unione divina non si presta a descrizioni generali che abbiano valore per ogni caso particolare; sola, l'esperienza può farci conoscere ciò che realmente sono questi stati e l'esperienza di uno non è valida per l'altro: a ciascuno spetta il compito di bere l'acqua del proprio pozzo. Questo individualismo degli stati mistici, così fortemente accentuato, ha forse distolto san Bernardo dal tentarne una classificazione sistematica; infatti è impossibile classificare senza comparare e questo accanito sostenitore del nasce tè ipsum ha sempre provato la più grande ripugnanza nel confrontare la propria esperienza, che conosceva, con quella degli altri, che, naturalmente, gli rimaneva estranea. Alcune volte insiste maggiormente sulle condizioni teologiche dell'unione a Dio e cerca di descrivere l'economia delle grazie divine che la preparano; altre volte cerca invece di seguire le tracce dell'azione delle grazie nella propria anima e di risalire da questi effetti alla loro causa. Cerchiamo di seguirlo a nostra volta in entrambi i tentativi e domandiamoci anzitutto a quali condizioni, da parte di Dio, è possibile l'unione dell'anima a Dio nell'amore. Nella Trinità il Padre genera il Figlio e lo Spirito Santo procede contemporaneamente dal Padre e dal Figlio; è quindi il legame dell'uno con l'altro; ma lo Spirito Santo è carità - e d'altra parte è per questo che è il legame - così da poter dire di lui che, in quanto carità, lo Spirito Santo assicura in qualche modo l'unità della Trinità. È quello che si esprime dicendo che la carità è la legge di Dio. Questa espressione ha due significati: innanzitutto che Dio vive della carità, inoltre che tutti coloro che vogliono vivere della vita di Dio non lo possono fare che vivendo di questa stessa carità, cioè ricevendola da lui come un dono. In Dio l'unità suprema e ineffabile è conservata da questo legame sostanziale come dalla sua legge; ma ricordiamo il carattere essenziale della carità: essa è per definizione volontà comune; casta, cioè disinteressata; immacolata, cioè senza ombra di volontà propria: lex ergo Domini immaculata, carìtas est, quae non quod sibi utile, quaerit, sed quod multis. La carità divina quindi si comunicherà: sostanziale in Dio, nella creatura sarà una qualità, qualitatem, o una sorta di accidente, aliquod accidens. Quindi " è ugualmente giusto dire della carità che è Dio e che è dono di Dio; è per questo che la Carità dona la carità: il sostanziale da l'accidentale ". Ma in virtù di questo dono, con il quale Dio la conferisce all'uomo, la carità che era la legge di Dio diviene la legge dell'uomo. " Ecco quindi la legge eterna, creatrice e direttrice dell'universo. Grazie a lei tutto è stato fatto in peso, numero e misura, e nulla è lasciato senza legge; perché essa, la legge di tutto, non è senza una propria legge, che d'altra parte non è altro che essa stessa, e per mezzo della quale, se non si è creata, almeno si governa ". Formule di una densità straordinaria che comanda tutta l'economia della liberazione dell'amore umano. Consideriamo infatti la posizione di una volontà ancora " contratta " dal timore o " incurvata " dalla cupidigia. Sappiamo che Dio stesso vive in base a una legge - nec absurdum videatur quod dixi etiam Deum vivere ex lege -, a maggior ragione anche il servo o il mercenario avranno la loro. Sono leggi che essi si sono dati. Essi non amano Dio; poiché Dio ama solo se stesso e si ama totalmente, il servo e il mercenario non vivono della legge divina, e invece di vivere di carità vivono sotto un'altra legge, quella del timore o quella della cupidigia. Appare qui chiaramente in cosa consista la perversità della volontà propria, essa si preferisce alla volontà comune ed eterna, inoltre pretende di imitarla facendo ciò che solo il suo creatore può fare, cioè essere per se stessa la propria legge, governare se stessa, fare in modo che la propria volontà sia anche la propria legge. Accade però che, come giusta ricompensa, volendo sottrarsi alla legge della carità, la volontà resti sottomessa all'ordine immutabile e necessario della legge eterna. Per punire l'uomo Dio non deve infliggergli castighi supplementari, gli basta lasciare la volontà propria a se stessa perché essa implica il proprio castigo. Al posto del giogo leggero della carità, il servo e il mercenario devono subire quello insopportabile della volontà propria, giogo pesante, perché se la carità è spontaneità, libertà, la volontà propria è schiavitù; invece di rendere l'uomo spontaneus, essa lo rende invitus incapace di agire con un movimento semplice e diretto d'amore, condannato, al contrario, a non volere una cosa se non per timore o per cupidigia. Dio rimane quindi nell'immobile piacere della propria libertà, ma ci abbandona alla schiavitù che noi abbiamo scelto. Contrari a noi stessi, divisi contro noi stessi, non possiamo far altro che rivolgere a Dio questa preghiera: " Signore mio Dio, perché non togli il mio peccato e non allontani la mia iniquità. Affinché avendo respinto il pesante fardello della mia volontà propria, io respiri sotto il lieve peso della carità, e non sia più costretto da un timore servile o sedotto da un desiderio mercenario, ma sia guidato dal tuo spirito, lo spirito di libertà, da cui sono guidati i tuoi figli: esso renderà testimonianza al mio spirito che anch'io sono uno dei tuoi figli, perché la legge è la medesima per te e per me, e che, quale tu sei tale sono anch'io in questo mondo. Infatti per coloro che fanno ciò che dice l'Apostolo: non dovete nulla a nessuno, se non l'amore reciproco, tale è Dio, tale sicuramente sono loro in questo mondo: non sono né servi né mer cenari, ma figli ". Per chi segue la deduzione di san Bernardo appare chiaramente, ancora una volta, che la sua dottrina della libertà è uno degli elementi essenziali della sua mistica. Per l'uomo non potrebbe trattarsi di cercare questa libertà nel rifiuto di ogni legge, poiché Dio stesso vive della propria, ma, al contrario, di porsi volontariamente sotto la sola legge che sia veramente liberatrice, perché è la stessa di Dio, che è libertà. È in questo senso che occorre intendere la parola di san Paolo ( 1 Tm 1,19 ): justìs non est lex posita. Non significa che non vi sia una legge per i giusti, ma che il loro atteggiamento a suo riguardo è tale che, per loro, essa cessa di pesare come un fardello o di ostacolare come un impedimento. È per questo che Dio dice ancora: tallite jugum meum super vos ( Mt 11,29 ), cioè: Io non vi impongo questo giogo, ma prendetelo voi stessi, in modo che pur non essendo mai senza legge - sine lege -, non siate tuttavia sotto la legge - sub lege -. In breve, ciò che san Bernardo ci chiede di fare è di rinunciare a formulare la nostra legge personale e di accettare quella di Dio, di fondare la nostra libertà assimilandola a quella di Dio. L'iniziazione all'amore vero consiste quindi nel superare il piano dell'amore sensibile per unirsi alla vita puramente spirituale della carità divina. Il mezzo migliore per determinare a quali condizioni un simile passaggio è possibile, è di considerare anzitutto il caso estremo in cui si è sicuri che esso si è realizzato: quello del " rapimento " divino o raptus. Questo termine designa propriamente gli stati straordinari nei quali l'anima è elevata in questa vita alla visione di Dio. La Scrittura ne trasmette la promessa e ne riferisce la condizione essenziale per quanto riguarda l'uomo: beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt ( Mt 5,8 ). È quindi chiaro Che la purezza del cuore è richiesta a coloro che aspirano a gioite della visione di Dio, ma si può aggiungere che questa vita beatificante è promessa a colui che ha il cuore puro. Perché e come gli verrà data? L'iniziazione alla carità è un'assimilazione progressiva alla vita divina e l'anima che raggiunge la purezza si trova nel punto in cui possono esserle rivelati i segreti di Dio. Riprendiamo, nell'ordine, le tappe già considerate. Anzitutto la pratica della Regola benedettina così come viene osservata a Cìteaux: è l'iniziazione all'umiltà, cioè l'unione di fatto alla vita di Cristo, che nella Sua incarnazione si è manifestato come l'Umiltà. Ora, il Cristo è il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità, quella per la quale la Trinità ci è meno inaccessibile, poiché si è incarnata per prepararci un accesso verso le insondabili profondità di un Dio che altrimenti ci resterebbe totalmente nascosto. D'altra parte Cristo ci ha rivelato nell'umiltà il mistero della misericordia; infatti con il suo esempio insegna come l'uomo possa trovare nell'esperienza della propria miseria la compassione per quella altrui. La compassione e carità e la carità è lo Spirito Santo: la terza persona della Trinità. L'uomo si trova quindi condotto a una unione sempre più intima e completa con la vita delle persone divine e si può aggiungere che è ormai pronto per l'iniziazione suprema, se al Padre piace concedergliela. In effetti, il Padre può ormai diventare tutt'uno ( conglutinai ) con questa ragione illuminata e con questo volere infiammato di carità. Il cuore dell'uomo è diventato allora un cuore " puro ", intendendo con ciò, nel senso tecnico dato a questa espressione da san Bernardo, un cuore-liberato da tutto il " proprium ", cioè disappropriato. La ragione allora conosce e giudica l'uomo così come Dio lo conosce e lo giudica. La volontà, spogliandosi della propria cupidigia come la ragione sacrifica il suo senso proprio, ama il prossimo con compassione, per amore di Dio. Nella misura in cui si è realizzata questa purificazione, l'anima ha recuperato la propria somiglianza perduta; è già ritornata in modo tale che Dio possa riconoscersi in essa; riconoscendovisi, si compiacerà in lei, infatti non può amarsi senza amare colei che, nell'immagine e nella somiglianza, è come un altro se stesso. Amandola o - ed è la stessa cosa - amandosi in lei Dio desidererà unirla a sé. È esattamente questo il senso dell'espressione usata spesso da san Bernardo, quando dice che l'anima è diventata la " fidanzata " di Dio. La metafora designa sempre, nel suo linguaggio, uno stato ben definito, quello di un'anima che Dio può ormai voler fare propria sposa perché si riconosce in lei e poiché in lei non esiste più nulla a cui il suo amore non possa affezionarsi. Al punto in cui siamo giunti, nulla può sostituire il testo di san Bernardo, perché bisogna abituarsi a leggerlo sostituendo alle immagini che egli usa i concetti definiti di cui esse sono, per lui, i simboli. I. Raddrizzamento della ragione per mezzo del Verbo " Così quindi il Figlio di Dio, cioè il Verbo e la sapienza del Padre, trovando per prima cosa questa potenza della nostra anima, che chiamiamo ragione, depressa dalla carne, prigioniera del peccato, accecata dall'ignoranza, dedita alle cose esteriori, la assume con clemenza, la rialza con forza, la istruisce con prudenza, la trascina all'interno e, servendosi di essa in modo meraviglioso come per sostituirla a sé, la stabilisce giudice di se stessa così che, per rispetto al Verbo a cui è unita, essa diventa accusatrice, testimone e giudice di se stessa, esercitando così contro di sé la funzione della Verità. Da questa prima congiunzione del Verbo e della ragione nasce l'umiltà. II. Raddrizzamento della volontà per mezzo dello Spirito Santo " Riguardo all'altra parte dell'anima, che chiamiamo volontà, infettata dal veleno della carne, ma già scossa dalla ragione, lo Spirito Santo la visita con fervore, la purifica con dolcezza, la riempie di ardore, la rende misericordiosa. Simile a una pelle che, dopo esser stata unta, si estende, essa, tutta impregnata da questa unzione celeste, si dilata per l'affetto sino ai suoi nemici. Così, da questa seconda congiunzione dello Spirito di Dio della volontà umana nasce la carità " III. Passaggio all'unione mistica " Delle due parti dell'anima, cioè la ragione e la volontà, una è quindi istruita dal Verbo di verità, l'altra è ispirata dallo Spirito di verità: quella, aspersa con l'issopo dell'umiltà; questa, accesa dal fuoco della carità. Alla fine, resa perfetta, quest'anima, senza macchia grazie all'umiltà, senza rughe grazie alla carità, non opponendosi più la volontà alla ragione e la ragione non dissimulando più la verità, il Padre la unisce strettamente a sé, come una sposa gloriosa. Non sia quindi più concesso alla ragione di pensare a sé, né alla volontà di pensare al prossimo; questa anima felice trovi la propria delizia solo nel dire questo: introduxit me Rex in cubiculum suum ( Ct 1,3 ). Certamente degna, all'uscita da questa scuola dell'umiltà, dove, sotto il magistero del Figlio, ha imparato a rientrare in se stessa, secondo l'ingiunzione che le era stata fatta: si ignoras te, egredere et pasce haedos tuos ( Ct 1,7 ); degna, dico, all'uscita da questa scuola dell'umiltà, di essere introdotta dall'affetto, sotto la guida dello Spirito Santo, nei granai della carità, che bisogna sicuramente intendere come i cuori del nostro prossimo, e di là, circondata di fiori e colmata di melagrane, cioè i buoni costumi e le sante virtù, essere infine ammessa alla camera del re, il cui amore la fa languire ". IV. L'unione mistica " Là, per poco tempo, cioè per circa mezz'ora, fattosi silenzio nel cielo, essa riposa dolcemente negli abbracci desiderati; certamente dorme, ma il suo cuore veglia, perché con esso scruta, in quei momenti, gli arcani della verità, dei quali il ricordo, ben presto, quando essa sarà ritornata in se stessa, la nutrirà. Là vede cose invisibili, sente cose ineffabili, che non è permesso all'uomo esprimere, perché superano tutta quella scienza che la notte indica alla notte; tuttavia il giorno rivolge la parola al giorno ed è permesso parlare di sapienza tra sapienti ed esprimere cose spirituali in termini spirituali " (Gra VII, 21, III, 32,1-33,7 ). Questa sintesi dottrinale pare essersi offerta al pensiero di san Bernardo come una scoperta personale. Forse fu soltanto una riscoperta, tuttavia, anche se lo fu, egli non ha coscienza di ricordarsene e l'inizio della sua esposizione tradisce persino lo sforzo di un pensiero che vuole cogliere alcune intuizioni ancora confuse, pronte a sfuggirgli. Comunque sia, le tre tappe così descritte si adattano facilmente al celebre testo di san Paolo, di cui quello di san Bernardo è una sorta di commento dottrinale. San Paolo dice che fu " rapito " al terzo cielo, intendendo proprio rapito e non portato. In effetti il Figlio conduce l'anima al primo grado - cioè al primo ciclo - quello dell'umiltà; lo Spirito Santo la conduce al secondo - cioè al secondo ciclo - quello della misericordia; ma per passare dal secondo al terzo è necessaria più che una guida: è necessario un rapimento, uno sradicamento. Colui che viene condotto cammina da solo, collabora al movimento, ed è così che noi lavoriamo autonomamente per acquisire l'umiltà e la misericordia, sotto la guida del Figlio e dello Spirito Santo. San Paolo ha quindi potuto lasciarsi condurre al secondo cielo, ma, per raggiungere il terzo, è stato necessario che vi fosse rapito: rapi oportuit. Questo è il senso esatto del vocabolo raptus. Vuole quindi dire che l'anima così rapita non deve mettere nulla di proprio in una simile operazione che si opera in lei senza di lei e alla quale essa non collabora. D'altra parte lo stile è caratteristico delle operazioni del Padre. Il Figlio si è incarnato ed è disceso tra noi per redimerci; è con noi e nel mezzo della terra che ha operato la nostra salvezza. Lo Spirito Santo anch'egli è disceso dal cielo, dal quale viene in " missione ". È quindi conveniente che noi percorriamo la prima e la seconda tappa sotto la loro guida. Ma il Padre non è mai disceso dal cielo e non è mai stato inviato tra noi. Certamente si trova ovunque, ma nella sua persona lo si può trovare solo in cielo. È in questo senso che bisogna interpretare le parole della preghiera per eccellenza: Poter noster qui es in coelis. La persona del Padre è là e vi resta; san Paolo non ha potuto quindi esser condotto da lui, ma piuttosto rapito. Così " quelli che il Figlio chiama al primo cielo nell'umiltà, lo Spirito li unisce a sé nel secondo nella carità e il Padre li esalta al terzo nella contemplazione. Nel primo essi si umiliano nella verità e dicono, in ventate tua humiliasti me; nel secondo gioiscono nella verità e cantano, ecce quam bonum et quam jucundum, habìtare fratres in unum, perché è della carità che è scritto: congaudet autem ventati. Nel terzo cielo sono rapiti sino agli arcani della verità e dicono: secretum meum mihi, secretimi meum mihi! ". Si potrebbe essere tentati di vedere in questa analisi del raptus la descrizione di uno stato specificamente distinto dagli excessus dei quali ora ci occuperemo. Non oserei affermare che san Bernardo non ha avuto coscienza di una certa differenza tra i due casi, ma non sono riuscito a trovare alcun testo che autorizzi a distinguerli nettamente e meno ancora a gerarchizzarli. La diversità delle loro descrizioni forse dipende, in misura maggiore, dalla differenza tra i due punti di vista possibili sugli stati di questo genere: quello del teologo che ne determina ex professo le condizioni, così come ha appena fatto san Bernardo, e quello del mistico che racconta se stesso e rivolge la propria attenzione alla propria esperienza per cercare di dire ciò che avviene in lui, come san Bernardo farà ora per noi. Negare la naturale unità degli stati che descrive, a partire dal momento in cui viene superato il piano delle visioni e delle immagini, costringerebbe a dimostrare che, secondo lui, l'unione dell'anima a Dio non è un'assunzione dell'anima da parte del Padre che segue la restaurazione dell'anima da parte del Figlio e dello Spirito Santo. Vedremo che questa è precisamente la caratteristica di ciò che san Bernardo descrive come la propria estasi personale. Se, nella descrizione che ne offre, san Bernardo sembra fermarsi al punto in cui l'anima già ricolma di carità, esultando alla voce della verità, implora Dio di " tendere la destra all'opera delle sue mani " per unirla a lui, non è forse perché a partire da qui tutto è mistero? Anche per chi lo subisce, l'excessus si perde nell'ineffabile non appena diventa realtà. Come possiamo quindi immaginare questi stati? La loro prima caratteristica è quella di essere contatti immediati e diretti con Dio; la loro prima condizione è quindi che tali contatti siano concepibili. Di fatto lo sono in quanto l'immaterialità dell'anima e l'assoluta purezza della spiritualità di Dio rendono possibili tali comunicazioni. Ci sono quattro ordini di spiriti: gli animali, gli uomini, gli angeli, Dio. L'animale non è senza principio spirituale, ma è essenzialmente corpo e il suo spiritus è così poco capace di esistere al di fuori di un corpo che muore con lui. L'uomo è diverso; ha un corpo e questo corpo gli è necessario per acquisire le conoscenze senza le quali non potrebbe farsi alcuna idea di Dio. La famosa espressione di san Paolo: invisibilia Dei … significa chiaramente che, sebbene siamo esseri spirituali, il corpo ci è necessario per acquisire questa conoscenza di Dio, senza la quale ci è impossibile aspirare alla beatitudine. Si può discutere il caso dei bambini battezzati che muoiono senza aver esercitato la propria ragione e tuttavia vedono Dio; ma questo è un miracolo della grazia divina et quid ad me de miraculo Dei, qui de naturdibus dissero? Per chi si limita all'ordine naturale, il corpo fa necessariamente parte dell'uomo, al punto che per noi è lo strumento di conoscenza senza il quale non potremmo raggiungere il nostro fine soprannaturale. Bernardo, come si vede, non avrebbe sollevato alcuna obiezione fondamentale all'epistemologia di san Tommaso d'Aquino. Anche gli angeli hanno talvolta dei corpi, ma che non fanno parte della loro natura, in quanto non ne hanno bisogno per se stessi, ma per noi. Bernardo non pone fine alla questione se questi corpi siano " naturali " o " assunti ", perché constata che i Padri non si accordano su questo punto, ma afferma chiaramente che, in ogni caso, la conoscenza angelica è pura da ogni elemento sensibile; il corpo degli angeli non serve a loro per conoscere, ma per aiutare noi che siamo i loro futuri concittadini della Città celeste. Tuttavia, per quanto noi e loro siamo spirituali, essi non potrebbero unirsi direttamente al nostro spirito, né noi al loro. Fedele al principio agostiniano dell'inviolabilità degli spiriti, che si potrebbe chiamare la legge delle coscienze chiuse, Bernardo sostiene che nessuno spirito può unirsi a un altro spirito direttamente e senza la mediazione dei segni. Gli angeli sono impenetrabili gli uni agli altri come pure agli uomini, e gli uomini sono impenetrabili gli uni agli altri e agli angeli; solo Dio può penetrarli. " Bisogna quindi riservare questa prerogativa allo spirito supremo e illimitato. È l'unico che, quando insegna la scienza all'angelo e all'uomo, non ha bisogno di usare le nostre orecchie corporali per farsi ascoltare ne una bocca per parlare. Da solo penetra nell'animo, da solo si fa conoscere, puro è compreso dai puri ". In questo senso si può quindi dire che solo Dio è completamente spirituale; non ha bisogno di un corpo né per esistere, né per conoscere, né per agire. Nulla si oppone quindi - a che lo Spinto Santo se lo vuole, penetri direttamente il nostro spirito. Una seconda condizione, affinché si realizzi questa unione, è che tra lo Spirito e il nostro spirito il Verbo faccia da intermediario. Questa non è, sembra, una necessità per Dio, né qualcosa che dipenda dall'essenza della natura umana, ma sembra essere conseguente alla depravazione di questa natura causata dal peccato. Il Figlio si è incarnato per redimerci, cioè per restaurare questa possibilità di amore tra l'uomo e Dio distrutta dalla colpa: è quindi diventato per noi la condizione necessaria per l'unione divina. Si può anche andare oltre. L'Uomo-Dio non è in effetti come un'estasi concreta, nella quale il Verbo assume l'uomo e l'Uomo è assunto da Dio? È quindi il Bacio per eccellenza, l'Osculum del Cantico, ed è per mezzo suo che possiamo aspirare alle grazie della vita mistica. È tale l'importanza di questo aspetto per le fonti della mistica di san Bonaventura, che è opportuno sottolineare il carattere assoluto di questa esigenza. Nessun uomo, chiunque sia, può aspirare a più di quanto domanda il Cantico: osculetur me osculo oris sui, cioè non alla bocca, ma solo al suo bacio: " Christo igitur osculum est plenitudo, Paulo participatio, ut cum lile de ore, iste tantum de osculo osculatum se glorietur ". Il Cristo è quindi lo stesso bacio divino, nel quale la natura umana è assunta dalla natura divina; l'uomo non può sperare di più che ricevere il bacio di questo Bacio; l'Estasi che il Cristo fu è il modello e la fonte della quale ogni estasi non è che una partecipazione. È sufficiente ricordare, come terza condizione, che l'anima che aspira all'unione divina deve avere superato il timore dello schiavo e la cupidigia del mercenario, ma è invece importante precisare che essa deve voIer andare persino oltre l'obbedienza del discepolo o la pietà del Figlio. In essa non vi è più posto per alcun sentimento che non sia l'amore, poiché è divenuta la sposa - sponsa - cioè anima sitiens Deum: un'anima che ha sete di Dio. Significa quindi che il desiderio dell'anima, giunta a questo punto di perfezione, esclude ogni oggetto che non sia il bacio del Verbo. Colei che chiede questo bacio è colei che ama: " quae vero osculum postulai, amat "; e colei che ama è colei che chiede questo bacio e niente altro: " Amat autem quae osculum petit. Non petit libertatem, non mercedem, non hereditatem, non denique dootrinam, sed osculum ". In breve, l'amore di Dio, giunto a questo grado d'intensità, partecipa alla caratteristica della beatitudine celeste di essere fine a se stessa; è ciò il cui possesso dispensa da tutto il resto in quanto già lo include. Questo non senza ragione, infatti tra poco definiremo l'unione mistica come una anticipazione di questa beatitudine, ma prima di arrivare a quel punto dobbiamo anzitutto enumerare i segni di un amore così totalmente esclusivo. Tre parole li riassumono: l'anima che ama così, ama caste, sancte, ardenter. Nulla di più evidente che essa ami castamente; sappiamo infatti che casto significa disinteressato; l'anima allora ama colui che ama per ciò che egli è e per nessun altro motivo, fosse pure uno qualunque dei doni che potrebbe ricevere. Possiede quella semplicità diretta che distingue l'amore propriamente detto dalla cupidigia. L'anima allora va diritta verso il proprio oggetto e non cerca in lui altro che lui stesso: quae ipsum quem amat quaerit, non aliud quicquam ipsius. Casto, questo amore possiede anche l'altra caratteristica di essere santo; intendiamo con ciò quello che è esattamente il contrario di un affetto della concupiscenza, poiché consiste nel desiderio di una unione di volontà tra l'uomo e Dio. Ciò che l'anima desidera nel bacio è precisamente l'infusione in lei dello Spirito Santo, la cui grazia l'unirà al Padre. San Bernardo l'ha affermato così spesso che il senso delle sue formule non lascia spazio ad alcun dubbio: " … ab osculo, quod non est aliud, nisi infundi Spiritu Santo "; " non erìt ab re osculum Spiritum Sanctum intelligi "; " dari sibi osculum, hoc est Spiritum illum ". Infine un tale amore è ardente, nel senso che esclude dall'anima ogni altro sentimento non distruggendolo, ma assorbendolo. È vero in particolare per questi due sentimenti fondamentali dell'animo umano; il timore e la cupidigia. Le conseguenze di questa trasformazione sono di una tale importanza che è necessario soffermarvisi. L'amore che possiede un sufficiente ardore è una specie di ebrezza ed è necessario che lo sia perché l'anima abbia l'insensata audacia di aspirare all'unione divina. Se fosse diversamente, come oserebbe aspirarvi? Se la ragione rimanesse giudice, deciderebbe saggiamente che è assurdo da parte di una creatura aspirare a un tale onore e che questo è particolarmente folle per una creatura decaduta, spesso immersa nei vizi e impantanata nel fango della carne. Il solo pensiero della infinita maestà di Dio ispira quindi all'anima sentimenti di timore, se è impura, e sentimenti di rispetto, se è pura. Timore e adorazione, ecco i due soli sentimenti che possono normalmente trovare posto nell'anima dell'uomo fino a quando si lascia condurre dalla ragione, anche se accompagnata da un tiepido amore. Ben diverso è quando l'amore raggiunge il più alto grado di ardore di cui sia capace; trasfigurando il timore e la cupidigia permette all'anima di superarli. Il timore non è più allora la paura, ma il rispetto profondo di ciò che si ama e che da tutto il suo valore all'oggetto amato e lo rende più desiderabile; la cupidigia viene riassorbita nell'amore dello stesso bene amato il quale diviene contemporaneamente il mezzo e il fine dell'amore. L'unica violenza, di questo sentimento per il fatto stesso che non lascia posto a nessun altro ha quindi come effetto naturale quello di generare in noi un'audacia, una fiducia - fiducia - che lo trascina spontaneamente al di la di ciò che ci tratterrebbe dall'aspirare all'unione divina se ascoltassimo solo la voce della ragione: l'anima dimentica in questa Ebrezza il pudore, il rispetto nato dal timore, la maestà di Dio: " quae ita proprio ebriatur amore, ut maiestatem non cogitet … "; " … desiderio ferorr non catione … pudor sane reclamai, sed superai amor ". Questa " fiducia " è precisamente la liberazione dell'anima nella quale inizia a regnare, al posto della miseria, la libertà dalla miseria, perche in lei si trova lo Spirito di carità che è lo spirito della Carità. L'anima che giunge a questo punto è pronta per il matrimonio mistico. Essa non vi giunge senza la grazia ne senza avervi a lungo cooperato con il proprio zelo ( industria ) ma, nel pensiero di san Bernardo, sembra che quando l'anima è arrivata a questo punto della vita di grazia e di penitenza, il matrimonio con il Verbo e la sua assunzione da parte del Padre siano violenze fatte al Cielo, che il Cielo subisce da parte di coloro che lo amano con amore ardente. Per vedere fino a che punto ne è legittima la speranza, basta ricordarsi ciò che è lo Spirito Santo: il mutuo amore del Padre e del Figlio, la loro mutua benevolenza, la bontà dell'uno per l'altro. Domandando di essere unita al Verbo, l'anima domanda quindi di essere unita a lui e al Padre con la mediazione dello Spirito Santo, che è il legame dell'uno con l'altro. È ciò che fa il Figlio: rivela se stesso e rivela il Padre donando lo Spirito Santo. Tale è, almeno provvisoriamente, lo schema dell'operazione. " Donando il Padre, il Figlio rivela e rivelando lo dona e poiché questa rivelazione si realizza per mezzo dello Spirito Santo, essa non solo illumina la conoscenza, ma infiamma d'amore ". Due punti bisogna qui considerare: il contenuto di questa rivelazione e la ragione per cui essa si produce. Riguardo al primo punto è importante notare in particolare che il matrimonio dell'anima con il Verbo, sebbene si compia nell'amore, comporta un elemento conoscitivo. È vero che la conoscenza stessa, così come la concepisce san Bernardo, è profondamente impregnata di affettività. Ciò significherebbe tuttavia semplificare eccessivamente il suo pensiero e dimenticare il ruolo che la conoscenza gioca nella sua dottrina. Abbiamo già visto che anche l'amore sensibile per Cristo richiede il controllo della scienza teologica; san Bernardo non dimentica di far beneficiare a sua volta questa intermediaria dell'unione al Verbo, quando essa si verifica. Non può non esserci unione al Verbo quando l'amore raggiunge questo grado d'intensità, ma l'anima non può unirsi al Verbo, che è Sapienza, senza accrescere la propria sapienza. Manteniamo i due aspetti del problema: c'è conoscenza nel matrimonio dell'anima con il Verbo, anzitutto perché senza conoscenza l'anima non avrebbe nulla da amare, inoltre perché, in tale unione, essa fa esperienza diretta di quell'oggetto; ma è ugualmente giusto dire che la sua conoscenza è saggezza perché assapora il proprio oggetto sperimentandolo: " Essa invoca lo Spirito Santo dal quale riceve nello stesso momento il gusto della scienza e il condimento della grazia. Ed è naturale che questa scienza, data in un bacio, sia accolta con amore ". Sono quindi necessari entrambi perché sia completa l'unione dell'anima a Dio: " Che nessuno pensi di aver ricevuto questo bacio, se conosce la verità senza amarla o se l'ama senza conoscerla, perché non vi è posto in lui ne per l'errore ne per la tiepidezza ". In breve, " la grazia del bacio apporta l'uno e l'altro dono [ dello Spirito Santo ], cioè la luce della conoscenza e il succo della devozione. In quanto è Spirito di Sapienza e di Intelligenza; come l'ape che porta contemporaneamente la cera e il miele, esso ha tutto quanto occorre per accendere la luce della scienza e insieme infondere il sapore della grazia ". L'amore ardente dell'anima la unisce quindi allo Spirito Santo per mezzo del Verbo e ciò implica l'essere impregnata da una luce infusa che sia indistintamente la carità della scienza e la scienza della carità, ma perché si produce questa unione? La risposta si può sintetizzare in poche parole che noi abbiamo già suggerito; un amore per Cristo, a tal punto ardente da diventare esclusivo, pone l'animo in un tale stato di conformità con il mutuo amore delle persone divine da consentire il matrimonio dell'anima con Dio. È questo ciò che ora dobbiamo spiegare, per vedere come le obiezioni dirette contro la dottrina di san Bernardo, poste su un piano completamente estraneo a quello sul quale egli si muove, spariscono se rilette dal suo punto di vista. Torniamo allo stato dell'anima quale l'avevamo lasciata prima che la carità divina le avesse reso qualcosa delle sue libertà perdute. Sfigurata, divisa contro se stessa, si fa orrore perché si sente contemporaneamente se stessa e diversa, somiglianza distrutta in un'immagine indistruttibile. Confrontiamo ciò che era prima con ciò che è diventata. Stabilendosi nell'anima la carità ha eliminato il proprium sostituendogli una volontà comune all'uomo e a Dio. Il proprium è la dissomiglianza. L'amore di Dio ha quindi per effetto immediato di restaurare nell'anima la somiglianza divina perduta e da qui derivano conseguenze di capitale importanza per la comprensione della dottrina. Anzitutto, poiché ha appena ritrovato la propria vera natura, l'anima si riconosce nella pienezza del proprio essere. Immagine, ciò che è sempre stata, essa ritorna a essere anche somiglianza, ciò che aveva cessato di essere a causa del peccato. Il conflitto ulteriore che la dilaniava finisce, almeno nella misura in cui ciò è possibile in questa vita; la pace rinasce, la miseria diviene sopportabile e l'anima può gioire del proprio aspetto poiché è ritornata se stessa, un amore vivente di Dio. Questo è il primo aspetto di questa nuova vita, nella quale la pace della coscienza crea una sorta di paradiso. Ma vi è di più. Per una somiglianza divina così restaurata riconoscere se stessa significa riconoscere in sé il Dio del quale essa porta la somiglianza. Vedendosi, lo vede. San Paolo insegna che Dio può essere conosciuto a partire dalle proprie creature; a maggior ragione può esserlo a partire da quella che ha creato a propria immagine e somiglianza! Notiamo che questo fatto produce delle conseguenze sia dalla parte di Dio che dalla parte dell'uomo. Nell'anima sfigurata, la conoscenza di se stesso rivela solo difformità proprie e non permette più di discernervi Dio, e Dio non si riconosce più nell'anima così macchiata: non si vede in noi più di quanto noi ve lo vediamo. Al contrario, quando la carità regna Dio si riconosce in noi come noi ve lo riconosciamo. Da qui due ulteriori conseguenze. La prima è che svanisce la supposta antinomia tra l'amore di sé e quello di Dio. Dalla parte di Dio, il cui eterno amore di sé non varia, si può dire che nulla è cambiato. Egli ama se stesso; rendendosi dissimile a lui l'anima si è sottratta all'amore che egli ha per sé; essa si è in qualche modo ritirata dal campo dell'immobile amore divino. Non vedendosi più in lei, che non gli assomiglia più, egli non si ama più in lei ed è allora che si comprende pienamente il senso delle espressioni usate da Bernardo: peregrinando nella regione della dissomiglianza, l'uomo vaga senza fine lungo il circuito degli empi, nell'oscurità di una terra sottratta al raggio dell'amore divino. Da quando invece l'anima riscopre la somiglianza perduta, Dio si vede nuovamente in lei e si ama di nuovo in lei, con lo stesso amore con il quale non ha mai cessato di amarsi. L'uomo giunge al medesimo risultato per le vie della creatura instabile. Finché in lui trionfava il volere proprio, l'amore della dissomiglianza in quanto tale, egli non poteva amare Dio amandosi. Amare se stesso era amare una persona detestata da Dio. Supponiamo invece che la somiglianza venga restaurata nell'anima, allora ciò che ella ama amandosi è una somiglianza divina. Ora, somigliare a Dio significa amare Dio per Dio, poiché Dio è questo stesso amore. Non si potrebbe quindi chiedere a san Bernardo di definire il grado supremo dell'amore diversamente da come lo definisce: amare se stessi solo per Dio. È impossibile eliminare l'amore di sé, non solo perché con esso sparirebbe l'essere creato dal quale è inseparabile, ma anche perché Dio ci ama, e cesseremmo di essergli simili, se cessassimo di amarci. Ugualmente impossibile è eliminare la clausola " solo per Dio ", infatti cesseremmo di essere simili a Dio, che si ama e ci ama solo per se stesso, se ci amassimo diversamente da come egli ci ama: per lui solo. Aggiungiamo infine che, poiché l'amore di Dio per noi è compreso nell'amore che egli ha per sé, amarci esclusivamente per lui è identico a ciò che in lui è amare esclusivamente se stesso. Il limite ideale, inaccessibile in questa vita, ma che l'estasi prefigura, sarebbe la comunione perfetta tra la volontà di Dio e la mostra. Come l'amore che Dio ha per noi non è che l'amore che egli ha per se stesso, così l'amore che noi abbiamo per noi stessi non sarebbe altro che l'amore che noi abbiamo per Dio. La seconda conseguenza è che, rendendo alla nozione di immagine il posto centrale che essa occupa in questa dottrina, siamo ormai in grado di comprendere il motivo per cui tutta la vita di carità tende spontaneamente alle unioni mistiche. Amare se stessi, quando si sa di essere una somiglianza divina, è amare Dio in sé e amarsi in Dio. E per Dio, quando si specchia in un'immagine sempre più perfetta di sé, è amarsi in lei e amarla in sé. Il simile desidera sempre il proprio simile; l'uomo desidera quindi Dio che egli rappresenta, e Dio brama, per così dire, quest'anima nella quale si riconosce. Come la fidanzata potrebbe non desiderare ardentemente di diventare la sposa e come lo sposo potrebbe non volere unirsi a questa fidanzata, la cui bellezza è l'opera del suo amore? Ecco perché avviene che dal primo e dal secondo cielo, il Padre rapisca l'anima al terzo; così, cedendo al desiderio impetuoso di un'anima che tende verso di lui solo per l'amore che ha per lui, lo Sposo lascia per un momento che questa corrente impetuosa si ricongiunga alla propria fonte; l'Amore si concede all'amore così come esso vuole, anticipando il .momento per il quale egli l'ha creata, quando si donerà a lui così come egli è. Unitas spiritus Le analisi precedenti mettono a nostra disposizione tutti i mezzi necessari per risolvere un certo numero di problemi essenziali. Anzitutto è importante affrontarli secondo un certo ordine. Sarei quasi tentato di dire che non ha importanza quale sia questo ordine, ma è necessario che ve ne sia uno per evitare quelle deduzioni circolari nelle quali si impegnano i critici di san Bernardo senza accorgersi che, arrivati al termine, non si sono allontanati dal punto di partenza. Esaminiamo per prima cosa il problema del " panteismo " o delle " tendenze panteiste " della mistica cistercense e diciamo immediatamente che, in linea di principio, la nozione di mistica cristiana panteista è contraddittoria e, di fatto, quella di san Bernardo è radicalmente opposta a ogni panteismo. Per quanto riguarda il primo punto, va da sé che la sua determinazione si basa su un certo numero di definizioni. Tutte le concezioni del misticismo sono possibili, a partire da quelle così ampie da abbracciare le vaghe emozioni poetiche di William Wordsworth o di Alphonse de Lamartine, sino a quelle che lasciano sussistere solo il rigore di un san Tommaso o di un san Giovanni della Croce. Motivo in più per prendere posizione; bisogna offrire agli avversari un concetto chiaro da discutere. Nel caso in questione è importante comprendere prima di tutto che il problema della mistica cristiana cessa di porsi ove ci sia un segno, pur lieve, di panteismo. Infatti, ammettiamo, per ipotesi, uno di quegli stati poetico - metafisici nei quali si produce una sorta di fusione dell'anima e di Dio, come se le due sostanze ne formassero una sola, anche solo da un certo punto di vista. In qualunque modo se ne spieghi la natura, tali stati suppongono che non vi sia trascendenza reale, irriducibile, dell'essere divino in rapporto a quello umano. Senza dubbio nessuno contesta che, anche per il poeta o il metafisico che si muovono in questo senso, gli stati che egli considera come mistici siano rari, eccezionali, accessibili soltanto a una élite e a prezzo di una severa disciplina; ma non è questo il problema, perché si tratta soltanto di sapere se si ammette o no che sia possibile una coincidenza, anche parziale, della sostanza umana e della sostanza divina, se si ammette o no che in quel momento, di fatto, si trovi realizzata. Ammetterlo significa svuotare la nozione di misticismo di tutto ciò che essa contiene per un cristiano. Poiché il Dio cristiano è l'Essere - ego sum qui sum - e questo essere creatore è radicalmente altro rispetto all'essere delle sue creature; il dramma del misticismo cristiano sta nel fatto che la creatura si trova in un bisogno del proprio creatore molto più profondo di quello in cui si trova, in qualunque altra economia metafisica, qualsiasi altro essere nei confronti del proprio dio, e che, per lo stesso motivo, il creatore è molto meno accessibile alla propria creatura di quanto non lo sia qualunque altra divinità per gli esseri che dipendono meno radicalmente da lui. Ciò che costantemente si domanda il mistico cristiano è in quale modo egli che non è nulla potrà congiungersi All'Essere. Se si abbassa, anche solo per un istante e in un punto, la barriera che la contingenza dell'essere erige tra l'uomo e Dio, si priva il mistico cristiano del suo Dio, lo si priva quindi della sua mistica: egli può fare a meno di ogni dio che non sia inaccessibile, l'unico Dio del quale non può fare a meno è quello che per natura è inaccessibile. D'altra parte non esiste altro Dio. Ed è ciò che san Bernardo ha chiaramente spiegato per chi vuole intenderlo. In qualunque modo si interpreti l'unione mistica nella sua dottrina, bisogna considerare prima di ogni altra cosa che essa esclude radicalmente ogni confusione, ogni unificazione sostanziale dev'essere divino in quanto tale con l'essere umano in quanto tale, o viceversa. In mancanza del senso generale della sua mistica, e anche in mancanza del cristianesimo così totale di cui essa è espressione, avremmo, se ce ne fosse bisogno, le sue dichiarazioni formulate per rassicurarci. Mai, in nessun caso, la sostanza del mistico diventerà la sostanza di Dio; mai, in nessun caso, neppure nella visione beatifica - la quale altrimenti distruggerebbe ciò che deve portare a compimento e realizzare - una parte della sostanza umana coinciderà con quella di Dio; mai, in nessun caso, quella parte della sostanza dell'anima che è la volontà umana coinciderà con questo attributo sostanziale di Dio: la volontà di Dio. Manebit quidem substantia, il testo è formale. Ve ne sono altri che mostreremo più avanti, ma, prima di arrivare a quel punto, dobbiamo precisare una seconda tesi che deriva immediatamente dalla precedente. Senza arrivare fino a scoprire in san Bernardo tendenze panteiste, né a pensare in alcun modo a simili assurdità, alcuni storici gli hanno attribuito una vaga tendenza a concepire l'unione mistica come un annientamento della personalità umana la quale allora si dissolverebbe in Dio. Ancora una volta l'interpretazione non regge all'esame degli stessi testi che la suggeriscono. Tutti pensano qui ai famosi paragoni proposti da san Bernardo tra l'anima " deificata " dall'estasi e la goccia di acqua che si diluisce nel vino, o l'aria che si trasfigura in luce, o il ferro incandescente che diventa fuoco. Prestiamo attenzione alle espressioni che usa, perché il suo stesso ardore non gli fa mai perdere quella misura che è la regola d'oro del vero teologo. La goccia di acqua? " Deficere a se tota vìdefur ", essa sembra, ma sappiamo che, anche se indefinitamente diluita, non cessa di esistere. Il ferro incandescente? " Igni simillimum fit ", esso gli diventa il più simile possibile, ma non è fuoco, e bisogna proprio che non lo sia perché gli possa diventare simile. L'aria illuminata dal sole? Si impregna a tal punto della sua luce, " ut non tam illuminatus quam ipsum lumen esse videatur ". Anche qui non è che un'apparenza, la trasfigurazione di una sostanza indistruttibile da parte della forma glorificante di cui essa è ormai rivestita. San Bernardo non ha quindi mai parlato di un annullamento della creatura, ma di una trasformazione. È vero che questa trasformazione può apparire, a prima vista, come l'equivalente di un annullamento: pene adnullari, ma in realtà non è che un'apparenza. Dovremo cercare ciò che contiene di illusorio e in quale senso corrisponde a una realtà. Per il momento è importante soprattutto comprendere che essa non solo non può significare una distruzione dell'anima nell'unione estatica, ma neppure una diminuzione della propria individualità. È esattamente il contrario. L'estasi, posta sul cammino della visione beatifica, sebbene se ne distingua essenzialmente, la prefigura e partecipa delle sue caratteristiche. La visione beatifica è il coronamento dell'opera della creazione che essa porta a compimento: la collocazione della creatura in uno stato divino di gloria, nel quale essa si trova condotta al punto supremo della perfezione che solo Dio poteva gratuitamente conferirle. Creatio, reformatio, consummatio, queste sono le tre grandi tappe del piano divino; e come la " riforma " è quella della creazione corrotta, la " consumazione " è quella della creazione restaurata. La stessa cosa si verifica per l'unione mistica nella quale l'anima si trova portata, per pochi istanti, fino a una perfezione più che umana, la quale, lungi dall'annientarla, la esalta e la glorifica. Abbiamo già quindi accertato due punti strettamente connessi: l'anima non diventa la sostanza di Dio e neppure si perde nell'estasi. Dobbiamo ora considerare il contenuto positivo di questi stati e trovare una spiegazione della loro natura che non falsifichi il senso delle espressioni usate da san Bernardo, ma permetta di conservarle tutte senza indebolirne il significato. Infatti non esita a parlare di " deificazione ": sic affici, deificari est. Quindi, cosa può essere questo stato? Certamente una unione e l'unità che ne consegue, ma qual è la natura di questa unione? La risposta può essere formulata in poche righe: l'unione mistica rispetta integralmente la distinzione reale della sostanza divina e della sostanza umana, della volontà di Dio e della volontà dell'uomo; essa non è né una confusione di sostanze in generale, né una confusione della sostanza di due volontà in particolare; essa è invece il loro accordo perfetto, la coincidenza di due volontà. Due sostanze spirituali distinte - e persino infinitamente distinte -; due volontà non meno distinte nell'ordine esistenziale, ma nelle quali coincidono l'intenzione e l'oggetto, al punto che l'una è l'immagine perfetta dell'altra: queste sono l'unione e l'unità mistica concepite da san Bernardo. Basta paragonarle all'unione e all'unità deIle persone divine per vedere fino a che punto arrivano, ma anche quali ne sono i limiti. L'unità di Dio è quella del consubstantiale, quella dell'uomo con Dio si limita al consentibile: " Tra l'uomo e Dio, al contrario, non vi è né un'unica sostanza, né un'unica natura; non si può quindi dire che essi siano Uno, sebbene si possa dire con ogni certezza e verità assoluta che essi sono uno spirito, se essi sono legati l'uno all'altro e aderiscono nell'amore. Tuttavia, questa unità risulta meno da una coesione di essenze che dalla connivenza di due volontà. Da ciò si vede chiaramente, se non mi sbaglio, non solo la differenza tra queste unità, ma la loro disparità, l'una trovandosi in una sola essenza, l'altra in essenze distinte. Cosa vi è di maggiormente diverso dell'unità del singolo rispetto a quella di molti? È la stessa cosa per queste due unità. Come ho già detto, ciò che delimita i loro rispettivi ambiti è la linea che separa essere uno dall'essere l'Uno, in quanto l'Uno designa l'unità di essenza nel Padre e nel Figlio; ma uno, tra Dio e l'uomo designa una unità diversa: una specie di tenera concordia tra i loro affetti. Certamente si può correttamente applicare a Dio il termine uno, se vi si aggiunge qualcosa; ad esempio, un Dio, un Signore e via dicendo, perché ciò si dice di ognuno riferito a se stesso e non all'altro. La loro divinità, o la loro maestà, in effetti non è distinta in loro più di quanto lo sia la sostanza o l'essenza o la natura. Tutto ciò, per chi lo considera con pietà, non è in loro come cose diverse o distinte, ma esse sono Uno. Cosa dico? Esse sono ancora Uno con loro. Che cosa è quindi quest'altra unità, per la quale molti cuori possono essere considerati uno e parecchie anime uno? Non si deve neppure considerarla, per quanto mi sembra, come meritevole del nome di unità, se la si paragona a quella che, invece di essere l'unione di una pluralità, designa la singolarità dell'Uno. Questa è quindi una unità suprema e singolare; non deriva da una unione, ma è tale da tutta l'eternità … Ancora meno possiamo pensare che sia prodotta da una qualsiasi congiunzione delle loro essenze, o da un accordo delle loro volontà, perché non ve ne sono. Come ho detto, non vi è in loro che una essenza, una volontà e, in colui che è Uno, non vi è né consenso, né composizione, né legame, né altro di questo genere. È necessario che vi siano almeno due volontà, perché vi sia accordo; bisogna parimenti che vi siano due essenze, perché vi sia congiunzione o unificazione per comune accordo. Nulla di simile nel Padre e nel Figlio, poiché non hanno né due essenze, né due volontà. L'una e l'altra sono una in loro o, piuttosto, come mi ricordo di aver detto, queste due cose sono l'Uno in loro e con loro; pertanto, rimanendo così immutabili e incomprensibili l'uno nell'altro, essi sono veramente e singolarmente Uno. Se qualcuno tuttavia vuole dire che vi è accordo tra il Figlio e il Padre, io non lo contraddico, a condizione che egli intenda non una unione delle volontà, ma l'unità della volontà. Quanto a Dio e all'uomo, sussistenti e separati l'uno dall'altro nelle volontà e nelle sostanze loro proprie, intendiamo in modo totalmente diverso il loro modo di essere l'uno nell'altro: non è la confusione di due sostanze, ma l'accordo di due volontà. Ecco in che cosa consiste la loro unione: la comunione della volontà e l'accordo nella carità. Unione felice, se la sperimentaste! Ma nulla, se la comparaste. Parole dense di significato, che definiscono in modo ammirevole la posizione di san Bernardo: la deificazione di cui il De diligendo Deo contiene la promessa non è nulla di meno, ma nulla di più, che l'accordo perfetto tra la volontà della sostanza umana e quella della sostanza divina, in una rigida distinzione delle sostanze e delle volontà. Non crediamo che si tratti qui di un'interpretazione minimizzante della dottrina di san Bernardo; rifiutarla con il pretesto che assomiglia a qualche pia interpretatio significherebbe rinunciare a comprendere qualsiasi cosa del suo pensiero. Non dobbiamo neppure immaginare che, in mancanza di timidezza nel suo interprete, si sia in diritto di denunciare un imbarazzo nello stesso san Bernardo. Harnack l'ha creduto e avrebbe voluto farlo credere a noi. Vedendo in san Bernardo una pietà mistica ardente - la pietà vera - farsi strada tra gli ostacoli accumulati dalla rigidità del dogma, non poteva non vedere nella sua dottrina l'espressione concreta di questo conflitto tra il dogma e la vita interiore, la cui storia è ai suoi occhi quella della stessa teologia medievale. Strana illusione soggettiva di un erudito la cui opera, decantata per la sua obiettività, risente più di tutte le altre della fede personale dell'autore. Si tratta infatti di un completo errore nell'interpretazione dei fatti. San Bernardo non è un mistico dell'amore obbligato, dal dogma della trascendenza divina, a restare, anche se a malincuore, al di fuori del proprio oggetto; i tre punti che abbiamo successivamente toccato sono uniti da una linea continua che li attraversa per condurci a un quarto: la sostanza di Dio non sarà mai la nostra sostanza, la volontà di Dio non sarà mai la nostra volontà, l'unione a Dio non può essere che l'accordo di due volontà distinte, quindi l'unione a Dio non può realizzarsi se non per e nell'amore. Non è quindi un amore che si rassegna alla trascendenza del proprio oggetto: se il proprio oggetto non fosse trascendente, l'amore non avrebbe più motivo di esistere. Anche qui non siamo ridotti a una di quelle ricostruzioni logiche alle quali talvolta deve rassegnarsi la storia. San Bernardo non è soltanto capace di comprendere se stesso: eccelle nell'esprimersi: " Dio, lo stesso che ha detto: Ego sum qui sum, è nel vero senso del termine, in quanto ciò che è l'Essere. Quale partecipazione, quale riunione vi può quindi essere tra colui che non è e Colui che è? Come possono ricongiungersi cose così diverse? Per me, dice il santo, il mio bene è aderire a Dio. Noi non possiamo essere immediatamente uniti a lui; una tale unione potrebbe forse realizzarsi per mezzo di qualche intermediario. Qual è questo intermediario, questo termine medio tra la creatura e l'Essere? Si potrebbe pensare alla cupidigia o al timore, ma noi sappiamo che essi sono solo espedienti provvisori. Il solo legame veramente sicuro e indistruttibile è la carità, perché l'uomo nel quale essa abita: tam suaviter quam secure ligatus, adhaerens Domino unus spiritus est. Si è quindi sicuri che il pensiero di san Bernardo è lineare; non è un compromesso tra le sue aspirazioni più profonde e non precisate costrizioni esteriori: l'amore, al contrario, si inserisce tra l'Essere e gli esseri; come chiamato dal vuoto che, senza di esso, separerebbe la creatura dal suo creatore, vi si riversa per colmarlo. Ma notiamo bene in quale modo lo colma: l'uomo che ama Dio diviene unus spiritus cum eo. L'unità di spirito è quindi l'unico genere di unità concepibile tra il Creatore e la creatura. Che cosa bisogna intendere con ciò? Una unità di spirito è anzitutto una unità che non è altro che quella di due spiriti, cioè non quell'identità di sostanza che abbiamo appena escluso, ma soltanto il perfetto accordo delle loro strutture e delle loro vite. Il termine che designa senza equivoci la natura propria di questa unità è " similitudine ". La somiglianza perfetta di uno spirito a un altro è per lui l'unico modo di diventare l'altro senza cessare di esistere. Ciò che caratterizza la mistica di san Bernardo è il modo con il quale essa collega l'unione mistica alla natura dell'immagine divina nell'uomo, poiché a partire da qui tutte le difficoltà che gravano sulla teologia mistica si avviano verso la soluzione che egli fornisce. Riprendiamo le obiezioni che sono state rivolte alla sua dottrina e vediamo come si modificano quando, al centro di tutto, si pone il fatto che l'uomo è una immagine di Dio. L'estasi cistercense, è stato detto, tende, a causa del proprio carattere estatico, verso una sorta di perdita dell'individuo in Dio. L'amore, la cui violenza trascina l'anima verso il suo oggetto divino, non può raggiungerlo se non rinunciando totalmente a se stesso, esigenza contraddittoria con i fondamenti stessi della dottrina, in quanto l'amore di sé è considerato primitivo e indistruttibile. L'obiezione è debole. Qual è l'oggetto dell'ascesi cistercense? Eliminare progressivamente il proprium per sostituirgli la carità. Che cos'è il proprium? La dissomiglianza, ciò per cui l'uomo si vuole diverso da Dio. D'altra parte, cos'è l'uomo? Una somiglianza divina. È quindi chiaro che vi è coincidenza, in una simile dottrina, tra la perdita del volere proprio e la restaurazione della nostra vera natura. Eliminare da sé tutto ciò che impedisce di essere veramente se stesso non significa per l'uomo perdersi, ma ritrovarsi. Tutta la difficoltà che si crede di trovare nei testi di san Bernardo su questo punto si riduce quindi a un controsenso, perché l'anima che si libera, che si stacca da se stessa, lungi dal rinunciare a ciò che essa è, si stabilisce al contrario nella propria sostanza, così come l'amore divino la cambia. Quale può essere, in effetti, il senso di espressioni quali " deficere a se tota videtur ", " a semetipsa liquescere " e altre simili? È sempre duplice. In primo luogo Bernardo vuol dire che l'anima si spoglia di quel falso io, di quella personalità illusoria del volere proprio che il peccato ha introdotto in lei. Spogliandosene, lungi dall'annullarsi, si ristabilisce nella propria natura. È una maschera che cade per lasciar vedere il vero volto di un'anima la cui natura è di essere fatta a immagine di Dio. In secondo luogo tali espressioni hanno sempre un senso positivo, quello che san Bernardo indica aggiungendo questo commento: " a semetipsa liquescere, atque in Dei penitus translindi voluntatem ". Commento del quale si potrebbe lamentare la brevità se, a sua volta, non fosse commentato dall'intera opera mistica di San Bernardo. Infatti questa trasfusione nella volontà di Dio è la stessa unità di spirito, e lo è in un doppio senso. Ontologicamente l'anima vive ormai dello spirito di carità per la grazia che è in noi il dono dello Spirito Santo. La vita dell'anima è quindi diventata, in virtù di questo dono e a titolo di dono, ciò che la vita di Dio è per natura. Unità di spirito, perché di questo stesso Spirito, del quale Dio vive per sé, noi viviamo allora per mezzo della grazia: impossibile unire più strettamente due soggetti che devono rimanere sostanzialmente distinti. Unità di spirito anche perché, essendo l'anima una somiglianza divina, più la sua volontà si conforma a quella di Dio, più diviene se stessa. L'anima si conosce allora come Dio la conosce, si ama come Dio l'ama e ama Dio così come egli si ama. Essa sussiste, ma bisogna allora considerarla come una sostanza che, irriducibilmente distinta da quella di Dio, non ha altra funzione che quella di essere portatrice della somiglianza divina. Questa somiglianza e la sua " forma " ; più essa viene invasa da questa forma, come lo è ora dalla carità e lo sarà ancora di più nella gloria, più è difficile distinguerla da Dio, - e più sarà se stessa. Dell'uomo si potrebbe quindi dire che egli tende, mediante l'amore, a rendersi invisibile, infatti questa Immaginerai Dio non sarà pienamente se stessa se non quando in essa non si potrà vedere niente altro che Dio: et tuac erit omnìa in omnibus Deus. Possiamo ormai rileggere uno di quei testi così discussi, con la speranza di capirlo quasi come lo comprendeva lo stesso San Bernardo. " Ma la carne e il sangue, questo vaso di argilla, questa dimora terrena, quando arriveranno a comprenderlo [ questo amore in cui l'anima non si ama che per Dio ]? Quando proveranno questo tipo di affetto [ affectum: qui è l'amore ], nel quale lo spirito inebriato di Dio si dimentica diviene per se stesso come il vaso perduto ( Sal 31,13 ), si dirige totalmente verso Dio e aderisce a lui sino a formare un solo spirito con lui? È allora che dice: La mia carne e il mio cuore sono venuti meno, Dio del mio cuore e mia parte per l'eternità ( Sal 73,26 ). Beato, dirò, e santo, colui al quale fu concesso di provare qualcosa di simile in questa vita mortale, anche se solo raramente, oppure una sola volta, e come di passaggio, solo lo spazio di un momento. Infatti in un certo modo perderti, come se tu non esistessi più [ quodammodo, infatti l'uomo non si perde ], non sentirti più te stesso, spogliarti di te stesso, e quasi annullarti [ pene, infatti la sostanza rimane ], è la realtà della vita del cielo, non è un modo umano di sentire. Se, d'altra parte, capita a qualcuno dei mortali di essere ammesso a questo amore di quando in quando, di passaggio, come ho già detto, e per un istante, il secolo malvagio lo invidia, la malizia del giorno lo turba, questo corpo di morte lo appesantisce, la necessità della carne lo sollecita, la debolezza della corruzione non lo sostiene e la carità fraterna, forza ancora più violenta, lo richiama. Ahimè! È obbligato a ritornare in sé, a ricadere in ciò che è proprio e a esclamare miseramente: Signore, io soffro nella violenza, rispondi per me ( Is 38,14 ), e ancora: uomo infelice io sono, chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Rm 7,24 ). Tuttavia, poiché la Scrittura afferma che Dio ha fatto tutto per se stesso ( Pr 16,4 ), è necessario che un giorno la sua opera si conformi al proprio autore e si accordi a lui. È quindi necessario che un giorno arriviamo ad amare come lui e che, come Dio ha voluto che ogni cosa esistesse per lui, così anche noi non vogliamo più che noi e ogni altra cosa sia esistita o continui a esistere se non per lui, cioè in vista della Sua volontà, non della nostra voluttà. Ciò che farà quindi la nostra gioia non sarà tanto sentire che la nostra necessità si placa o ottenere la felicità, quanto piuttosto vedere che si compie la sua volontà in noi e su di noi. È proprio ciò che noi gli domandiamo ogni giorno nella nostra preghiera, dicendo: sia fatta la tua volontà, sulla terra come in cielo. O amore santo e casto"! O intenzione pura e spogliata della volontà! Certamente tanto più pura e spogliata, quanto più nulla di proprio vi resta ancora mescolato; tanto più soave e dolce quanto più quello che allora si prova è interamente divino. Provare un tale affetto, significa essere deificato. Come una piccola goccia di acqua mescolata a una gran quantità di vino sembra perdersi interamente acquisendo il sapore e il colore del vino; o come il ferro arroventato e incandescente diviene simile al fuoco, come se avesse abbandonato la sua forma propria, e come l'aria inondata dalla luce solare si trasforma nella chiarezza stessa di questa luce, a tal punto da non sembrare tanto aria illuminata, quanto luce, così sarà necessario che, nei santi, ogni modo umano di sentire si fonda in un certo modo ineffabile e si riversi interamente nella volontà di Dio. Diversamente, come Dio potrebbe essere tutto in tutti, se nell'uomo rimanesse qualcosa dell'uomo? In realtà, la sostanza rimarrà, ma sotto un'altra forma, in un'altra gloria, in un'altra potenza " Consideriamo il problema dell'amore alla luce delle conclusioni che precedono. Sappiamo che l'uomo è una sostanza indistruttibile, che resiste alla fusione dell'estasi e anche a quella della visione beatifica. Sappiamo anche che il fine per il quale questa sostanza è stata creata è di realizzare una somiglianza divina perfetta. Ora, se è vero che per la sua forma essa tende a differenziarsi da Dio per una grandezza minore rispetto a ogni grandezza donata, consegue che, al limite, la famosa antinomia tra l'amore di sé e l'amore puro sparisce: al limite essa non ha più né senso, né ragione di esistere. Dio è amore di sé per sé. L'uomo è tanto più se stesso, quanto più è simile a Dio; in quanto immagine, meno si distingue dal proprio modello, più esiste. Se quindi eliminiamo dalla sua natura questo proprium, che non appartiene alla sua natura, ma la corrompe, ciò che rimane è una immagine perfetta di Dio, cioè di un bene infinito che si ama solo per sé Che differenza c'è quindi, al limite, tra amare Dio e amare se stessi quando non si è altro che una partecipazione all'amore che Dio ha per sé? Nell'anima che ama se stessa solo per Dio, l'amore che essa nutre per se stessa è compreso nell'amore che Dio ha per sé, poiché Dio l'ama m quanto somiglianza di se stesso ed ella si ama in quanto somiglianza di Dio. È quanto sviluppa lungamente e minuziosamente un altro testo la cui meditazione, a causa della sua densità, si impone a ogni persona che desideri iniziarsi seriamente al pensiero di san Bernardo. " 1 Per quanto ce lo ha permesso l'ora regolare che abbiamo fissato per parlare, abbiamo utilizzato tre giorni per dimostrare l'affinità del Verbo e dell'anima. A cosa serve tutto questo lavoro? A questo. Abbiamo insegnato che ogni anima, anche se carica di peccati, irretita dai vizi, sedotta dalle voluttà, nella prigionia dell'esilio, imprigionata nel corpo, immersa in questa argilla, affondata in questo fango, legata alle membra, inchiodata alle proprie pene, colma di preoccupazioni, contratta dai timori [ essendo la contractio l'effetto proprio del timor ], afflitta dai dolori, smarrita negli errori, in preda alle sollecitudini, tormentata dai sospetti, ed infine come uno straniero in un paese nemico corrotta con i morti, come dice il Profeta ( Bar 3,11 ), e compresa tra coloro che si trovano all'inferno; sebbene, dico, essa sia così dannata, così disperata, sappiamo che può scorgere in sé non solo di che respirare nella speranza del perdono, nella speranza della misericordia, ma anche di che aspirare alle nozze del Verbo, non temere di concludere con Dio una alleanza di unione, non temere di portare con il Re degli angeli il giogo soave dell'amore. In effetti, cosa non può osare con sicurezza vicino a colui di cui vede che ha l'onore di portare l'immagine [ poiché la possiede ancora, in quanto è indistruttibile ] e di cui sa [ sebbene non la veda più, avendola persa ] che la somiglianza è la propria gloria? Cosa teme, dico, della sua maestà, ella, colmata di fiducia dalla propria origine? [ immagine di Dio si sa ancora capace della maestà divina: capax majestatis ]. Tutto quello che deve fare è restare fedele alla nobiltà della propria natura con la dignità della propria vita, e più ancora lavorare per ornare e abbellire con colori appropriati, con i propri costumi e i propri affetti, l'onore celeste che riceve dalla propria origine. 2. Perché, in effetti, lasciar dormire lo zelo? [ industria: parola che designa la parte che ritorna al libero arbitrio nella restaurazione della somiglianza perduta ]. In effetti, costituisce in noi un grande dono della natura: se non svolge il proprio ruolo, tutto il resto della natura non viene forse turbato e come interamente coperto di una ruggine di vecchiaia? Sarebbe ingiuriare il suo autore. Infatti, se il suo autore, Dio stesso, volle che questo segno della generosità divina [ l'immagine ] si conservasse eternamente nell'anima, era perché essa avesse sempre in sé, da parte del Verbo [ in quanto egli è l'Immagine e l'anima è fatta ad imaginem ], un ammonimento permanente a rimanere con il Verbo o a ritornare a lui se se ne fosse allontanata. Non allontanata da un cambiamento di posto o da un cammino, ma come può muoversi una sostanza spirituale, cioè peggiorando a causa dei propri affetti o piuttosto dei propri difetti [ in quanto così perde la similitudo che aveva ] quando, per la malizia della propria vita e dei propri costumi, si rende dissimile da Dio e degenera. Notiamo, tuttavia, che tale dissomiglianza non abolisce la natura [ che è l'immagine ], ma la corrompe, infatti la macchia, invadendola, nella misura stessa in cui diminuisce la bontà della natura. Quanto al ritorno dell'anima, è la sua conversione verso il Verbo [ conversio, movimento della volontà che da propria diviene comune ], il quale deve riformarla e al quale essa deve conformarsi [ per ritrovare se stessa, poiché era stata creata a sua somiglianza ]. In cosa? Nella carità. Infatti egli dice: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi [ infatti la carità eleva il servo e il mercenario allo stato di figli ] e camminate nell'amore, come Cristo stesso vi ha amati ( Ef 5,1-2 ). 3. Una tale conformità [ della volontà divenuta " comune " per mezzo della carità ] sposa l'anima al Verbo, poiché già simile a lui per natura [ egli è Imago, essa è ad imaginem ], essa si mostra simile a lui nella volontà, amando così come essa è amata [ essa si ama per Dio, come Dio l'ama per sé ]. Se quindi essa ama perfettamente, essa è sposata. Cosa è più delizioso di questa conformità? Cosa più desiderabile della carità, se, per suo mezzo, non contenta di andare a lui guidata da un maestro umano, è da sola, o anima, che puoi accedere al Verbo con piena fiducia, aderire a lui costantemente, interrogarlo familiarmente, consultarlo per ogni cosa, dal momento che l'audacia del tuo desiderio eguaglia la capacità della tua intelligenza? Questo è il contratto di un matrimonio veramente spirituale e veramente santo. Che dico, un contratto? È un abbraccio. Veramente un abbraccio in quanto volere la stessa cosa e non volere la stessa cosa, fa di due spiriti uno solo. E non crediamo che la disuguaglianza delle persone possa qui rendere zoppicante l'accordo della volontà, perché l'amore ignora il rispetto. È dal verbo amare che deriva l'amore, non da onorare. L'onore si addice a chi prova orrore, stupore, timore, ammirazione; tutto ciò è assente in colui che ama. L'amore non ha bisogno di tutto il resto; quando arriva riconduce a sé ogni altro affetto [ il timore e la cupidigia ] e li sottomette. È per questo che colei che ama, ama e non sa nient'altro. Quanto a Lui, che sarebbe giusto onorare, giusto riverire e ammirare, preferisce essere amato. Sono sposo e sposa. Quale altro legame desiderate tra due sposi, quale altra unione se non amare ed essere amato? Questo vincolo supera anche il più stretto che la natura abbia creato: quello dei genitori e dei figli. D'altra parte è per questo che egli ha detto: l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa ( Mt 19,5 ). Vedete che negli sposi questo sentimento non solo è più forte degli altri affetti, ma supera anche se stesso. 4. Aggiungete che questo sposo non solo è amante, è l'Amore. È onore? Chi vuole può sostenerlo; io personalmente non ho letto così. Ciò che ho letto, al contrario, è che: Deus caritas est ( 1 Gv 4,16 ), ma che sia onore e dignità non l'ho letto. Non che Dio non esiga l'onore, lui che dice: Se io sono il Padre, dov'è il mio onore? Ma allora è il Padre che, parla, perché se si presentasse come sposo credo che cambierebbe linguaggio e direbbe: Se io sono lo sposo, dov'è il mio amore? Non aveva già detto in precedenza: Se io sono il Signore, dov'è il mio timore? Dio esige quindi di essere temuto come Signore, di essere onorato come padre, ma in quanto sposo vuole essere amato. Tra tutto ciò, cosa prevale? Cosa è più grande? È l'amore. Senza di esso il timore è penoso [ perché allora è il timore del castigo e non il timor di Dio] e l'amore è senza attrattiva. Il timore è servile finché non è liberato dall'amore; quanto all'onore che non deriva dall'amore, non è onore, è adulazione. Così quindi, a Dio solo onore e gloria; ma Dio non accetterà né l'uno, né l'altro, se non sono ricoperti dal miele dell'amore. L'amore è sufficiente a se stesso, piace a se stesso e per se stesso. È per se stesso il proprio merito e la propria ricompensa. L'amore non richiede altra causa e altro frutto che se stesso. L'uso che se ne fa, ecco il suo frutto. Amo perché amo, amo per amare. Che grande cosa l'amore, a condizione che ritorni al proprio principio, ritorni alla propria origine e, rifluendo verso la propria sorgente, ne tragga di che scorrere senza sosta! Tra tutti i movimenti, sentimenti e affetti dell'anima, l'amore è il solo nel quale la creatura se non può rendere al creatore tanto quanto riceve, può almeno ricambiare la stessa cosa. Ad esempio, se Dio si irrita con me, mi devo a mia volta irritare con lui? Sicuramente no, ma obbedirò, tremerò e gli chiederò perdono. Allo stesso modo se mi rimprovera, non lo rimprovererò, ma gli darò ragione. O anche, se mi giudica, neppure lo giudicherò, ma lo adorerò; e quando mi salva, non mi domanda di salvarlo, perché non ha bisogno, a sua volta, di essere liberato, egli che libera tutti gli altri. Se esercita il proprio dominio, non devo far altro che servirlo; se comanda, devo obbedire e non devo pretendere da lui che mi serva o mi obbedisca. Allora potete vedere che per l'amore è diverso. Infatti, quando Dio ama non desidera altro che essere amato, ama solo per essere amato, sapendo che sarà lo stesso amore a fare la felicità di coloro che l'ameranno. 5. È una grande cosa l'amore, ma ha dei gradi. La sposa è su quello più alto. Infatti anche i figli amano, ma pensano all'eredità e finché temono di perderla in un modo qualsiasi, onorano di più colui dal quale attendono l'eredità, ma lo amano di meno. Ritengo sospetto l'amore che incoraggia la speranza di ottenere qualcosa. È un amore debole, come quello che si spegne o diminuisce, se per caso la speranza gli viene sottratta. Impuro è l'amore che desidera anche altre cose. L'amore puro non è mercenario; l'amore puro non trae le forze dalla speranza e tuttavia non sente le sofferenze della sfiducia. Esso appartiene alla sposa perché la sposa è amore, chiunque essa sia. Per la sposa l'amore è allo stesso tempo la speranza e la realtà. È di questo che la sposa è ricca ed è di questo che lo sposo si accontenta. Egli non cerca altro, ed ella non ha altro. È per questo che egli è lo sposo, è per questo che ella è la sposa. Appartiene quindi io proprio agli sposi ciò che nessun altro può raggiungere, nemmeno i figli. Perché infine egli grida ai figli: Dov'è il mio onore? ma non: dov'è il mio amore? Quest'ultimo lo riserva alla sposa, come sua prerogativa. Certamente viene comandato all'uomo di onorare il padre e la madre ( Dt 5,16 ) e non è fatta menzione dell'amore. Questo non significa che i genitori non debbano essere amati dai propri figli, ma significa che un grande numero di figli sono più inclini a onorare i genitori che non ad amarli. È possibile che l'onore di un re si diletti a giudicare, ma l'amore dello sposo, e ancor più questo sposo che è l'Amore stesso, chiede in cambio solo amore e fede. La sposa può quindi a sua volta amarlo. E come potrebbe non amarlo, lei sposa e sposa dell'Amore? Come potrebbe l'Amore non essere amato? 6. È quindi giusto che, rinunciando a ogni altro affetto, essa si dedichi interamente all'amore e a lui solo, poiché è all'Amore stesso che essa deve rispondere ricambiando amore. Infatti, anche se effondesse completamente nell'amore, cosa sarebbe in confronto allo scorrere perpetuo dell'Amore? Come l'amante e l'Amore, l'anima e il Verbo, la sposa e lo Sposo, la creatura e il Creatore potrebbero effondersi con la medesima abbondanza? Essi sono come la sete e la fonte. Che dunque! Sarà necessario abbandonare e trascurare completamente il voto della fidanzata, il desiderio di colei che sospira, l'ardore dell'amante, la fiducia di questa audace, con il pretesto che ella non può correre veloce come un gigante, superare in dolcezza il miele, in delicatezza l'agnello, in candore il giglio, in luminosità il sole, in carità colui che è la Carità? No; infatti sebbene la creatura ami meno di Dio, perché è inferiore a lui, dal momento che ella ama con tutta se stessa, il suo amore è completo, in quanto vi ha messo tutta se stessa. Per questo, come ho già detto, amare così è essere sposata. Infatti ella non può amare in questo modo ed essere poco amata, poiché è nell'accordo di due esseri che consiste un matrimonio perfetto e completo. A meno che, tuttavia, si dubiti che l'anima non sia amata in anticipo e di più dal Verbo. Ma noi sappiamo che nell'amore essa è prevenuta e vinta. Felice colei che ha meritato di essere prevenuta dalla benedizione di una così grande dolcezza! Felice colei alla quale fu donato di provare un abbraccio così soave! Infatti proprio questo è un amore santo e casto, un amore soave e dolce, un amore la cui sincerità eguaglia la purezza: amore mutuo, intimo e forse che unirà due esseri, non in una sola carne, ma in un solo spirito, secondo la parola di san Paolo: Colui che aderisce a Dio, è un solo spirito con lui ( 1 Cor 6,17 ). E ora piuttosto ascoltiamo quella che Dio ha reso di gran lunga nostra maestra in questa materia: l'unzione che istruisce e la frequente esperienza. Ma forse è meglio riservare questo per l'inizio di un altro sermone, per non costringere un argomento così importante nei limiti ristretti di questo che è quasi terminato. Se siete di questo avviso, termino prima del previsto, affinché domani torniamo affamati quando sarà venuto il momento di metterci alla tavola delle delizie di cui l'anima santa merita di gioire, felice con il Verbo, suo degno sposo. Gesù Cristo nostro Signore che è Dio, benedetto nei secoli. Amen " ( SC 83,1-6, il, 298,10-302,27 ). Questo testo molto importante non contiene solo l'esposizione dei principi teologici dell'estasi come è concepita da san Bernardo, ci informa anche, con tutta la precisione desiderabile, sulla sua concezione dell'amore. Sono state certamente notate, di passaggio, le formule con le quali egli definisce l'amore puro, perché si sa quale uso, per non dire quale abuso, ne hanno fatto più tardi i Quietisti. Si possono infatti citare tutti i testi che si vogliono per sostenere il quietismo di san Bernardo, ma a condizione di far dire loro il contrario di ciò che significano. La prima caratteristica dell'amore puro, nella dottrina di san Bernardo è dI essere esclusivo di ogni altro sentimento. Mi esprimo qui come lui, ma ciò che Bernardo vuoi dire è piuttosto che l'amore puro è inclusivo di ogni altro sentimento. Eccone il motivo. La purezza dell'amore è tutt'uno con la sua intensità; diciamo, se si vuole mantenere ad ogni costo una distinzione tra queste nozioni, che la purezza dell'amore è il primo e il più immediato effetto della sua intensità. È per questo che nei suoi scritti ricorre spesso l'espressione amore ardente. L'ardore dell'amore, spinto al suo ultimo grado, ha per effetto apparente di eliminare dall'anima tutto ciò che non è amore. Non vi è più posto in essa per altro. Non bisogna però dimenticare che l'amore è per essenza il contrario di una forza distruttrice: elimina veramente solo il non-essere, il resto lo trasforma e lo compie. È ciò che avviene nei confronti degli altri sentimenti. Nessuno di essi viene distrutto in ciò che ha di positivo. Così la cupidigia è mantenuta in tutti gli aspetti positivi della propria essenza; essa viene " ordinata "; cioè, quando tutto ciò che la alterava viene eliminato, resta di essa solo ciò che era ordinabile: l'amore. Avviene lo stesso per il timore e la speranza: l'amore consuma tutto, ma per compierlo. In secondo luogo, poiché tutti gli altri sentimenti si riassorbono nell'ardore dell'amore, ne consegue che l'amore puro è disinteressato. È la sua stessa definizione che lo esige, ma lungi dall'escludere la sostanza degli altri sentimenti che la creatura deve al proprio creatore, essa li assorbe e li esalta portandoli al loro punto di perfezione. È quanto bisogna notare particolarmente per quanto concerne il desiderio della beatitudine. L'amore puro non si augura e non spera alcuna ricompensa, ma ne gode; esso è essenzialmente fruizione del bene divino. Si domanderà forse come questa caratteristica possa aggiungersi all'amore senza alterarne la purezza? In realtà non vi si aggiunge: è l'essenza stessa dell'amore, ed è per questo che san Bernardo dice che l'amore è ricompensa a se stesso. Essendo per natura una partecipazione alla vita divina, che è beatitudine, esso è una partecipazione alla beatitudine. Dire che la sua ricompensa è in se stesso, significa dire semplicemente che la sua purezza è quella della fruizione di Dio. Per gli storici della spiritualità le espressioni dell'amore puro, dell'amore disinteressato, suscitano quasi sempre un sospetto di quietismo. Lo spettro di Madame Guyon si aggira attorno a una verità che la sua vicinanza rende inabitabile. È vero che l'amore puro, come viene concepito da san Bernardo, è un amore senza alcun desiderio di ricompensa, ma ne abbiamo visto il perché. All'origine di tutto il problema bisogna porre la parola della Scrittura che abbiamo spesso citato: l'amore espelle il timore. Tutte le meditazioni di san Bernardo ci fanno in effetti assistere alla progressiva eliminazione del timore del castigo divino nella certezza del possesso di Dio nell'amore. Finché il pensiero del contemplativo è ancora alla considerazione della provvidenza divina, o dei giudizi divini su di noi, esso non è ancora giunto al suo termine: non ha ancora raggiunto l'amore puro. Supponiamo invece che l'intensità dell'amore gli abbia conferito quella purezza che gli fa assorbire in sé tutti gli altri sentimenti, a partire da quello stesso momento esso è unito al Verbo; gode quindi di Dio; è in quello stato di fiducia che non è altro che la stessa coscienza di essere unito alla beatitudine divina. È quindi ovvio che, a partire da quel momento, esso non potrebbe aprirsi ad alcun timore del castigo. Assorbito com'è nella propria gioia, non può più neppure pensare a un castigo. È ciò che san Bernardo indicava nel testo precedente, dove dice che l'anima che ama così non spera più in nessuna ricompensa, ma non avverte più neppure la sfiducia. È questo punto che decide ogni cosa ed è per non averlo preso in considerazione che i quietisti hanno posto dei problemi la cui stessa formulazione è esclusa nel modo più formale dalla dottrina di san Bernardo. Per accertarsi di questo aspetto, è sufficiente riassumere le principali posizioni di san Bernardo riguardo alla natura e alle condizioni dell'amore puro. Se ci si riferisce al testo fondamentale del De diligendo Deo, VII, 17, vi si vede anzitutto che l'amore di Dio non può essere senza ricompensa e, poi, che l'amore puro di Dio è nondimeno un amore che non ha di mira alcuna ricompensa: non enim sine proemio diligitur Deus, etsi absque proemii intuitu diligendus est. Cosa significa? Significa che l'amore puro, come lo concepisce san Bernardo, è essenzialmente un'esperienza mistica. Non si tratta qui di un'idea né di una disposizione abituale, ma dell'excessus, breve, continuamente interrotto, nel quale si trova l'anima del mistico, mentre Dio l'unisce a sé con grazie eccezionali. Questa prima differenza tra san Bernardo e i quietisti è importante e non bisogna mai dimenticarla. Ciò di cui parla è un'estasi momentanea - rara bora, sed parva mora - e in nessun modo uno stato; ciò che per lui è lo stato abituale non si chiama amor purus, nurmcissitudo. Un languido e continuo desiderio, inframmezzata dalle gioie passeggere e sempre imprevedibiIi della unione divina, ecco la sua vita. Inoltre egli sa che il suo stesso amore puro, quando lo ricompensa con le sue gioie, è lontano dall'essere completamente puro: l'amore completamente puro si avrà solo in cielo. Questo punto ne comporta un secondo: poiché l'amore puro è una esperienza mistica, è un sentimento e niente altro. Almeno, non è niente altro per la coscienza di colui che lo prova. Intendiamo con questo dire che nel momento in cui lo prova, l'estatico ne è completamente occupato, senza che nella sua anima resti posto per qualsiasi altra cosa. Al primo posto tra le cose che l'amore espelle, per la propria intensità, vi sono le considerazioni della ragione, e questa esclusione opera contro due possibili ordini di calcoli razionali, quelli della cupidigia e quelli del timore. Quelli della cupidigia: in effetti l'anima che gode di Dio non pensa più a lui come a una ricompensa. Essa non pensa più a lui come ad una ricompensa possibile, in quanto essa lo possiede: una tale assurdità è esclusa dalla natura stessa dell'estasi, che è beatificante. Ma essa non pensa a lui neppure come a una ricompensa presente, poiché non se lo immagina in alcun modo: essa lo ama e questo è tutto. San Bernardo dice esattamente: " absque praemii sit intuitu diligendus ". In altri termini, la nozione di ricompensa non cade più allora sotto lo sguardo dell'anima. L'estatico non dice più: questo amore mi beatifica, bisogna quindi che lo provi; oppure: se Dio mi beatifica con l'amore come sta facendo, continuerò ad amarlo affinché continui a beatificarmi. Nulla di simile; l'amore non è un contratto, è un sentimento: " Affectus est, non contractus ". Non è un " contractus ", è un " amplexus ". Ecco perché, per sua stessa natura, non può essere né vuoto, né mercenario: " Vacua namque vera caritas esse non potest, nec tamen mercenaria est ". Non è mai vuoto, poiché è un " amplexus ", ma non è mai mercenario, poiché non è altro che un " amplexus ". Quindi o c'è calcolo razionale, e allora non siamo più in presenza di un semplice affectus, di un amore che non è altro che amore - esso non merita quindi più alcuna ricompensa o, piuttosto, è impossibile che l'abbia, poiché questa ricompensa è proprio l'abbraccio semplice dell'amore; se non è questo, cosa è? - o non vi è più alcuna considerazione della ragione, alcun calcolo contrattuale, ma soltanto il sentimento puro di un'anima che ama e non sa nient'altro - la ricompensa allora le è dovuta o, piuttosto, è essa stessa, poiché è l'amplexus, molto meno abbraccio di Dio da parte dell'anima che dell'anima da parte di Dio. " Verus amor seipso contentus est. Habet praemium, sed id quod amatur ". Consideriamo ora il rapporto tra l'amore puro e il timore. Deve necessariamente ridursi a un'esclusione, e per gli stessi motivi. L'amore puro non può più amare né per timore né in vista della ricompensa, in quanto esclude ogni altro motivo. Non è in alcun modo un contratto, né per ottenere una gioia, né per evitare una pena, è un sentimento. La fiducia di san Bernardo esprime quindi la soddisfazione di vedere scartare la prospettiva di un castigo decisamente meritato, non più di quanto il suo amplexus esprima la gioia di raggiungere infine una ricompensa per lungo tempo desiderata. L'una esclude ogni pensiero di castigo, come l'altra esclude ogni idea di ricompensa. Letteralmente, secondo la parola della Scrittura il timore è stato messo alla porta, e vi resta finché dura l'estasi, ma non più a lungo. La spontaneità dell'amore - sponte affidi, et spontaneum facit - suppone quindi la eliminazione radicale di ogni motivo, oltre a se stesso, per tutto il tempo in cui sussiste nella sua purezza e proporzionalmente a questa stessa purezza. Siamo lontani tanto dallo stato di fiducia di Lutero quanto dallo stato di amore puro immaginato dai feneloniani. Forse la fiducia di san Bernardo è una certezza, ma si dovrebbe piuttosto dire che essa segna il punto in cui il problema della salvezza non si pone più, né a favore né contro. La fiducia luterana è una fede che permette al peccatore di sentirsi peccatore e di sentirsi tuttavia salvato da Gesù Cristo. La fiducia di san Bernardo è una carità che, non per tutta una vita ma per brevi istanti riesce a trascendere lo stato normale in cui si pone ancora il problema del castigo. Mentre l'anima vi pensa, non può pensare a niente altro, se non che lo merita; quando non si accorge più di meritarlo, non significa che sa di essere colpevole ma perdonata, significa che non ci pensa più. Ecco perché dimenticare il Dio potente, il Dio giusto, il Dio giudice, non può che essere l'opera dell'amore puro; esso soltanto ha il potere di raggiungere, senza pudore e senza paura, questa Beatitudine sussistente il cui possesso rende prive di senso le stesse nozioni di promessa o di speranza, di minaccia o di castigo. Si vede qui, allo stesso tempo, quanto il genio di san Francesco di Sales sia stato lontano da quello di san Bernardo, quando si dichiarava pronto a preferire l'inferno con la volontà di Dio, che il paradiso senza la volontà di Dio. Naturalmente non si tratta di obiettargli che il paradiso è la volontà di Dio. San Francesco di Sales non è sprovveduto su questo argomento, sa che la propria ipotesi è una " immaginazione di cosa impossibile "; ma ciò che, al contrario, è importante evidenziare - poiché l'errore dei feneloniani parte da qui - è che fino a quando si è capaci di immaginare, sia cose impossibili che cose possibili, non si è ancora nell'amore puro. Infatti l'amore puro non immagina nulla, lo possiede. San Francesco di Sales sa molto bene che l'amore è inseparabile dalla gioia che dona, ma forse egli non ha mai conosciuto la gioia donata all'estatico dall'amore attuale di Dio per Dio; è per questo che ragiona ancora e discute, mentre è tempo soltanto di amare. Illusione doppiamente fatale, poiché trascinerà i feneloniani a misconoscere l'essenza dell'amore puro; del resto era inevitabile, poiché doveva necessariamente venire il giorno in cui qualcuno avrebbe voluto parlare la lingua di san Bernardo per fargli esprimere la vita spirituale di Madame Guyon o di Fénelon. Ciò che si intende con amore puro è l'estasi cistercense o lo stato feneloniano, non può essere contemporaneamente l'una e l'altra cosa. Senza dubbio Fénelon era libero di scegliere la definizione che preferiva, ma quando cita san Bernardo a sostegno della propria tesi, si può scegliere solo tra due ipotesi: o non lo ha capito o lo falsifica. Sono assolutamente convinto che non lo ha capito. Infatti, la definizione dell'amore puro per i quietisti è la definizione dell'amore impuro per san Bernardo. Purificate ancora di più il vostro amore, dirà loro, e vedrete che il problema che vi agita non si potrà più neppure porre. Domandarsi se possiamo amare Dio, persino con la certezza di non possederlo mai, è un problema, ma solo finché l'amore non avrà occupato tutta l'anima. Lasciategli sviluppare tutta la sua forza, dimenticherà i castighi fino a non temerli più e le ricompense fino a rinunciarvi. Così, da qualunque parte ci si volti, bisogna sempre ritornare all'immagine di Dio nell'uomo per risolvere i problemi che solleva l'interpretazione della dottrina. Al di fuori di questo centro prospettico, tutto è fuori posto, le difficoltà e le contraddizioni apparenti si accumulano; quando vi si rientra, tutto torna in ordine. È ciò che ci resta da verificare a proposito della famosa dottrina della carità come conoscenza di Dio. San Bernardo dice e ripete, riferendosi esplicitamente a Gregorio Magno, che la carità è la conoscenza o persino la visione di Dio. Come bisogna interpretare queste formule? Si potrebbe essere tentati di considerarle nel loro senso immediato, nel senso che l'amore esercita una funzione conoscitiva propriamente detta ed è una " visione " nel senso proprio del termine; ci sarebbe allora una identificazione formale della conoscenza e dell'amore. D'altra parte una simile tesi è, a prima vista, così paradossale che si potrebbe esser tentati di considerarle come metafore senza contenuto dottrinale definito, ma le espressioni di san Bernardo sono così formali che una tale soluzione del problema apparirebbe immediatamente come un espediente per evitare il problema. La risposta al problema deve mantenersi equidistante dalle due precedenti; l'amore per san Bernardo è veramente una visione di Dio, ma solo in un certo senso. Notiamo anzitutto che sebbene egli ci abbia lasciato poche indicazioni sul modo in cui intende la conoscenza, sappiamo almeno che per lui si basa completamente sulla somiglianza del soggetto conoscente all'oggetto conosciuto. Là dove manca questa somiglianza, la conoscenza è impossibile. Come san Bernardo concepiva l'assimilazione del soggetto all'oggetto nella conoscenza sensibile o intellettuale? Non lo sappiamo. Il suo amico Guglielmo di Saint-Thierry ci ha lasciato delle indicazioni precise sul modo in cui egli stesso rispondeva a questa questione. Non sarebbe forse un'ipotesi troppo audace immaginare che san Bernardo pensasse quasi allo stesso modo su questo punto, ma non ne sappiamo nulla e, dopo tutto, la cosa è senza importanza. San Bernardo forse non aveva un pensiero preciso a riguardo. Ciò che invece è molto importante, è notare, con lui, che la somiglianza tra l'oggetto e il soggetto è la condizione necessaria alla conoscenza. Una volta affermato questo principio, la tesi di cui noi cerchiamo il senso si impone come una conclusione necessaria. In qualunque modo si interpreti la conoscenza intellettuale degli oggetti, essa è possibile solo perché una determinata azione dell'oggetto ha trasformato il soggetto conoscente a propria somiglianza. D'altra parte, una volta stabilita la somiglianza tra il soggetto e l'oggetto, la conoscenza dell'oggetto da parte del soggetto viene di conseguenza. Si può quindi dire che la somiglianza è la conoscenza stessa, nel senso almeno che essa è la condizione necessaria e sufficiente alla conoscenza. Ora, quando si tratta di conoscere Dio, cosa trasforma l'anima a somiglianza di Dio? La carità, l'amore e niente altro. Esattamente nella misura in cui l'anima sarà trasformata dall'amore a somiglianza di Dio, il cui nome è carità, nella stessa misura sarà in grado di conoscerlo e lo conoscerà effettivamente. Ma, ci si domanda, con quale genere di conoscenza lo conoscerà? Lo conoscerà sentendolo. Il sentimento dell'amore di Dio per Dio è, per l'anima che ama, se non l'equivalente almeno ciò che sostituisce la visione che essa ha dei corpi. Dio non è né percepibile ai nostri sensi, né concepibile dal nostro intelletto, ma può essere sentito dal cuore. Amarlo come egli si ama, amarsi come egli ci ama, e con il dono dello stesso amore con cui egli si ama e ci ama, è veramente, come già diceva sant'Agostino, avere Dio in noi. Percepire in sé questo amore divino che circola nell'anima, ormai una nello spirito con Dio, significa percepire Dio nel solo modo in cui questo Spirito è percepibile dal nostro sulla terra: nella carità. Così, per l'anima riformata nella somiglianza divina per mezzo dell'amore, lo stesso affetto dell'amore è ora l'unico sostituto possibile della visione di Dio che ci manca, esso quindi ne è per noi la visione. È ciò che san Bernardo ci spiegherà se gli restituiamo nuovamente la parola; avremo così l'occasione di veder passare un'ultima volta davanti ai nostri occhi le tesi principali della sua dottrina, in una delle più dense sintesi che ci abbia lasciato. " Vedendo nella sua unica natura queste cose così distanti [ la somiglianza dell'immagine e la dissomiglianza del peccato ] come potrebbe l'anima non esclamare, presa tra la speranza e la disperazione: Signore, chi è simile a te? Trascinata nella disperazione da un così grande male [ la dissomiglianza ], essa è invitata alla speranza da questo gran bene [l a persistenza in sé dell'immagine ]. È per questo che, più non si piace nel male in cui si vede, più tende ardentemente verso quel bene che vede anche in sé, desiderosa di diventare ciò per cui era stata creata [ non solo un imago, ma una similitudo ], semplice [ per l'assenza di cupidigia ] e retta [ per l'assenza di timore ], ma tuttavia timorosa di Dio [ e non del castigo di Dio ] e allontanantesi dal male. Perché non potrebbe allontanarsene, giacché ha potuto avvicinarvisi? Perché non potrebbe avvicinarvisi a colui da cui ha potuto allontanarsi? Io intendo, sia ben chiaro, che lo può se fa conto sulla grazia, non sulla natura e neppure sul suo zelo [ industria ]. Infatti è la sapienza che vince il male ( Sap 7,30 ), non lo zelo, né la natura. Ma non senza ragione si fa conto sulla grazia poiché è verso il Verbo che la conversione dell'anima la orienta [ il Verbo è proprio la Sapienza ]. Questa feconda parentela dell'anima con il Verbo, di cui parliamo già da tre giorni, non resta sterile [ parentela, infatti il Verbo è Imago, l'anima è ad imaginem ], e neppure la similitudine persistente, testimone di questa parentela [ l'imago ]. Lo Spirito [ introdotto dal Verbo ] ammette con favore nella sua società questa anima che gli assomiglia in natura, e questo per una ragione molto naturale, perché il simile cerca il proprio simile. Ascoltate la voce di colui che chiama: Ritorna, Sunamita, affinché ti vediamo ( Ct 6,12 ). Egli la vedrà, ora che gli è simile, lui che non la vedeva più, poiché era a lui dissimile, ma anche lui si offrirà alla sua vista. Sappiamo che quando ci sarà apparso [ visione beatifica ], saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ( 1 Gv 3,2 ). Questo interrogativo esprime quindi una difficoltà piuttosto che una impossibilità: Signore, chi è simile a te? ( Sal 35,10 ). O meglio, se voi preferite, diciamo che è una parola di ammirazione. Similitudine veramente stupefacente e ammirevole quella da cui deriva la visione di Dio, anzi di più, che è la visione di Dio; e intendo dire: nella carità. Questa visione è la carità, essa è anche questa similitudine [ in quanto ristabilisce la somiglianza, che determina la visione ]. Chi non sarebbe stupito dalla carità di un Dio disprezzato che tuttavia ci richiama? A ragione viene rimproverato quell'iniquo, di cui abbiamo parlato prima, che usurpa a proprio vantaggio la somiglianza divina [ volendo fornire a se stesso la propria legge, ciò che è privilegio di Dio ], poiché amando l'iniquità [ la volontà propria ] non può né amare se stesso [ poiché non è più se stesso da quando non è più simile a Dio ], né Dio [ poiché si preferisce a lui]. È così che bisogna interpretare queste parole: Colui che ama l'iniquità, odia la propria anima ( Sal 11,6 ). Una volta dunque tolta questa iniquità, causa in noi della parte di dissomiglianza che vi si trova, vi sarà unione di spirito [ poiché l'unione tra due spiriti è fatta dalla loro somiglianza ], vi sarà mutua visione [ poiché ciascuno dei due può conoscere l'altro conoscendo se stesso ], vi sarà mutua dilezione [ poiché il simile ama il proprio simile ]. In effetti, quando giungerà ciò che è perfetto [ la carità ], verrà eliminato ciò che è parziale in noi [ la dissomiglianza ], vi sarà solo una dilezione mutua, casta e consumata, una mutua e piena riconoscenza, una visione manifesta, una salda congiunzione, una indivisa società, una perfetta similitudine. Allora l'anima conoscerà così come essa è conosciuta ( 1 Cor 13,10 ); allora amerà così come è amata, e lo Sposo troverà la propria gioia nella Sposa, conoscente e conosciuto, amante e amato. Gesù Cristo nostro Signore che è Dio e che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. ( SC 82,7-8, II, 297, 1-298,4 ). Abbiamo cercato di prendere in esame le principali nozioni che entrano nella composizione della mistica di san Bernardo e di suggerire la maniera in cui si collegano. Bisognerebbe piuttosto dire: alcune delle loro connessioni più frequenti, perché nulla eguaglia la maestria e la disinvoltura delle combinazioni alle quali egli le piega. Sarebbe un'illusione, certamente ingiusta nei confronti di san Bernardo, considerare queste analisi, anche supponendo che siano sempre esatte, come un equivalente della sua teologia mistica. Esse sono, nei confronti di questa, nello stesso rapporto in cui sono le parti anatomiche rispetto all'organismo vivente da cui provengono. Per comprendere nella sua autenticità bisognerebbe poter cogliere, in un'unica e semplice intuizione, l'opera di un Dio che crea l'uomo per associarlo a sé con la beatitudine nella sua somiglianza, che restituisce all'uomo la somiglianza perduta per rendergli la beatitudine perduta e, nell'attesa che la sua opera si compia, eleva gratuitamente sino a una felicità simile le anime che il dono della carità ha già conformato alla sua natura - Deus charitas est - e con tale forza che possano gustare sin d'ora la sua vita beata. È allora che tra Dio e la creatura, fatta a sua immagine, regna quella conformità perfetta, quell'unità di spirito in cui la sostanza umana trova alla fine la sua piena attuazione; in lei si compie la grande opera della creazione, perché essa diviene ciò per cui era stata creata: uno specchio traslucido nel quale Dio non vede altro che se stesso e dove l'anima non vede altro che Dio: una partecipazione creata della sua gloria e della sua beatitudine. Appendice I - Curiositas Nell'introduzione alla sua traduzione inglese del De gradibus humilitatis et superbiae, Barton R.V. Milis fa osservare che san Bernardo dedica alla descrizione del primo grado dell'orgoglio, la curiosità, lo stesso spazio che dedica a quella degli altri undici gradi; da questo conclude che san Bernardo le attribuisce la massima importanza poiché è il punto di partenza della degradazione dell'anima. L'osservazione è giusta e vorrei soltanto precisarla con alcune osservazioni. Per comprendere la natura esatta della " curiositas " e l'importanza che san Bernardo le attribuisce, bisogna vedere in essa - come appare ai suoi occhi - la negazione stessa dell'ascesi cistercense. È sufficiente leggere attentamente il testo per convincersene, infatti abbonda di indicazioni significative. Ritorniamo al punto di partenza. San Bernardo pone al centro di tutta la preoccupazione per la salvezza tutto ciò che le si riferisce è necessario, tutto ciò che non le si riferisce è vano. Ora, se è vero che la preoccupazione per la salvezza degli altri è un dovere imperioso per il cristiano, è altrettanto vero che non possiamo salvare gli altri se essi non salvano se stessi e che nessuno può salvarci se prima non salviamo noi stessi. Ognuno deve quindi cercare innanzitutto di assicurare la propria salvezza ( Cons I, 5, 6, III, 309-401 ). Partiamo allora da qui: della conquista delle anime, come di quella di ogni altra cosa, è vero dire con san Matteo ( Mt 16,26 ): " Quid enim prodest homini, si mundum universum lucretur, animae vero suae detrimentum patiatur? ". Testo che san Bernardo traspone, non senza audacia, nel modo seguente: " Alioquin quid tibi prodest, iuxta verbum Domini, si universos lucreris, tè unum perdens? " ( Cons I, 5, 6, III, 400, 5-6 ). Escludere se stesso dalla propria carità, poiché si è uomini, è carità mal compresa. Escludere se stesso dal beneficio della propria sapienza è mancare di sapienza: " Et si sapiens sis, deest tibi ad sapientiam, si tibi non fueris " ( Cons II, 3, 6, III, 414, 13-14 ). Cosa manca allora alla nostra sapienza? Tutto. " Quantum vero? Ut quidem senserim ego, totum ". Sarà quindi inutile conoscere tutte le cose nascoste, tutto quanto vi è sulla faccia della terra e nelle profondità del cielo; se non conosciamo noi stessi avremo costruito senza fondamenta, sarà solo un mucchio di polvere che sarà portato via dal primo vento. Torniamo quindi, dopo questa parentesi, alla conoscenza di sé, a quel nasce teipsum cristiano al di fuori del quale non vi è salvezza: " A te proinde incipiat tua consideratio; non solum autem, et in te finiatur ". Da qualunque parte essa evada, si troverà sempre beneficio per la salvezza nel ricondurla a sé. " Tu primus tibi, tu ultimus ". Bisogna che, come il Verbo procede dal Padre e ritorna a lui, il nostro Verbo ritorni a noi, lui che è la nostra " consideratio ", proceda da noi senza separarsi da noi: " Sic progrediatur, ut non egrediatur; sic exeat, ut non deserat ". Non bisogna quindi assolutamente pensare nulla, non solo contro, ma neppure al di fuori della nostra salvezza: " In acquisitione salutis nemo tibi germanior unico matris tuae. Centra salutem propriam cogites nihil. Minus dixi: contro; praeter dixisse debueram ". E san Bernardo conclude: " Qualunque cosa si offra alla tua considerazione " se non si riferisce in qualche modo alla sua salvezza, bisogna rifiutarla " ( Cons II, 3,6, III, 415, 3-4 ). Prendere in considerazione una conoscenza qualsiasi, che non sia la conoscenza di sé in vista della salvezza, è esattamente la curiosità. Quindi se san Bernardo concede a questo primo grado dell'orgoglio tanto spazio quanto agli altri undici, è perché, come il nosce telpsum genera tutti gli altri gradi dell'umiltà sino ai più alti, la curiositas genera tutti gli altri gradi dell'orgoglio sino ai più bassi. Ci troviamo, di fronte a questi due metodi, come davanti alla biforcazione iniziale di due strade, una delle quali conduce alla salvezza attraverso la conoscenza di sé, l'altra alla perdizione a causa della curiosità. È quindi in questo senso che bisogna leggere il testo in cui san Bernardo descrive la curiositas. Qual è la malattia che l'anima del monaco curioso ha appena contratto? È quella che la rende: " dum a sui circumspectione torpescit incuria sui, curiosam in alios " ( Hum X, 28, III, 38, 8 ). Le capita allora quanto indica il Cantico dei Cantici ( Ct 1,7 ): " Quia enim seipsam ignorai, foras mittitur, ut haedos pascal ". Essa pasce quindi i propri capretti - gli occhi e le orecchie - con tutto ciò che all'esterno le interessa: " In bis ergo pascendis se occupai curiosus, dum scire non curat qualem se reliquerit intus " ( Hum x, 28, III, 38, 11-13 ). Ciò che quindi bisogna conoscere è se stesso: " Dove quindi, curioso, ti allontani da tè stesso? A chi ti confidi nell'attesa? Come osi alzare gli occhi al ciclo, tu che hai peccato contro il cielo? Guarda la terra, perché tu possa conoscere tè stesso; essa mostrerà tè a tè stesso, perché tu sei terra ed è nella terra che tu ritornerai ". San Bernardo si pone quindi qui sul terreno del nosce teipsum degli antichi. Come il mosaico romano, trovato sulla via Appia, che abbiamo riprodotto all'inizio di questo libro2 per ricordare le strette relazioni che uniscono il pensiero cristiano al pensiero antico, così l'ascesi di san Bernardo prescrive ai mortali di ricordarsi che sono mortali. Ma bisognerebbe trovare, per creare una simmetria con il primo, un altro mosaico, questa volta cristiano, dove si veda elevarsi dal nosce teipsum, al di sopra dell'uomo terreno, l'uomo celeste rinnovato a immagine di Dio. Appendice II - Abelardo Quando si cercano le origini della concezione cortese dell'amore, non bisogna dimenticare di riservare un posto importante a Pietro Abelardo. L'epoca nella quale è vissuto ( 1079-1142 ) ci riporta a un tempo sufficientemente lontano perché ci si possa considerare come alle origini della poesia cortese. Sappiamo, da Abelardo stesso, che egli aveva composto e cantato un gran numero di canzoni in onore di Eloisa. È difficile capire dal suo testo se quelle opere erano in latino o in lingua volgare, ma è evidente che quelle canzoni d'amore dovevano essere molto simili a quelle dei trovatori o dei trovieri che ci sono state tramandate ( Abelardo, Historia calamitatum, P.L., 178, 128 B-C ). Abelardo aggiunge che la maggior parte delle sue poesie erano ancora famose e cantate all'epoca in cui scriveva quelle righe. La testimonianza di Abelardo è pienamente confermata da quella di Eloisa: Epìstola II, P.L., 178, 185 D-186 A; cfr. 188 A. È un vero peccato che tutti quei canti siano andati perduti. Se li possedessimo ancora, avremmo a disposizione la più antica testimonianza della poesia cortese della Francia settentrionale. Fintanto che non saranno ritrovati, se mai lo saranno, non sapremo se Abelardo vi esprimesse qualcosa di più oltre ai sentimenti: una certa concezione dell'amore. La cosa non avrebbe in sé nulla di sorprendente dal momento che si tratta di un filosofo, ma sappiamo, dal testo al quale ho appena rinviato, che a quel tempo egli non era particolarmente incline alla speculazione. In assenza di documenti è inutile discutere su questo punto. Sappiamo invece da fonte certa, in quanto possediamo le sue opere teologiche, che aveva una concezione dell'amore e quale essa fosse. Non si sa esattamente in quale epoca si sia costituita. Ciò è tanto più spiacevole in quanto la dottrina abelardiana dell'amore è un'esaltazione dell'amore disinteressato, senza riserve e, per la mia conoscenza, senza analoghi in quell'epoca. I due maestri a cui si ispira, su questo punto, sono Cicerone ed Eloisa. Egli stesso ci rimanda a Cicerone. Cita, all'inizio della sua Introducilo ad theologiam, I, P.L., 178, 982, la definizione dell'amicizia che si trova nel De inventione rhetorica, il, 55. Ma è tornato sul problema in un altro testo, il più importante di tutti, dove non è possibile non pensare che appaia un influsso più che ciceroniano. Il testo si trova nella sua Expositio in Epistolam Pauli ad Romanos, III P.L., 178, 891 A-893 C. Riassumiamo anzitutto il testo, vedremo poi perché non è assurdo pensare che su questo punto possa essersi esercitato l'influsso di Eloisa. Il punto di partenza della sua riflessione è un testo di san Paolo che deve aver esercitato un'attrazione molto forte sui sostenitori dell'amore puro: " Non quaerit quae sua sunt, omnia suffert, omnia credit, omnia sperai, omnia sustinet " ( 1 Cor 13,5-7 ). Forse il testo non è perfetto: vi si parla anche della speranza, ma l'inizio offre un eccellente punto di partenza. Abelardo se ne appropria e ne fa scaturire le conseguenze più ardite. Supponiamo con lui che il modello della dilectio sia l'amore di Cristo per l'umanità, dovremmo allora dire: 1. L'amore vero si rivolge unicamente e direttamente alla persona amata ed esclude ogni considerazione di ricompensa per colui che ama ( 891 A.B ); 2. Senza dubbio colui che ama così è certo di una ricompensa, ma non è in vista di questa ricompensa che deve amare, altrimenti sarebbe un amore mercenario, anche se nell'ordine spirituale ( 891 B ); 3. Da ciò risulta che dobbiamo amare Dio per se stesso e assolutamente non per la beatitudine che possiamo sperare da lui. " Nec jam est caritas dicenda si propter nos eum, id est prò nostra utilitate, et prò regni ejus felicitate, quam ab eo speramus, diligeremus potius quam propter ipsum, in nobis videlicet nostrae intentionis finem non in Christo sta-tuentes. Tales profecto homines, fortunae potius dicendi sunt amici quam hominis, et per avaritiam magis quam per gratiam subjecti " ( 891 C ); 4. Andiamo oltre: non bisogna neppure amare Dio perché egli ci ama ( siamo lontani dal De diligendo Deo e dall'Ipse dilexit nos ). Anche se Dio non ci amasse, dovremmo amarlo lo stesso; comunque, se Dio ci ama, non è per questo che dobbiamo amarlo: " Denique si Deum quia me diligit diligam, et non potius quia quidquid mihi faciat, talis ipse est qui super omnia diligendus est, dicitur in me illa Veritatis sententia: Si enim eos diligitis qui vos diligunt, quam mercedem babebitis ( Mt 5,46 ) " ( 892 A ). Dobbiamo amare Dio sia che ci punisca sia che ci ricompensi, poiché la sua punizione non può che essere giusta ( 892 B ); 5. Qui Abelardo si accorge di una obiezione che, d'altra parte, si impone da sola alla mente. Tutto il suo ragionamento è consistito, sino a qui, nel dire che poiché un uomo non ama sinceramente un altro uomo se ne attende una ricompensa, allo stesso modo non ama sinceramente Dio se attende una ricompensa da Dio. I due casi non sono paragonabili, poiché Dio è il bene supremo e la stessa beatitudine. Non può quindi amare Dio senza amare la beatitudine. L'obiezione viene formulata da Abelardo con una forza estrema: " At fortasse dicis, quoniam Deus seipso nos, non alia rè est remuneraturus, et seipsum, quo nihil majus est, ut beatus quoque meminit Augustinus, nobis est daturus " ( 892 C ). In effetti, in un testo importante di cui Abelardo cita un lungo passo, sant'Agostino insegna che non bisogna amare Dio se non per lui stesso, ma con ciò non pensa evidentemente a un amore di Dio che si disinteressi della beatitudine divina. Al contrario, sant'Agostino intende chiaramente con amore " gratuito ", un amore di Dio che non vuole nient'altro che Dio, ma che vuole Dio: " Quid est gratuitum? Ipse propter se, non propter aliud. Si enim laudas Deum ut det tibi aliquid aliud, jam non gratis amas Deum " ( S. Agostino, Enarrafio in Psalmum LUI, 10, P.L., 36, 626 ). Ma Abelardo non ammette che ciò sia amare Dio con amore sincero, bensì amarlo per la beatitudine che ha promesso. Bisogna amare Dio poiché è buono, cioè perfetto, e poiché, qualunque cosa faccia nei nostri confronti o nei confronti degli altri, egli è degno di amore perché ciò che fa è buono: " Ac tunc profecto Deum pure ac sincere propter se diligeremus, si prò se id tantummodo, non prò nostra utilitate, faceremus; nec qualia nobis donat, sed in se qualis ipse sit attenderemus. Si autem eum tan-tum in causa dilectionis poneremus, profecto quidquid ageret vel in nos vel in alios, quoniam non nisi id optime faceret, eum, ut dictum est, aeque diligeremus, quia semper in eo nostrae dilectionis integrae causam inveniremus, qui integre semper et eodem modo bonus in se et amore dignus perseverai " ( P.L., 178, 892-893 ). Cfr. op. cit., P..L., 178, 893 B. Questa è la posizione di Pietro Abelardo; la si può riassumere dicendo che definisce l'amore puro di Dio come l'amore di Dio per la sua perfezione propria sino all'eventuale rinuncia alla beatitudine che ci ha promesso. L'Introductio ad theologian fu condannata nel 1121 al Concilio di Soissons; essa contiene in nuce, con riferimento a Cicerone, la dottrina dell'amore puro; siamo quindi sicuri che questa dottrina è anteriore in Abelardo a quella di san Bernardo, la cui più antica espressione risale al 1125 circa. Si giungerebbe quindi alla strana conclusione che il dialettico ha fornito al mistico la propria concezione dell'amore. Ci affrettiamo a dire che questa sarebbe un'illusione assolutamente ingiustificata, perché, in primo luogo, il pensiero di Abelardo su questo punto ha trovato la sua espressione completa solo verso il 1136, nel suo Commento alla Lettera ai Romani e, soprattutto, la sua posizione è più la negazione di quella di san Bernardo che non la sua origine. Abelardo fornisce una definizione dialettica dell'amore; san Bernardo parla dell'amore puro come di uno stato eccezionale che non è mai completamente accessibile in questa vita. Inoltre Abelardo, proprio perché si mantiene sul piano della conoscenza razionale, definisce l'amore puro come un amore motivato dalla sola perfezione divina e che rimarrebbe intatto anche se non dovesse essere ricompensato. Abbiamo visto che san Bernardo non accetterebbe mai una simile ipotesi, la quale assomiglia di più a quella di Madame Guyon che alla sua. Nella mistica cistercense, a partire da quando l'amore è puro, la fiducia si stabilisce nell'anima e non si può più neppure parlare di non essere ricompensati. Gli esercizi dialettici di Abelardo, che accetta nell'amore puro l'eventuale severità di un Dio giusto, sarebbero, agli occhi di san Bernardo, la prova irrefutabile del fatto che egli non ha ancora raggiunto l'amore puro. Quindi proprio qui siamo in presenza di una dottrina specificamente diversa da quella di san Bernardo. Abelardo considera come sincero solo un amore che rinuncia a se stesso, che si sacrifica, in breve, un amore che accetta di non essere una beatitudine. Chi può aver suggerito ad Abelardo un simile ideale? Anzitutto dobbiamo pensare a lui stesso, se non al suo cuore, almeno alla sua intelligenza di dialettico. Infatti parla evidentemente di questo con un puro linguaggio teorico. Abelardo ha certamente svolto un brillante esercizio dialettico sulla nozione di amore puro, senza preoccuparsi delle realtà dell'esperienza mistica, che gli erano estranee, né delle condizioni teologiche del problema, che affrontava come un apprendista teologo. Per questo giunge a una dottrina nella quale sembra trionfare il più assoluto degli amori divini, ma che qualunque teologo può sgonfiare con la punta di uno spillo: " Quid autem est absurdius uniri Deo amore et non beatitudine? " ( Guglielmo di Saint-Thierry, De contemplando Deo, VIII, 16, P.L., 184, 375 D ). Sembra tuttavia difficile pensare che qui sia in causa solo la dialettica, poiché non è sufficiente a spiegare come Abelardo sia arrivato a concepire questo ideale di un amore che accetta di sacrificarsi al proprio oggetto. La dialettica rende conto del modo d'esecuzione dell'operazione, ma non spiega perché il nostro dialettico abbia pensato di tentarla. Evidentemente il suo errore dipende dal fatto che egli ragiona come se l'amore puro dell'uomo per Dio potesse descriversi come l'amore puro di un essere umano per un altro essere umano. È quando si tratta dell'uomo che l'amore sincero deve considerare il caso in cui potrebbe essere privato della gioia che può donargli il suo oggetto. Si potrebbe mostrare, se questo fosse il luogo opportuno, che i ragionamenti teologici di Abelardo sono falsati dalla costante dimenticanza del principio, che l'amore di Dio è un caso unico, perché Dio è un caso unico. Chi può avergli ispirato questo ideale di un amore umano che si consegna al proprio oggetto senza preoccuparsi di sapere se ne riceverà un castigo o una ricompensa, che accetta ogni trattamento che gli verrà dal proprio oggetto perché così vuole l'essenza di un amore disinteressato? Quando la domanda viene posta in questo modo, la risposta non può essere dubbia. È Eloisa. La descrizione dell'amore disinteressato che ci propone Abelardo, divenuto teologo, è la stessa che Eloisa gli aveva amaramente rimproverato di non aver mai compreso quando pretendeva di amarla. La dottrina abelardiana dell'amore divino si riduce a questo: non bisogna amare Dio come Abelardo amava Eloisa, ma come Eloisa amava Abelardo. Abelardo ci dice, infatti, che non bisogna amare Dio per un'altra cosa che non sia Dio, neppure per la felicità di possederlo. Traduciamo: io non ho mai amato Eloisa, ciò che amavo in lei era la mia voluttà personale. Se Abelardo avesse conservato il minimo dubbio a questo proposito, Eloisa non gli avrebbe permesso di confidare in una simile illusione: " Concupiscentia tè mihi potius quam amicitia sociavit, libidinis ardor potius quam amor. Ubi igitur quod desiderabas cessavit, quidquid prop-ter hoc exhibebas pariter evanuit " ( Epistola il, P.L., 178, 186 B ). È proprio il contrario dell'amore vero, quello di cui Eloisa stessa, se vi crediamo, sarebbe l'immagine perfetta: " Dum tecum carnali fruerer voluptate, utrum id amore, vel libidine agerem, incertum pluribus habebatur. Nunc autem finis indicat quo id inchoaverim principio " ( Epistola II, P.L.,178,187 A ). Come ogni essere umano, soprattutto in simili circostanze, Eloisa si illude un po, ma non si può negare che le sue parole contengano una gran parte di verità. È in gioco l'intera storia del suo amore per Abelardo e l'Historia calamitatum, scritta da Abelardo, depone implacabilmente contro di lei. Egli stesso ci ha riferito alcuni motivi ( plerisque tacitis, osserverà Eloisa, 185 A ) per i quali ella aveva un tempo rifiutato di sposarlo. Non è questo il luogo per tentare un'analisi che ne mostrerebbe, del resto con molta facilità, il carattere composito, ma è evidente che il principale motivo di Eloisa era, a quel tempo, di non rovinare il carattere e il genio di un uomo come lui, compromettendolo per sempre in ciò che per lui non era stata che un'avventura. Un uomo come lui non appartiene a una donna, appartiene al mondo intero ( 130 B ); se avesse sposato Eloisa, il suo genio filosofico si sarebbe perso, insabbiato nella monotonia quotidiana della vita domestica ( 131 A ); trasponendo con straordinaria audacia le osservazioni di Cicerone sull'amicizia, ella fa dei suoi principi un'applicazione che lo avrebbe certamente stupito. Cicerone insegnava, nel De amicitia, che il legame dell'amicizia supera in dignità i legami di parentela ( op. cit., V ); Eloisa dichiara che l'amicizia, intesa in un senso sul quale non ci si può sbagliare, supera il legame coniugale in quanto è libera da ogni legame che non sia se stessa: " mihique hone-stius amicam dici quam uxorem, ut me ei sola gratia conservaret, non vis aliqua vinculi nuptialis constringeret " ( op. cit., 132 C ). A questi motivi, che Abelardo riferisce e che Eloisa non ha mai smentito, ne aggiungiamo alcuni di quelli che ella stessa ha tenuto a farci conoscere; due, almeno, meritano di essere riferiti: anzitutto, il rifiuto del matrimonio che Abelardo le offriva era la prova che ciò che ella aveva cercato sino ad allora non era la propria voluttà, ma quella di Abelardo. Una simile affermazione ci porta oltre; su ordine di Abelardo, senza un moto di ribellione, ella ha cambiato l'ordine dei propri pensieri e della propria vita, entrando in religione per mostrare a tutti chi era il maestro assoluto del suo cuore e del suo corpo: " Cum ad tuam statim jussionem tam habitum ipsa quam animum immutarem, ut tè tam corporis mei quam animi unicum possessorem ostenderem. Nihil unquam ( Deus scit ) in tè nisi tè requisivi; tè pure, non tua concupiscens. Non matrimonii federa, non dotes aliquas expectavi, non denique meas voluptates aut volunta-tes, sed tuas (sicut nosti) adimplere studui " ( 184 D ). Un amore, quindi, che è un amore puro, perché rinuncia anche alle gioie che normalmente comporta il possesso del proprio oggetto. La seconda osservazione di Eloisa conferma la precedente ed elimina ogni esitazione sul senso che le si deve attribuire. L'amore, così come ella lo concepisce, non rinuncia solamente alle gioie che potrebbero accompagnarlo, ma aspira alla umiliazione, al disprezzo, a condizione che questo sia per il più grande onore dell'oggetto amato: " Et si uxoris nomen sanctius ac validius videtur, dulcius mihi semper exstitit amicae vocabu-lum; aut, si non indigneris, concubinae vel scorti. Ut quo me videlicet prò tè amplius humilia'rem, ampliorem apud tè consequerer gratiam, et sic etiam excellentiae tuae gloriam minus laederem " ( 184 D-185 A ). Confrontiamo ora questo atteggiamento, così raro nel medio evo al di fuori dei romanzi, con la dottrina veramente unica di Abelardo; sembra difficile non vedere che la seconda non è che una trasposizione in termini astratti del primo. Nei due casi - e questi due casi, pressoché unici, sono uniti dai legami che conosciamo - siamo in presenza di una concezione dell'amore che considera come puro unicamente quello che, non solo rinuncia alla gioia data dal possesso del proprio oggetto, ma accetta odi umiliarsi e di dissolversi per assicurare la gioia e l'onore di colui che ama. Concezione dell'amore umano tale che non ve ne sarebbero di più grandi se Eloisa, che conosceva così bene Cicerone, non avesse dimenticato quest'altro precetto del moralista pagano: " in iis perniciosus est error, qui existimant, libidinum peccatorumque omnium patere in amicitia licentiam; virtutum amicitia adjutrix a natura data est, non vitiorum comes " ( De amicitia, XXII ). Ma concezione dell'amore umano che, anche così rettificata dalla sapienza antica in mancanza della Sapienza cristiana, perde tutto il proprio significato se la si vuol trasformare in una dottrina dell'amore divino. Nella prima infatti, la purezza dell'amore è la condizione necessaria, e sufficiente, della beatificante glorificazione dell'amante. Trasposizione ardita, ma fatale all'uno e all'altro amore. Eloisa riporta qui su Abelardo il trionfo più completo, ma il più increscioso di tutti quelli che avrebbe mai potuto desiderare. Alla fine riesce a fargli capire qualcosa. Volete amare Dio? Egli ci dice: non amatelo come io amavo Eloisa, ma come Eloisa ha amato me. Riassumiamo le conclusioni che emergono da questi fatti. Abelardo è l'autore di canti d'amore, oggi perduti, in cui celebrava il proprio amore per Eloisa. Il loro successo fu considerevole e, verso il 1130, venivano cantati ancora un po' ovunque. Alcune di quelle composizioni sembrano essere state dei poemi, in distici latini alla maniera di Ovidio, destinati a essere recitati ( amatorio metro … tam dictaminis … ); altri erano canti propriamente detti, sia in ritmo latino, sia in rima francese, ma più probabilmente in latino ( vel rythmo composita … quam cantus saepius frequentata; cfr. Epistola II, P.L., 178, 185 D ). Inoltre Abelardo ha elaborato, cominciando prima del 1121, una dottrina dell'amore puro in cui si riconoscevano gli influssi di Cicerone e di Eloisa. Questa dottrina non deve nulla alla mistica cistercense, poiché le è anteriore; ma la mistica cistercense non le deve niente di più, poiché ne contraddirà le conclusioni. Tuttavia le due dottrine, malgrado le loro differenze e persino la loro fondamentale opposizione, hanno in comune lo sfondo umanistico sul quale entrambe si delineano: dietro all'una e all'altra si avverte la presenza del De amicitia di Cicerone. Infine, anche considerando il dodicesimo secolo solo dal punto di vista dell'anno 1125, si può dire che ci offre, fin dal suo inizio, una fioritura di dottrine dell'amore assai originali le quali sembrano germogliare quasi simultaneamente in ambienti diversi. Il loro ordine di apparizione sarebbe all'incirca il seguente: 1. Abelardo neWInfroductio ad theologiam, poco prima del 1121, e più tardi nel Commento alla Lettera ai Romani, tra il 1136 e il 1140; 2. Guglielmo di Saint-Thierry, ancora benedettino, che sembra aver composto il De contemplando Deo e il De natura et dignitate amorìs tra il 1118 e il 1135. Arriviamo quindi, verso questa data, agli inizi della mistica benedettina del XII secolo che, nel caso di Guglielmo, si fonde presto con la mistica cistercense propriamente detta; 3. San Bernardo si unirebbe a questo gruppo all'incirca nello stesso periodo, forse con uno o due anni di ritardo, ma con un'originalità così straordinaria che è impossibile non considerarlo come punto di partenza indipendente dai precedenti. Collocando il De gradibus humilitatis attorno al 1125 al più tardi, e il De diligendo Deo nel 1127 o un po' più tardi, date generalmente accettate, arriviamo alla conclusione che tre grandi dottrine dell'amore sono apparse quasi simultaneamente all'inizio del XII secolo e che sono praticamente indipendenti le une dalle altre, almeno nella loro ispirazione fondamentale. In ogni caso, se ci dovesse essere un legame di dipendenza tra Abelardo e san Bernardo, poiché la dottrina di Abelardo non appare completamente formata se non dopo il 1136, bisognerebbe ammettere che è Abelardo che ha voluto accusare di egoismo la dottrina dell'amore esposta da san Bernardo a partire dal 1125-1127. È abbastanza curioso che san Bernardo non gli abbia mai risposto; forse ha pensato che l'esposizione della propria dottrina fosse sufficiente a contrastare quella di Abelardo. Appendice III - Berengario lo scolastico Tra i personaggi che popolano lo sfondo di questa scena, bisogna assegnare un posto a un oscuro polemista la cui opera non ha in sé alcuna importanza, ma che ci informa sul vero carattere di alcune opposizioni sorte in quell'epoca contro san Bernardo. Si chiamava Pietro Berengario, di Poitiers, o Pietro Berengario lo Scolastico. La notizia dell'Histoire littéraire de la France che lo riguarda ( t. XII, p. 251 ) è riportata nel Migne ( P.L., 178, 1854-1856 ). Berengario è conosciuto soprattutto per il suo Apologeticus, uno scritto rivolto contro san Bernardo dopo la condanna di Abelardo al Concilio di Sens nel 1140. Il testo di questo libello si trova in Migne ( P.L., 178, 1857-1870 ). Scritto sotto la spinta della collera provata all'annuncio di quella condanna, i'Apologeticus deve essere di poco posteriore all'avvenimento che ne fu l'occasione. Il pamphlet di Berengario non presenta alcun interesse filosofico, ma è ricco di notizie storiche sullo stato d'animo che regnava nell'ambiente di Abelardo. L'Apologeticus è rivolto allo stesso san Bernardo: il tono è violento, appassionato, offensivo da un capo all'altro e talvolta di una estrema grossolanità. Per comprenderlo e scusarlo, bisogna prendere questo scritto per quello che è: l'espressione del dolore provato dai discepoli di Abelardo in occasione delle persecuzioni dirette contro il maestro che amavano teneramente. Abelardo era amato dai suoi allievi; san Bernardo era responsabile della sua condanna; bisognava quindi prendersela con lui. Aggiungiamo che l'opposizione tra questi due uomini era prima di tutto quella tra due modi di pensare e di sentire. Diciamo infine, e questa volta decisamente per giustificare Berengario, che il loro risentimento può essere in certo modo giustificato. Egli insiste su questo punto: anche se Abelardo si fosse sbagliato, cosa che egli non nega, non avrebbe dovuto essere trattato con quella durezza. Questo può essere vero. Ad ogni modo i suoi discepoli non potevano pensare diversamente, e se questo non giustifica l'ingiusta violenza di Berengario contro san Bernardo, fa comprendere meglio i motivi che l'hanno provocata. Il passo più interessante dell'opera, per quanto ci riguarda, è quello che si riferisce ai sermoni di san Bernardo sul Cantico dei Cantici. Si poteva sperare di trovarvi una discussione della dottrina dell'amore, dove i due punti di vista avrebbero potuto essere confrontati e contrapposti. Nulla di tutto ciò. L'opera è incompleta della sua seconda parte, che forse non è mai stata scritta e che avrebbe potuto contenere la discussione dogmatica di questo problema. La critica di Berengario è infatti puramente esterna: è quella di un umanista, di un professore di lettere, che corregge una composizione fatta male. Vediamo quali sono le principali osservazioni critiche. 1. Perché commentare il Cantico essendo già stato commentato molte volte? Nulla di più opportuno se Bernardo avesse dovuto svelarci dei misteri a lui rivelati e sfuggiti ai suoi predecessori, ma non aveva nulla di nuovo da dire. Si è limitato a celare sotto nuove formule ciò che quattro dei suoi predecessori avevano detto prima di lui nei loro commentari: " Supervacua igitur explanatio tua esse videtur. Ac ne quis me putet improbabilia prolocuturum, proferam super hunc librum quadrigam expositorum, Origenem scilicet Graecum, Ambrosium Mediolanensem, Rètium Augustodunensem, Bedam Angligenam " ( P.L., 178, 1863 C ). 2. Si potrebbe ancora comprendere questo tentativo, se si trattasse di un vero commentario, ma sembra piuttosto che Bernardo abbia voluto scrivere una tragedia. Dopo aver iniziato la spiegazione del testo, si ferma e consacra " duos pene quadernos " all'orazione funebre di suo fratello. Ci si domanderà quale importanza ciò possa avere per il nostro critico: questo è in realtà il centro del problema! La colpa imperdonabile che san Bernardo ha commesso è la confusione dei generi. Non richiamo. Nulla di più misero, ma nulla di più istruttivo di una simile obiezione, soprattutto in quell'epoca e sostenuta con tale serietà. Nel XII secolo c'erano quindi persone così appassionate di retorica, così prese dalla Lettera ai Pisone da non porsi altri interrogativi di fronte alla mistica di san Bernardo oltre a questo: i suoi sermoni sono composti secondo le regole? Infatti l'obiezione si può ricondurre a questa: il Cantico è un canto nuziale, un viene allora in soccorso: " Humano capiti cervicem pictor equinam juncanto di gioia, non vi si deve mescolare un'orazione funebre: Tu vero terminos transgrediens, quos posuerunt patres tui. Cantica in elegos, carmina in threnos sorte miserabili convertisti " ( Op. cit., 1864 C ). Orazio viene allora in soccorso: " Humano capiti cervicem pictor equinam jungere si velit … ". Ecco il punto importante: " non recte lamenta epithalamio conjugasti " ( 1865 B ). Berengario d'altra parte scopre giustamente nel testo di Bernardo un ricordo letterario di sant'Ambrogio, De excessu Satyri, che non stupirà nessuno di coloro che sanno fino a che punto egli fosse penetrato dalla letteratura profana e sacra e come ne usasse liberamente ( 1865 C ); 3. A queste obiezioni sulla forma si può aggiungere solo un'obiezione dottrinale sul problema dell'anima e un'altra, che rivela meglio lo stato d'animo degli abelardiani, sull'inizio del De diligendo Deo. Si ricorda la formula usata da Bernardo: il modus dell'amore di Dio è di amarlo sine modo. Si comprende senza fatica il suo significato, a condizione di non essere un dialettico. Dio è tale che noi non possiamo amarlo nella misura che a lui conviene, ma, obietta il nostro dialettico: " quomodo sine modo diligemus, quem cum modo diligere non valemus " ( 1867 A ). In breve, come amare al di là di ogni misura colui che non possiamo amare neppure nella misura conveniente? Bernardo è caduto nella retorica e ci pone di fronte a un impossibile. L'accanimento di Berengario su questi particolari, lo ripetiamo, è spiegabile. Vuole mostrare che Bernardo ha visto la pagliuzza nell'occhio di Abelardo, ma non la trave nel proprio. San Bernardo può sbagliare come gli altri; dovrebbe quindi moderarsi. La tesi sarebbe stata sufficiente senza quel torrente di ingiurie. L'intervento di Berengario è interessante almeno perché ci mostra che, dietro l'umanesimo morale e letterario di san Bernardo, ve ne era un altro, puramente letterario, quello dei pedagoghi delle lettere, nei quali tutto l'equipaggiamento intellettuale sembra ridarsi a una certa conoscenza degli autori antichi e a una conoscenza superficiale della dialettica. Questi uomini sono ben al di sotto di Abelardo e lo sono ancora di più rispetto a san Bernardo; rappresentano la caricatura del vero umanesimo del XII secolo e, a questo titolo, fanno parte del quadro. Le scuole sarebbero dei luoghi deliziosi se vi si trovassero solo maestri; vi si incontrano invece anche i sorveglianti. Appendice IV - San Bernardo e l'amore cortese È difficile studiare san Bernardo senza porsi almeno alcuni dei numerosi problemi relativi al suo influsso letterario. Qui se ne considererà uno solo: la sua mistica ha influito sull'amore cortese? Dal punto di vista cronologico i due movimenti sono quasi contemporanei. Friedrich Diez fa risalire l'inizio dell'arte dei trovatori attorno al 1090 e Joseph Anglade ritiene che il suo periodo più fiorente si collochi verso la fine del XII secolo. Si può quindi ammettere che l'opera di san Bernardo si collochi all'inizio del suo periodo più brillante, ma un po' dopo gli inizi. Quanto alla poesia dei trovieri, essa offre all'amore cortese la propria espressione definitiva solo nella seconda metà del XII secolo e nel corso del XIII. Non si può quindi ammettere che san Bernardo abbia contribuito alla nascita della poesia cortese, ma può averne influenzato lo sviluppo. Il problema che si pone è quindi semplicemente di sapere se questa possibilità si è di fatto realizzata. Non abbiamo la competenza richiesta per trattare un simile argomento ex professo; ci manca soprattutto una conoscenza approfondita della letteratura cortese. Nelle pagine che seguono si troveranno quindi solo le osservazioni di un lettore, cui è familiare l'opera di san Bernardo, che reagisce al contatto con i poeti cortesi che ha avuto occasione di leggere. Gli specialisti avranno forse ragione di contestare queste osservazioni in nome di altri testimoni che l'autore di queste osservazioni non ha preso in considerazione. Forse non è vietato all'indoctus che si avventura su questo terreno scivoloso prendere, sin dall'inizio, qualche precauzione difensiva. Le discussioni relative all'amore cortese sono talvolta condotte con i metodi più discutibili. Si direbbe che, dai primi trovatori a Dante, gli autori e i testi siano intercambiabili. In realtà non lo sono. Dante, che sceglierà san Bernardo come la guida suprema verso l'estasi, è evidentemente sotto l'influsso della sua dottrina. Nulla di meglio che dimostrarlo, ma il fatto che la sua arte sia la massima espressione di quella dei trovatori non autorizza a sostenere che le sue idee siano lo sviluppo delle loro idee. Risalire dai suoi testi ai loro, supporre che, poiché egli li prolunga poeticamente, li prolunghi anche dottrinalmente, è una petitio principii assolutamente non giustificata. Quindi lascerei Dante completamente al di fuori della discussione per limitarmi ai trovatori e ai trovieri propriamente detti. Accetterei invece la testimonianza di Andrea il Cappellano perché, se questo teorico ha inserito nel proprio trattato molti più scolastici e mistici che poeti, è tuttavia la loro concezione dell'amore che desidera codificare. Un secondo equivoco, ormai quasi inevitabile, deve essere riconosciuto come tale. Quando si parla di mistica cistercense, si sa di cosa si parla: in san Bernardo vi è una sola dottrina dell'amore, quella dell'amore divino. Ma cos'è l' " amore cortese "? In senso stretto è l'amore come è stato concepito nelle corti, così come la filosofia scolastica è quella che è stata elaborata nelle scuole. Questa concezione dell'amore è lontana dall'essere unica; varia da poeta a poeta e, secondo gli umori, nello stesso poeta. In linea di principio, tutto quanto questi poeti hanno scritto per le corti dovrebbe entrare nella definizione dell'amore cortese; di fatto, gli storici operano delle scelte, eliminando le grossolanità troppo pesanti di alcuni poeti o di certe opere e costruiscono così, selezionando, il tipo ideale di una cortesia cavalleresca i cui elementi sono riferiti alla realtà storica, ma che, nei loro libri, si presentano in modo ben diverso rispetto alla storia. Il metodo è pericoloso perché rischia di falsare il senso degli elementi che prende in considerazione, separandoli dal resto. Ciò appare chiaramente dagli argomenti che gli storici si oppongono. Uno prova il " disinteresse " dei trovatori; l'altro cita all'opposto un trovatore i cui appetiti sono di natura molto materiale; la risposta sarà che questo trovatore non è un testimone dell'amore cortese. Nell'opera di un poeta che passa per aver cantato l'amore cortese, se si citano testi di estremo realismo, saranno rifiutati nello stesso modo: in quel momento il poeta non cantava l'amore cortese. E se è nella stessa opera? Cambiamento d'umore, si dirà; la dottrina ideale resta salva. Lo rimarrà sempre, grazie a questi procedimenti. È vero, ma così la si riduce allo stato di astrazione. La verità è che bisognerebbe procedere con monografie sulle scuole e anche sui poeti, individuare le idee di ognuno di essi e riproporre una definizione dell'amore cortese al termine di questa ricerca, invece di porla, già elaborata, all'inizio e di scegliere nella storia i testi che la giustificano. Non siamo ancora arrivati a queste ricerche; nell'attesa si può almeno non impedirsi di chiarire i testi in base a tutti i contesti; il guadagno sarà almeno quello di non considerare come effusioni di asceti, quelle di un bontempone come Thibaut de Champagne, la cui obesità sarebbe stata il principale ostacolo che avrebbe dovuto superare per elevarsi all'amore perfetto. I. La mistica cistercense e l'amore cortese: l'ipotesi della filiazione 1. Oggetto dell'amore Non si può esitare sull'oggetto e la natura dell'amore mistico così come è concepito da san Bernardo: è un amore spirituale, in opposizione a ogni amore carnale. La sua dottrina è, su questo punto, di una tale intransigenza da non consentire alcun dubbio. In un certo senso costituisce tutta la sua dottrina: l'amore carnale è qualcosa che deve essere estirpato là dove nasce, dalla concupiscenza, e che, anche nell'ordine spirituale, deve essere superato. Esiste su questo punto una illusione abbastanza diffusa che attribuisce ai trovatori e ai trovieri un atteggiamento dello stesso tipo. Ciò ha suggerito l'ipotesi di un influsso dell'amore mistico sull'amore cortese. In realtà, per cominciare dal più evidente, l'amore cortese è una concezione " mondana " dell'amore. Si rivolge alle creature e, se fosse veramente una divinizzazione della donna, apparirebbe agli occhi di un cistercense una caricatura dell'amore divino, la più orribile deformazione dell'amore sacro, in breve, un sacrilegio. Thibaut de Champagne sarebbe arrivato sin qui, se si dovessero prendere alla lettera alcune sue espressioni: Si me vaudroit melz un ris De vous qu'autre paradis ( Wallenskold, p. 71, 53-54 ). Penso che Bernardo non avrebbe tollerato tali scherzi; anche tenendo conto della licenza poetica, ci troviamo qui chiaramente agli antipodi dell'amore cistercense. Questa divinizzazione della donna rivela forse un influsso contrario, una sorta di inversione dell'amore mistico che tornerebbe dal Creatore alla creatura? Potrebbe essere, ma quali differenze nel modo in cui i cistercensi e i poeti cortesi amano l'oggetto dei loro desideri! Talvolta si immagina l'amore cortese come un amore puramente spirituale e, nel senso comune del termine, platonico. Se la cosa potesse essere dimostrata, sarebbe di estrema importanza. Saremmo allora in diritto di supporre che nel contatto con l'amore mistico, questi poeti arriverebbero ad amare nella donna solo la sua anima, cioè la sua intelligenza e la sua virtù; che, se hanno celebrato la sua bellezza, lo hanno fatto nel modo in cui Platone voleva che essa fosse amata: come simbolo e segno di una bellezza puramente intelligibile, morale, spirituale. A dire il vero, questa rappresentazione popolare dell'amore cortese non è mai stata accettata senza riserve da coloro che ne hanno studiato l'espressione nei testi; e poiché ha difficoltà a imporsi, bisogna dire chiaramente che nulla la giustifica. È un punto spiacevole sul quale mi scuso di dover insistere. Nel capitolo IV del suo libro su Les Troubadours, in cui studia La doctrine de l'amour courtois, Joseph Anglade ci mostra dei poeti estremamente discreti: " Non è che fossero molto esigenti in amore; si accontentavano di poco, almeno così affermano. La maggior parte chiede alla propria dama di accettarlo come servitore, niente di più, di accettare i suoi omaggi poetici " ( p. 82 ). Forse era così quando la dama era assolutamente inaccessibile a causa del proprio rango o di altre circostanze, ma il poeta cortese, come il poeta di ogni epoca, si accontenta di questo solo in mancanza di meglio. Ama senza ricompensa finché non può fare diversamente. Il ciclo dei sentimenti che provano questi innamorati è quello di tutti i poeti. La dama è virtuosa, ha quindi ragione di farsi desiderare; ma se fa attendere troppo a lungo il cuore che l'ama, ella diviene crudele, incapace di provare il sentimento dell'amore; allora cede; per qualche tempo viene circondata da un'infinita riconoscenza che si esprime in lodi nelle quali il lirismo non conosce alcun limite; ma perde tutte le proprie virtù il giorno in cui il poeta, disincantato, si accorge che ella concede, senza scrupoli, a " cento altri " ciò che gli ha fatto attendere per così lungo tempo come se fosse stato il favore più raro. In tutto ciò non vi è nulla che non sia semplicemente umano e supponga il minimo sforzo verso una spiritualizzazione dell'oggetto amato. La dama è un essere reale, di carne ed ossa, e il massimo che si possa dire in favore dei poeti cortesi, a questo riguardo, è che essi non hanno ignorato l'arte, così utile ai comuni mortali, di fare di necessità virtù. Se è necessario arrivare alle ultime precisazioni in una materia così delicata, ricorderei anzitutto la grossolanità di questi poemi. Parlando di Marcabrun, Anglade scrive che nella sua opera vi sono satire contro l'amore " di una crudezza intraducibile " ( p. 103 ). Notiamo, di passaggio e prima di ritornarvi, che nei cistercensi non si troveranno mai satire contro l'amore divino; e, quanto alla crudezza, essa non ha mai smesso di farsi posto in questo genere di poesia. Contemporanea al Conte di Poitiers, essa persiste sino nel pieno del XIII secolo. Il trovatore Jausbert de Puycibot si esprime in termini tali che il suo traduttore è obbligato, in più punti, a far ricorso ad artifici. Ma il testo in sé non è molto chiaro. Molti trovieri seguono, su questo aspetto, questi trovatori. Tra le opere di Thibaut de Champagne vi sono alcuni versi che non sapremmo né citare, né tradurre ( ed. Wallenskóld, p. 149, v. 23-28 ), ma se si vuole conoscere cosa pensa, in alcuni momenti, della cortesia e del suo valore, si meditino questi versi: Baudoyn, assez trueve l'en / Vieilles plus laides que nuns chiens / Qui on cortoisie et gran sen, / Mais au touchier ne valent riens ( p. 125, 33-36 ). Qui è Thibaut stesso che parla; si vede quindi che quando deve scegliere tra la cortesia e le realtà palpabili dell'amore, non esita un istante. Notiamo, di passaggio, l'influsso delle idee ricevute sulla paleografia. Di fronte a questo testo Alfred Jeanroy aveva letto freddamente: " Mais au couchier ne valent riens ". Esitando davanti a questo termine che gli sembra " grossolano " e " fuori posto in questo punto ", Axel Gabriel Wallenskold fa osservare che la differenza tra una e e una t è così piccola in un manoscritto che nulla impedisce di preferire la sua lettura. Ne prendiamo atto; ma, pur terminando con queste discussioni paleografiche, si concorderà che, dal punto di vista dell'amore spirituale di san Bernardo, la differenza tra touchier ( toccare ) e couchier ( andare a letto ) non è molto più considerevole di quella tra una e e una t per gli occhi esperti del paleografo. Come la paleografia, anche la morale ha le proprie sottigliezze, ma non bisogna vederle dove non ve ne sono. Chiudiamo il capitolo delle grossolanità; esse non offrirebbero alcun interesse se non aiutassero a precisare alcuni testi che gli storici della letteratura sembrano aver letto dimenticando alcuni tratti permanenti della natura umana, e questo a loro onore, ma nondimeno indica una di quelle piccole deformazioni professionali alle quali siamo tutti esposti. È difficile credere che i molti passi nei quali i poeti cortesi dichiarano che la vista della loro dama o, al massimo, un bacio basta loro, non debbano essere spesso letti secondo la regola medievale: minus dicens et plus volens intelligi. Il carattere " disinteressato " dell'amore cortese è stato molto esagerato. Sicuramente l'amore non " guerredonne " ( ricompensa ) sempre, ma Thibaut preferirebbe che ricompensasse più spesso: S'amor vosist guerredoner autant / Come elle puet, mult fust ses nons a droit, / Mès el ne veut, dont j'ai le cuer dolent ( 92; 16-18 ). Naie paine, qui guerredon atent; / C'est aese, qui bien le set entendre ( 46; 17-18 ). Come lo interpreteremo? Ci vuole molta buona volontà per lasciarsi ingannare: S'a ce je puis venir / Qu'aie, sans repentir, / Ma joie et mon plesir / De li, qu'ai tant amee, / Lors diront, sanz mentir, / Qu'avrai tout mon desir / Et ma queste achevee ( 50; 38-44 ). Desideriamo altre precisazioni? La mitologia e la leggenda medievale vengono in nostro aiuto: Pleiist a Dieu, pour ma dolor garir, Qu'el fu Tisbé, car je sui Piramus; Mès je voi bien ce ne puet avenir; / Ensi morrai que ja n'en avrai plus ( 69; 11-14 ). Douce dame, s'il vos plesoit un soir M'avriez vos plus de joie doné C'onques Tristans, qui en fist son pouoir N'en pust avoir nul jor de son aé ( 80; 32-35 ). A meno di rivedere seriamente le nostre idee sull'amore di Isotta e Tristano, non possiamo avere dubbi sulla natura autentica dei sentimenti dai quali Thibaut è animato. In altre occasioni si spiega così chiaramente che non potrebbe esistere alcuna esitazione: Par maintes foiz l'ai sentie / En dormant tout a loisir, / Mès quant pechiez et envie / M'esveilloit et que tenir / La cuidoie a mon plesir / Et eie n'i estoit mie, / Lors ploroie durement / Et melz vousisse en dormant 7 Li tenir toute ma vie ( 118; 28-36 ). Le invocazioni a Dio, quando ve ne sono, non hanno affatto lo scopo di attirarsi le " visite " del Verbo, ma qualcosa di più prosaico e dal quale Bernardo non sarebbe certamente stato edificato: Mais je l'aim plus que nule riens vivant, Si me doint Deus son gent cors embracier ( 10; 19-20 ). La situazione è chiara: per una poesia di questo genere Bernardo avrebbe provato solo orrore. Il culto della sensualità, l'apoteosi della cupidigia, è esattamente ciò contro cui egli ha condotto una lotta spietata e non è nella poesia cortese che si può cercare la testimonianza del suo successo. 2. Natura dell'amore Resta tuttavia da domandarsi se la concezione cortese dell'amore, sebbene orientata in senso inverso alla concezione cistercense, non si sia modellata su di essa, almeno in alcuni punti. Una parodia è una imitazione e attesta il successo dell'originale. L'amore cortese attesta in questo modo il successo della mistica cistercense? Per rispondere a una domanda di questo genere, bisogna innanzitutto diffidare delle similitudini apparenti e arrivare al grado di precisione voluto. Eugène Anitchkof, nel suo volume su Gioachino da Fiore ( Roma, 1931 ), non esita a parlare della " filiazione di idee e di sentimenti che lega l'amore mistico di san Bernardo all'amore cortese " ( p. 105 ). È una formula molto ardita, se non accompagnata da solide prove. Ricordare, con san Bernardo, che in un essere nato dalla concupiscenza l'amore è inizialmente carnale, non dimostra nulla, poiché l'amore cortese è l'espressione poetica della concupiscenza, mentre è proprio ciò che san Bernardo si propone di eliminare. Significa quindi dimostrare una filiazione con una opposizione fondamentale. Quanto a ciò che Anitchkof considera come l'essenziale: il fatto che nelle due dottrine l'amore abbia dei gradi, difficilmente sembra più probante. Giraut de Calanson ha ammesso che l'amore ha tre gradi e, ci viene detto, nessuno vi presta attenzione; che scandalo! Ma prima abbiamo visto che Bernardo ammette che l'amore ha quattro gradi, ecco quindi che cade la prova. Perché se l'accordo su tre gradi avrebbe dimostrato una dipendenza dell'uno dall'altro, il fatto che uno ne indichi tre e l'altro quattro deve dimostrare il contrario. Ma procediamo oltre: pur ammettendo che si intendano sul numero dei gradi, di quali gradi si tratta? In un caso dell'amore sacro, nell'altro dell'amore profano, di cui il primo ne è la negazione radicale. Se almeno i gradi dell'uno corrispondessero a quelli dell'altro! Ma non è così; questi gradi hanno non solo dei significati opposti, non sono neppure gli stessi; in nessun luogo, sino ad ora, è stata ritrovata in un poeta cortese la classificazione dei gradi dell'amore in servo, mercenario, filiale, nuziale; tuttavia bisognerebbe ritrovarla, o almeno ritrovare qualcosa di simile, perché il parallelismo dei gradi potesse sostenere l'ipotesi di una filiazione dottrinale così come abbiamo visto affermare. Anitchkof ha avvertito la difficoltà. All'obiezione che san Bemardo ha parlato esclusivamente dell'amore verso Dio, egli risponde con una magnifica sicurezza: " I trovatori hanno quindi trasformato alcune concezioni teologiche in idee letterarie " ( p. 107 ). La cosa in sé non ha nulla di impossibile, e noi pensiamo anche che la dottrina di san Bernardo sia stata utilizzata da scrittori profani, ma si tratta di sapere se lo è stata anche dai trovatori. Per dimostrarlo bisognerebbe stabilire che la concezione cortese dell'amore è una interpretazione sensuale della concezione mistica dell'amore sviluppata da san Bernardo. Avremo sempre a nostra disposizione tanti sofismi quanti ne vorremo per giustificare una simile tesi, ma essa resterà un sofisma, e per una ragione molto semplice: essendo l'amore mistico la negazione dell'amore carnale, non ci si può servire della descrizione dell'uno per descrivere l'altro; non basta dire che non hanno il medesimo oggetto, bisogna aggiungere che non possono avere la medesima natura proprio perché non hanno il medesimo oggetto. Non si tratta qui di torturare i testi per far dire loro ciò che vogliamo, ma di attenersi ad alcune idee molto semplici che guidano l'interpretazione di questi testi. Ciò che più di ogni altra cosa ha contribuito a mantenere un certo equivoco sul carattere dell'amore cortese, è il fatto che trovieri e trovatori dichiarano che preferiscono amare senza ricompensa e soffrire, piuttosto che liberarsi della propria sofferenza liberandosi del proprio amore. Nulla di più vero; ma questo cosa dimostra? Ascoltiamo ancora Thibaut de Champagne: De touz maus n'est nus plesanz Fors seulement cil d'amer ( 4; 1-2 ). Qui plus aime plus endure, Plus a mestier de confort, Qu'Amors est de tei nature Que son ami maine a mort; Puis en a joie et deport, S'il est de bonne aventure ( 117; 1-5 ). Cosa significano questi lamenti? Che l'amore è un male che vale la pena sopportare, soprattutto se si ha la fortuna di trovare la sua ricompensa; alla fine però è un male. Il più piacevole dei mali, il più benefico di tutti i mali, un male che rende colui che ne soffre superiore a coloro che non ne soffrono, ma ancora un male; è il famoso " mal d'amore " caro ai romanzi sentimentali di ogni epoca. È un male perché se ne soffre e se ne soffre perché non sempre è ricompensato. Quindi, si dirà, dal momento che persiste è disinteressato. Forse, ma all'inizio lo è solo sino a un certo punto. Quando la speranza se ne è completamente andata, Thibaut de Champagne inizia a fare dei progetti per liberarsi da questo male così piacevole: Si je de li me poìsse partir, / Melz me venist qu'estre sires de Frances ( 65; 11-12 ). Non si è mai sentito san Bernardo augurarsi di essere liberato dall'amore di Dio. Questa non è una battuta, ma si tratta del merito del problema, perché in questo caso si vede chiaramente la contraddizione della natura dei due amori. L'amore cortese, diciamo noi, è un male perché può essere non ricompensato. Consideriamo questa espressione nel suo senso più immediato, intendiamo con ciò, anche se in modo puramente spirituale, che può non essere ricambiato ( perché il sentimento può sussistere senza il resto e il resto senza il sentimento ), questo è sufficiente a far sì che l'amore cortese si distingua radicalmente da quello mistico, che si distingua e vi si opponga come l'amore umano all'amore divino. È proprio questa sofferenza che Bernardo non vuole e da cui ci insegna a liberarci. Gli uomini soffrono perché amano senza essere amati; amate quindi Dio e non saprete mai cos'è un amore non ricambiato; perché, non dimentichiamolo, egli ci ha amato per primo: ipse prior dilexit nos! Questo è il vero amore, non il lamento desolato di un'anima che langue nella solitudine, ma la gioia di due volontà che sanno di essere unite nell'intenzione e nel desiderio. Questo amore non è mai deluso e Thibaut lo sa bene, egli che in un momento di abbattimento scriveva: Or me gart Deus et d'amor et d'amer / Fors de Celi, cui on doit aourer, / Ou on ne peut faillir a grant soudee ( 29; 41-43 ). In questi tre versi si ritrovano i principi dell'amore cistercense, ma essi sono anche il rinnegamento dell'amore cortese e l'affermazione della sua costitutiva vanità; se esiste una filiazione della poesia dei trovieri da san Bernardo, essa si riduce a questo: forse egli ha ispirato loro qualche velleità passeggera di rinunciarvi. Procediamo oltre; resteremmo ancora alla superficie del problema, se ci accontentassimo di affermare che l'amore divino comporta sempre la propria " grant soudee ", cioè la propria grande ricompensa. È proprio la natura stessa dell'amore che è in gioco. È concepibile un amore non ricambiato? San Bernardo e tutti i mistici cristiani risponderanno no. L'amore è del genere dell'amicizia e l'amicizia implica per essenza una reciproca benevolenza; non si è amici di qualcuno che non è nostro amico; non si può che desiderare la sua amicizia, e ciò non significa possederla. Lo stesso vale per l'amore. Quello che i poeti cortesi designano con questo nome, agli occhi dei mistici cristiani non è che il desiderio; per trasporre in linguaggio mistico ciò che essi dicono, bisognerebbe esprimersi così: io desidero con un desiderio che non è ricambiato, quindi non solo non sono amato, ma neppure io amo, poiché ogni amore è reciproco per definizione. Si vede quanto è grande il nostro errore quando stabiliamo facili equazioni tra formule che, esteriormente, si assomigliano, ma si contraddicono interiormente. Anche l'aridità del mistico può paragonarsi all'abbandono del poeta cortese. Anche il mistico desidera, ma si rende conto che se soffre per il proprio amore come per una ferita, non è perché non è amato, né perché ama, ma perché non ricambia ancora in modo sufficiente amore con amore. Il problema non è mai, per i cristiani, di farsi amare da un Dio che li ha creati con amore e riscattati col proprio sangue, ma di amarlo essi stessi, così da trovarsi uniti a lui che è la beatitudine: Quidni ametur Amori Questa opposizione fondamentale appare con evidenza in un aspetto che non è stato osservato a sufficienza. L'amore cortese, non essendo mai sicuro di essere ricambiato, è spesso in preda al timore. La paura è una parola che Thibaut de Champagne conosce bene e che usa con cognizione di causa: Et la poors est dedenz moi entree ( 64; 37 ). Segno certo che siamo in un ordine completamente estraneo a quello della mistica cistercense, poiché l'amore non introduce mai il timore, soprattutto quello di non esser ricambiati; lo scaccia, secondo la promessa di san Giovanni che san Bernardo ha così spesso e così a lungo meditato: Caritas mìttit foras timorem. La carità, cioè l'amore vero, non il desiderio di ciò che non è Dio e che è sempre accompagnato dalla paura, perché orientato verso falsi beni, i quali prima o poi ci deluderanno. Per ricondurre all'essenziale questa opposizione fondamentale, si può dire che la parola amore non ha lo stesso significato nei due sistemi. Poiché si confonde con il desiderio, l'amore cortese può illudersi di essere disinteressato poiché ha la forza di durare finché la ricompensa o la stanchezza lo conducono al suo termine. Supponiamo pure, cosa rara se non in poesia, che si fissi su un solo oggetto e duri tutta una vita, sarà sempre e soltanto un desiderio senza speranza o un desiderio rassegnato. Il cristiano non si trova mai in questa situazione. Dio ci ha preceduti; ci ama e vuole il nostro amore solo per la nostra beatitudine; il desiderio è quindi rendergli amore per amore, è amare veramente ed è amare la beatitudine. Amore, come afferma san Bernardo, allo stesso tempo disinteressato e ricompensato. È per questo che il Cistercense può leggere in - tutta tranquillità le canzoni di Thibaut de Champagne; esse gli dimostrano una cosa che sa già: tra il poeta e lui, è lui solo che sa amare; ha scelto la parte migliore. Così l'amore cortese, per conservargli il nome tradizionale, è costretto ad accontentarsi di meno cose, rispetto all'amore mistico; vive e resiste senza raggiungere il proprio fine, mentre la carità è, per definizione, il possesso del proprio oggetto: vacua esse non potest. Rimane un solo punto sul quale si potrebbero avvicinare le due concezioni dell'amore, ed è forse ciò che si vuol dire qualificandole entrambe, anche se con diverosi significati, disinteressate. Anche ricompensato, l'amore cortese si distingue dalla propria ricompensa; non è la gioia che lo corona; cogliendola come un frutto d'amore, non la confonde con l'amore stesso. Allo stesso modo san Bernardo afferma che amare il Padre per l'eredità che se ne attende, per quanto legittimo, è ancora amare l'eredità del Padre, non il Padre. Questo è vero, ma bisogna sempre ritornare ad alcune considerazioni fondamentali. Per il cristiano, in realtà, il problema non si pone. Cosa c'è di più assurdo che essere uniti nell'amore alla Beatitudine e non essere felici? Le si è uniti per il fatto stesso che la si ama. Un discepolo di san Bernardo non può domandarsi se gli è possibile volere la Beatitudine senza voler essere felice. Non può neppure domandarsi se può volerla senza la felicità che dona, poiché essa è la felicità. Il problema può avere un senso in un caso diverso, ma non in questo. Per meglio vederne la differenza, osserviamo ancora una volta ciascuno di questi amori dal punto di vista dell'altro. Visto da un poeta cortese è l'amore cistercense che è fortemente sospetto di non essere disinteressato; perché, se lo è, come può saperlo? Le sue perseveranze, anche attraverso le sue aridità, non dimostrano nulla; che merito c'è nel perseverare verso un termine, quando si è certi di raggiungerlo? Ma se si considera l'amore cortese osservandolo dal punto di vista cistercense, la sua posizione non è più soddisfacente. " Cosa vuole? - domanderebbe san Bernardo al poeta -. Un amore che sia privato della propria ricompensa per essere sicuro del suo disinteresse? È una contraddizione in termini, poiché l'amore è la ricompensa a se stesso. Ciò che la inganna è l'abitudine che ha acquisito di desiderare le creature, poiché, considerando amore ciò che non è che concupiscenza, lei da al suo desiderio il nome di amore, e poiché è inevitabilmente frustrato, lei conclude che fa a meno della ricompensa. Ma se fosse amore, non potrebbe farne a meno, perché sarebbe la sua stessa ricompensa. Rimproverare all'amore di non poter essere senza ricompensa, significa rimproverargli di non essere la concupiscenza, ma l'amore ". Il dialogo potrebbe durare a lungo, poiché i due interlocutori non parlano la stessa lingua; potrebbero mettersi d'accordo solo se uno dei due tentasse l'altro al punto di condurlo a soddisfarsi del desiderio umano, o ad abiurarlo completamente per dedicarsi alla ricerca dell'amore divino. Sembra chiaro, in ogni caso, che i due sistemi si escludono a vicenda e che ogni comunicazione tra i due è difficilmente concepibile. Non potrebbe esservi rapporto di filiazione tra due concezioni dell'amore nelle quali il nome stesso dell'amore assume significati contraddittori; non si può passare dall'amore cistercense all'amore cortese se non con un'apostasia, o dall'amore cortese all'amore cistercense se non con un'abiura: dopo Lancillotto, Galaad. In conclusione, cosa resta in comune alle due dottrine? Il fatto che in entrambe l'amore beatificante si rivolge all'oggetto beatificante in se stesso, piuttosto che alla gioia che dona. Se non la dona, come accade all'amore cortese, l'amore rimane; se la dona, come sempre accade in fin dei conti, all'amore mistico, l'amore puro si rivolge all'oggetto in se stesso e non propter aliquid ipsius. È tutto, e tuttavia è qualcosa, ma quale dottrina lo deve all'altra? Il fatto che due sistemi di idee così diversi possiedano questo elemento comune, sarebbe sufficiente a far supporre che entrambi lo ricavino da un terzo. In effetti la situazione sembra questa. L'Antichità classica potrebbe essere una fonte più importante, rispetto alla poesia cortese e anche alla mistica cistercense, di quanto non sia stato supposto sin qui. Ritorniamo ancora una volta al De amicitia di Cicerone, un testo e un autore che sicuramente sono stati letti nel XII secolo. L'idea che l'amicizia genera dei benefici, ma non nasce da essi, vi è espressa con tutta la forza desiderabile: " Atque etiam mihi videntur, qui utilitatis causa fingunt amicitias, amabilissimum nodum amicitiae tollere: non enim tam utilitas parta per amicum, quam amici amor ipse, delectat … Non igitur utilitatem amicitia, sed utilitas amicitiam, consecuta est " ( De amicitia, XIV ). Si desidera una forma che possa essere dello stesso san Bernardo? Eccola: " Sic, amicitiam, non spe mercedis adducti, sed quod omnis ejus fructus in ipso amore inest, excolendam putamus " ( De amicitia, IX ). Ricordiamoci di tante formule equivalenti di san Bernardo che abbiamo già citato: " Verus amor seipso contentus est ". " Amor preater se non requirit causam, non fructum. Fructus eius, usus eius. Amo quia amo, amo ut amem ". Ne il suono delle parole ne l'accento sono gli stessi, ma è la medesima nozione fondamentale dell'amore che si afferma nel moralista latino e nel mistico cristiano. Si trova talvolta qualcosa di analogo nei rappresentanti dell'amore cortese. Gli uni e gli altri hanno ripreso e utilizzato, per fini d'altra parte molto diversi o persino opposti, un elemento dottrinale che era stato loro offerto dalla cultura classica del tempo. Se ne potrebbero facilmente trovare altri, ma nessuno che abbia avuto un ruolo simile nella costituzione di queste due dottrine; la sua presenza, nell'una e nell'altra, è sufficiente a rendere ragione dell'analogia che si può scoprire tra di loro, senza che ci sia bisogno di ricorrere all'ipotesi di una filiazione. II. L'amore cortese e la mistica cristiana: l'ipotesi dell'influsso Abbiamo tentato di mostrare l'opposizione fondamentale che separa la mistica cistercense dall'amore cortese. Il problema rimane pertanto quello di sapere se, in assenza di una filiazione, non ci sia stato un influsso del Cristianesimo sulla poesia cortese. Come porre il problema? Se si tratta soltanto di sapere se la terminologia dei trovatori e dei trovieri risente del fatto che hanno vissuto in ambiente cristiano, la risposta è ovvia. Da molti segni ci si accorge che erano cristiani, anche quando i sentimenti che esprimono sono tutt'altro che cristiani. Si potrebbe anche voler dire che l'influsso generale del cristianesimo si manifestò in parte nell'apparizione di quella forma d'amore che, anche se sensuale, segnava un progresso sull'amore lincenzioso di Ovidio. Questo è immediatamente evidente e non penso di discuterne . L'amore cortese è inconcepibile al di fuori dell'ambiente cristiano; ma quando ci si domanda se alcune idee mistiche non si siano introdotte nella poesia cortese e non vi si siano incorporate, si entra allora nel campo delle ipotesi discutibili, cioè dimostrabili, ma anche rifiutabili. È questo l'ambito nel quale cerchiamo di rimanere. Prima ancora di fare lo sforzo per rimanervi, è opportuno determinarlo. È proprio ciò che non è stato fatto a sufficienza. Come discutere la possibilità di un influsso, se non ci si accorda sui segni dai quali lo si riconoscerà? La prima regola che non bisognerà mai dimenticare, mi sembra essere questa: Non si può dimostrare che una dottrina dipende da un'altra, invocando come prova che in entrambe si ritrova la medesima idea, quando si tratta di una idea che era facile trovare da sola o altrove. Regola di semplice buon senso, ma troppo spesso dimenticata. Così Eduard Wechssier constata che l'amore cortese, così come l'amore cristiano, nasce da una sorta di desiderio nostalgico e vago, la Sehnsucht. Non sì tratta di contestarlo, ma vale la pena raccogliere testi in cui i poeti parlano del loro " desiderio " per dimostrare una simile evidenza? Si possono facilmente raccogliere citazioni in cui il mistico dichiara che non può pensare a Dio senza desiderarlo, come il poeta afferma che non può pensare alla sua dama senza desiderarla, ma non se ne ricaverà mai alcuna prova, perché nessuno ha bisogno di imparare che il desiderio è l'inizio dell'amore. Cos'è il desiderio? si domanda sant'Agostino, e risponde: " Desiderium est rerum absentium concupiscentia ". Nulla di misterioso o che esiga ricerche speciali; tutti coloro che si pongono il problema troveranno la risposta senza neppure aver bisogno di consultare qualche autore. Non è quindi su analogie così generali che ci si potrà basare per stabilire delle filiazioni. Avviene lo stesso per quest'altro elemento comune rilevato dallo stesso storico: l'amore violento è una passione che rende insensibili per l'intensità con la quale assorbe colui che ne è posseduto. Il problema che in questo caso bisogna porsi, non è di sapere se i mistici lo affermano riferendosi alla carità e i poeti all'amore, come di fatto fanno, ma piuttosto se si è certi che i poeti non l'avrebbero detto se i mistici non l'avessero detto prima di loro. Questo è il problema. Si tratta di accordo o di influsso? Un poeta d'amore non ha bisogno di leggere una descrizione dell'estasi per essere in grado di descrivere un innamorato timoroso e riservato. Ma non è tutto e restano ancora da prendere altre precauzioni. È un'ottima cosa che gli storici della letteratura si siano recentemente interessati alla storia delle idee. I due ambiti non dovrebbero essere separati. Tuttavia non si può passare da uno all'altro senza alcune precauzioni, la prima delle quali è di usare, nel trattare le idee, la medesima precisione che solitamente si usa nello studiare i testi. Molto raramente è stata osservata questa precauzione e uno degli errori più comuni è quello di considerare come paragonabili idee di espressione analoga, ma di senso completamente diverso. Proponiamo quindi come seconda regola: Non si può dimostrare l'influsso di un'opera su un'altra, stabilendo che essa contiene formule letteralmente analoghe, ma di senso diverso. Tuttavia è ciò che si fa spesso e che è stato fatto riguardo ai rapporti tra la mistica cristiana e l'amore cortese. Il tentativo era particolarmente allettante, e particolarmente pericoloso, per quanto concerne l'estasi. Dopo aver citato i testi mistici nei quali viene descritta l'estasi, Weohssier raccoglie testi poetici nei quali l'amante si perde nella contemplazione della donna amata. Nulla si oppone al fatto che si dia il nome di estasi a questi due fenomeni; san Tommaso stesso darebbe volentieri il proprio consenso, poiché considera l'amore, qualunque esso sia, come estatico per definizione. Non è questo il problema. Si tratta di sapere se l'idea che l'amore è estatico è venuta ai poeti dai teologi. Si potrebbe sostenere ugualmente il contrario, e sarebbe ugualmente impossibile dimostrarlo, poiché ciascuna di queste estasi è il contrario dell'altra, non solo nel senso che una esclude l'altra, ma anche perché la natura dell'una è il contrario di quella dell'altra. È quindi il medesimo problema che si pone di nuovo. Che l'amore faccia, per sua natura, uscire da sé colui che ama, che lo faccia passare, per così dire, nell'oggetto che ama, è quanto si poteva intuire senza fatica, per quanto poco si avesse esperienza dell'amore. Se però si fosse voluto assolutamente assicurarsene in un libro, sarebbe bastato, per informarsi, un uomo così poco mistico come Cicerone. Non ha forse scritto nel suo De amicitia: " est enim ( verus amicus ) tanquam alter idem "? Questa identificazione dei due " io " non si è sviluppata in modo spontaneo e indipendente, in due sensi diversi, nell'amore cortese e nell'amore mistico? È di gran lunga l'ipotesi più verosimile se si ricorda la radicale differenza che abbiamo indicato tra le due concezioni. Lancillotto vede dalla finestra di una torre la regina Ginevra rapita dal suo nemico; quando ella passa sotto i suoi occhi ed egli la guarda, entra in trance e cadrebbe dalla torre se il suo amico Galvano non lo trattenesse. Sia che si accumulino gli episodi di questo genere, sia che vi si aggiunga il " cuore sconvolto " di Jaufré Rudel e gli " oblii " in cui si perdono i poeti cortesi alla vista dell'oggetto amato, è impossibile trovare in ciò che dicono un qualsiasi ricordo delle estasi mistiche; bisogna aver dimenticato cosa sono per dubitarne. Wechssier le ha tuttavia definite bene: " Lo sforzo dell'anima per uscire dal finito e il suo passaggio nell'infinito in forza dell'amore estatico ". Ciò che si vuole chiamare qui l' " estasi " dell'amante cortese è, invece, uno sforzo dell'anima per immergersi nel finito in forza dell'amore umano. Notiamo che si tratta, ancora una volta, della struttura intima dei sentimenti contrapposti l'uno all'altro; eccetto l'elemento estatico, comune ad ogni amore, e che san Tommaso riconosce persino nella demenza - l'alienazione da sé -, nulla di ciò che definisce uno di questi sentimenti si ritrova nell'altro; al punto che si arriva a domandarsi come gli storici che ammettono l'influsso dell'uno sull'altro possano immaginarlo. Ma anche loro cercano di immaginarselo? Quale concepibile scambio di idee rappresenta per loro questo ipotetico passaggio? Ci si limita a congetture. Tuttavia, ciò che è vero per le forme animali, lo è anche per le idee: non si può passare da una cosa qualsiasi ad un'altra. Si può pasare dal raptus del mistico al rapimento del poeta o dalI'excessus mentìs del mistico alle estasi dell'amore cortese? Questo è il problema. Non discutiamo neppure il problema della terminologia; supponiamo, cosa che non ho mai constatato, che il termine estasi sia stato usato da un poeta del XII secolo o del XIII, resta da domandarsi cosa intenda con ciò. Mi scuso per l'insistenza, ma ne va degli aspetti fondamentali della questione. Dopo aver esaminato i diversi aspetti del problema, Wechssler aggiunge onestamente: " Solamente un piccolo numero di questi motivi è propriamente mistico. Lo si può affermare categoricamente solo dei concetti di rapimento e di estasi ". Ecco l'equivoco; il rapimento e l'estasi del poeta sono stati mistici o cessano di esserlo passando dalla mistica alla poesia? Non diciamo che questa è una sottigliezza che interessa solo la teologia. Ammettere che la mistica cristiana ha esercitato un influsso dimostrabile sulla poesia cortese, significa impegnarsi a provare che qualcosa del rapimento o dell'estasi del mistico si ritrovano in quelli del poeta. Se non vi si trova nulla di simile, non si tratta più di " Vorstellungen ", ma soltanto di vocaboli. Per chiudere la questione, la cosa più semplice è comparare ancora una volta le due concezioni dell'amore contrapposte: " Hofliche Frauenminne und christliche charitas ". Wechssier stesso si pone la domanda e conosce troppo bene il problema per non avvertire ciò che vi è di paradossale. " L'amore cortese per le donne e la charitas cristiana, perché stanno insieme? ". Nondimeno il nostro storico cerca di scoprirlo. Quello che lo colpisce innanzitutto è che l'amore, come lo concepiscono i mistici stessi, è sostanzialmente unico; sia che si tratti dell'amore carnale o dell'amore di Dio, è sempre il medesimo affectus, modificato da forme diverse. L'osservazione è assolutamente corretta e abbiamo visto a sufficienza fino a che punto si verifichi nella dottrina di san Bernardo. Wechssier ha quindi pienamente ragione su questo aspetto importante; ma bisogna stare attenti alle conseguenze che ne derivano. Per semplificare il problema, torniamo al punto decisivo: quando un poeta cortese parla dell'amore puro, ciò che ha in mente è esattamente il contrario di ciò che un mistico cistercense designa con quel termine. Lasciamo da parte i casi, di gran lunga i più numerosi, in cui il disinteresse dell'amore cortese non è che un ripiego, per considerare solo quelli in cui ci si priva volontariamente del possesso dell'oggetto amato per assicurare se stessi del proprio disinteresse. Il poeta si trova allora nella situazione descritta da Andrea il Cappellano con un piatto realismo: " Amor quidam est purus et quidam dicitur esse mixtus. Et purus qui-dem amor est, qui omnimodo dilectionis affectione duorum amantium corda conjungit. Hic autem in mentis contemplatione cordisque consistit affectu; procedit autem usque ad oris osculum lacertique amplexum et verecundum amantis nudae contactum, extremo praetermisso solatio ". Queste parole sono di un chierico che prende in prestito i vocaboli amor purus dagli autori mistici, ma quale concetto ne ricava? Nessuno. Non insistiamo su quanto di equivoco ha questa straordinaria concezione della purezza, sarebbe troppo facile; è invece importante sottolineare il fatto che ciò che per il poeta o il teorico dell'amore cortese costituisce la prova della purezza dell'amore, sarebbe, agli occhi del mistico, la prova della sua impurità. L'opposizione fondamentale dei due sistemi di idee si manifesta qui in tutto il suo rigore. Il carattere carnale dell'amore cortese gli impedisce di mantenere unito l'amore e il godimento dell'oggetto amato; poiché questo godimento è fondamentalmente impuro, non potrebbe coesistere con l'amore senza contaminarlo o almeno senza renderlo sospetto agli occhi stessi di colui che lo prova. L'amore cortese giunge quindi alle estreme conseguenze della propria logica, vietandosi l'unione dell'amante con l'amata; è proprio per questo che alcuni dei suoi teorici lo reputano incompatibile con il matrimonio, dove la legittimità e la sicurezza del possesso rendono impossibile ogni illusione di disinteresse. Ma l'amore mistico non va meno coraggiosamente alle ultime conseguenze della propria logica, affermando che il segno dell'amore spirituale, riportato al proprio punto di perfezione, è proprio l'unione reale che l'amore cortese si nega; quest'ultimo è puro solo se ha tutto tranne l' " extremo praetermisso solatio "; l'amore mistico non ambisce a niente altro che a quest'ultimo favore ed è sicuro della propria purezza solo se l'ottiene. Per questo il simbolismo mistico del Cantico dei Cantici è Sempre interpretato dai nostri autori come quello dello Sposo e della Sposa. L'amore puro della mistica è essenzialmente il matrimonio dell'anima con Dio: le Nozze Spirituali, il Matrimonio mistico; tutte queste espressioni sono la negazione diretta se non dell'amore cortese, almeno delle sue timidezze o rassegnazioni. Infatti, per essere precisi, esso non determina il matrimonio dell'anima con Dio, lo è: sic amare, nupsisse est; per lei non vi è via di mezzo tra l'amore misto e il matrimonio mistico dell'amore puro: " aspirare ad nuptias Verbi ", è questo il suo fine supremo e nulla la tratterrà, né l'onore, né il pudore, finché non vi sarà giunta. Come non vedere in questo il segno di una differenza profonda tra i due amori? Ci si potrebbe ostinare a cercare un parallelismo tra i due, sostenendo che l'amore cortese, per la sua stessa esclusione dell'unione carnale, quando la esclude, giunge a imitare la spiritualità dell'amore mistico, o almeno si sforza. Concediamo che si sforzi, nel senso che ne imita il linguaggio, ma non va mai, neppure per un istante, oltre l'espressione dell'amore puro; tutto gli impedisce di imitarne il concetto. Un " amore carnale puro " è una contraddizione in termini per chi considera l'esclusione dell'elemento carnale dell'amore come la prima condizione della sua purezza. Concediamo al Cappellano che, nella difficile posizione nella quale si trova, faccia ciò che può; nondimeno il punto centrale della difficoltà resta che i due sistemi sono necessariamente " non comunicanti ", ermeticamente chiusi l'uno all'altro, perché usano il termine amore in due sensi opposti. Mettendosi sul piano della vita spirituale, il mistico può esigere dall'amore soprannaturale ciò che, come uomo, esigerebbe dall'amore carnale. Su questo punto non vi sono dubbi: l'amore umano sì realizza completamente solo nella unione dell'uomo e della donn, che fa dell'uno e dell'altra una sola carne. L'uomo è un essere carnale l'unione di due esseri umani deve quindi per essere completa, non limitarsi a una unione di pensiero o di affetto o anche, per riprendere il linguaggio di Andrea il Cappellano di contemplazione, ma una unione di tutto il loro essere. Nessuna relazione umana può paragonarsi a questa, neppure quella tra genitori e figli, ed è d'altra parte quanto è scritto: " Lascerai tuo padre e tua madre … "; nessun legame prevale contro questo legame contemporaneamente naturale e sacro. Il mistico non può pretendere di unirsi a Dio con il proprio corpo ( sebbene questo stesso corpo debba più tardi partecipare alla beatitudine celeste ), perché Dio è spirito, ma, almeno nell'ordine della vita spirituale, che è il suo, non concepirà mai una unione d'amore che non sia a suo modo totale: Sponsus et Sponsa sunt; o l'amore avrà ciò o sarà frustrato da ciò che gli è impossibile non desiderare senza cessare di essere se stesso. L'amore impuro di cui parla il mistico è quello che desidera altro: " Impurus est quid aliud cupit ", ma l'amore puro è, al contrario, quello che lo desidera, perché è quello della Sposa, ed essa è Sposa perché è questo stesso amore: " Sponsae hic est, quia hoc Sponsa est quaecumque est ". In breve, l'amore puro cortese si definisce per l'esclusione di ciò che costituisce l'amore puro dei mistici: l'unione reale dell'amante e dell'amata; nulla può cancellare o nascondere questa opposizione. Dunque cos'è successo? I teorici dell'amore cortese ( poiché i poeti non forniscono che testi rari e vaghi su questi problemi ), per aver voluto appropriarsi del linguaggio dei mistici, hanno elaborato una concezione dell'amore non solo opposta a quella dei mistici, ma opposta anche a quella dei moralisti cristiani. Il loro amore puro sarebbe, agli occhi dei mistici, il colmo dell'impurità poiché è carnale, ma non è neppure la forma suprema dell'amore carnale umano poiché esclude il segno e la prova della sua perfezione: la gioia che dona dopo tutte le altre, Vextremum solatium. Non bisogna lasciarsi sedurre dalla facilità di un parallelismo esteriore ingannevole. Il mistico e il poeta cortese, sebbene rinuncino, l'uno a tutte, l'altro ad alcune gioie del corpo, per meglio assicurare la purezza spirituale del loro amore, seguono direzioni opposte; il mistico infatti, ponendo il problema dell'amore tra il proprio spirito e lo Spirito, può risolverlo integralmente senza nulla sacrificare delle esigenze dell'amore: aspira quindi alle delizie dell'unione divina, ed è là che l'amore trova la propria purezza; il poeta cortese, ponendo il problema dell'amore tra esseri carnali, può concepire la purezza solo nella esclusione di ogni unione reale tra questi esseri, al punto che la purezza dell'amore cortese separa gli amanti, mentre quella dell'amore mistico li unisce. È quindi chimerico cercare un influsso dell'amore mistico sull'amore cortese, al di là di qualche prestito di vocaboli; nulla di quanto definisce l'uno è passato nella definizione dell'altro, perché tra l'uno e l'altro non era possibile alcun passaggio. Le analogie che ci si può dilettare a rilevare tra le espressioni, devono quindi essere sempre lette in trasparenza su questa opposizione fondamentale; quando lo si fa, si diventa presto scettici sui pretesi legami che certi storici credono di aver scoperto. Sono tuttavia andati abbastanza lontano nella affermazione della loro tesi: " Ciò che solleva e sostiene questo lirismo, non sono dei pensieri particolari e neppure le concezioni del tempo, è la disposizione fondamentale a una certa maniera mistica di sentire ". Questa Grundbestim-mung mystischer Gefiihisart è molto evidente in Dante, ma sebbene la sua poesia si riallacci a quella dei trovatori, essa corrisponde a uno stato molto diverso del problema. Se lo si dice di lui, nulla di più vero e di più utile da dire; ma se lo si dice dei poeti cortesi, si cercherà vanamente quale senso della parola mistico sia possibile scegliere in quel caso. Sembra, a sentire il commento che ne da Wechssier, che si tratti di ciò che egli chiama un elemento comune a ogni esperienza mistica, sia poetica sia religiosa; ma se l'esperienza poetica in questione non è mistica, non lo è neppure il suo elemento estetico. Dire che: " ogni mistica può essere un atto estetico così come religioso ", significa non dimostrare nulla, dal momento che abbiamo appena visto che l'amore puro del tipo cortese non ha nulla di mistico; ciò che ha di estetico non è un elemento estetico religioso, non è quindi neppure un elemento estetico mistico nel senso dato dai cistercensi a questo termine. Chi mai dirà i danni causati nella storia di questo problema dalla dimenticanza di queste distinzioni fondamentali? " La Chiesa fu sempre unanime nel condannare sistematicamente ogni amor carnalis ". San Bernardo non l'ha mai fatto, in nessun modo, perché l'amore carnale può essere benedetto e consacrato dalla Chiesa; si dimentica spesso che il matrimonio è un sacramento e il testo di Ugo di San Vittore, che si cita a questo proposito, avrebbe dovuto mostrare di cosa si tratta, poiché condanna l'amore carnale: " supra modum vel cantra rationem effervens ". Ce ne corre da qui a una condanna sistematica di ogni amore carnale. È il teorico dell'amore cortese, non il teologo che lo condanna. Quando quindi si aggiunge: " Così nessun dubbio è possibile su questo punto: l'amore di colui che cantava la donna non cadde sotto il concetto di fornicatio ", si va ben oltre ciò che è necessario. L'amore cortese poteva essere e fu spesso una fornicazione, ma nulla l'obbligava a esserlo e, infatti, non sempre lo è stato. Qualunque cosa si dica, un canto d'amore, anche umano, non è necessariamente un peccatum criminale, e non lo era nemmeno nel medio evo; tutto dipende dall'amore che esso canta o cantava, e ci si può domandare se Vamor mixtus, così disprezzato da Andrea il Cappellano, non fosse realmente più sano e inoffensivo, sotto questo aspetto, dell'amor purus. Se l'aver cantato l'amore carnale è sufficiente a escludere i trovatori dalla mistica, questo non è sufficiente a farne dei ribelli. Tuttavia è ciò che si è arrivati a dire, ed era necessario. Se si ammette che l'amore cortese si ispira all'amore mistico, poiché questi amori sono di senso contrario, si deve necessariamente concludere che il primo si è ispirato al secondo solo per potersi, in seguito, contrapporre ad esso. Bisogna quindi credere, con Wechssier, che i trovatori abbiano voluto compiere una " Umwertung der Werte ", annunciare una nuova concezione del mondo che fosse in aperto contrasto con quella della Chiesa? Questa è una drammatizzazione dei fatti che non è per nulla giustificata. L'amore che essi cantano è spesso colpevole agli occhi della Chiesa; non bisogna attendere i trovatori per scoprirlo, poiché da secoli i confessori passavano il loro tempo ad assolverne le colpe. In mancanza della natura, Ovidio sarebbe stato là per ricordarne agli uomini le forme più basse. La poesia popolare francese, anteriore a quella dei trovieri, ha d'altra parte parlato dell'amore carnale e lo ha cantato a suo modo. Lasciandosi trascinare a semplificazioni di questo tipo, si arriva a questi quadri schematici della storia, dove il medio evo è talvolta un periodo di ascetismo puro, talvolta, come in questo caso, il testimone di quella rivolta della carne contro lo spirito che annuncia e prepara già il Rinascimento. " Al posto dell'ascetismo, la gioia di vivere divenne non solo il diritto, ma il dovere principale dell'uomo e della donna colti " Ciò che in realtà il XII secolo ci offre come spettacolo è una magnifica vitalità, umana e mistica allo stesso tempo; la poesia dei trovatori non segna la fine di un ascetismo morente, poiché l'ascetismo di san Bernardo nasce nello stesso periodo: se ci fu un Rinascimento del XII secolo, è qui il caso di non dimenticare che " san Bernardo e la sua mula " ne fanno parte così come i trovatori. L'amore cortese non si presenta affatto come una utilizzazione della mistica, né come una reazione diretta contro l'ascetismo in nome dell'amore umano; esterno all'una e all'altro, esprime piuttosto lo sforzo di una società, educata e affinata da secoli di Cristianesimo, per elaborare un codice dell'amore umano che fosse non mistico e neppure specificatamente cristiano, ma più raffinato della grossolanità di Ovidio e nel quale il sentimento prevalesse sulla sensualità. Questo sembra il suo vero significato storico. La sensualità al servizio del sentimento, e talvolta dei più raffinati come in Jaufré Rudel, o anche della ragione, come in Chrétien de Troyes, era in sé una scoperta sufficientemente bella perché si potesse attribuire solo questa ai trovatori e ai trovieri senza dare l'impressione di disprezzarli. Non si deve quindi fare dell'amore cortese né una rivolta contro l'ascetismo che si sviluppava nello stesso periodo, né un tentativo di imitarlo. Parlare di " ascetismo cortese ", come se questa espressione avesse un senso, significa cadere in questo secondo errore. Tutti i testi che si citano a sostegno, mostrano che gli innamorati del medio evo sapevano attendere quando le circostanze li obbligavano, sapevano accontentarsi di ciò che si concedeva loro e introdurre una certa moderazione di buon gusto nei loro desideri, ma l'ascetismo è più della sana regolamentazione dell'amore carnale, è la lotta incessante contro la concupiscenza sotto tutte le forme; non si accontenterebbe, in fatto di rinuncia alla carne, di quel " verecundum amantis nudae contactum " lodato da Andrea il Cappellano. " Hofliche Aszese " è una formula che sarebbe meglio non usare. " Castità cortese " non è migliore se questa castità si riduce all'idea molto semplice che un amore vero non si accontenta di una molteplicità di altri amori simultanei. Castità limitata, come si vede, e di cui Andrea il Cappellano dice, molto giustamente questa volta, che l'amore: " reddit hominem castitatis quasi virtute decoratum ". Questo quasi è di buona teologia, in tutte queste espressioni è prudente usarlo. Un po' di riflessione avrebbe risparmiato molti eccessi di erudizione a cui ci si è abbandonati! Perché paragonare " l'occhio del cuore " dei poeti cortesi a quello dei mistici? Il primo non è che l'immaginazione, e talvolta la più sensuale, mentre il secondo è definito dall'esclusione di ogni immagine sensibile, quelle che è compito del primo fornirci in assenza dei loro oggetti. Quale rapporto tra l'occhio mistico, che si apre solo alle immagini spente, e l'occhio del cuore che custodisce le immagini presenti a un amore carnale che esse nutrono?. I poeti dicono che credono alla loro dama o che sperano in lei, ma in ciò non vi è più Fede o Speranza di quanto vi sia di Carità nel loro amore. Essi temono, ma abbiamo già notato che l'amore cristiano ha precisamente l'effetto di scacciare il timore; e quanto al paragonare il trovatore che implora grazia dalla sua dama al cristiano che domanda a Dio la sua grazia, significa impegnarsi in un equivoco a malapena meno grave di quello che consiste nel confrontare la virtù cristiana della pazienza con quella di cui dovevano armarsi i trovatori. Per riprendere un paragone classico, non vi sono più rapporti tra queste nozioni di quanti ve ne siano tra il Cane, segno celeste, e il cane, animale che abbaia. L'amore cortese e la concezione cistercense dell'amore mistico sono quindi due prodotti indipendenti della civilizzazione del XII secolo; nati in ambienti diversi, essi lo esprimono, l'uno codificando la concezione della vita in una corte principesca, l'altro esprimendo quello che si svolgeva in un monastero cistercense. Forse il linguaggio dell'uno ha potuto nutrirsi di termini presi dall'altro, ma poiché bisognava rinunciare a uno di questi amori per abbracciare l'altro, non ci si può meravigliare che nessun concetto preciso sia comune ai due. Quando l'amore cistercense ha voluto introdursi nella letteratura profana, ha potuto farlo solo sostituendosi all'amore cortese ed eliminandolo. La Queste dou Graal ( La ricerca del Graal ), annunzio di una cavalleria celeste, domanda alla cavalleria terrestre non solo di moderarsi e di affinarsi, ma di rinnegarsi. San Bernardo può avere ampiamente contribuito alla decadenza dell'ideale cortese, ma non è lui che l'ha ispirata. Appendice V - Note su Guglielmo di Saint-Thierry Guglielmo di Saint-Thierry meriterebbe uno studio dottrinale sviluppato come quello di cui ha beneficiato l'opera di san Bernardo. È un grandissimo teologo la cui chiarezza di pensiero si unisce a una notevole precisione nell'espressione. Intimamente legato a san Bernardo, totalmente in accordo con lui sui principi e le conclusioni dei problemi posti dalla vita mistica, ha saputo conservare, insieme a un'ammirazione senza riserve per l'abate di Chiaravalle, una assoluta indipendenza di pensiero. Le note che seguono non si presentano come l'equivalente del lavoro che desideriamo vedere intrapreso, ma come un invito a intraprenderlo. Esse si limitano a indicare le idee principali e ad abbozzare, per così dire, il piano della dottrina. Coloro che, partendo da qui, lavoreranno a presentarla nella sua vita e nella sua bellezza, saranno sorpresi dalle ricchezze da cui dovranno attingere e dall'imbarazzo che li attende quando si vedranno costretti a scegliere. Guglielmo di Saint-Thierry infatti possiede tutti i requisiti: la forza del pensiero, l'eloquenza dell'oratore, il lirismo del poeta e la seduzione contagiosa della pietà più ardente e più tenera. Per ritrovarsi nelle questioni connesse ai suoi scritti, la guida più sicura sarà Dom Andre Wilmart, La sèrie e la date des ouvrages de Guillaume de Saint-Thierry, in " Revue Mabillon ", 14 (1925), pp. 157-167. Sulla sua vita: A. Adam, Guillaume de Saint-Thierry, sa vie et ses oeuvres, Bourgen Bresse 1923 ( è la pubblicazione di una tesi, opera utile ). Sulla sua dottrina oltre al volume di H. Kutter, Wilhelm von St. Thierry, ein Reprdsentant der mittelalterlichen Frommigkeit, Ricker, Giessen 1898 ( che è inutilizzabile ), si consulterà: L. Malevez, La doctrine de l'ìmage et de la Connaissance mystìque chez Guillaume de Saint-Thierry, in " Recherches de science religieuse ", 22 (1932), pp. 178-205, 257-279. Articoli solidi, molto approfonditi e penetranti. M.M. Davy, Les trois étapes de la vie spirituelle, d'après Guillaume de Saint Thierry, in " Recherches de science religieuse ", 23 (1933), pp. 569-588. Analizza 1a Epistola aurea. Scritti di Guglielmo di Saint-Thierry 1. Epistola ad Frafres de Monte Dei ( detta Epistola aurea ), P.L., 184, 307-354 ( escluso il libro III ); 2. Meditativae orationes, P.L., 180, 205-248; 3. De contemplando Deo, P.L., 184, 365-380; 4. De natura et dignitate amoris, P.L., 184, 379-407; 5. Disputatio adversus Abaelardum, P.L., 180, 249-282; 6. Disputatio catholicorum patrum adversus dogmata Vetri Abaelardi, P.L., 180, 283-340 ( non è sua, ma " cujusdam abbatis nigrorum mo-nachorum ": Goffredo d'Auxerre, P.L., 185, 596 ); 7. De sacramento altaris, P.L., 180, 341-366; 8. Speculum fidei, P.L., 180, 365-398; 9. Aenigma fidei, P.L., 180, 397-440; 10. Brevis commentatio in priora duo capita Cantici Canticorum, P.L., 184, 407 ( apocrifo ); 11. Commentarius in Cantica Canticorum e scriptis S. Ambrosii collectus, P.L., 15, 1947-2060; 12. Excerpta ex librìs S. Gregarii Papae super Cantica Canticorum, P.L., 180, 441-474; 13. Expositio altera super Cantica Canticorum, P.L., 180, 473-546 ( interrotto, per la polemica con Abelardo e la Vita di san Bernardo, a Cant3,3 ); 14. Expositio in Epistolam adRomanos, P.L., 180, 547-594 ( compilazione della quale sarebbe importante ritrovare le fonti ); 15. De natura corporìs et animae libri duo, P.L., 180, 695-726. Abbozzo della sua teologia mistica Guglielmo ha costruito una teologia mistica sistemata con molta cura e della quale è indispensabile conoscere la struttura se si vuole comprendere esattamente il significato di una qualunque delle sue parti. È per aver isolato alcune di queste dall'insieme al quale appartengono che si è giunti ad attribuire loro un significato estraneo al suo pensiero o a deformarle in modo da renderle estremamente pericolose. Non si tratta qui di trovare una pia interpretatio della sua dottrina, ma semplicemente di mostrarla come essa è; pensiamo che questo basterà a mostrare nello stesso tempo che essa è inattaccabile. I. Le scuole di carità La dottrina mistica di Guglielmo è nata e si è sviluppata interamente nel quadro della vita cenobitica, sia essa quella di un monastero benedettino, cistercense o certosino. Il chiostro è considerato come una scuola, in opposizione alle altre scuole, già così numerose nel XII secolo, dove si insegnano le lettere profane e le varie discipline del Trivium e del Quadrivium. Le scuole profane insegnano una dottrina dell'amore profano il cui grande maestro è Ovidio e il libro classico il suo De arte amatoria. I monasteri saranno ugualmente scuole d'amore, ma nelle quali si insegna la carità. Guglielmo di Saint-Thierry, lo si è detto già da molto tempo con una formula perfetta, ha voluto scrivere un Anti-Nasonem. Quale sarà la natura di questo insegnamento? L'arte d'amare è l'arte delle arti, ma non è Ovidio che ce la insegna, bensì la natura e Dio, autore della natura. Infatti, l'amore è stato infuso nell'anima dal suo creatore, ma la sua naturale nobiltà è stata degradata da affetti colpevoli, di modo che oggi deve esserci insegnato. Bisogna ricordarsi sempre questi elementi se si vuoi mantenere la dottrina di Guglielmo sul suo vero fondamento. Consideriamoli in successione. 1. L'amore è in noi un sentimento naturale innato. Creato da Dio, dovrebbe essere ancora oggi così come era al momento della creazione. Se lo fosse, l'amore non avrebbe bisogno di esserci insegnato; se la nostra natura fosse rimasta come Dio l'ha creata, non dovremmo far altro che consultarla per sapere chi e come dobbiamo amare; impararlo dalla natura sarebbe infatti impararlo da Dio, autore della natura. Quindi, in linea di principio, l'amore non avrebbe bisogno di essere insegnato. 2. Se non è più così, significa che si è prodotta una deviazione nei nostri sentimenti. Come insegna sant'Agostino, ogni essere naturale è trascinato dal proprio " peso " verso il luogo che gli è proprio. È così anche per l'anima dell'uomo, con la differenza che, essendo libera, ha potuto deviare dalla propria strada. Ciò è quanto è successo al momento del peccato originale. Da allora essa tende sempre verso il proprio luogo naturale, che è la beatitudine; il suo " pondus " naturale ve la trascina sempre irresistibilmente, ma essa ha perso la strada e non la ritroverà a meno che non gliela si insegni di nuovo. È per questo che ogni uomo ha ora bisogno che un altro uomo lo istruisca su ciò che non può più leggere nella propria natura: cos'è la beatitudine, dov'è, come possiamo raggiungerla? 3. Quale sarà quindi la funzione di questo maestro umano? Non sarà quella di insegnare l'amore come se non esistesse già nel cuore dell'uomo, ma di correggerlo. Il professore d'amore deve procedere a una rieducazione dell'amore. Insegnerà quindi come si purifica l'amore, come lo si fa crescere, come lo si consolida. A questo si limita la sua funzione e non potrebbe aspirare ad un'altra; tutto quanto può fare è istruire le anime a cedere alla carità. 4. Il maestro dei novizi, il priore e l'abate sono questi professori; il monastero è questa scuola; non ci si istruisce argomentando e rispondendo con delle parole, poiché la dottrina che vi si insegna è una vita e le dispute si concludono con delle azioni. Un monastero in cui si impartisca un tale insegnamento e in cui esso sia ricevuto con questo spirito, è l'unica vera scuola di filosofia che vi sia. Non solo le anime, ma anche i corpi riflettono la carità di cui sono animate tutte le loro membra, al punto che la comunità monastica diviene una vita sociale, simile, come è possibile sulla terra, a quella dei beati in cielo. Ciò che in questa dottrina deve essere sottolineato con maggior forza, è il significato speciale che riceve il termine naturalis. Il suo equivalente più appropriato sarebbe forse il termine normale. È naturale, agli occhi di Guglielmo, non ciò che non è soprannaturale, ma ciò che è come deve essere, perché è come Dio l'ha voluto. Questa terminologia si presta facilmente alla confusione, in quanto, nel naturale così concepito, bisognerebbe ulteriormente distinguere tra il naturale propriamente detto e il soprannaturale, cioè tra ciò che riguarda la natura pura e ciò che riguarda la grazia. Come sant'Agostino, Guglielmo è subito pronto a fare questa distinzione, ma il piano sul quale solitamente si muove è un altro. La distinzione tra natura pura e grazia, per quanto sia ben fondata e necessaria, è troppo astratta, troppo teorica, per attirare la sua attenzione. Ciò che lo interessa è il problema morale e religioso che solleva lo stato attuale dell'uomo. Questo stato non è più ciò che avrebbe dovuto essere, poiché non è più quello nel quale Dio ha creato la natura, non è quindi più uno stato naturale. Così, dato ciò che Dio ha voluto fare e fa creando l'uomo, la perdita dei doni soprannaturali, che l'uomo aveva ricevuto dal proprio creatore, lo pone in uno stato che non è il suo stato naturale; perché la natura venga restaurata, bisogna che essa ritrovi questi doni soprannaturali, poiché essi ne facevano parte. È per questo che Guglielmo non vede nessuna difficoltà nello scrivere che la carità è l'organo della vista, la facoltà naturale del vedere, la luce naturale dell'anima, creata in lei dall'autore della natura È quindi sempre in questo senso che è opportuno intendere le formule che altrimenti rischierebbero di falsare il suo vero pensiero: amor ergo, ut dictum est, ab auctore naturae, naturaliter est animae inditus. Supponiamo quindi che il novizio sia entrato in una di queste scuole di carità, quale metodo dovrà seguire per mettersi nella condizione di ricevere da Dio la carità perduta? II. Nosce teipsum Il primo precetto del metodo è conoscere se stessi. Come san Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry ha fortemente insistito su questa necessità fondamentale. Entrambi non hanno fatto che ispirarsi a sant'Ambrogio e a san Gregorio Magno; ciò è particolarmente sicuro per quanto riguarda Guglielmo, in quanto si è preoccupato di raccogliere nei due commenti al Cantico dei Cantici che lui stesso ha estratto, uno da Ambrogio, l'altro da Gregorio, le loro principali dichiarazioni riguardanti la necessità di conoscere se stessi. Confrontate con l'insieme formato da questi testi, le fugaci allusioni di sant'Agostino al Nosce teipsum sono di poca importanza; si può quindi considerare certo che è ad Ambrogio e a Gregorio che si ispira su questo punto. Seguendo l'esempio di questi due maestri, Guglielmo interpreta immediatamente il precetto di conoscere se stessi come una ingiunzione rivolta all'uomo per conoscere che è fatto a immagine di Dio. Ma qui il loro influsso si nutre in qualche modo di quello di sant'Agostino. Per san Bernardo l'uomo che cerca di conoscere se stesso riconosce allo stesso tempo la propria miseria e la propria grandezza; la propria miseria in ciò che in lui è nulla; la propria grandezza in ciò che dalla libertà è fatto a immagine di Dio. Guglielmo di Saint-Thierry si differenzia su questo punto da san Bernardo per la maggior fedeltà con la quale si ispira a sant'Agostino. Per l'anima conoscere se stessa significa conoscere la propria grandezza, che è quella di essere fatta a immagine di Dio; ma questa immagine risiede in lei soprattutto in mente, nel pensiero. È quindi esplorando il contenuto del pensiero che l'anima si conoscerà come immagine divina e conoscerà così anche il Dio di cui è l'immagine. In cosa consiste questa immagine? Continuando a seguire sant'Agostino, Guglielmo la trova in una sorta di trinità creata, la cui struttura ricorda quella della Trinità creatrice. Fondamentalmente, la somiglianza tra l'uomo e Dio si trova all'interno del pensiero, nella ragione, ma la ragione stessa svolge questo ruolo solo in quanto si collega alla memoria, intesa nel senso agostiniano, cioè alla memoria di Dio. Creando l'uomo, Dio gli ha infuso un soffio di vita: spiraculum vìtae. Il termine spiraculum suggerisce la natura " spirituale " di questo soffio; spirituale, quindi anche intellettuale. D'altra parte, il termine vitae indica che questo soffio era allo stesso tempo una forza animatrice. Si può quindi dire che Dio ha creato l'uomo come un essere vivente e animato, dotato di una facoltà intellettuale di conoscere. Al vertice, per così dire, di questo essere, Dio ha posto la memoria, cioè, secondo il significato dato da sant'Agostino a questo termine, la facoltà di ritrovare in sé in ogni momento la presenza latente di Dio, in modo particolare la sua potenza e la sua bontà. Non bisogna confondere questa memoria con un ricordo attuale di Dio, che ci permetterebbe di conoscerlo; essa esprime semplicemente il fatto che, per parlare ancora come sant'Agostino, Dio è sempre con noi anche se noi non siamo sempre con lui. C'è quindi, al vertice del pensiero, un punto segreto nel quale risiede il ricordo latente della sua bontà e della sua potenza; questo è in noi il segno inciso più profondamente della sua immagine, quello che evocherà gli altri e porterà a compimento la nostra somiglianza a lui. In Dio il Padre genera il Figlio, e lo Spirito Santo procede dall'uno e dall'altro. Allo stesso modo in noi la memoria genera, immediatamente e senza alcun intervallo di tempo, la ragione, e la volontà procede dall'una e dall'altra. La memoria possiede e contiene in sé il fine a cui l'uomo deve tendere; la ragione conosce subito che bisogna tendervi; la volontà vi tende, e queste tre facoltà sono una specie di unità, ma tre azioni, così come nella Trinità divina non vi è che un'unica sostanza, ma tre persone. Vi è appena bisogno di sottolineare l'importanza di questa genesi delle facoltà dell'anima, perché essa determina una volta per tutte le condizioni del loro legittimo esercizio. Una ragione che deriva dalla memoria della bontà di Dio non può aver altro oggetto che Dio. Nata da ciò che contiene il quo tendendum, essa non ha altro motivo di esistere che quello di constatare il quod tendendum; la sua funzione è inscritta nella sua essenza: essa è la conoscenza del fatto che bisogna tendere verso Dio e tutto il resto è vana curiosità. Lo stesso per la volontà; originata dalla memoria e dalla ragione, essa non può essere altro che un tendit, cioè la tendenza verso quel fine che la memoria contiene e verso cui la ragione sa che bisogna tendere. Ecco ciò che Dio ha creato, ecco quindi anche ciò che è lo stato " naturale " dell'uomo: quello di una ragione che conosce solo Dio, di una volontà che tende solo verso Dio, perché la memoria dalla quale esse procedono è colma solo del ricordo di Dio. Tale era anche l'immagine divina nell'uomo, quando risplendeva in tutto il suo splendore, prima che venisse offuscata dal peccato; è questa somiglianza che abbiamo perso e che l'esperienza dell'amore divino deve condurci a riscoprire. Conoscere se stessi significa conoscersi come una immagine di Dio offuscata, nella quale l'anima, decaduta dalla sua gloria primitiva, non riconosce più il proprio Creatore. III. La Redenzione La restaurazione della somiglianza cancellata non si realizza senza l'uomo, ma sarebbe stata impossibile senza la Redenzione. Vedendo che l'uomo aveva perso la propria somiglianza e che non avrebbe potuto recuperarla con le sue sole forze, la Trinità divina ha tenuto consiglio per rimediare a questo disordine. Per colpa propria l'uomo si era perso nella regione della dissomiglianza ( " abiisse in regionem dissimilitudinis " ). L'angelo decaduto aveva desiderato essere simile a Dio; l'uomo decaduto si era lasciato persuadere dal tentatore che sarebbe diventato " sicut dii ". Dio non aveva potuto sopportare l'idea che suo Figlio, lo splendore della sua gloria, avesse tanti pari e quali pari. L'angelo e l'uomo erano quindi stati precipitati nella loro rovina. Era giusto; ma nondimeno l'opera di Dio era stata distrutta. Poiché la giustizia non lo impediva, perché non restaurare quest'opera per mezzo della misericordia? È ciò che Dio decise di fare. Il Figlio di Dio si è quindi fatto nostro mediatore tra il Padre e noi. Perché ci fosse una mediazione, bisognava che l'uomo, da parte sua facesse qualcosa; Dio chiese quindi all'uomo la fede, la speranza e il timore. Quanto al Figlio di Dio, egli decise di morire, innocente, per salvare il colpevole, e di redimere con il castigo della propria innocenza quello della disobbedienza umana. Per farsi mettere a morte, bisognava eludere la vigilanza del diavolo; è quanto fece il Piglio di Dio dissimulando la propria gloria sotto le apparenze della debolezza umana. Con la propria umanità nascondeva al demonio la propria divinità; con i propri miracoli, eccitava la sua invidia, ma nello stesso tempo si accattivava la fede dell'uomo che voleva salvare. Il Figlio di Dio fu quindi messo a morte. Con questa morte ingiusta, ottenne una nuova giustizia, fondata sul suo sacrificio, e l'uomo colpevole fu assolto. Se Dio, d'ora in poi, vuole punire il peccato dell'uomo, l'uomo può offrirgli in espiazione il sangue di suo Figlio, versato per amore, per salvarlo. Questo sacrificio del resto non è terminato. Con l'istituzione dell'Eucaristia, si perpetua tra noi. L'uomo può mangiare il corpo di Cristo, cioè diventare il corpo di Cristo e, di conseguenza, il tempio dello Spirito Santo. Questo tempio, se ornato con le virtù prescritte, è dedicato a Dio e Dio solo vi abita. L'uomo, così trasformato dall'unione a Dio nell'Eucaristia, gioisce solo di Dio e fa soltanto uso di tutto il resto; ha quindi raggiunto la sapienza che non è altro che l'amore di Dio nella carità. Davanti ad essa la falsa sapienza di questo mondo e dei suoi filosofi appare solo come malizia e follia; alla scienza che gonfia, essa si oppone come la carità che edifica. Tutta la vita del novizio, tutto il suo esercizio, consisterà quindi, appoggiandosi al sacrificio di Cristo e alla grazia dell'Eucaristia, nel rifare del proprio amore perverso una carità. IV. L'iniziazione alla carità La rovina è compiuta, ma non bisogna disperare; significherebbe offendere l'opera di Dio il credere che coloro che la corrompono debbano sempre avere la meglio sugli sforzi di coloro che, con l'aiuto della grazia, si sforzano di restaurarla. Per questo, chiamando Dio dal fondo dell'abisso in cui si trova immerso, l'uomo deve proporsi senza timore il fine più alto al quale possa, qui in terra, aspirare: un amore di Dio così ardente che sia una specie di santa follia. La vita del novizio benedettino è l'iniziazione a questo amore. Severo con se stesso, si rimette interamente nelle mani dei suoi superiori e rinnega completamente se stesso per lasciare spazio libero alla venuta dell'amore divino. La possibilità stessa di questa iniziazione non si comprenderebbe se l'immagine di Dio, indistruttibile nell'uomo, non continuasse a sussistere in quella memoria che non se ne ricorda più, ma che potrebbe ancora, con l'aiuto di Dio, ricordarsene. L'amore umano è diventato cieco, ma anche un cieco può servirsi ancora delle proprie mani. Bisogna cominciare così, andando, per così dire, a tentoni e piegando il cuore e il corpo a pensare e ad agire come se si amasse veramente Dio. In tal modo si contrae, progressivamente, un' " abitudine " alla buona volontà. Il servizio di Dio, che il novizio si era subito imposto come uno sforzo faticoso, diventa poco a poco più facile. L'anima passa allo stato di servizio Volontario e il corpo si sottomette spontaneamente alla disciplina che l'anima esige da lui. L'aspetto dell'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno; l'anima comincia a essere ricompensata da frequenti e molteplici " teofanie "; gli splendori di cui godono i beati nel cielo cominciano a riscaldarla e a illuminarla. Inizia quindi per lei la vita di unione a Dio, che è la vita di carità, con le sue alternanze di gioie e di abbandoni, di attese dolorose, talvolta premiate. Per consentire queste rivelazioni divine, come deve essere l'amore? Esattamente come Dio l'aveva creato e come lo ricrea in noi con la grazia. Dio è il luogo di nascita dell'amore, è in lui che è nato, che è stato nutrito e che è cresciuto. " Là è cittadino; non straniero, ma indigeno. Perché è solo per mezzo di Dio che viene donato l'amore, ed è ancora in lui che resta, perché lo si deve solo a lui e per lui ". Se è così, dire che Dio crea in noi l'amore, significa dire che ci ispira il desiderio di amarlo come lui stesso si ama. Amandoci, Dio non prova un affetto che tende verso di noi; non riceve nulla di più dal nostro affetto; in verità. Dio non ci ama che per lui e poiché il nostro amore è in noi quello che egli ha creato, deve essere anche un amore con il quale noi ci amiamo come egli ci ama, unicamente per lui. Questa perfetta unione delle volontà tra l'uomo e Dio è possibile solo con una grande grazia, ed essa lo è, e là dove si produce, si produce anche la restaurazione della somiglianza divina nella quale l'uomo fu un tempo creato. Egli non ama più Dio per se stesso, ne se stesso per se stesso, ma ama Dio e se stesso solo per Dio. Diciamo piuttosto, dal momento che il nostro amore per Dio è quindi quello con cui egli ama se stesso, che è lui che ama se stesso in noi: sic nos efficiens tui amatores, imo sic tè ipsum in nobis amans. La preghiera di Cristo, in san Giovanni, è ormai esaudita: " Volo ut sicut ego et tu unum sumus, ita et in nobis ipsi unum sint " ( Gv 17,21 ); il fine dell'amore è quindi raggiunto: la pace, la gioia nello Spirito Santo, il silentìum in coelo, cioè nell'anima del giusto; ma dura per un tempo troppo breve - sed hora. est dimidia vel quasi dimidia -; la gioia qui prende soltanto forma, riceverà la sua perfezione nella beatitudine. La natura di queste consolazioni spirituali è abbastanza difficile da definire nella dottrina di Guglielmo. Da quanto si può giudicare, questa unione di volontà con Dio, che corona l'iniziazione alla carità, si accompagna a un'emozione sensibile che ne è il segno. Guglielmo si esprime spesso come se sentisse la grazia, e la consolazione interiore che ne riceve è per lui l'indizio più sicuro del fatto che ha appena raggiunto il termine del proprio sforzo. Questa dolce gioia sembra essere per lui solo l'effetto e il segno della trasformazione dell'anima per mezzo della grazia e della restaurazione dell'immagine in noi. È vero che, seguendo la lettera dei testi, questa gioia si accompagnerebbe anche alla conoscenza; essa non sarebbe soltanto una unione di volontà con la gioia che l'accompagna, ma una contemplazione, una visione di Dio. Cosa dobbiamo pensare di queste espressioni? V. La carità come conoscenza L'uomo si trova riformato a immagine del proprio creatore; perché si può dire che in questo modo conosce Dio? Esaminiamo anzitutto in cosa consista un processo conoscitivo e prendiamo come esempio il caso della conoscenza sensibile. Perché vi sia percezione di un oggetto sensibile, è necessario che una certa immagine di quell'oggetto sia nel pensiero. Il pensiero si forma allora una specie di copia di quell'oggetto, conforme sia alla natura del senso che percepisce, sia alla cosa percepita; si dice allora che lo conosce. La condizione essenziale della conoscenza è quindi questa " similitudo ", questo fantasma, la cui presenza nel pensiero, permettendogli di trasformarsi a somiglianza dell'oggetto, gli permette anche di conoscerlo. A questo processo conoscitivo si aggiunge sempre un processo affettivo che lo completa. Come sant'Agostino aveva già detto nel De trinitate, non c'è sensazione, né conoscenza, senza un movimento d'amore che applichi i sensi e il pensiero all'oggetto. Senza questo desiderio di percepire e di conoscere che ci anima, l'oggetto potrebbe anche trovarsi davanti a noi, ma sfuggirebbe continuamente alla nostra presa e non lo vedremmo neppure. Nel caso in cui l'amore di Dio raggiunga in noi la sua perfezione, cosa accade? Né le immagini, né i fantasmi possono evidentemente svolgere alcun ruolo, ma l'amore li sostituisce. Poiché trasforma l'anima a immagine di Dio, opera in lei, in una maniera incomparabilmente più complessa e più profonda di quanto non possano fare le immagini sensibili, quell'assimilazione del pensiero all'oggetto che è la prima condizione di ogni conoscenza. D'altra parte, dal momento che è solo l'amore che qui opera questa trasformazione, ne consegue che non mancherà l'elemento affettivo richiesto per la conoscenza; non si limita ad accompagnare e a facilitare l'assimilazione del pensiero all'oggetto, come nel caso della conoscenza sensibile, ma la produce. Non ci si può quindi stupire che l'anima senta Dio, dal momento che l'ama; essa lo sente per lo stesso amore che prova per lui e per la gioia che vi trova; essa conosce quindi Dio. È a questo, sembra, che si deve ridurre la famosa dottrina della carità come visione di Dio che ha stimolato la curiosità di alcuni commentatori. Essa significa quindi, innanzitutto, che in questa vita non c'è visione di Dio accessibile all'uomo, fosse anche nell'estasi. L'anima coglie Dio ma: amatum plus quam cogitatum, gustatum, quam intellectum. In altri termini, se l'amore ci fa conoscere Dio in ciò che ci rende simili a lui, la conoscenza che ci offre si riduce alla somiglianza divina che ci conferisce e alla gioia che ne proviamo. Essere simile a Dio significa vederlo? Certo, ma vederlo significa essergli simile e sentire la gioia di questa somiglianza infine ritrovata. Non è poco, ma non è tutto. È quindi inutile cercare nelle metafore usate da Guglielmo un senso misterioso che esse non hanno. Di qualunque immagine si serva, non vuoi mai dire che la carità ci da la conoscenza, la vista o la visione di Dio che qui sulla terra è rifiutata all'intelligenza. Ciò che l'intelligenza non conosce, la carità lo conosce meno ancora nel senso intellettuale del termine. Tutto ciò che Guglielmo vuol dire è che, in mancanza di una conoscenza che è e resta impossibile, l'amore la sostituisce, e ciò non significa dire che sia unica. Non esistono specie o fantasmi che, trasformando il pensiero a somiglianza di Dio, gli permettano in questa vita di conoscerlo; la carità non ha il potere ne di crearli, ne di sostituirli. Essa però produce, per mezzo dell'amore, nella volontà, quella assimilazione dell'anima a Dio che resta impossibile alla ragione in questa vita. Questa unione delle volontà è quindi, nell'ordine dell'amore, l'equivalente di ciò che è l'unione del pensiero e dell'oggetto nella similitudine del fantasma. E come la conoscenza risulta dalla similitudine del pensiero al proprio oggetto, la gioia risulta dalla conformità della volontà a quella del proprio oggetto. Questa gioia è quindi in noi un certo modo di sentire Dio, una percezione affettiva della sua presenza. La carità non conosce quindi Dio per una visione propriamente detta, ma lo sente per la gioia che essa le dona, e poiché è l'unico contatto con Dio possibile all'uomo in questa vita, non è del tutto improprio dire che l'unico nostro modo di conoscerlo è quello di sentirlo. VI. L'unione a Dio nello Spirito Santo Abbiamo detto e ripetuto, come se la cosa fosse pacifica, che l'unione di volontà con Dio, realizzata dalla carità, si accompagna alla gioia e che questa gioia è anche il segno di quella unione. Perché è necessariamente così? Perché l'unione a Dio si realizza per mezzo dello Spirito Santo, che è il legame interno della Trinità divina, il suo amore, la sua beatitudine. Ciò che caratterizza la posizione di Guglielmo, su questo punto, è la sua insistenza nel sottolineare l'identità dello Spirito Santo, donatore della grazia unificante, e della grazia, che è il dono dello Spirito Santo. La distinzione tra il Donatore e il dono è implicata in ognuno dei suoi testi; essa lo è anche nell'antitesi tra donans et donum, due termini che costantemente si oppongono. Tuttavia non è questa distinzione che lo interessa, ma, al contrario, l'identità costitutiva tra il donatore e il dono che rimane anche all'interno della loro distinzione. Dispiace che Guglielmo non abbia scritto a questo riguardo un trattato di teologia e che non abbia definito ex professo la grazia creata, la grazia increata, le loro differenze e i loro rapporti; ma questo non era il suo scopo. Un vero mistico privilegia, nella grazia, ciò che unisce piuttosto che ciò che divide ed è per questo che, pur distinguendo il donans dal donum, pone costantemente l'accento sul fatto che essi sono idem. È proprio questa identità costitutiva tra la carità, dono di Dio, e lo Spirito Santo, suo donatore, che rende possibile il matrimonio mistico. Lo Spirito Santo è l'amore comune del Padre e del Figlio, il loro bacio, il loro abbraccio. Se quindi è presente nell'anima sotto forma di dono, la unisce a Dio con lo stesso bacio, con lo stesso abbraccio, quello che costituisce il matrimonio mistico stesso; ma lo fa solo perché è idem donans, idem donum. Ma un amore umano così trasfigurato dal dono dello Spirito Santo non è più semplicemente umano; è l'amore divino che orciai respira in lui; quindi, in qualche modo, è divinizzato. Questa unione trasformante conserva tra Dio e l'uomo tutta la distanza che deve separarli, perché, anche se si realizza nell'uomo, rimane l'opera di Dio. Ciò che in Dio è unità consustanziale di natura, nell'uomo non è che il dono di una grazia; in Dio è un privilegio, nell'uomo è la condiscendenza divina. Tuttavia è il medesimo, assolutamente il medesimo spirito. Si produce quindi, nell'anima dell'uomo, un profondo rinnovamento che la ristabilisce nella somiglianza divina. Allora regna una vera unità tra la creatura e il creatore, ma una unità di similitudine: unitas similitudinis, che in nessun caso potrebbe diventare una unità di natura. Essa tuttavia è sufficiente per trascinare con sé l'altra unità di somiglianza che è quella della beatitudine. Poiché Dio trova la propria beatitudine nell'amore della propria perfezione, essere uniti a lui per il dono che ci fa dell'amore che ha per se stesso, significa essere uniti a lui per il dono della sua beatitudine: Quid autem est absurdius uniri Deo amore, et non beatitudine. È per questo che la restaurazione della similitudine divina si accompagna, in questa vita, alle gioie del matrimonio spirituale, in attesa della beatitudine perfetta che accompagnerà la similitudine perfetta nell'ai di là. VII. La triplice somiglianza Tutta la dottrina di Guglielmo narra quindi la storia della somiglianzàadivina, donata da Dio, sfigurata dal peccato, restaurata dalla grazia. Infatti la perfezione dell'uomo consiste nell'assomigliare a Dio: et haec hominis est perfectio, similitudo Dei. Creati a immagine di Dio, essere simili a Dio è anche il nostro unico fine: propter hoc enim solum creati sumus et vìvimus, ut Dea similes simus, cum ad Del imaginem creati simus. Questa è la nostra perfezione e noi abbiamo il dovere di tendervi, perché è un errore quello di non voler essere perfetti. Si tratta quindi, per ogni uomo, di superare progressivamente tutti i gradi della somiglianza divina, fino al più alto, e questo programma è tutt'uno con quello che abbiamo già tracciato: superare tutti i gradi dell'amore fino al più alto. Poiché Dio è carità, gli si assomiglierà solo amando. La restaurazione della somiglianza divina sarebbe impossibile se il peccato originale l'avesse totalmente eliminata. Ma non è così. Vi è infatti una prima somiglianza a Dio che nessuno può perdere finché vive e che rimane in lui come testimonianza della somiglianza più alta che ha perso. Essa consiste nel fatto che l'anima è presente ovunque e contemporaneamente nel suo corpo, come Dio è presente ovunque, nella sua totalità e contemporaneamente, in tutto il creato. E come Dio, senza cessare di essere semplice, opera effetti diversi nella natura, così, senza cessare di essere semplice, l'anima produce il movimento e la vita del proprio corpo, le sensazioni e le conoscenze. Somiglianza indistruttibile, in quanto inscritta nella natura dell'uomo, ma che non suppone alcuno sforzo da parte nostra e non si accompagna quindi ad alcun merito. Al di sopra della prima se ne trova una seconda, più vicina a Dio, perché dipende dalla nostra volontà. Consiste nella virtù. L'acquisizione della virtù ci rende simili alla perfezione di Dio; la perseveranza nella virtù ci rende simili alla sua eternità. Al di sopra della seconda, se ne trova una terza, di gran lunga la più alta: " in tantum proprie propria, ut non jam similitudo, sed unitas spiritus nominetur ". È di questa che Guglielmo ha detto che fa dell'uomo una sola cosa con Dio: " cum fit homo unum cum Deo ". Da qui il grande scandalo suscitato in alcuni teologi, ma sappiamo che si tratta dell'unitas similitudinis. Essa stabilisce - egli aggiunge - una " unitas spiritus "; in effetti l'idem spiritus, che è donans et donum, è allo stesso tempo l'amore che Dio ha per sé e quello che noi abbiamo per lui. Andiamo oltre, con grande scandalo degli stessi teologi: essa non solo ci fa volere ciò che Dio vuole, ma ci rende impossibile volere altre cose. Infatti, nella misura in cui regna in noi questa somiglianza, come potremmo volere il male, dal momento che la carità, per mezzo della quale noi vogliamo, è in noi il dono dell'amore con il quale il Bene, ama se stesso? Lo Spirito Santo non fa qui che agire dall'esterno sulla nostra volontà; per mezzo della grazia è proprio la Carità stessa, cioè lo Spirito Santo stesso, che è in noi sotto forma di dono; è quindi proprio lui che è in noi questa unitas spiritus e che lo è tra noi e Dio, così come lo è tra il Figlio e il Padre. In breve, in virtù di questo dono l'uomo, che è diventato un uomo di Dio, non merita di diventare Dio, ma, in una maniera che noi, d'altra parte, non sapremmo né concepire né esprimere, diviene per grazia ciò che Dio è per natura: quod Deus est ex natura, homo ex grafia. Bisogna interpretare questi testi alla luce della distinzione fondamentale tra la Carità increata e il dono della carità. Anche se Guglielmo non lo ha fatto espressamente, si può attribuirgliela senza timore; un teologo di quella classe non scrive per i bambini del catechismo e non si ritiene obbligato a ricordare in ogni momento i principi più elementari della fede cristiana. Ma in effetti si constata che Guglielmo ha posto e ricordato questa distinzione a più riprese; è proprio l'idem spiritus che è Dio e che è nell'uomo, ma in Dio è il Donatore, nell'uomo è solo il dono. È opportuno inoltre ricordarsi, criticando questi testi, che la terza similitudine divina corrisponde a uno stato estatico. Taluni si sono inquietati nel sentire Guglielmo dire che una tale similitudine rende l'uomo incapace di peccare. Sarebbe ancora più sorprendente dire che, nell'unione mistica, l'uomo può volere cose diverse da Dio. Tuttavia è quanto bisognerebbe dire per contraddire Guglielmo su questo punto. Infatti la suprema somiglianza dell'uomo a Dio non si produce se non quando la coscienza beata si trova, per così dire, presa nel bacio, nella stretta comune, nell'abbraccio del Figlio e del Padre, che è lo Spirito Santo: " cum in amplexu et osculo Patris et Filii, mediana quodam modo se invenit beata conscientia ". I censori di Guglielmo si sono quindi impauriti solo della propria esitazione. Non avendo capito che la somiglianza perfetta, che egli descrive, è la stessa della visione beatifica o della breve estasi che porta l'anima al di sopra della propria condizione semplicemente umana, non hanno visto che ciò che essi consideravano panteismo non era altro che la descrizione di una unione mistica e beatificante dell'anima a Dio. Nell'attesa del giorno della piena visione divina, più l'anima lavora a scoprire ciò che Dio è, meglio vede ciò che le manca e più si sforza di avvicinarsi, nella somiglianza, a colui da cui si è allontanata con la dissomiglianza. La visione di Dio e la somiglianza a Dio procedono di pari passo, perché la visione di Dio è la somiglianza stessa nella carità: et sic expressiorem visionem expressior semper similitudo comitatur. E la somiglianza divina procede di pari passo con la beatitudine poiché al termine della propria perfezione essa ci fa essere non Dio, ma ciò che Dio è e ciò che la Beatitudine è: Quibus enìm potestas data est filios Dei fieri, data est potestas, non quidem ut sint Deus, sed sint tamen quod Deus est; sint sancii, futuri piane beati, quod Deus est, nec aliunde hic sancii, nec ibi futuri beati, quam ex Deo, qui eorum et sanciitas et beatitudo est.