Fratel Teodoreto, o della vita comune

Fratel Emiliano

Premessa

Fratel Emiliano, in questo articolo, pubblicato sulla Rivista Lasalliana ( vol. XXVIII, fasc. 4, 12/1954 ) a pochi mesi dalla morte di Fratel Teodoreto, e di cui pubblichiamo le parti essenziali, riporta un colloquio avuto con suo fratello Mario, lui stesso ex allievo, in cui affiorano i ricordi giovanili del tempo trascorso a scuola con il loro santo maestro.

Fratel Emiliano Savino delle Scuole Cristiane, è tra i primi ragazzi invitati da Fratel Teodoreto a far parte del "gruppo fondante" della nuova associazione che lui "aveva in mente".

Egli partecipa alla prima storica adunanza del 27 aprile 1913, senza sapere bene di che cosa si tratti né cosa si vuole da lui.

Partecipa alle successive adunanze formative della associazione che si va consolidando con l'aiuto di Fratel Teodoreto e di altri suoi confratelli che si sono resi disponibili, per questa opera di perseveranza, "subito" dopo il provvidenziale incontro di Fratel Teodoreto con Fra Leopoldo del 23 aprile dello stesso anno, ossia quando Fratel Teodoreto riceve l' "ordine" di fare "ciò che ha in mente" per attuare il progetto che fin dal 1906 è maturato durante il suo secondo noviziato a Lambeck-lez-Hal ( Belgio ).

Dopo qualche tempo, il futuro Fratel Emiliano, entra nel noviziato lasalliano, per diventare un Fratello di elevate qualità spirituali, morali e professionali per rendere un prezioso servizio ai giovani e al suo Istituto soprattutto al Collegio S. Giuseppe di Torino dove insegna filosofia e lettere al Liceo classico.

I Catechisti conoscono e apprezzano Fratel Emiliano per la sua disponibilità in molte occasioni, soprattutto durante i Ritiri spirituali .

Egli ha poi il privilegio di poter assistere con assiduità, essendo nella stessa Comunità, il suo santo Confratello e maestro soprattutto negli ultimi giorni di vita terrena e di ascoltare dalla sua ormai flebile voce, le ultime parole che possiamo considerare il suo programma di vita e il suo testamento spirituale: l'invito al totale abbandono alla volontà di Dio in perfetto spirito di fede: « Bisogna che lasciamo fare tutto al Signore che sa fare bene ogni cosa ».

L. R.

Fr. Emiliano

Avendo scritto a mio fratello Mario qualcosa della piissima morte del servo di Dio, Fratel Teodoreto delle Scuole Cristiane, ch'egli, da ragazzo, aveva, al par di me, conosciuto frequentando le scuole di Vittorio Amedeo II, recatomi di poi, presso di lui, a Pegli, per una breve visita, ed essendo il discorso naturalmente caduto anche su quella morte, mi espresse il desiderio di meglio e più ampiamente conoscere alcunché della santa sua vita.

… … …

Mario

Di lui non ricordo che pochissime cose, - cominciò, - e forse, in particolare, una sola.

Quando, alla morte della povera mamma, tu te n'andasti in Collegio, ed io incominciai a frequentare le tue scuole, non ricordo quale fu de' miei primi anni, Fratel Teodoreto che n'era il direttore, venne, come di consueto, a distribuire, in classe, le « testimonianze » che, ogni sabato, informavano i nostri parenti, se fosse stato bastevole o meno il nostro profitto nello studio e buona o non soddisfacente la nostra condotta.

A quell'esile cartolina, d'un bel rosso di pesco acceso, o gialla come il canarino, se ben ricordi, erano spesso legate tutte le nostre speranze d'una lieta passeggiata domenicale con il babbo, o gli zii, o i nonni; e noi la si aspettava, sempre un po' trepidando, per l'incertezza d'un ultimo voto, o per qualche monelleria scappataci dall'altro sabato, che potevano giocarci un brutto tiro.

Quella mattina, dunque, ( Fratel Teodoreto ) entrò in classe, come di consueto, dopo essersi presentato ai vetri, ed atteso d'incontrarsi con gli occhi del maestro, che accortosene appena, tosto discendeva dalla cattedra, mentre uno di noi, si spiccava ad aprir la porta, e tutti, come un sol uomo, balzavamo in piedi, non proprio sull'attenti, ma con molto rispetto; salutò l'insegnante, ci fece cenno di sedere e, si scoprì di bel nuovo dello zucchetto, che già aveva sollevato e rimesso in capo, all'entrar nell'aula, guardando brevemente il Crocifisso e chinando un po' la testa; poi montò al posto cedutogli dal maestro, che intanto s'era preoccupato di sgombrare il piano dello scrittoio dai libri e dai quaderni, non lasciandovi che un registro accanto al quale, stava la temuta scatola delle testimonianze.

Quasi sul bel principio della nomina, come usava chiamarla - ché i primi minuti s'eran perduti in quelle poche parole, ch'io non riuscivo mai ad ascoltare, e credo tutti con me, perché stavo sulle spine, per via della cartolina, - il gran pendolo, ch'era in fondo alla classe, diede il suo rintocco della mezz'ora.

Sarebbe toccato a me, ed io ci tenevo, dire il « Ricordiamoci che siamo alla santa presenza di Dio », che non so se usa ancora nelle vostre scuole; ma non mi pareva ben fatto interrompere il direttore; guardai dunque, il maestro, ché mi accennasse il da farsi; intanto, Fratel Teodoreto aveva fatto un segno, con la mano, rivolgendosi a tutta la scolaresca, che comprese a volo, com'egli s'attendesse quel consueto nostro richiamo, e tosto uno, due, poi altri ancora, di me più pronti, cominciarono la preghiera, ma fu un buffo rincorrersi di voci, che finì con l'eccitarci tutti al riso.

Non rise però, Lui, che anzi, ridepose, sulla cattedra questa volta, quel suo benedetto zucchetto, e si raccolse a lungo in preghiera, chiudendo poi egli stesso, con una giaculatoria, quel nostro momento di riflessione, perché noi, tenuti a bada dalle occhiatacce del maestro, non osavamo più fiatare.

E continuò, sorridendo, la nomina, dicendo non so quali parole, che accennavano sì al « Ricordiamoci », ma che non erano punto di rimprovero.

Fr. Emiliano

L'episodio che tu mi racconti ora, per la prima volta, e di cui ti sono grato, pur nelle sue modeste proporzioni, è tuttavia ben caratteristico di tutta la sua vita.

Immaginala invero, tutta fatta di queste cose; cioè, d'una minuzia sottile, direi, ma non oziosa; d'una soavità contenuta e punto forzata: d'una serena costanza, che non poteva smentirsi in nessun luogo.

In nessuna occasione, e tu hai colto perfettamente quello che innanzitutto fu la sua presenza in mezzo a noi.

Perché, quel suo fermarsi ai vetri ed attendere il cenno del maestro, quel saluto al suo inferiore ed ai ragazzi, quell'adorazione al Crocifisso, quel raccogliersi con devozione in se stesso per la preghiera, quel suo sereno equilibrio, che pur attribuendo alle cose, e più a quelle di Dio, tutto il loro, valore, non le drammatizzava mai, come oggi si dice, tu l'hai certo, come me, osservato in Lui non una o due volte, ma sempre.

E credo, ch'egli così sia stato fin da ragazzo.

Fui, in compagnia del nostro Postulatore generale, Fratel Leone di Maria, cui tocca « fare i santi », com'usa dir scherzando, ed è il suo ufficio vero, anche se i santi si fanno da sé, con la grazia di Dio, voglio dire, - al suo paese natale, a Vinchio, in quel di Asti.

Nelle poche scarne testimonianze, che allora potemmo ottenere da' superstiti suoi amici e condiscepoli d'un tempo, ormai tutti, chi più chi meno, oltre gli ottant'anni, mi colpì il fatto, riferitoci più volte, ch'egli tornandosene dalla scuola, ch'era parecchio discosto dalla sua casa, se n'andasse per ordinario, solo.

Ho pensato ad un comando, o ad una raccomandazione de' suoi, che lo sottraesse al facile indugio con i compagni lungo la strada, - era infatti il più giovane, in casa, l'ultimo d'una piccola nidiata di cinque figlioli, due maschi e tre donne.

… … …

In lui, fin da ragazzo, c'è già, forse, la compostezza dell'età provetta, se il Parroco ed i Priori, con la loro tipica mentalità campagnola, che va diritta alla sostanza, ma non trascura neppure le forme ricevute, te lo passano dalla Compagnia del SS. Sacramento, che raccoglieva i giovani, alla Congregazione del Santo Crocifisso, o come allora si chiamasse, la Confraternita degli adulti del suo paese.

… … …

Eppure, vedi qual mi sono: visitandone la casa dove nacque, e visse fino ai quattordici anni, mi rammaricavo perché la costruzione, pur salda e d'una qualche opulenza, un tempo almeno, non offrisse neppur l'ornamento, ch'io avevo scorto in gran numero d'altre abitazioni, d'una vite, che, alzandosi presso la porta, sale, con il festone de' suoi tralci lungo il davanzale delle finestre; la qual cosa m'avrebbe un po' rappaciato con quel non so che di piatto, e perfino angusto, che mi si parava innanzi.

Difatti, un'uggia pesante m'era venuta da quella terra stenta, ch'io avevo attraversato per giungere al paese: terra da mattoni, dura e difficile da coltivare, e che appena sui dossi collinosi, s'allietava di filari non sempre opulenti, e di vecchi gelsi.

Nella testa mi ronzava il verso dei poeta antico « Simili a la terra gli abitatori produce », e quell'argilla, io la vedevo modellarsi nelle formelle dei mattoni, impasto uguale, uguale forma, e quand'anche perfetti, monotoni.

E a quest'idea mi ribellavo.

Dove cercava la luce, - e la giornata che noi ci godevamo era splendidissima di sole, e con la vendemmia appena iniziata, mi chiedevo, passando dall'una all'altra stanza, ed affacciandomi alle strette finestre, - questo ragazzo, che si sarebbe poi dato all'arte, e che anche la vita avrebbe composta con la minuta, paziente esattezza d'un disegno?

La vite serpeggiante lungo il frontale della casa avrebbe rappresentato, per me, come un'evasione da un non so che di troppo conchiuso e greve e pesante.

Ma chi, da ragazzo, aveva condiviso quell'abitazione con il futuro Fratel Teodoreto, che allora tutti chiamavano Gioanin 'd Carlon ( suo padre era di alta statura, né piccolo fu il figlio ) mi assicurò che quella vite non c'era mai stata.

… … …

Ma anche qui, neppure la pietà in chiesa, aveva un volto che non fosse quello di tutti, come l'obbedienza, il lavoro, e vai dicendo; e neppure una delle sue parole era rimasta.

O forse solo, sì, un ricordo c'era; ma l'avevamo da Lui.

Un dì con Bartolomeo, il nipotino che dalla morte della mamma, abitava con lui al Bricco del Saraceno - nome di leggenda, che si sprofonda negli evi remoti, - si recò difilato ad un rosso e vecchio ciliegio, con le tasche ben ripiene, di semi e granaglie per nutrire un nido di passeri, che avevano ragione di ritenere orfani e soli.

Qualcuno sotto quell'albero, aveva imbracciato il fucile, contro una gaia frotta d'uccelli, che zirlava e stormiva, ed anche la passera era caduta.

Salgono, dunque, per il vecchio tronco.

Il nipotino svelto come uno scoiattolo è tosto in cima.

Sotto di lui, a pochi palmi, il nostro Giovanni sporge il becchime, con ambo le mani.

Ma l'albero è stanco e peso; vacilla; Bartolomeo ha appena il tempo di gettare un grido d'allarme, che la gran chioma del ciliegio, sbanda su d'un fianco, e piomba al suolo, con impeto e spavento, seppellendo, nella rovina, i nostri due contadinelli.

Il nipote si rialza incolume. Giovanni ha una ferita al fianco, d'un ramo che, scheggiato, gli si è infisso dentro.

Ma dov'è la nidiata dei passeri? Da casa, dai campi, tutti accorrono al ciliegio.

L'è andata bene, commentano, l'albero era alto; la caduta, mortale.

Ed è tutto, se già non vuoi scorgervi la mano della Provvidenza, ed è un miracolo che, sottraendo, per così dire, alla morte, i due ragazzi, li serba ad altre nidiate di passeri, ché anche Bartolomeo diverrà, accanto allo zio, Fratel Bonaventura, che tu ben conosci, al par di me, e uomo di Dio, e con il cuore largo appunto come la Provvidenza.

… … …

Così, con quest'ammirabile armonia, il nostro contadinesco accumula tale forza di volontà, tale pienezza di dominio, tale capacità di veder chiaro in sé e attorno a sé, che, fatto adulto, e con la consapevolezza dell'eroismo che comporta il fondersi, per servirmi d'una metafora abusata, annullandosi, nel proprio dovere, questo fa tuttavia come naturalmente, tanto che parrà questa e non altra la sua forma mentis, il dovere perfettamente compiuto, senz'altra congenialità che di compiere tutt'intorno e sempre il proprio dovere.

Io mi sono domandato spesso, se quest'uomo avesse una sua preferenza, o d'azione, o di stato.

Sano o malato, non la dava punto a divedere.

Qualunque fosse poi, l'incombenza affidatagli, era senza più, la sua.

Direi che la sua forma, ed intendo la persona, scompariva per assumere la perfezione di quello cui attendeva.

Ebbe mansioni, invero varie e diverse, e in tutte e sempre, lo vedemmo ugualmente perfetto della sua perfezione, ch'era, come già ti dissi, esattezza, equilibrio, soavità.

Una perfezione, vorrei dire innanzi tutto formale, qualunque siano state le doti dell'uomo, e la stessa sua interiore virtù.

La perfezione che di volta in volta era richiesta dalla sua professione ed impiego, prima; poi dalle responsabilità, anch'esse apparentemente ordinarie e comuni dell'amministrazione economica e didattico-spirituale d'una Comunità religiosa; poi, nell'ambito della sua Congregazione stessa da compiti sempre più delicati, ma anch'essi ben definiti e resi abituali dalla tradizione monastica, come direttore di vari ritiri in preparazione ai voti religiosi ad esempio.

E tale ancora si mostrò poi sempre, in quegli uffici stessi, che oggi ci possono sembrare, come precorritori, e in certa guisa, determinanti dell'opera ch'Egli ci ha lasciato e che in ordine di tempo furono la Scuola serale per gli operai e lo stabilimento dell'Istituto d'Arti e mestieri, in cui non fa che riprenderete continuare l'opera del suo Fondatore, sulla scorta di tentativi, esperimenti e realizzazioni già ben noti e vagliati.

Si giunge infine alla formazione del suo Istituto secolare che chiamò dapprima Unione dei catechisti del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata, ch'Egli presenta come una cosa ordinaria e voluta da' suoi Superiori, da stabilirsi da' suoi Fratelli, nelle loro case, come forma propria del loro apostolato post-scolastico; una cosa ovvia e necessaria, le cui premesse sono già poste da gran tempo, e dal S. Fondatore stesso della sua Congregazione, ed anzi già attuate altrove, cui provvidenzialmente fa richiamo una « divozione a Gesù Crocifisso » che nel 1914, quando si concreta la sua associazione, ha già, in Torino, molti anni, ed ha trovato in un umile laico francescano ( Fra Leopoldo ), un fervido e ispirato apostolo; impegno tanto più urgente ed attuale in quanto la Società sempre più si allontana dal Cristianesimo.

Così, semplicemente.

Perché la scuola, nelle esigue seppure faticose ore dei corsi diurni e serali non basta; non esaurisce il campo dell'apostolato diretto del Fratello delle Scuole Cristiane, che deve pure preoccuparsi di conservare alla sua scuola, alla fedeltà cioè dei precetti inculcati, i suoi giovani.

Di più, sente, con il suo S. Fondatore, che i membri d'una Congregazione religiosa sono sempre, come gli operai del Vangelo, molto al di sotto anche numericamente della necessità della Chiesa, e dell'apostolato: ed ecco il provvidenziale ausilio dei suoi Catechisti.

Qual cosa più naturale, che gli allievi delle nostre classi superiori, appreso e dogmatica, e morale, e liturgia, e storia ecclesiastica, e sociologia, e apologetica, diventino catechisti nelle loro Parrocchie od opere similari?

E se la Parrocchia ha già un suo sufficiente ordinamento ed una propria organizzazione catechistica, non rimangono forse, gli operai ed il gran mondo del lavoro, che per varie ragioni è antitetico a quello delle vecchie nostre basi sociali?

Nostre, perché anche le Congregazioni religiose hanno la struttura delle loro origini, e pur ancorandosi nel tempo di Dio, che non muta, sono sempre parte d'una società che le configura in forme ed attività tradizionali, le quali durano finché non sia esaurito il loro compito; ma che le fa inadeguate a compiti nuovi, epperò diversi in qualche modo dai proprii.

Ed ecco la scuola di dottrina cristiana, del suo S. Fondatore, che ritorna, con le classi serali e festive degli adulti, degli operai e dei loro figlioli, dove l'insegnamento profano ( lingue, disegno, matematiche, tecnologia ) non è che il veicolo del catechismo, come nel lontano 1684.

Anzi, lo stesso insegnamento tecnico-culturale si trasforma in tutto quel complesso educativo, che deve dare la struttura dell'uomo e prende dall'unità della concezione religiosa quel quid di fecondità, anche umana, che d'ordinario manca agli studi e alle scuole volte totalmente o prevalentemente all'acquisizione di nozioni pratiche, come sono, per lo più quelle degli operai.

E come gli sorrideva, il cuor, nel vedere d'anno in anno, la larga ampia famiglia dei suoi scolari, formarsi a quella cristiana virilità ch'è insieme pienezza e splendore di tutta la vita, attraverso questi insegnamenti, per Lui così astrusi ed ermetici, ma di cui indovinava l'efficacia e l'insostituibilità!

… … …

Tutto si svolge senza quasi che Lui appaia, tanto Fratel Teodoreto sa confondersi con il suo dovere.

Le cose, si direbbe, gli sono imposte, e lui le accetta ed a quelle si adegua, collimando perfettamente nel volere e nel fare, sì che ognuna di esse par fatta nella sua misura.

Ed anche d'ultimo, quando fiorisce il suo Istituto secolare, e ad altro più non deve attendere che ad esso, solo adempiti coscienziosamente e perfettamente fino all'ultimo i suoi doveri di religioso, nella propria Comunità, scende in mezzo a' suoi discepoli, sempre, per servirmi d'un esempio, con l'esattezza del professore, che sale la cattedra all'ora prescrittagli dall'orario, senza permettersi alcuna di quelle facili libertà di scelta e di lavoro, che sono pure così comuni ai capi e fondatori di opere religiose.

… … …

Non potevi riprometterti che condividesse i tuoi errori, certo; ma lo sapevi sempre pronto non solo a compatirli, e, per quanto possa a prima giunta parer strana la cosa, a non rilevarli neppure.

Taceva di fronte a quello che non poteva approvare.

Non s'inquietava che altri potesse dire o fare qualcosa in maniera diversa dalla sua.

Mi sono più d'una volta domandato perché conoscendo l'urgenza dell'opera dei suoi Catechisti, Egli ne parlasse sì, con zelo, ma senza quell'insistere e martellare, senza quell' « a tempo, e contro tempo », che per l'apostolato, par legittimarsi anche dalle Scritture, che valesse a scuotere i pigri, ad eccitare i ben intenzionati, ma dubbiosi, a strappare, insomma, quello che non gli si sarebbe potuto ragionevolmente ricusare.

Nessuno di noi scambiava questa sua remissività con alcunché di pusillanime, di fiacco, od altro che gli potesse tornare a biasimo; ma ci riusciva difficile darci ragione d'un'azione che non era, o non sembrava altro che un'attesa.

Ogni anno, nel tempo degli Esercizi spirituali, ci ripeteva il suo appello; ogni anno ci confortava con le sue esortazioni, e messoci innanzi la cosa, si ritraeva, cedendo subito il campo, ad esempio, a chi trovava più facile, più dinamica, più attuale e necessaria l'Azione Cattolica, nelle forme volute « dalla Chiesa ».

Non trovò nulla da obiettare quando qualcuno gli disse che due associazioni, in una stessa Casa, erano troppe, e lasciò che quella che aveva preso il suo indirizzo fosse soppressa e confusa con l'altra più anziana d'età e meno tollerante.

Poi, ben comprendendo come due organismi non possano vivere l'uno nell'altro se non subordinandosi, pure accettò un tardivo compromesso, per cui le due associazioni ( fatta eccezione per l'Istituto secolare costituitosi quasi in modo autonomi, e per lo più fuori della nostra influenza ), fossero incluse e naturalmente, in sott'ordine, in quelle preesistenti di Azione Cattolica, che s'impegnavano, nominalmente almeno, ad un indirizzo catechistico, persuaso, com'era, che ogni suo Confratello ad altro non attendesse se non alla comune opera di Dio, da cui solo poteva e doveva venire il cenno risolutivo, ché anzi, già maturava quel bene che Lui voleva attualmente, comunque gli uomini s'atteggiassero accettando o rifiutando questa o quella forma.

I santi hanno il tempo di Dio: non hanno fretta, perché non sentono l'arsura né dell'opera, né della loro vita; e neppure vorrebbero, da tanto si ritengono indegni, esser dessi, a compierla; né infatti l'intraprendono se non quando il Signore ha avuto ragione dell'umiltà loro, spesso raffigurata in una toccante forma di indocilità, che poi trabocca nella fiducia e nell'abbandono più completi.

Fare il bene è grande; ma senza più gran cosa mi sembra il lasciare che altri lo faccia, senza volergli per niun modo imporre le nostre vedute.

Il bene non può essere nemico del bene.

E credo occorra non poco eroismo, nel rinunciare a quel bene che tu potresti attuare, e forse - a parte la presunzione, che certo in Lui non esisteva - in misura anche maggiore e più garantita.

Ma chi realizza il bene è Dio, non l'uomo.

E Dio si vale di questo e quello strumento: l'opera Sua si compie nell'attualità del suo volere, che crea l'opera e l'artefice.

Noi ammiriamo la tempestività delle risoluzioni, l'arditezza delle iniziative, il coraggio nell'imporle e sostenerle: Dio forse, pregia maggiormente l'attesa e la fiducia di colui che ha scelto come suo collaboratore, e nelle sue mani del quale, sensim sine sensu, va ponendo l'opera sua, perché l'uomo quasi non possa dargli la propria impronta, ma essa quella sola rivesta e conservi che viene da Lui.

… … …

La sua umiltà faceva sì che ch'egli si ritenesse uno strumento occasionale e temporaneo, che neppure avrebbe dovuto vedere il tetto dell'edificio; come un avventizio, egli prestava la sua opera, contento di smaltire giorno per giorno il lavoro commesogli; il tutto, ch'è pure bella e grande consolazione, l'opera finita è di Dio; la fatica, quella minuta che si conclude nella durezza e nello stento, e che si sente, forse, disadattata e manchevole, è dell'uomo, anche troppo avventurato, di spenderla per Lui.

… … …

Fratel Teodoreto non ha mai creduto che gli stessi doni carismatici, che si rivelavano nella sua missione e nel suo apostolato potessero dargli la minima autorità sopra i suoi fratelli.

Pertanto non invase mai il loro campo, né lo preoccupò loro, con la propria azione.

E permise financo, cosa che sempre, ripeto, ci ha lasciati pieni di stupore, che altri facesse e disfacesse, come si suole dire, anche nel solco affidatogli, certo che il tempo lavorasse per Dio, pago quindi di non negargli la propria opera.

… … …

Di qui, mi pare, discenda anche quel supremo rispetto per la libertà e delle anime e dell'azione di Dio su di esse, che caratterizzava i suoi colloqui spirituali.

Non investigava, non chiedeva conto d'un consiglio dato: Ascoltava, poi ti metteva davanti al Signore, perché nella preghiera t'illuminasse e ti facesse ben comprendere quello che voleva da te.

Raramente o non mai, il colloquio si concludeva sotto una forma che potesse sembrare una direzione tracciata da lui, una soluzione d'una tua difficoltà, non trovata da te, un consiglio che non fosse quello della tua prudenza, e come tratto dalle tue stesse parole.

Ma intanto tu n'eri confortato, e quel ch'è più, interiormente illuminato e mosso nella via di Dio.

Or mi soccorre un caso particolare, che dimostra appunto quanto sono venuto dicendoti, e mi concederai di buon grado il velo dell'anonimo.

Un ragazzo, che tu ed io conoscemmo bene, già orfano di mamma, aveva manifestato a suo padre il desiderio di abbracciare la vita dei suoi maestri.

Al brav'uomo sapeva amaro privarsi del figlioletto maggiore, che tra l'altro, gli dava non comuni speranze, e ch'era tutto il suo vanto e nella cerchia dei familiari, e in quella non molto più vasta, ma scelta assai del suo piccolo gran mondo; e nicchiò parecchio sempre nella speranza che il ragazzo smettesse quel pensiero.

Per una di quelle circostanze e noi diciamo casuali, ma che sono invece tessute dalla Provvidenza, il babbo aveva conosciuto, credo a Roma, Fratel Norberto, che anche tu hai conosciuto.

Incontratolo poi a Torino, proprio sotto i portici dell'Annunziata, mentr'era a passeggio con il figlio, e allontanato quest'ultimo d'alcuni passi, il brav'uomo confidò al religioso la "strana idea" del ragazzo.

Naturalmente quell'incontro non poteva, come forse quello aveva sperato, troncare la cosa.

Il buono e dotto religioso pregò invece di mandargli di lì a qualche tempo, il figlioletto, ché l'avrebbe interrogato di proposito.

E così avvenne, il ragazzo andò, fu interrogato, rispose.

Ma non dovette soddisfare pienamente l'interrogante, o questi non volle starsene, in cosa di tanta importanza, qual è la scelta d'uno stato di vita, ai soli suoi lumi, rimise, dunque, il ragazzo a Fratel Teodoreto, di cui ammirava la virtù e la sapienza nelle cose di Dio, perché lo esaminasse intorno alla sua vocazione.

Il ragazzo il giorno e l'ora indicatigli tornò con un po' di soggezione, o piuttosto di pena, da Fratel Teodoreto, perché, l'anno innanzi, poco prima delle vacanze estive, scelto con un piccolo gruppo di amici, per fondare una associazione di preghiere, ed in particolare per la recita della « Divozione a Gesù Crocifisso », dopo alcune riunioni non s'era più fatto vedere, pur continuando, di tempo in tempo, a recitare quella orazione.

Il colloquio, come confessa il ragazzo, ora invero, uomo più che maturo, vecchio, prese le mosse e s'aggirò tutto sulla detta preghiera.

Manco una domanda sfiorò, sia pur di lontano il problema della vocazione.

Ma il ragazzo, tornato di corsa a casa sua, e detta d'un fiato la vecchia « Divozione », concepì l'idea, che poi mandò ad effetto, di scapparsene tutto solo a Grugliasco, troncando così e gli indugi del padre, e le opposizioni, che gli venivano ora come di rincalzo dalla nonna e dagli zii.

Io penso, e credo d'essere nel vero, ch'Egli si fosse arrestato sulla soglia di quell'anima, dove non poteva e non doveva entrare che Dio.

In quanto ai segni esteriori, era giusto che ne lasciasse l'interpretazione e l'esame e a chi quel ragazzo aveva in custodia e cura, al confessore, voglio dire, e al maestro.

Per quell'esame, adunque, non aveva nessun mandato: poteva pregare nel suo intimo, desiderare, temere; ma non pronunciare un giudizio, comunque cautelato dai « mi pare », « a quel che sembra », « come prima impressione », che sono un po' le formule con le quali cerchiamo di sfuggire alla responsabilità di certi nostri giudizi più grandi di noi.

… … …

Mario

Conosco, infatti per sommi capi, le sue opere, delle quali ho visitato io stesso, quel miracolo di fede e di saggezza ch'è la Casa di Carità per le arti e i mestieri, edificata nel cuore d'un centro industriale della nostra Torino, di cui ricordo anche l'ordinamento ammirabile, e quel nuovo prodigio ch'è il concorrere di tanti professionisti, che prestano gratuitamente l'opera loro nell'insegnamento alle varie centinaia di operai raccolti ne' suoi corsi diurni, serali, festivi; e la schiera sempre più folta dei suoi Catechisti, che vivono nel mondo come se fossero religiosi in convento, cui applicherei volentieri quel po' di Scrittura che anch'io ho appreso dal Messale festivo: « Voi siete il sale della terra », e so bene quello che dicono, in fatto di mondo, e di quello operaio in specie.

La sua figura è luminosissima. E non importa che non si discerna bene questo o quel colore, nel prisma dei suoi raggi.

Per me basta la dolce serenità di quel suo imperturbabile sguardo, a caratterizzare un uomo che ha vissuto 83 anni senza mai pentirsi del dono di Dio.

Come sia la vita, ai nostri giorni, e come forse fu sempre, è a tutti noto.

Non ci vuole meno della santità per esserne, anche solo un pochino, contenti, e non odiare noi stessi e le cose.

… … …

T'ho sentito dire, altra volta, e forse l'ho riletto anche in qualcuno dei tuoi scritti, che la santità, poiché di questo, in fondo, si tratta parlando di quel tuo Confratello, non sopprime, ma potenzia ed innalza la persona.

Ora, non temi che vedendo il tuo Fratel Teodoreto con gli schemi d'una vita tutta modellata, per così dire, dall'esterno, dalle opere intendo, e siano opere grandi e perfette, Egli non debba apparire senza quella vigorosa personalità ch'è propria dei santi, o non ritieni tu che detto vigore, da cui risulta l'originalità della santità, debba necessariamente apparire al di fuori, e in qualche modo sognare con l'impronta del santo, più che non della santità, le cose stesse?

Poiché, se ho ben inteso, la forma di santità, che attribuisci al tuo Confratello, pare doversi ritrarre da un suo configurarsi nel dovere comune e quotidiano, che anche sotto gli aspetti più grandi, e a vero dire eccezionali, a quello si riporterebbe; dovere comune, epperò già definito e descritto, così da essere non più un solo, ma di molti o senza più, di tutti, che, pur non rifiutando l'apporto individuale, questo subordina alla perfezione, se non astratta, certo impersonale, del codice e del precetto esteriore.

… … …

Fr. Emiliano

Hai compreso benissimo quello che fin qui è stato detto, ma ancora no ti ho aperto tutto il mio pensiero, né lo potevo, ché anche le parole vengono assumendo un loro significato più profondo e vivo, quando il discorso le riscaldi, per così dire, e traendole dall'accezione fredda e morta del lessico, le fa come sostanza del nostro pensiero.

Di Fratel Teodoreto, com'è stato detto, nessuno può notare una mancanza qualsiasi, ed io stesso posso testimoniarlo di questi ultimi anni, ch'egli visse nella nostra casa di Torino, ed anche per gli incontri ch'ebbi più volte, e non solo fugacemente, con Lui.

È un dato esteriore, che potrebbe, forse, anche rivestire la forma positiva equivalente, e cioè ch'Egli fece sempre e tutto perfettamente quello che fece, se non sembrasse con ciò stesso affermata una perfezione impossibile alla nostra natura.

La testimonianza, che raccoglie unanime il consenso di quanti lo conobbero, di non avere mai notato in Lui alcunché imputabile a colpa, è già di per sé, di tale valore, da non aver bisogno di estenderla anche a quelle cose, cui per avventura non la sua virtù, ma le sue forze fisiche o intellettuali furono al di sotto.

Tali cose, anzi, non possono mancare nel quadro d'una vita comune, della quale sono appunto riprove certissime; così non ti offenderà non trovare in lui doti oratorie, ad esempio, o qualche altra carenza del genere.

Dicono che i primi anni del suo insegnamento furono un duro tirocinio di pazienza, perché non riusciva ad ottenere la voluta disciplina dalla sua indocile scolaresca.

Ma che per ciò? Talune cose non si radicano in noi, né ci persuadono, se non dopo averle vissute e sofferte.

A quanti insuccessi non dovrà poi offrire il soccorso della sua comprensione, così da impedire che non si tramutino in smarrimento, nell'anima dei giovani maestri, a lui affidati per l'ultima preparazione spirituale avanti gli irrevocabili voti religiosi!

… … …

Ad uno può parere profetico, quello che ad altri sembrerà solo prudente; questi, scorgerà un comando, quello un assenso; troverai che affermi con pari persuasione, d'esser stato precorso, o d'esser stato confortato nella propria deliberazione.

Ogni testimonianza, in questo campo, è soggetta dunque a molte cautele; e tutte e ciascuna non possono avere che un valore personale.

Tuttavia, poiché io stesso, sempre e in circostanze assai diverse, e in differenti stati, e potrei dire in tutte le età della mia vita, e in momenti particolarmente significativi, ritrovai una forma istessa, a questa mi attengo, e questa assumo come caratteristica di Lui.

Spesso, adunque, come tu sai, lo richiedevo di consiglio.

Ora, non ebbi mai una risposta apodittica, o comunque personale; ma ti seguiva, in quello stesso che tu gli sottoponevi, sia pure integrando i motivi della tua scelta, con una superiore visione soprannaturale, per la più contenuta come ho riferito più sopra, nell'invito a pregare e a rivolgersi davanti a Dio.

Questo suo modo di condursi mi pare conformarsi non solo alla prudenza, che proibisce ogni consiglio avventato o men cauto e sicuro, ma del pari a quel suo stesso spogliarsi del proprio io per farsi tutto alla cosa, non più considerata dal tuo lato, e come partendo da te, ma da quello di chi si consiglia e muovendo da lui; il qual processo, normale in sé, poiché il dubbio muove piuttosto dalla mancanza di volontà che di conoscenza, in Fratel Teodoreto testimoniava ancora del suo supremo rispetto all'azione di Dio nelle anime ed alla libertà stessa dello spirito, riuscendo tuttavia chiarificatore e risolutore per quell'impulso a volere, ch'egli certo comunicava, non fosse che con la promessa delle sue preghiere, e con l'affermazione che Dio non può non assistere chi agisce rettamente dinanzi a Lui, e che questo stesso nostro deliberare davanti a Dio, è garanzia del suo beneplacito.

Tu vedi svolgersi nel modo più semplice e naturale, un fatto che ha del carismatico: il consiglio, ch'è già in te, o per altre ragioni in ovvio, cessa dall'essere inefficace dopo un suo colloquio, durante il quale, non Lui, ti scarica della tua responsabilità, sì bene tu stesso ti fai più attento ed incline alla tua voce interiore; ma nulla ti rivela in Lui né discrezione di spiriti, né conseguenze profetiche, od altro del genere.

È l'azione ch'io dico comune, per indicare che le sua forme non escono da quelle normali, e che per me rileva dai caratteri dell'azione di Dio, che agisce sempre secondo le forme non dell'agente ma dell'oggetto, in cui essa si svolge.

Del resto, ecco un documento formale.

Rispondendo ad una lettera, in cui gli si domandava se non credeva fosse venuto il tempo d'impegnare ufficialmente la Congregazione dell'accettazione della « Divozione a Gesù Crocifisso » ( è noto che le nostre Regole ci fanno divieto d'accogliere "divozioni" particolari e di propagandarle ) e dell'Unione Catechisti, citato dapprima la recente autorizzazione del Superiore Generale a promuovere l'una e l'altra cosa « tra i nostri allievi », sottolineando bene queste parole, con carattere quasi doppio delle altre, con la sua scrittura così nitida e curata, e trascritti taluni articoli del nuovo regolamento, ( siamo nel 1935, l'Unione ha quindi 21 anni ), e qualche "detto" riferito da Fra Leopoldo Maria Musso o.f.m. ( quelli stessi che tu mi puoi leggere nella biografia dedicata da Lui al venerato suo umile amico, che gli è pur tanto dissimile ), rivolgendosi al Fratello ch'era nel Belgio al Secondo Noviziato, che, a quei tempi, raccoglieva i membri più qualificati della Congregazione, conclude: « Ritengo che Lei sia stato scelto da Gesù per illuminare i Secondi Novizi e spronarli a diffondere la Divozione a Gesù Crocifisso e l'Unione Catechisti.

La prego quindi di fare quello che il Signore Le ispirerà per tale scopo ».

… … …

Non vorrei tediarti; ma credo che le cose più perfette sono le più comuni.

Anzi, non sono perfette che le cose comuni.

Si può essere grandissimi, alternando a pochi eroismi, infinite zone d'ombra.

Non si può essere perfetti che camminando in una via sempre uguale.

Puoi accettare il dolore e la morte, e tu sei grande; ma sarai perfetto quando né una contrarietà, né l'eroismo tuo stesso potranno sorprenderti con un lamento, anche appena a fior di labbro, o con un rimpianto in fondo al cuore.

E bada, l'eroismo, la grandezza, riscattano; dunque sono in qualche guisa il prezzo d'una rottura o d'una carenza.

Non così l'umiltà delle piccole cose, che valgono, non per sé, ma per la loro perfezione formale, che a sua volta neppure ha valore per ogni singola cosa, ma per la sua continuità, perché la perfezione della vita comune, se è veramente tale, non comporta né rotture, né carenze.

Non ha riscatto. Le piccole cose si perdono nel nulla, se non sono scandite sul tempo eterno di Dio.

Fratel Teodoreto non si è mai lasciato sfuggire una lagnanza, non si è mai appellato ai suoi meriti contro le incomprensioni altrui, non ha mai sollevato un'eccezione nel dovere comune. Piccole cose?

E siano, dato e non concesso. Ma l'una si salda all'altra, ugualmente perfette oggi, domani, sempre.

Non è più la forma dell'uomo, ma è l'azione trasposta in Dio.

Il Cristiano non ha bisogno della saga eroica per riscattare la piccolezza dell'uomo: Dio è abbastanza grande.

Costretto alla degenza in infermeria, che c'è di più comune del suo umile chiedere, al domestico che lo serve e n'ha cura, il permesso di fare quei quattro passi che lo separano dalla Cappella?

E se t'incontra, che cosa c'è di più naturale che augurarti una buona giornata, o che tu stia bene, o che non ti stanchi troppo?

Sono le piccole cose fiorite ai margini d'un mondo divino.

L'anima di Fratel Teodoreto ora che l'età e la malattia gli impongono lunghe soste nell'azione esteriore è rapita nella preghiera, e c'è qualcosa, nella sua vita, che rassomiglia molto alle cose divine; ma intanto è con noi, nella continua, semplice sua umiltà e verità umana, che non smentisce mai quel tocco delicato e perfetto, quella soave e costante serenità, quel configurarsi tutto nel dovere comune, per essere completamente, perfettamente tuo « fratello ».

T'è accanto e quasi tu non te ne accorgi, tanto è poco ingombrante.

Non c'è uomo che non soffra l'attrito dell'uomo che gli è ai fianchi.

Ma con lui tu non lo avverti: questo attrito, non c'è. Non c'è quando tu operi bene.

Non c'è neppure quando tu dimentichi quel bene che dovresti fare.

Con il male, forse? Credo che non se ne sarebbe, comunque, scandalizzato.

… … …

L'individualità di Fratel Teodoreto è tale che né io né altri della età mia, può ricordare chi gli stia a paro, o anche solo appresso.

… … …

Quanto poi sia stata interagente la sua personalità, puoi ricavarlo dalla stessa impressione di pace e di serenità che produceva la sola sua vista, benché, e lo comprendi, l'aspetto o la presenza fisica non siano se non come gli aggiunti della personalità, e non la persona, che tuttavia attraverso a quelli si esprime.

Il divino ch'era in Lui, per così dire, naturalmente comunicava con il divino ch'era in te, rompendone anzi l'opaca crosta che per avventura lo ricoprisse.

Un'anima, mi verrebbe fatto di definirlo, come trasparenza di Dio, nella semplicità della vita comune, e nelle forme dell'azione ordinaria, ch'è il massimo della nostra concretezza di essere e di essere personale, che in qualche modo attinge della sua perfezione finale, ch'è quella appunto d'essere come una teofania, il portatore, cioè d'una presenza divina che si manifesta nell'essere e nell'agire, che va oltre la contingenza del soggetto che agisce e dell'oggetto che viene prodotto, per conformarsi alla trascendenza del fine, per cui è ed agisce.

Manifestazione di Dio, o avuto riguardo al modo di essa, come una trasparenza di Lui; ma tutti sanno che questa trasparenza ha creato i mondi improntandoli di Se.

E un mondo, invero, è l'anima di ciascuno di noi, e più eccellentemente, certo, quella d'un santo.

Ma ritornando a Lui, dirò che non credo, fra quanti io ho conosciuto, ci sia stato nella mia Congregazione una personalità più grande, né più capace di adempiere alle funzioni proprie della persona, di Fratel Teodoreto, appunto per quel suo adeguarsi alle cose, alle infinite cose d'ogni dì, ch'è la perfezione umana, quando esse sono in Dio; per quel configurarsi in esse, sì che tu non appaia, o solo quanto la tua strumentalità occorre perché siano, e siano secondo la loro, non secondo la tua forma.

… … …

Mario

Evidentemente non può darsi per l'uomo una misura più grande di Dio.

La personalità d'un santo è, sotto quest'aspetto, fuori di ogni discussione.

Anche il mistico, è lontano, per così dire, dalla società in cui vive, nella misura appunto in cui attua la sua capacità di Dio, diventa una personalità inconfondibile e pertanto lo strumento formatore di innumeri individualità agenti ed operanti, per Io stesso spirito, che l'ha conformato nella sua santità.

… … …

Ora, ti prego, come già m'hai promesso da principio, parlami un po' più minutamente delle sue opere e non già della loro realizzazione meramente esteriore, ch'io credo di conoscere a sufficienza, e neppure del loro sviluppo storico, ch'io trovo in altri scritti, ma come riprova di quanto finora siamo venuti discorrendo.

Fr. Emiliano

Te ne avrei parlato anche senza la tua richiesta, perché nessun argomento potrebbe essere più comprobante del mio assunto, che vederlo, per così dire, attuato nelle sue opere, o meglio in quell'opera sola, l'Istituto secolare dei Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata, che tutti conoscono come i Catechisti di Torino, o semplicemente, di Fratel Teodoreto.

Una felice e provvidenziale coincidenza, m'ha messo alle origini di tale fondazione.

Ed ecco come. Frequentavo la quinta classe delle elementari in via delle Scuole, come allora si chiamava l'attuale via Marna ( ora via … ) nel quartiere detto della Consolata, perché non lontano dal Santuario, ed era la più bella e nuova scuola della vecchia R.O.M.I. del buon re Carlo Felice, nota sotto il nome di Scuole Vittorio Amedeo III.

Un pomeriggio, verso la fine dell'anno scolastico, Fratel Martino, che fu poi anche il tuo maestro, mi fece interrompere non so quale esercitazione scritta, per mandarmi in corridoio, con un « Va a sentire di che si tratta », accompagnandomi lui stesso all'uscio, dove frattanto, - prima non me n'ero accorto, - era apparso il buon Fratel Teodoreto.

Un rapido esame di coscienza, alla maniera del Manzoni, m'assicurò che anch'io, come Don Abbondio, non avevo nulla da rimproverarmi, almeno di quelle cose di cui dovessi rendere conto al Direttore.

Salutai, un po' titubante tuttavia, e non senza guardare con una muta interrogazione il mio maestro.

« Mi pare che faccia al caso suo », disse questi.

Parole che subito mi allarmarono, e mi posero in guardia, vorrei dire con diffidenza, perché già da allora non ero punto tenero di quelle cose che offrendosi ad un titolo personale, sapevo poi di doverle pagare ad un prezzo non comune.

Non ricordo una sola parola di quel colloquio, fatto passeggiando in su e in giù per l'ampio corridoio.

Forse ero distratto dalla novità e singolarità della cosa.

Se la domenica seguente andai in via delle Rosine, da Fratel Teodoreto, fu solo perché il maestro mi disse di trovarmici intorno alle 15.

Dagli altri quartieri della città, quand'io vi giunsi, erano già convenuti una decina di ragazzi della mia stessa età, e presumibilmente frequentanti la stessa mia classe.

Fratel Teodoreto ci parlò del Signore, che aveva tanto amato gli uomini da morir crocifisso per i loro peccati, e come tanti Io dimenticassero.

Concluse proponendoci una preghiera, datagli da una pia persona ( che non nominò ), che dovevasi recitare adorando il Crocifisso, come il Venerdì Santo.

Sul trittico distribuitoci, e che mi parve già ingiallito dal tempo, stava scritto, infatti, « Adorazione a Gesù Crocifisso », e nelle avvertenze, credo, era spiegato il modo con cui doveva recitarsi.

Ci inginocchiammo, adunque, intorno ad un gran Crocifisso posato, per la parte superiore, su d'un cuscino, e leggendo sommessamente, recitammo la preghiera.

Poi, Fratel Teodoreto, solo, baciò i piedi del Crocifisso.

Ci esortò a tornare difilato alle nostre case, e di recitare quella preghiera tutti i giorni, in quel modo che ci fosse possibile « anche solo deponendo il foglietto su d'una sedia, ed inginocchiandoci davanti ». 

Tornassimo la domenica seguente, alla stessa ora, per ritrovarci insieme ai piedi di Gesù Crocifisso.

Alla mia memoria non posso chiedere di più.

Ma in quella prima riunione di ragazzi, intorno ad un Crocifisso, con Fratel Teodoreto inginocchiato con noi, sul polveroso pavimento di un'aula al pianterreno o rialzato che tu voglia, di via delle Rosine, era nata l'Unione.

Mi sono dilungato un po' in questo racconto, ma a ragion veduta.

Fratel Teodoreto non ci dice nulla di peregrino, c'invita a pregare.

Nessun accenno a cosa men che ordinaria.

Quella è una preghiera, come tante altre.

 Scelta apposta perché porta il Crocifisso, che gli altri non vogliono più ne in casa, ne nella scuola, ne in alcun luogo.

Il modo della « Adorazione » eccita un po' le nostre fantasie; ma in fondo, il riferimento al Venerdì Santo l'avalla pienamente.

Del resto, basterà « recitarla, come ci sarà possibile », ma fedelmente, tutt'i giorni della settimana, da soli; la festa, tutti raccolti insieme.

Non sapresti trovare un inizio più modesto, ne più sicuro.

L' « Adorazione » ci viene presentata come « una preghiera, datagli da una pia persona ».

Chi è? Non glieIo chiedemmo allora, ne io glie lo chiesi mai.

Nel nostro caseggiato, se ben ricordi, la signorina Pavesio ci aveva già dato qualcosa di simile, ch'era andato a finire nella Filotea della nonna, o nella scatola delle immagini.

Da quel gruppo di ragazzi che pregano, si sviluppa prima l'Unione di Gesù Crocifisso e di Maria SS. Immacolata, poi da questa, l'Unione Catechisti, e infine, a coronamento, i Catechisti Congregati.

La vita crea le sue forme.

Ma è vita soprannaturale, di preghiera e di apostolato, ed ecco la forma, per il tempo in cui sorge addirittura rivoluzionaria, di una associazione i cui membri si propongono la stessa perfezione dei religiosi, nel mondo, e in un primo tempo, nella stessa vita coniugale, conservando quindi e famiglia, e impiego, e posizione.

L'apostolato non è mai stato un comando distinto e particolare, od un dovere ristretto a pochi chiamati: è un corollario della vita cristiana, che si fa tanto più urgente quanto più essa è profondamente, cioè, religiosamente vissuta.

La vita cristiana ha le sue grandi tavole nei Comandamenti di Dio e della Chiesa, che nella loro pienezza non sono accessibili che attraverso il catechismo.

Fratel Teodoreto, figlio di S. Giovanni Battista de La Salle, che non aprì le sue scuole se non per catechizzare il popolo, è già strutturalmente orientato, come forma mentis, alla catechizzazione.

« Catechista, - dirà in una memorabile adunanza, - non è solo chi dal pulpito, o dalla cattedra insegna teoricamente il catechismo, ma chi lo insegna con il proprio esempio sul lavoro, in casa, dappertutto; chi lo mette a base dei suoi consigli e delle sue deliberazioni; chi al catechismo si richiama in pubblico e in privato, e ne fa la regola pratica, per sé e per gli altri, di tutto quello che fa, dice e pensa ».

Il catechismo va innanzi tutto studiato.

L'Unione Catechisti è, prima di ogni altra cosa, una scuola di religione, di catechismo, voglio dire, quando non è ancora nata l'idea congreganista, che recherà con sé l'ascetica propriamente detta religiosa.

La Congregazione nasce a sua volta, dalla necessità morale che il catechista non sia solo un « dicitore di parole », un banditore indefesso ed illuminato della verità; ma anche un « facitore della parola », un uomo che attui, cioè, nella sua pienezza la vita cristiana, quella dei precetti e comune, e quella vocazionale dei consigli evangelici.

Vedi, quanto Io sviluppo sia logico e graduale, e come tutto si permei della vocazione sua di Fratello delle Scuole Cristiane, così che tutto il movimento, che gravita intorno a Lui, pare un normalissimo corollario dell'apostolato comune e tradizionale nella sua Congregazione, che difatti come tale lo accetta e l'incoraggia.

Che cosa c'è di più consentaneo alla vocazione lasalliana che il catechismo?

E qual garanzia migliore per l'opera sociale della Congregazione nel mondo, che da essa, non solo escano catechisti, ma, rinnovando i tempi primitivi della Chiesa, questi vivano nel mondo « come non essendo del mondo », come religiosi, insomma?

Gli Istituti secolari non saranno approvati dalla Chiesa che nel 1947.

I Congregati del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata risalgono al 1926; l'Unione, a poco più d'un decennio innanzi.

L'abbandono dello stato coniugale è meno una imposizione conformista ai canoni tradizionali dell'ascetica monastica, che non una conseguenza d'un più perfetto accostamento ai consigli evangelici che, com'è noto, comprendono la verginità.

Comunque non si traduce solo in termini di libertà spirituale, ma anche fisica, che permette di stabilire il "corpus" del nascente Istituto.

Anche qui, da principio i Catechisti sono pensati come ausiliari per le opere post-scolastiche dei Fratelli, per le classi popolari serali, associazioni cattoliche, ecc.

Questo è nella linea naturale dello sviluppo dell'azione d'un Fratello delle Scuole Cristiane.

Ma quando i Congregati sono ormai un corpus e questo può considerarsi adulto, ecco determinarsi le ragioni della propria autonomia.

Nati dalla scuola, s'orientano alla scuola.

Ed il primo orientamento avviene secondo la legge della complementarietà, cioè verso quel settore cui non giunge, o non giunge in maniera adeguata l'opera della Congregazione di cui è membro Fratel Teodoreto, la scuola operaia, quella sopra tutto per l'adulto, fuori dall'età, quindi, propriamente scolastica, o nel mondo del lavoro almeno, concepito, a ragione o a torto, in maniera antitetica alla scuola.

A questo punto l'opera di Fratel Teodoreto pare esaurita.

La costruzione è durata quarant'anni.

Noi la vediamo crescere organica e naturale, per un suo intimo e coerente sviluppo.

Ma non dobbiamo dimenticare che l'edificio ha le sue radici nella preghiera, e che non si è elevato che nella misura in cui si sprofondava nel soprannaturale.

Quel soprannaturale che sfugge al nostro sguardo umano, o appena s'accenna qua e là, dove siamo più perplessi nel darci la ragione terrena d'un fatto, per esempio, che diremmo, più volentieri e facilmente, divino.

E la fusione dei due elementi, quello umano, nelle sue contingenze comuni ed ordinarie e quello divino, che s'intuisce più che non si scorga, è in Fratel Teodoreto così perfetta, da assumere, diresti, l'aspetto caratteristico della sua opera e della sua spiritualità : tutto appare semplice, naturale e tutto è carismatico e soprannaturale.

Che egli raccolga primamente intorno a sé, nell' « Adorazione a Gesù Crocifisso » ragazzi sulla soglia della scuola media, è dovuto sì, a ragioni, dirò ambientali, in quanto la R.O.M.I. non ne ha, a quel tempo, di più avanzati negli anni; a ragioni, che possono ricercarsi anche nella tradizione seguita dalla propria Congregazione, di accogliere i futuri suoi membri, in seminari preparatori fin da quell'età appunto; forse non sono estranee, in Lui, educatore, neppure le ragioni psicologiche, che vedono, a quell'età, integra le sorgenti affettive, e già sufficientemente aperto lo spirito per comprendere e volere ciò che viene loro proposto, specie nel campo morale e religioso.

Ma che raccoltili intorno a sé, li confermi con la sua propria fedeltà, e li faccia suoi, cioè di Dio, con nessun'altra allettativa o procedimento, che d'ispirar loro la devozione a Gesù Crocifisso e a Maria SS. Immacolata, già non avviene se non per una comunicazione carismatica dello stesso Spirito che lo regge e lo anima.

E tuttavia, il piccolo gruppo s'è formato quasi ad arbitrio altrui: sono stati infatti, i suoi Confratelli a scegliere i ragazzi, guidati, in questa scelta dal loro particolare discernimento e da motivi loro proprii; ed è evidente che quelli stessi ch'erano stati scelti, oltre la naturale soddisfazione d'esserlo stato, non si rendevano conto alcuno dei motivi che avevano indotto a sceglier loro a preferenza d'altri compagni, ché tutti, suppongo, avrebbero saputo indicare qualcuno migliore di sé.

Non una Pentecoste carismatica, dunque.

E neppure il vaglio s'affidò ad altra cosa che alla costanza, rara invero, dei ragazzi.

Chi avrebbe perseverato, quello sarebbe stato assunto.

Assunto a che cosa? Avrebbe continuato a far parte di quel piccolo gruppo, che poteva anche ampliarsi, costituirsi come associazione; ma intanto neppure aveva nome.

Quello che di fatto risonò per un istante, di « adoratori di Gesù Crocifisso », era troppo superbo, ed allarmò le famiglia, cui si dovette spiegare che non si trattava che d'una devozione da praticarsi come l'adorazione alla Croce del Venrdì Santo.

Accanto a Fratel Teodoreto troviamo, per sua esplicita testimonianza, Fra Leopoldo Maria Musso, laico professo dell'o.f.m.

Da lui riceve la « Divozione a Gesù Crocifisso », a lui ricorre per preghiere e consigli.   Fra Leopoldo lo rassicura ch'è nella via di Dio.

Gli dà misteriosi messaggi da trasmettere ai suoi Superiori.

Parla  « d'un Ordine che verrà ».

Le sue comunicazioni sono fatte in nome di Gesù Crocifisso e di Maria SS. Immacolata.

Fratel Teodoreto crede in Fra Leopoldo.

Non si pone neppure le domande più ovvie, su fatti tanto singolari.

Basta leggere la biografia che ne scrisse, per convincersi che i santi s'intendono tra loro, e sono portati a riconoscerai per un mirabile intuito.

Nel Diario in cui il Frate laico del Convento di S. Tommaso scrive, scrive, scrive le sue « adorazioni », il nome di Fratel Teodoreto appare dapprima come quello d'una persona indicatagli, senza altri espressi riferimenti, ma da porre in relazione con la diffusione della « Divozione » del Santissimo Crocifisso.

Poco dopo, Fratel Teodoreto interroga ed il buon Frate laico risponde in nome di Gesù Crocifisso.

Poi è il destinatario di un messaggio: « Dirai a Fratel Teodoreto … ».

Da ultimo, Fratel Teodoreto è l'erede di tutto ciò che il SS. Crocifisso ha fatto per mezzo di Fra Leopoldo, ( e che deve uscire dall'Ordine francescano per passare ai Fratelli delle scuole cristiane ).

Ora, che cosa ha fatto Fra Leopoldo, che non possa passare dal suo Ordine serafico alla Congregazione lasalliana, senza un espresso comando di Dio?

Ciò che Fratel Teodoreto ha fatto per suo consiglio?

L'associazione di perseveranza, cui mirava prima di incontrarsi con il Frate, e ch'è venuta formandosi nella struttura d'un'opera d'apostolato religioso e sociale, in uno stato anzi di perfezione, che sarà riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa?

Fra Leopoldo muore nel 1922.

Che cosa è stato per Fratel Teodoreto? Il mezzo di cui Dio si è servito, perché l'opera dell'umile figlio di san Giovanni Battista de La Salle, anche per quella parte che rileva dei doni carismatici, si compisse, per quanto era in Lui, attraverso quelle vie comuni ed ordinarie, che il Padre e Fondatore prescriveva di prediligere e seguire?

Non vorrei tuttavia affermare che in un'opera comune, il primo rappresenti la via straordinaria ed il secondo quella comune.

Non perché mi ripugni questa subordinazione, ma perché non la vedo punto necessaria.

L'azione di Dio, in tutte le cose, si attempera all'oggetto, non già che questo possa violentarla e far sì ch'essa sia diversa da quella che è, ma in quanto si limita alla natura di ciò che la riceve.

Azione comune ed azione carismatica sono espressioni che non hanno senso se non rispetto al modo con cui l'azione è ricevuta dall'oggetto.

In Fratel Teodoreto essa s'attempera in modo, che neppure come oggetto e passivamente si configura quale azione sua personale, ma senz'altro s'informa dell'azione esteriore e comune cui attende. Di qui la mirabile sua perfezione, che se dovessi esprimermi con un'immagine, direi come d'un'acqua, o meglio un'aria limpidissima che, pur non avendo forma propria, impregna tutto della luminosità che riceve, conservando alle cose il loro aspetto naturale.

Dovremmo, a questo proposito, esaminare ancora, con qualche compiutezza maggiore, il lato più caratteristico dell'Istituto secolare da Lui fondato, ma poiché abbiamo conversando protratto il tempo anche più del conveniente, mi limiterò ad accennare come, anche per questa parte, l'audace sua costruzione segua le vie naturali e comuni.

Io non so, se Fratel Teodoreto abbia pensato agli asceti ed alle vergini della Chiesa primitiva, che pur vivendo nel secolo, attendevano tuttavia alla perfezione sotto la guida dei Vescovi, nel concepire la sua opera.

È probabile che sia stato invece l'apostolato, cui dovevano attendere i Catechisti a porre le premesse e le esigenze della loro perfezione cristiana.

Esso si svolgeva nel mondo, in maniera individuale, e nelle forme stesse della vita secolare: Fratel Teodoreto viveva in convento, con un apostolato circoscritto alla forma tradizionale comunitaria e separata, con forme antitetiche a quelle secolari.

Come spiegare che il religioso, così chiuso nelle forme del passato - e tanto più ligio ad esse in quanto come strutturato in esse dalla propria dedizione incondizionata, e dal suo lungo tirocinio di virtù claustrali, - concepisca la nuova fondazione non con i limiti e le forme della comunità religiosa, ma pur facendo « religiosi » i suoi Catechisti ne propugni la secolarità?

Da che cosa gli venne come il presentimento di quest'intima necessità della Chiesa del nostro tempo?

E come poté finalmente realizzare l'appello alla santità, e ad una santità non comune, lanciato dal suo Fondatore, S. Giovanni Battista de La Salle, non solo ai Fratelli, ma ai loro scolari?

Le Regole e le Costituzioni del suo Istituto secolare hanno molti punti di contatto con le Regole e le costituzioni lasalliane; ma tuttavia esse traggono i loro motivi ispiratori meno dalla comune professione della perfezione religiosa e dall'affinità dell'apostolato della scuola, che dalla più ampia sfera dell'apostolato cui mirano, e ch'è solo apparentemente affine all'apostolato scolastico del Fratello; dall'esigenza fondamentale della loro presenza, come religiosi, nel mondo, voglio dire, che si risolve in una penetrazione più intima ed attuale, fatta ad un titolo e sotto una responsabilità personale.

Senza una particolare assistenza di Dio, forse, la nuova opera avrebbe corso il rischio di non essere se non una « piccola comunità » di fronte a quella « maggiore » rappresentata dalla Congregazione religiosa, cui apparteneva, una sorta di terz'ordine, e nulla più.

E forse, a questo si pensò anche, un tempo.

Ma il disegno di Dio era più ampio.

E si compì, per questo appunto, che in Fratel Teodoreto, l'azione, come quella di Dio, non era mai secondo la sua forma, il suo io, neppure nell'accezione della sua personalità: ma solo e sempre secondo la natura dell'opera, in cui Dio realizzava il suo volere, si manifestasse questo attraverso l'illuminazione divina, o attraverso la naturale dialettica delle cose stesse.

Anzi, io propendo maggiormente per quest'ultima, avvertendo però, che, per i santi, la dialettica naturale delle cose, è il prodotto d'una logica soprannaturale che vede le cose nella luce della fede, così come la loro azione non è mossa dalla fredda ed irrecusabile deduzione della mente, ma dal calore della speranza e della carità.

Così, una vita comune ha il suggello divino.

E solo con un termine divino, comunque analogico, può definirsi la perfezione di Colui che massimamente agì nella forma stessa dell'azione di Dio, senza che l'uomo mai apparisse.

E tuttavia, nessuno, di quanti io conobbi, - e furono maestri grandi, dotti, valenti, - nella nostra Congregazione, lo eguaglia come enucleatore di personalità - i discepoli - e propulsore di spiritualità - le opere, tra cui un Istituto secolare, che ne continua la missione e ne perpetua lo spirito.

Il quale spirito, ch'io vorrei dire spirito di perfezione, senz'altro aggettivo, tradotto nella forma solita del suo linguaggio, caldo, concreto, misurato, forse si esprimerebbe semplicemente con un precetto comune: essere sempre agli ordini del Signore; non prendergli mai il passo; seguirlo fino alla fine; fare sempre solo e tutto quello ch'Egli vuole, e come Io vuole, e come ti da grazia di compierlo.

È questo, invero, l'insegnamento richiamatomi con l'ultime parole, ch'io ebbi da Lui, pochi giorni prima che ci lasciasse.

Nel gennaio di quest'anno, infatti, una nuova emorragia cerebrale ci fece temere prossima la sua fine; ma ancora una volta, come già nel settembre del 1949, Fratel Teodoreto si riprese, e verso Pasqua, potevasi considerare guarito.

Tornato alle sue stanze, veniva tuttavia in infermeria, per sorbirsi una buona tazza di caffè, così come gli era stata prescritta, subito dopo il pranzo, che prendeva, naturalmente, in comune.

E qui l'incontravo quasi ogni giorno, a quell'ora specialmente, o intorno alle sedici, quand'Egli vi passava dopo essere stato nella vicina Cappella a recitare la « Divozione a Gesù Crocifisso ».

Ma ai primi di maggio, il male s'annunciò di bel nuovo, con qualche deliquio e smarrimento, così che fu prudenza richiamarlo nelle stanze dell'infermeria.

Al solito, obbedì di buon grado.

In uno di questi ultimi pomeriggi, fermatemi un istante a conversare con Lui, - ed Egli stentava sì ad intendermi che a parlarmi, - convenendo amabilmente ad una mia osservazione, « Bisogna, - disse, ritrovando certa sua vivacità di voce e di gesto, - che lasciamo far tutto al Signore, che sa far bene ogni cosa », e la mano scolpiva un cenno rassicurante e promettente.

M'affidai alle sue preghiere, e avutone in risposta un suo « Preghiamo », mi ritrassi.

Il giorno dopo, l'8 di maggio, verso mezzodì, l'emorragia gli aveva già paralizzato tutt'il fianco destro, colpendolo mentre, con il permesso del medico, si era levato di letto e vestito per il pranzo, che le sue condizioni fino a quel momento non erano apparse punto gravi, se gli era stato anche concesso di recarsi alla celebrazione del 40° anniversario della sua Associazione, fissata alla Casa di Carità per arti e mestieri, in corso Benedetto Brin.

Da quel punto, non poté più parlare.

Strette, le mascelle, senz'essere convulse, non permisero più, se non a fatica di somministrargli qualche goccia di liquido, mentre la gola, per il respiro che, a tratti, si faceva penoso e rantolante, andava infocandosi.

Bruciava. Gli occhi aveva aperti, e quantunque immoti, parevano ti seguissero e ti riconoscessero.

Vedeva, forse, succedergli intorno al suo letto, ansiosi, i suoi Fratelli; afflitti, i suoi discepoli; smarriti, gli alunni della Casa, i quali rompendo una debole consegna, s'affacciavano « a veder morire un santo »; le Autorità e la povera gente, che s'affollava trepida e composta nella preghiera e nel pianto.

Egli taceva, solo guardandoti in fondo all'anima, con gli occhi immoti, le labbra socchiuse, il volto ancor acceso, ma già incavato d'ombre.

Eppure tutti, da quella sua pace così augusta e supremamente calma, che pur tradiva le sofferenze dell'agonia, ci si attendeva come un ritorno, una voce, almeno, un gesto; poiché comune, si può dire, era la convinzione che il morente, fuori di qualche intervallo comatoso, conservasse la conoscenza.

Si notò, infatti, che nei brevi momenti in cui cessava la preghiera vocale degli astanti, pareva accrescersi la sua sofferenza, lenirsi, invece, e quasi scomparire, durante la recita del S. Rosario, fatta ad alta voce, e soprattutto durante la recita collettiva della « Divozione a Gesù Crocifisso ».

Quest'attesa si fe' più viva la mattina dell'11, e per buona parte del dì seguente, nel quale si vide chiaramente, seppur la pietà non fece velo agli occhi, lo sforzo di Lui per seguire la recita del S. Rosario, insieme con i suoi discepoli, che lo vegliavano giorno e notte con inesprimibile devozione.

Furono gli ultimi suoi gesti: all'inizio d'ogni Ave, distendeva il braccio sinistro, l'unico che potesse ancor muovere, lungo il corpo, al Sancta Maria, Io ripiegava, portando la mano sul petto; e così, con movimenti regolari per una prima e seconda posta; in seguito, questi si fecero, a poco a poco, più rari e più lenti, senza cessare tuttavia, prima della fine della Corona.

Poi, riposò, stanco. Gli occhi socchiusi.

Disteso e composto sul suo letto, come fosse scomparso ogni male.

Poco prima dell'alba del 13, - erano le tre del mattino, - il respiro, che nella notte s'era fatto sempre più debole, cessò.

La mano, diafana e bianca, è ormai fredda.

Le palpebre non si riapriranno più.

Fratel Teodoreto ha lasciato la terra.

Così, senza un gemito, un sussulto, che segni un distacco, un passar da questa all'altra vita.

L'anima ha abbandonato quelle spoglie mortali, così, come le aveva informate, lieve, impercettibile, senza violentarle in alcun modo; come la luce, che scema nel crepuscolo vespertino, quando le cose ancora conservano le loro sembianze, pallide, ma non già spente.

Egli era, come sempre, diafano, emaciato eppur soave; austero, senza rigidità, senza durezze.

Dormiva l'ora riposata che chiude l'ultima fatica.

Tutt'è regolare, in questo suo trapasso.

Tutt'è ordinario, normale, comune.

La vita deve spegnersi nella morte. È naturale.

Il corpo, ch'è consunto, cede senza sforzo. Anche questo è vero.

Ma è tutto questo normale, ordinario, comune, ch'è troppo normale, ordinario, comune; che denuncia una perfezione eccezionale, e per nulla ordinaria, ne comune.

Tu puoi piangere d'ammirazione su questa grandezza, che ti si rivela improvvisa, quando le forme, che la celavano, sono davvero fatte comuni ormai, con le tue.

Ed è il tuo, un fremito d'angoscia, perché tu vedi che non puoi, quel che pur ti si chiede, dar tutto te stesso a Dio, così da non essere che la sua forma.

E in quest'angoscia, t'impauri e smarrisci, perché senti qual è il nulla di questa concreta polvere, che d'uom ha nome quando non vuol che essere se stessa; mentre il tutto di ciascuno è in Dio, ch'è l'Essere nella tua attualità, in quella realtà, cioè, che di Lui e per Lui si permea, perché tu sia una capacità di Dio, e le tue azioni, attraverso la tua strumentalità, di Lui s'improntino, e la morte stessa, con Io sgomento d'una mobile torma, che s'immuta irrevocabile nell'eterno, celebri la sostanzialità dell'essere, che ci fa partecipi della vita divina.

Fratel Teodoreto vede ora quello che ritenne certissimo per fede, che le opere delle nostre mani, - come vario e molteplice, il nostro travaglio! - non sono che una indistinta, per così dire, e comune materia, che prestiamo a Dio, perché modelli, in qualche guisa, l'arcano del suo Regno, dove la creatura, ormai, a sua volta, s'attempera, essa, alla natura divina, di cui è fatta consorte, e figlia, e soggetto.

E tutta l'azione dell'essere è di penetrarsi, secondo la similitudine cui è ordinato, d'una divina forma, che ne attui piena la realtà, nello splendore dell'Immagine del Figlio, consostanziale al Padre, e nel perfetto amore dello Spirito Santo, che già lo mosse e condusse nell'esistenza terrena, e che ne consuma ora, nella gloria beatifica, la grazia, che non fu sterile, nel vaso della mortal creta.

E alle Sue spoglie, composte in un trionfo di fiori, dalle mani diafane anch'esse, di Suor Maria Anselmina, pia e devota sua infermiera, accorreva la gente ( a far toccare una Divozione" un Crocifisso, una Corona ), come avessero il potere di trasmettere ancora un po' della fede e della santità, che le avevano animate.

Fuori, il cielo diluviava, come volesse contenere nell'umiltà e quasi soffocare, le esequie che si apprestavano solenni.

E per tutto il tempo dei funerali, l'acqua scrosciò uggiosa e fredda.

Una brutta giornata. Una giornata comune, in cui il tempo seguì il lunario.

E non s'ebbe requie, non che uno spiraglio di sole; no, neppure per la morte d'un santo.

Così diceva la gente, che ne ignorava anche il nome; ma tutta la città sapeva « ch'era morto un santo ».

L'anonimo d'una sepoltura comune; ma presagio certissimo dei giorni che verranno.

Perché quest'Uomo è ancora fra noi. Non è mancato nulla con la sua dipartita.

C'è il suo posto. La sua vita, fatta dalle azioni, che tutti facciamo ogni dì.

C'è la sua scuola. Anzi, le sue scuole, poiché ogni Casa ha aperto corsi serali, come li voleva lui.

Ogni mese, al dì ricorrente della morte, la gente s'aduna per la sua Messa.

È nel Cimitero, nella fossa dei suoi Fratelli, come uno di loro, un nome e una data.

Vanno a pregarlo, e naturalmente, le preghiere e i fiori sono per tutti.

Ciascuno ricorda che gli ha voluto bene, molto bene.

Che cosa ha fatto? La memoria è stenta; ma i casi della vita sono tanti.

Che cela il piano uniforme della superficie?

Onesti nomini vivono in profondità.

E qualcosa già affiora, con la testimonianza dell'eroico, cui fa eco il Cielo, con il grido d'una grazia, che ha del miracolo.

Di Lui, quando s'inizia, non sai quasi che cosa dire; se ti ci metti, di pensiero in pensiero non la finisci più.

Ed ogni cosa è grande, perché senti che quest'Uomo ha passato tutto al vaglio di Dio.

Non c'era posto per Lui. Ma c'era tutto quello che ci doveva essere.

E c'è ancora. C'è soprattutto adesso, che puoi dirla sua.

… … …

Mario

È davvero grande e straordinaria la vita « comune » di questo tuo Confratello e quanto tu m'hai detto ora, è valido non meno per i suoi « religiosi » che per noi secolari, sebbene, la perfezione che tu postuli mi sembri sovrumana.

Ma, non che tu m'abbia, per così dire saziato di Lui, che ben indovino quanto la biografia, che state raccogliendo, sarà ricca di fatti e situazioni, che per quanto comuni, se così posso ancora chiamarli, riveleranno sempre la doppia impronta della virtù dell'uomo e della presenza di Dio, onde l'attendo con grande desiderio, sicuro di trovare in essa quel conforto che m'abbisogna nel mio quotidiano travaglio; pure altra brama, hai fatto nascere in me, e che vorrei tosto soddisfatta, quella di conoscere qualcosa almeno, di quel Fra Leopoldo, semplice laico francescano, cui, se ho ben inteso.

Dio favorì con il dono d'una aperta e continua sua comunicazione.

… … …

Fr. Emiliano

La biografia, cui sta attendendo Fratel Leone di Maria, che tu ben conosci, sarà davvero splendidissima e per il soggetto, che migliore non potrebbe darsi, e per l'arte dello scrittore, ch'è davvero impagabile.

In quanto a Fra Leopoldo Maria Musso, laico professo dell'Ordine dei frati minori, del Convento di San Tommaso in Torino, morto in concetto di santità, e delle sue « rivelazioni », non t'incresca ch'io tè ne parli un'altra volta.

Ho letto e studiato il suo Diario, e mi ha fatto sorgere una folla di pensieri, che non ho ancora ben ordinati e vagliati, ed aspetto inoltre, di poter leggere le sue Lettere voluminose, mi si dice, come il Diario, di cui rappresentano, credo, anche in ordine alle sue « comunicazioni divine » il naturale completamento.

Ed essendosi di buon grado arreso alla mia preghiera, lasciammo la veranda, e tornammo in casa, e trovammo la buona Adele, che finiva di recitare la « Divozione a Gesù Crocifisso ».

Era infatti l'ora in cui solitamente mio fratello, gli altri giorni, terminato l'ufficio, si metteva in istrada, per rincasare, ed essa aveva scelto quell'ora appunto, per quella pratica di pietà, posta da lei a presidio e tutela dei suoi cari, e massimamente per lui, quasi, con delicato affetto di sposa anticipandone quotidianamente l'arrivo.

Torino, 13 novembre 1954,

Fr. Emiliano