Gli Istituti secolari

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9. Amministrazione dei beni temporali

Il c. 718 determina tre punti importanti a proposito dell'amministrazione dei beni; essa deve esprimere e promuovere la povertà evangelica, deve assumere come norma il diritto concernente i beni temporali della Chiesa, definito nel libro V del Codice, e nel diritto proprio; infine, secondo questo stesso diritto proprio dell'istituto, definire gli obblighi soprattutto economici dell'istituto in favore dei membri che ad esso dedicano la loro attività.

Dobbiamo anzitutto dire una parola a proposito della situazione degli istituti secolari in rapporto ai beni temporali; cosa che non sembra considerata dal c. 718.

Se un istituto è pienamente secolare, può, sembra, rinunciare a ogni forma di proprietà, a ogni bene immobile, non avendo bisogno di alcuna abitazione propria, di alcuna casa di formazione o di ritiro spirituale.

Esso può benissimo, mantenendo il riserbo necessario, organizzare riunioni regolari in case che non gli appartengono.

Anche per i responsabili dell'istituto, nessuna abitazione è necessaria.

Alcuni istituti hanno avuto case; poi se ne sono liberati.

Da questo punto di vista, l'istituto può, nella sua vita propria, dare un esempio di povertà, non possedendo alcun bene immobile.

La situazione di un istituto che avesse opere, o si situasse attorno a un centro spirituale, sarebbe praticamente uguale a quella di un istituto religioso.

Di più, potrebbe avvenire che questi beni, posseduti sotto forma di associazione civile, non siano considerati come beni della Chiesa.

Essi lo sarebbero in forza del c. 1238, se fossero proprietà dell'istituto, essendo questo in effetti persona giuridica pubblica.

Stupisce del resto che il c. 718 non faccia riferimento al diritto dei religiosi, come fa più volte in questo titolo III, cioè nei cc. 712, 727, 729 e 730.

In effetti, ispirandosi al c. 634, è utile definire chi può possedere: l'istituto, una parte dell'istituto - provincia, regione o zona -, un centro, se esiste come punto di riferimento e di riunione.

Non sembra che sia necessario rinunciare a ogni diritto di possedere beni temporali, anche se lo facesse l'istituto religioso la cui spiritualità influenza l'istituto secolare.

In effetti, un istituto secolare può essere aggregato a un istituto religioso, come prevede il c. 580, canone da mettere in rapporto con il 303, anch'esso dipendente dal 677 § 2.

Una volta definito chi possiede - l'istituto, una provincia, un centro - bisogna tener conto dell'amministrazione delle proprietà: acquisti, vendite, cambi, affitti.

Certi istituti hanno sentito il bisogno di possedere un immobile per riunirvi, conservare e consultare i loro archivi; ciò può essere più facile, ma non è strettamente necessario.

La stessa posizione vale in rapporto ad immobili in cui siano riuniti i membri anziani.

È difficile conservare la secolarità consacrata in queste case, che si qualificano facilmente come " religiose ".

Le persone anziane possono benissimo trovare in case di ritiro un aiuto medico o sanitario, conservando una presenza di vita consacrata secolare, questa volta in ambiente non più professionale, ma ospedaliere.

Si vede allora come rispondere al desiderio espresso dal c. 718: la testimonianza di povertà evangelica è in rapporto con i beni propri dell'istituto, che possono essere necessari o utili, ma anche contrari alla vera secolarità, e obbligare l'istituto ad affidarne la custodia o la direzione a membri che normalmente avrebbero una situazione professionale di piena secolarità.

Quanto alle norme del libro V, esse devono essere applicate secondo la secolarità dell'istituto e il suo genere di vita.

Le norme riguardanti gli acquisti, le vendite, le alienazioni, i contratti, date in questo libro, devono almeno in un codice accessorio essere riprese e adattate alla vita dell'istituto.

Anche se l'istituto non possiede beni immobili, una certa partecipazione dei membri alla vita dell'istituto si impone.

Tutte le spese di segreteria devono essere previste e coperte.

Un contributo personale dei membri sarà dunque previsto, annuale o semestrale, secondo le spese da coprire e le possibilità di ciascun membro, il suo avere personale, le sue rendite, la sua retribuzione e le sue spese di sostentamento.

Sarebbe difficile trattare qui tutti questi aspetti dell'amministrazione concreta dei beni mobili di un istituto secolare riconosciuto di piena secolarità.

Una stessa previsione è necessaria per venire in aiuto ai responsabili dell'istituto che non avessero beni personali e debbano rinunciare al loro lavoro professionale per svolgere i loro obblighi e responsabilità nell'istituto.

Per alcuni, la rinuncia al lavoro professionale fa loro perdere altre risorse come sussidi, pensioni e assicurazioni.

La questione del sostentamento dei responsabili può e deve avere anche una ripercussione sulla elezione o sulla nomina delle persone a qualunque carica nell'istituto.

Si farà in genere appello a persone che possano senza grandi difficoltà rinunciare al loro lavoro professionale; ma anche qui si preferirà organizzare il governo dell'istituto in modo da poter assicurare ai responsabili una presenza in pieno mondo reale e vissuta, ciò che permette loro di restare in contatto con la vita concreta dei membri e con le difficoltà alle quali essi devono far fronte.

La norma del c. 718 a proposito dei responsabili riguarda gli obblighi soprattutto economici dell'istituto.

Sembra infatti che gli altri obblighi siano di un altro valore, e non si riferiscano più all'amministrazione dei beni.

Un istituto è moralmente obbligato a considerare se i pesi che incombono ai suoi responsabili siano a misura delle persone designate, nominate o elette.

Ogni rischio di sovraccarico, di fatica o di esaurimento deve essere evitato.

Osservando le cose più da vicino, se vi sono beni da amministrare - e ve ne saranno sempre - bisognerà ispirarsi al c. 636.

Un economo è necessario, e non sarà un responsabile; sarà nominato normalmente dal responsabile, da cui dipenderà direttamente, e dovrà regolarmente, secondo il diritto proprio, fare rapporto sullo stato dei beni che gestisce e sul modo in cui li amministra.

Se l'istituto è di diritto diocesano, nessuna relazione al vescovo del luogo è prescritta; il diritto proprio deve evitare in tutta la materia ciò che porrebbe diminuire la secolarità dell'istituto, e ogni adempimento proprio agli istituti religiosi.

Sarà forse prudente che un rapporto generale della situazione finanziaria sia presentato alla Santa Sede; se ne farà cenno nel rapporto da inviare regolarmente alla Santa Sede.1

Quanto alle alienazioni importanti, e a ogni transazione che mettesse l'istituto in situazione economica meno favorevole, bisogna prevedere nel diritto proprio i permessi da chiedere, determinando a quale autorità competente ci si dovrà rivolgere.

Normalmente in un istituto secolare tale autorità competente sarà interna all'istituto: è la maniera più sicura di mantenere la propria secolarità.

Raramente si dovrà applicare in un istituto secolare il ricorso alla Santa Sede per quanto si riferisce a oggetti preziosi per valore artistico o storico.

Lo stesso rilievo va fatto per i beni donati alla Chiesa per voto.

Un istituto secolare non dovrebbe mai sobbarcarsi a simili fondazioni o volontà pie; esso fa bene ad escludere simili responsabilità e oneri in forza del suo diritto proprio.

Rimane tuttavia in ogni vita consacrata la determinazione delle responsabilità e dei debiti contratti.

L'istituto resta responsabile di ciò che si fa in suo nome e col suo permesso, e quando agisce come persona giuridica ( c. 639 § 1 ), o quando permette a un suo membro di agire in suo nome ( c. 639 § 2 ).

Se un membro dell'istituto conserva la disponibilità dei propri beni personali, il che è normale, egli resta pienamente responsabile della loro amministrazione e delle sue conseguenze ( c. 639 § 2 ).

Il § 3 del c. 639 è anch'esso applicabile in un istituto secolare, un membro del quale, senza permesso e all'insaputa dei responsabili, impegnasse la responsabilità economica dell'istituto: responsabile è il membro dell'istituto che agisse in tale modo.

È norma di prudenza non contrarre mai debiti, a meno che l'istituto sia certo che le rendite abituali possano coprire gli interessi e, in un periodo di tempo non troppo lungo, rimborsare il capitale mediante ammortamento regolare ( c. 639 § 5 ).

Come stiamo rilevando, parecchie norme date nei cc. 634-639 sono applicabili alla gestione dei beni temporali di un istituto secolare e dei suoi membri, soprattutto se questi ultimi, come i religiosi, dipendono dall'istituto nel quale prestano la loro opera, per quanto riguarda il loro sostentamento.

Il c. 640 non pare applicabile per un istituto secolare.

Una testimonianza collettiva e visibile dell'istituto sarebbe contraria alla sua secolarità.

I membri, invece, saranno invitati, per carità e spirito di povertà, ad aiutare, secondo i propri mezzi, persone nel bisogno, cominciando dai membri dell'istituto meno favoriti.

Va da sé che essi avranno a cuore l'aiuto della Chiesa locale e universale, sovvenendo alle loro necessità in maniera discreta, sempre preoccupati di conservare il carattere proprio del loro istituto e della loro vita consacrata secolare.

Gli istituti secolari, malgrado la diversità della loro situazione particolare, troveranno utile comunicarsi le loro esperienze in questa delicata materia.

Essendo agli inizi della loro vita istituzionale nella Chiesa, essi devono trarre profitto dalle situazioni diverse che vivono concretamente in regioni differenti, e in circostanze personali spesso complesse.

Se è vero che l'ammissione in un istituto secolare non comporta alcuna esigenza economica concreta, sarebbe auspicabile che ogni candidato abbia una professione civile che gli assicuri il sostentamento e i mezzi per vivere; altrimenti il suo ingresso nell'istituto potrebbe porre problemi all'istituto e ai suoi membri.

Una vigilanza sulla rettitudine di intenzione dei candidati e sulla loro condizione sociale al momento dell'ammissione è un dovere stretto dei responsabili dell'istituto.

Ciò suppone una sincerità totale nelle informazioni da dare, e una prudenza corrispondente in quelli che ammettono i candidati alla prova, prima della prova cosiddetta iniziale di cui parla il c. 722 § 1.

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Vedi nella Parte prima, il commento al c. 592