3 Agosto 1966
Diletti Figli e Figlie!
Voi sapete che in questo periodo post-conciliare riserviamo questa breve conversazione a qualche modesta considerazione sulla Chiesa, cercando così di suggerire semplici e buoni pensieri spirituali a ricordo dell'udienza generale settimanale.
Ebbene, mercoledì scorso, dopo tale Udienza, nella quale abbiamo detto qualche parola sulla Chiesa militante, abbiamo ricevuto in un'altra Udienza successiva un gruppo di umili visitatori, che Ci hanno profondamente commossi; erano ciechi, ed erano sordomuti, pietosamente assistiti e guidati da buone persone dal cuore d'oro; questi poveri visitatori Ci hanno fatto subito pensare: e questi non sono la Chiesa?
L'aspetto della loro infelicissima condizione era soffuso di serenità, un po' trepidante in quel momento per sapersi essi alla presenza del Papa, ma confidente altresì, come si trattasse d'un incontro con un'antica conoscenza, con un Padre, ch'essi parevano indovinare avere per loro, anzi dovere a loro una particolare preferenza.
Poveri figli! Quale pietà!
Quanta affettuosa compassione hanno suscitato nel Nostro spirito!
Ad un certo punto da alcuni di essi, i ciechi, si levò un filo di voce, un timido canto, fattosi subito più sicuro e gioioso.
Quei poverini non piangevano, non gridavano; cantavano.
Noi avevamo il cuore pieno di tenerezza e di ammirazione.
Come avremmo voluto consolare, risanare quelle misere creature condannate a perenne, dolorosa esistenza!
E ritornò nel Nostro animo la domanda: non sono forse anch'essi la Chiesa, figli della Chiesa, simboli della Chiesa, questi sofferenti, così provati dalla sventura, così sorretti dalla fede, così assistiti dalla carità, così consolati dalla pietà?
Oh, sì! Essi e tanti altri come loro ci offrono la visione della Chiesa sofferente, che possiamo ben dire la vera Chiesa delle beatitudini evangeliche, la vera Chiesa della realtà vissuta, la Chiesa paziente nel dramma della storia, la Chiesa anelante e piangente alla vita promessa a coloro che avranno portato con Cristo la sua Croce.
Noi pensiamo che sia opportuno e doveroso riflettere sul rapporto tra la Chiesa di Cristo e l'umanità sofferente.
L'idea di Chiesa è di natura sua associata a quella d'una fortuna, d'una felicità, d'un regno pieno di luce e di vita, così che facilmente dimentichiamo che la beatitudine ch'essa annuncia, promette e realizza è, per il momento, cioè durante la nostra vita terrena, essenzialmente spirituale e non mai totale; è la beatitudine della coscienza e della speranza, che solo oltre il nostro pellegrinaggio nel tempo avrà la sua pienezza.
Le beatitudini del Vangelo proiettano nel futuro l'adempimento delle loro promesse.
« Spe enim salvi fatti sumus »: siamo infatti, dice S. Paolo, salvati nella speranza ( Rm 8,24 ); e S. Pietro scrive: « Dio … ci ha rigenerati in una speranza viva » ( 1 Pt 1,3 ).
Il che vuol dire che la Chiesa, cioè la religione cristiana, non è una società d'assicurazione contro i mali della vita presente; anzi, se bene si osserva, è una società dove le sofferenze umane trovano una accoglienza preferenziale.
La Chiesa, si, è tutta rivolta ad alleviare i mali dell'uomo, il peccato per primo, il dolore, la miseria, la morte.
Essa è pietosa verso ogni deficienza umana; e proprio per questo corre fra la Chiesa e l'uomo che soffre una profonda simpatia.
Nessuna filantropia può, in linea di principio e spesso in linea d'esperienza vissuta, gareggiare nella sollecitudine verso i bisogni dell'uomo con la carità, la quale a tutti i motivi del naturale interessamento aggiunge la soprannaturale valutazione della dignità di ogni essere umano, riconosciuto figlio di Dio e fratello in Cristo; e fa inoltre sentire l'urgenza del sommo precetto evangelico, quello di amare chi è più piccolo, più solo, più bisognoso, più sofferente.
Chi sa ben valutare questo rapporto può comprendere la tendenza della Chiesa a chinarsi amorosamente verso i poveri e gli infelici; anzi, a fare di essi i suoi figli prediletti, e a dare a se stessa il titolo umile e glorioso di Chiesa dei Poveri, non che a proporsi come programma la povertà.
La prima beatitudine del discorso della montagna risuona sempre nel cuore della Chiesa.
Ne abbiamo ascoltato l'eco diventare più forte e avvincente durante il Concilio ( cfr. Decr. Christus Dominus, n. 13; e Presbyt. Ordinis, n. 6 ).
E chi considera attentamente tale rapporto tra Chiesa e sofferenza umana, potrà altresì qualche cosa comprendere del mistero di avversità, che la Chiesa medesima incontra e subisce.
La passione del Signore, Capo della Chiesa, continua nelle sue membra, nel suo mistico corpo, la Chiesa ( cfr. Col 1,24 ).
Voi lo sapete, questa è la storia della Chiesa; e non soltanto storia passata, ma in non poche regioni del mondo storia presente.
« Come Cristo - dice il Concilio - ha compiuto la redenzione nella povertà e nella persecuzione, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza » ( Lumen Gentium, n. 8 ); e cita S. Agostino: la Chiesa « prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio: inter persecutiones mundi et consolationes Dei peregrinando procurrit Ecclesia » ( De civ. Dei, 18,51,2 ).
Sì, Figli carissimi, bisogna rendersi conto che noi apparteniamo non ad una Chiesa trionfante, ma ad una Chiesa militante, contrastata e sofferente.
Vorremo noi amarla meno la Chiesa per questo?
Non vorremo noi partecipare alla sua povertà e alla sua passione?
Dimenticheremo noi che la Chiesa, anche nella sua sofferenza, e proprio per questa stessa sofferenza, sperimenta insieme le « consolationes Dei », e « sovrabbonda di gaudio in ogni tribolazione » sua? ( 2 Cor 7,4 ).
Non la ameremo noi forse di più la nostra Madre, la santa Chiesa, proprio perché sofferente?
È l'invito che a voi tutti facciamo con la Nostra Benedizione Apostolica.