2 Novembre 1966
Fratelli e Figli carissimi!
Che cosa stiamo facendo?
Stiamo compiendo un atto di memoria e di pietà; stiamo ricordando i nostri Defunti e pregando per la loro eterna pace.
Siamo tutti abituati a questo esercizio di carità religiosa, che proviene dalla nostra educazione cristiana, e che si alimenta della nostra partecipazione alla vita liturgica della Chiesa, e dalla nostra personale sensibilità dei vincoli che ancora ci uniscono con coloro che sono scomparsi dalla scena di questo mondo.
Ma oggi il ricordo dei Defunti e l'invito a offrire per loro i nostri suffragi si fanno più espliciti e più gravi; così che la memoria dei Morti si trasforma facilmente nella meditazione della morte.
La quale, Fratelli e Figli carissimi, è sempre grande, profonda e oscura, come un oceano notturno; e la maggior parte degli uomini rifugge dal fermarvi il pensiero, non avendo nella propria ragione lume sufficiente per non essere terrorizzati.
Ascoltiamo, ad esempio, la voce d'un celebre saggio a questo proposito: « Io vedo questi paurosi spazi dell'universo che mi circondano, ed io mi trovo attaccato ad un cantuccio di questa immensità, senza ch'io sappia perché io sia collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che m'è dato da vivere mi sia assegnato a questo punto, piuttosto che in un altro da tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi succede.
Io non vedo che estensioni infinite da ogni parte, che mi racchiudono come un atomo e come un'ombra che non dura che un istante senza ritorno.
Tutto ciò ch'io conosco è che devo ben presto morire; ma ciò ch'io più ignoro è questa morte stessa, a cui non mi è dato sfuggire » ( Pascal, Pensées, 64 ).
Ma ringraziamo la nostra religione, che non solo toglie l'angosciosa paura che circonda il mistero della morte, ma ci educa altresì a guardarla con sereno realismo ed a trarne indispensabili insegnamenti per ben valutare ogni cosa del nostro transito nel tempo e per avere dei nostri Morti qualche consolante notizia.
La religione fa della morte una lampada:
essa rischiara quanto basta i problemi circa la sopravvivenza dell'uomo oltre la sua fine temporale, così che questa vita temporale non sia accecata dal dubbio e sconvolta dalla disperazione, ma acquisti invece il suo senso escatologico e il suo pieno significato morale;
essa ci fa pazienti e sapienti a superare ogni smarrimento nel dolore, e ogni arbitraria e miope filosofia;
essa ci stimola a bene vivere e ci conforta alla ricerca e all'attesa d'una futura comunione con Cristo e con le persone che ci furono care;
offre insomma una visione generale della esistenza nostra e del mondo, che rinfranca lo spirito in un incomparabile equilibrio di sentimenti e di pensieri, e gli infonde un senso profondo di gratitudine e di ammirazione verso il Dio vivo, Creatore dell'universo e Padre nostro onnipotente.
Ma come accendere questa lampada, dare cioè alla morte un potere di luce, mentre di per sé la morte è la grande tenebra, « umbra mortis » ( Lc 1,79; Mt 4,16 ), ed è la nostra suprema nemica, « novissima inimica », la dice S. Paolo ( 1 Cor 15,26 )?
Questa prodigiosa accensione è possibile, è facile anzi al cristiano che considera la morte nel quadro dei nuovi rapporti che Cristo ha stabilito fra noi e Lui, e, Lui mediatore, fra noi e Dio.
Sarà utile, per studio di semplicità, classificare tali rapporti secondo il trinomio delle virtù teologali, chiedendo a ciascuna delle tre virtù, che hanno Dio come principio e come termine, di parlarci sulla nostra morte; e vedremo che questo fatale e orrendo episodio della nostra esistenza, questo tremendo castigo, cambierà aspetto, rimanendo materialmente, ma provvisoriamente lo stesso.
La fede ci dirà che Dio è la vita, e che Cristo, vita Lui stesso, ha inserito la nostra umile, effimera, corruttibile vita in quella divina;
ci parlerà della risurrezione di Cristo e della nostra;
ci parlerà dell'eterna beatitudine, alla quale, se fedeli, se santamente operosi, siamo destinati.
E la speranza, fondata sulla bontà traboccante di Dio, sulla sua infallibile promessa, sulla misericordia a noi ottenuta da Cristo, ci anticiperà il senso reale delle acquisizioni future, ci farà garanzia oltre le nostre forze di poter meritare la fortuna sperata, e placherà la ribellione del nostro dolore per l'oltraggio, l'irrisione, l'assurdo della morte a tutti i nostri istinti vitali, con non fallace conforto.
E la carità finalmente - la carità che « numquam excidit », che non verrà meno giammai ( 1 Cor 13,8 ) - ci farà intravedere la mano amorosa del Padre, anche quando il suo gesto misterioso è per noi acerbissimo strappo, c'insegnerà a collegare la nostra morte a quella di Cristo, alla sua immolazione infinitamente amorosa e a farne oblazione umile e magnanima; e con tante altre lezioni ci ammonirà a vedere nella morte un obbligante invito alla bontà, umile, saggia, sollecita, generosa; e questo non solo per la nostra conversione alle esigenze del bene, ma altresì per il vantaggio altrui, per il suffragio cioè di coloro che la morte corporale ha staccato fisicamente da noi, ma non ha sottratto alla circolazione della carità, instaurata da Cristo, mediante la quale il messaggio della nostra memoria, della nostra pietà, del nostro amore può, per vie a noi ignote, giungere ancora alle anime che « dormiunt in somno pacis », dormono nel sonno della pace ( Can. della Messa ), in attesa del finale, eterno risveglio.
E qui fermiamoci un istante per ricordarci che questo tributo di carità verso i Defunti può avere titoli diversi, che spesso lo trasformano in dovere.
Dovere di riconoscenza: quanto dobbiamo ai nostri Morti!
Di quale eredità di amore, di ricordi, di esempi siamo loro debitori!
E dovere di fedeltà: la vita è storia; e storia è tradizione; tradizione, che per uomini credenti e civili, dev'essere logica, deve tendere ad una continuità ed a uno sviluppo: deve impedire che vadano dispersi insegnamenti, esperienze, sforzi, sacrifici compiuti a nostro vantaggio dai nostri maggiori.
Dovere di amore e di pietà: pochi altri doveri sono impegnativi come quello classico del culto alla memoria dei Morti, e fanno altrettanto nobile il cuore dell'uomo che lo adempie: il costume, la storia, la letteratura ce lo dimostrano.
Ciascuno pertanto ricordi nei suoi suffragi - orazioni, elemosine, opere buone - le persone passate all'altra vita, alle quali parentela, amicizia, conoscenza, gratitudine, cittadinanza lo congiunsero.
Dobbiamo ricordare tutti quelli che a noi hanno fatto del bene, o prestato servizio; tutti quelli che con la loro vita e con la loro morte hanno a noi dato il nome, la dignità, la libertà, l'ordine, la religione e la fede, che fanno della nostra società il suo e nostro patrimonio più civile e più alto.
Perché non avremo memoria dei Morti nelle immani tragedie delle ultime guerre; perché non quelli dei troppi conflitti civili o militari del nostro secolo inquieto e violento; perché non quelli, la cui rimembranza è, per qualche verso, maggiormente associata alle grandi cause dell'umanità - la giustizia, la libertà, la fratellanza, la pace - amici o nemici che tra loro fossero in vita?
È stata, ad esempio, ricordata religiosamente in questi giorni la ricorrenza decennale degli avvenimenti d'Ungheria; abbiamo ogni giorno tristi notizie di caduti per attentati e per combattimenti nel Vietnam …
Per tutti la nostra memoria sia pia e supplichevole davanti alla misericordia di Dio; e sia ammonitrice davanti alla nostra coscienza di uomini ancora presenti in questa fugacissima scena del tempo, di quanti specialmente hanno responsabilità nelle sorti dei popoli: non sorgono forse i Morti a giudicare i vivi, a intimare loro di spegnere l'orgoglio e l'odio e di abbassare le armi e di cessare le oppressioni e le insidie; non si levano essi forse a svegliare in tutti una nuova onda di buona volontà per cercare ancora le vie della pace nella giustizia e nel rispetto dei diritti sacri e fondamentali della persona umana e dei popoli civili?
Salga per noi dalle tombe la pace!
E discenda sui nostri Morti parimente la pace.
La pace di Cristo per noi nel tempo; la pace di Cristo per loro nell'eternità.