17 Aprile 1968
Diletti Figli e Figlie,
Noi vi saluteremo con l'esclamazione caratteristica della liturgia pasquale: Alleluia! che vuol dire: lode a Dio!
È un grido religioso, che ci viene da un antichissimo uso ebraico, registrato nella Sacra Scrittura, e diventato abituale nel linguaggio liturgico della Chiesa per esprimere la gioia di lodare il Signore, specialmente nel tempo pasquale.
È diventato una acclamazione di giubilo, che più intende esprimere un vivace sentimento di letizia, che una parola avente un senso determinato ( cfr. S. Agost., In Ps. 100 ); come dicessimo, in linguaggio moderno: evviva! hurrah! hoch!
Ma per noi questo Alleluia! conserva il suo duplice significato originario: di lode e di gioia, l'una e l'altra riferita al Signore ed erompente dall'anima piena, ad un tempo, di entusiasmo religioso e di gaudio spirituale.
E Noi, accogliendo oggi la vostra visita, facciamo Nostra l'esultanza commossa della Chiesa, e vi salutiamo con la sua piissima voce: Alleluia! alleluia!
E ciò facciamo con una duplice intenzione.
La prima, di mettervi tutti in comunione di spirito con l'anima della Chiesa, inebriata dalla celebrazione del mistero pasquale.
Possiamo dimenticare questo avvenimento, che fa a noi ricordare e in noi rivivere la risurrezione di Cristo?
la sua vittoria sulla morte? la sua promessa, già in via d'iniziazione mediante la virtù e il significato sacramentale del battesimo, che anche noi un giorno risorgeremo?
possiamo dimenticare che sul fatto prodigioso, reale e soprannaturale insieme, della risurrezione di Nostro Signore, si fonda la nostra fede, la nostra certezza che Gesù è il Salvatore del mondo, il nostro impegno a fare della nostra vita una testimonianza, che appunto cristiana si chiama?
Non possiamo dimenticare.
Anzi dobbiamo ricordare, celebrare, inneggiare, perché Cristo è risorto, e perché dalla sua risurrezione è scaturita la Chiesa, a cui lo Spirito Santo conferirà i carismi vivificanti di Cristo, da diffondere nella umanità, altrettanto avida di vivere, di sopravvivere, quanto consapevole della sua mortalità e cieca sul suo destino ultraterreno.
E tutto questo diciamo con un'acclamazione convenzionale: Alleluia! atto di fede, di fiducia, di gaudio, di vittoria, che in sé riassume una somma di verità, di pensieri, di sentimenti.
L'altra intenzione, che mette per voi sulle Nostre labbra l'Alleluia pasquale, è quella di ricordarvi che la vita cristiana non può essere senza gioia.
Se lo svolgimento della vita cristiana comprende altre note, altre lezioni che quella della gioia ( comprende la croce, la rinuncia, la mortificazione, il pentimento, il dolore, il sacrificio, ecc. ), non è però mai priva d'un conforto, d'una consolazione profonda, d'un gaudio, che non dovrebbero mai mancare, e non mancano mai quando le nostre anime sono in grazia di Dio.
Quando Dio è con noi possiamo forse essere del tutto tristi? possiamo essere amari e disperati?
No: la gioia di Dio dev'essere sempre, almeno in fondo, una prerogativa dell'anima cristiana.
Uno scrittore cattolico moderno osserva: « Ho conosciuto giovani di famiglie cristiane molto ferventi, che dicevano ai loro genitori: "è duro essere cattolici!", e la risposta era: "oh, sì! è duro! privazioni dappertutto! è una religione triste!" ».
Ci si ricorda la famosa apostrofe di Nietzsche, che rimproverava ai cristiani di pretendere d'essere dei « salvati, e di averne così poco il comportamento » ( J. Leclercq, Croire en J. C., p. 21 ).
Sì, noi cristiani dovremmo sentirci non più infelici degli altri, perché abbiamo accettato di portare il giogo di Cristo: quel giogo, ch'Egli porta con noi e che perciò Egli definisce: « soave e leggero » ( Mt 11,30 ); ma più felici, appunto perché abbiamo motivi splendidi e sicuri per esserlo.
La salvezza, che Cristo ci ha meritato, e con essa la luce sui più ardui problemi della nostra esistenza, ci autorizza a guardare ogni cosa con ottimismo.
Noi siamo in migliori condizioni degli altri, privi della luce evangelica, per guardare il panorama del mondo e della vita con gioioso stupore e per godere di quanto l'esistenza ci riserva, anche delle prove di cui essa abbonda, con riconoscente e sapiente serenità.
Il cristiano è fortunato.
Il cristiano sa trovare le ragioni della bontà di Dio in ogni avvenimento, in ogni quadro della storia e dell'esperienza; ed egli sa che « tutte le cose si risolvono in bene per coloro che vivono della benevolenza di Dio » ( cfr. Rm 8,28 ).
Il cristiano deve dare sempre una testimonianza di superiore sicurezza, che lasci altri intravedere donde egli attinge tale serena superiorità spirituale: dalla gioia di Cristo.
Oggi questo atteggiamento di lieto vigore dell'animo si va fortunatamente diffondendo fra i cristiani moderni; essi sono più disinvolti e più allegri d'un tempo; e sta bene.
Ma così sia ad una condizione che li preservi dal decadere in un naturalismo gaudente, subito facile a diventare pagano e illusorio; e la condizione si è che bisogna derivare dalla fede, e non tanto da fortunate contingenze del benessere temporale, la propria gioia interiore e la propria esteriore serenità.
Cristo è la nostra felicità.
Ripetiamo a suo onore e a nostro conforto: Alleluia!
Con la Nostra Apostolica Benedizione.