3 Luglio 1968
Diletti Figli e Figlie!
Avrete certamente avuto notizia, un'eco almeno, della professione del nostro Credo, con la quale abbiamo concluso formalmente e solennemente l'« Anno della Fede »; ma una simile conclusione si potrebbe meglio chiamare un principio, non già d'un altro anno dedicato allo stesso tema, ma delle conseguenze, ch'esso vorrebbe produrre; e sono senza numero e senza fine.
Una professione di fede non può essere che un riassunto, un « simbolo », come si dice nel linguaggio teologico tradizionale, una formula, una « regula fidei », che contiene le principali verità della fede, in termini autorevoli, ma quanto più possibili condensati ed abbreviati.
Era fin dall'antichità cristiana una sintesi dei dogmi fondamentali dell'insegnamento dottrinale, che i candidati al battesimo dovevano imparare e recitare a memoria; l'uso di questo metodo didascalico cominciò probabilmente a Roma; ne abbiamo memoria all'inizio del terzo secolo nella cosiddetta « tradizione apostolica » di Ippolito, la quale consisteva in una specie d'interrogatorio, come ancora si usa nella liturgia battesimale ( cfr. Denz.-Sch. 10 );
si credette che questo testo risalisse agli Apostoli, donde il nostro cosiddetto « Simbolo Apostolico », e godette perciò di grande credito;
S. Ambrogio vi ravvisa l'autentica tradizione, come quello « quod Ecclesia Romana intemeratum semper custodit et servat », che la Chiesa Romana sempre custodisce e conserva ( Ep. 42, 5; P.L. 16, 1174 );
il Concilio di Nicea ( a. 325 ) lo riprese e lo ampliò, come noi lo recitiamo e cantiamo nella Messa, con le modifiche del Concilio I di Costantinopoli ( a. 381 ), e con l'aggiunta famosa del « Filioque », suggerita ovviamente dall'Imperatore Enrico II, e accolta da Papa Benedetto VIII ( a. 1014 ); e poi ammessa anche dalla Chiesa Greca nei Concili di Lione II ( a. 1274 ) e di Firenze ( a. 1439 ) ( cfr. Denz.-Sch. 125, 150 ).
S. Agostino, commentando la formula ambrosiana ( ch'è poi il Simbolo Apostolico ), conclude: « Questa è la fede da ritenere in poche parole nel Simbolo che si dà ai cristiani novelli » ( De fide et symb., n. 25 ).
Tutto questo ci dice che una professione riassuntiva delle verità della fede esige poi uno studio, uno sviluppo, un approfondimento; è questo il dovere di tutti i credenti; e quelli fra loro che sanno passare dalle formule catechistiche all'esposizione più completa e più organica delle verità della fede, dalle aride parole allo sviluppo dottrinale, e, ancor meglio, dalle espressioni verbali a qualche intelligenza reale delle verità stesse, sperimentano un gaudio e uno sgomento insieme: il gaudio della ricchezza e della bellezza delle verità religiose, e lo sgomento della loro profondità e della loro ampiezza, che la nostra mente sa intravedere, ma non misurare: è l'esperienza maggiore che il nostro pensiero può fare.
Ed è questo parimente il compito dei maestri, dei teologi, dei predicatori, ai quali questo momento storico della Chiesa offre una stupenda missione, quella di penetrare, di purificare, di esprimere gli enunciati della fede in termini nuovi, belli, originali, vissuti, comprensibili, i sempre identici ed immutabili tesori della rivelazione, « nella stessa dottrina, nello stesso senso, nello stesso pensiero », come disse il Concilio Vaticano primo ( cfr. Vincenzo Ler., Commonitorium, 28; P.L. 50, 668; e Conc. Vat. I, De fide cath., IV ).
Un lavoro quindi che, si può dire, ricomincia, cioè succede all'affermazione della fede, che l'anno testé concluso Ci ha dato la felice occasione di pronunciare.
Dobbiamo rimetterci tutti ad uno studio serio della nostra religione; e speriamo che in ogni Paese si abbia una nuova e originale fioritura di letteratura religiosa.
Ma vi è un'altra conseguenza che scaturisce da una professione della fede, ed è la coerenza della vita con la fede stessa.
Non avremo mai dato sufficiente importanza a questa coerenza tra la fede e la vita.
Non basta conoscere la Parola di Dio, bisogna viverla.
Conoscere e non applicare la fede alla vita sarebbe una grave illogicità, sarebbe una seria responsabilità.
La fede è un principio di vita soprannaturale, ed insieme un principio di vita morale.
La vita cristiana nasce dalla fede, ne gode l'incipiente comunione ch'essa stabilisce fra noi e Dio, fa circolare il suo infinito e misterioso pensiero nel nostro, ci dispone a quella comunione vitale, che unisce la nostra appena creata esistenza con l'increato e infinito Essere, ch'è Dio; ma nello stesso tempo introduce nella nostra mente e nel nostro operare un impegno, un criterio spirituale e morale, un elemento qualificante la nostra condotta: ci fa cristiani.
È sempre da ricordare la ripetuta formula dell'Apostolo: iustus ex fide vivit, il Cristiano, possiamo tradurre, vive di fede ( Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38 ).
Questo aspetto della vita religiosa ora ci interessa.
Come rendere conforme la nostra vita vissuta alla nostra fede?
Come possiamo figurarci il tipo moderno del credente?
Qual è la vocazione del fedele, oggi, quando egli voglia prendere sul serio le conseguenze del proprio Credo?
Tutti ricorderemo come il recente Concilio abbia proclamato che « tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alle pienezze della vita cristiana e alla perfezione della carità », e aggiunge: « Anche nella società terrena da questa santità è promosso un tenore di vita più umano » ( Lumen gentium, n. 40 ).
Questa affermazione conciliare circa la vocazione di tutti e di ciascuno alla santità, corrispondente « ai vari generi di vita e ai vari uffici » di ciascuno è di capitale importanza: « Ognuno - prosegue il Concilio - secondo i propri doni ed uffici, deve senza indugio avanzare per le vie della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità » ( ib. n. 41 ).
Perciò dovrebbe scomparire il cristiano inadempiente ai doveri della sua elevazione a figlio di Dio, e fratello di Cristo, a membro della Chiesa.
La mediocrità, l'infedeltà, l'intermittenza, l'incoerenza, l'ipocrisia dovrebbero essere tolte dalla figura, dalla tipologia del credente moderno.
Una generazione pervasa di santità dovrebbe caratterizzare il nostro tempo.
Non solo andremo alla ricerca del santo singolare ed eccezionale, ma dovremo creare e promuovere una santità di Popolo, proprio come, fin dai primi albori del cristianesimo, voleva San Pietro, scrivendo le celebri parole: « Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo redento; … voi, che un tempo non eravate un popolo, ma ora siete Popolo di Dio » ( 1 Pt 2,9-10 ).
Riflettiamo bene.
È possibile raggiungere una simile mèta?
Non siamo nel mondo dei sogni?
Come può mai un uomo comune del nostro tempo conformare la propria vita a un ideale autentico di santità, per quanto lo si possa modellare sulle esigenze oneste e legittime della vita moderna?
Oggi, per di più, quando tutto è messo in « contestazione »,
quando dalla tradizione non si vogliono più derivare le norme per la guida della nuova generazione,
quando la trasformazione del costume è così impellente e palese,
quando la vita sociale assorbe e soverchia la singola personalità,
quando tutto è secolarizzato e dissacrato,
quando nessuno sa più quale sia l'ordine costituito e da costituire,
quando tutto è diventato problema e
quando non si accetta che alcuna normale autorità suggerisca soluzioni ragionevoli e allineate sul filo della comprovata esperienza storica?
Non bisogna chiudere gli occhi alla realtà ideologica e sociale, che ci avvolge; anzi faremo bene a guardarla in faccia con coraggiosa serenità.
Ne potremo trarre molte conclusioni favorevoli ai nostri principi circa l'umanesimo privo della luce di Dio.
Ma ora preme a Noi di rispondere alla domanda che Ci siamo posta, e che faremo bene a ripetere nell'interno delle nostre coscienze; può oggi un uomo essere veramente cristiano?
E può un cristiano essere santo ( nel senso biblico del termine )?
Può la nostra fede essere davvero un principio di vita concreta e moderna?
E può ancora un popolo, una società, una comunità almeno, esprimersi in forme autenticamente cristiane?
Ecco, Figli carissimi, una buona occasione per subito porre in azione la nostra fede.
Rispondiamo che sì.
Nulla ci deve spaventare, nulla arrestare.
È di Santa Teresa questa parola: Nada te espante.
Ripetiamo a noi stessi le parole di San Paolo ai Romani: « Se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e nel cuore hai fede che Dio lo ha risuscitato da morte, sarai salvo ».
Questa è la bussola.
Nel mare infido e agitato del mondo presente, teniamo fisso questo supremo orientamento: Gesù Cristo.
Lui, luce del mondo e della nostra vita, subito infonde nei nostri cuori due cardinali certezze, quella su Dio e quella sull'uomo; l'una e l'altra da perseguirsi in una totale dedizione di amore.
Se così, non abbiamo più paura di nulla: « Chi ci separerà dall'amore di Cristo?
La tribolazione, o l'angoscia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la persecuzione, o la spada?
… In tutte queste cose siamo più che vincitori per opera di Colui che ci ha amati », dice ancora San Paolo ( Rm 8,35-37 ).
Cominciate a vedere come la fede possa avere un influsso determinante e corroborante sulla nostra psicologia dapprima, e poi sulla nostra vita pratica.
Ma il discorso si fa lungo, e qui lo fermiamo, fidando che voi lo sappiate continuare da voi stessi nelle vostre coscienze.
Con la Nostra Apostolica Benedizione.