14 Agosto 1968
Diletti Figli e Figlie!
In queste conversazioni Noi andiamo cercando qualche nota caratteristica del cristiano; Noi vogliamo individuare qualche elemento che qualifica il seguace di Cristo in quanto tale, e che definisce intimamente la sua nuova personalità.
Vi è una differenza esistenziale fra il cristiano ed uno che non lo è? Certamente.
Vi è una differenza che lo caratterizza profondamente; ed è appunto il « carattere » cristiano, quell'impronta spirituale, che, in vario grado, tre sacramenti stampano indelebilmente nell'anima di chi li riceve, come ognuno sa:
il battesimo, che consacra il fedele con un certo potere sacerdotale al culto di Dio e lo fa membro del Corpo mistico di Cristo ( cfr. 1 Pt 2,5 );
la cresima, che lo abilita alla professione e alla milizia cristiana ( cfr. At 8,17; S. Th. 3, 72, 5 );
e l'ordine sacro, che lo assimila al sacerdozio potestativo di Cristo e lo fa suo qualificato ministro ( cfr. Presb. Ord., n. 2 ).
Il carattere comporta una prerogativa originale, propria del cristiano, che così segnato acquista una data qualificazione incancellabile, con un certo potere spirituale di compiere date azioni in ordine ai rapporti con Dio e conseguentemente nella comunità ecclesiale ( cfr. S. Th. 3, 63, 2 ).
S. Agostino ne parlò più volte, polemizzando con i Donatisti ( cfr. Contra Epist. Parmeniani, II, 28 ); il Concilio di Firenze dapprima ( cfr. Denz. Sch. 1310; 695 ), poi il Concilio di Trento tradussero in termini dogmatici l'insegnamento tradizionale della Chiesa al riguardo.
Una meditazione sarebbe da farsi su questo « segno distintivo », impresso nel cristiano, il quale sigillo si sovrappone all'immagine divina, già delineata, per via di natura, nell'anima razionale dell'uomo, e vi configura, sempre più marcato, il volto di Cristo, che diventa il volto del cristiano insignito da tale mistica impressione.
È questa una stupenda antropologia, della quale spesso non si fa abbastanza caso nella concezione dell'uomo diventato cristiano.
Anzi oggi la tendenza alla secolarizzazione, o alla trascuranza dei valori e dei doveri religiosi, porta a negligere la fisionomia cristiana modellata dal carattere sacramentale, così che sovente essa viene mascherata ( perché cassare non si può ) da sembianze profane, quasi per farle riprendere un profilo puramente naturale o anche pagano, dimenticando che la qualifica cristiana non è semplicemente nominale, ma reale, e comporta un'inserzione in Cristo, decisiva per il destino di chi gli è seguace, impegnandolo a fondo, se non vuol tradire l'onore del suo titolo, alla fedeltà, al rischio, alla testimonianza ( cfr. At 11,26; Fil 4,16 ).
Ma vi è di più.
Vi è la grazia, lo stato di grazia, cioè quella luce, quella qualità di cui l'anima è rivestita, anzi profondamente investita e imbevuta, quando il nuovo, soprannaturale rapporto, al quale Dio ha voluto elevare l'uomo che a Lui si abbandona, si stabilisce nello sforzo da parte dell'uomo della conversione, della disponibilità fiduciosa, e nell'accettazione della sua Parola, mediante la fede, in umile implorante amore, al quale subito l'Amore infinito, ch'è Dio stesso, risponde col fuoco dello Spirito Santo, vivificante nell'uomo la forma di Cristo.
È la grazia una Presenza divina, che piove nell'anima, fatta tempio dello Spirito; è una straordinaria permanenza del Dio vivente nella minima nostra vita, folgorata da un'ineffabile illuminazione divina.
Lo stato di grazia non ha termini sufficienti per essere definito: è un dono, è una ricchezza, è una bellezza, è una meravigliosa trasfigurazione dell'anima associata alla vita stessa di Dio, per cui noi diventiamo in certa misura partecipi della sua trascendente natura, è una elevazione all'adozione di figli del Padre celeste, di fratelli di Cristo, di membra vive del Corpo mistico mediante l'animazione dello Spirito Santo.
È un rapporto personale: ma pensate: fra il Dio vivente, misterioso e inaccessibile per la sua infinita pienezza, e la nostra infima persona.
È un rapporto che dovrebbe diventare cosciente; ma solo i puri di cuore, i contemplativi, quelli che vivono nella cella interiore del loro spirito, i santi ce ne sanno dire qualche cosa.
Anche i teologi ci possono bene istruire.
Perché è un rapporto ancora segreto; non è evidente, non cade nell'ambito dell'esperienza sensibile, sebbene la coscienza educata acquista una certa sensibilità spirituale; avverte in sé i « frutti dello spirito », di cui San Paolo fa un lungo elenco: « la carità, il gaudio, la pace » ( questi specialmente: una gioia interiore, e poi la pace, la tranquillità della coscienza ), e poi: la pazienza, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la padronanza di sé, la castità ( Gal 5,22 ): pare d'intravedere il profilo d'un santo.
Questa è la grazia; questa è la trasfigurazione dell'uomo che vive in Cristo.
Nessuna meraviglia se tale condizione, di per sé forte e permanente ( « nulla ci potrà separare dalla carità di Dio », dice ancora San Paolo [ Rm 8,39 ] ), è tuttavia delicata ed esigente; essa proietta sulla vita morale dell'uomo doveri particolari, sensibilità finissime; e fortunatamente infonde anche energie nuove e proporzionate, affinché l'equilibrio di questa soprannaturale posizione sia fermo e gioioso.
Ma resta il fatto ch'esso può essere turbato e rovesciato, quando noi disgraziatamente lo disprezziamo e preferiamo scendere al livello della nostra natura animale e corrotta; quando commettiamo un volontario distacco dall'ordine a cui Dio ci ha associato, dalla sua vita fluente nella circolazione della nostra, cioè un peccato vero e volontario, che perciò, quando è grave, chiamiamo mortale.
È strano vedere come molti cristiani oggi hanno un comportamento molto discutibile rispetto a tale condizione soprannaturale della nostra vita: da un lato cercano di minimizzare il concetto di peccato, coonestando anche gravi infrazioni della norma morale e quindi della condizione indispensabile della nostra relazione con Dio, come fosse senza importanza, e come fosse necessario, per francare la coscienza da possibili eccessivi timori, da scrupoli imbarazzanti e fantastici, non dare sufficiente peso alla rovina che il peccato produce; dall'altro, attribuiscono a sé la guida dello Spirito Santo, conferendo ai propri pensieri e alla propria condotta un gratuito e spesso fallace carisma di sicurezza e d'infallibilità.
È una tendenza di moda, questa; e spesso in tacita polemica con l'economia propria della grazia, che esige ordinariamente l'intervento sacramentale per essere stabilita, conservata e alimentata e, se occorre, ristabilita.
Ricordiamo, Figli carissimi, che durante la nostra vita temporale a noi non è dato « vedere » le realtà divine ( cfr. Gv 20,29 ); è dato « sapere »; ed anche questo sapere deriva non da una conoscenza naturale e normale, ma dalla fede; l'uomo credente procede « come se vedesse l'invisibile » ( Eb 11,27; cfr. Loew, Comme s'il voyait l'invisible, riferito all'apostolato ); e la sicurezza, in via ordinaria, gli è data da segni, da certi segni sacri, simbolo e causa strumentale di ciò che rappresentano, i sacramenti.
Il mistero della salvezza a noi è comunicato mediante due vie: quella obiettiva della Parola di Dio, cioè soggettivamente della fede; e quella dell'azione sacramentale.
Alle quali vie una terza possiamo aggiungere, quella della Chiesa, quel grande sacramento che tutti gli altri contiene e dispensa, e che stilizza cristianamene la nostra vita e ci offre l'atmosfera dello Spirito, di cui essa è anima e che a noi, se fedeli, fa respirare.
Sì, è questa scienza soprannaturale dell'uomo un mondo difficile, un regno insolito ed arduo; ma è il vero mondo della nostra vocazione umana e cristiana; un regno che i violenti, cioè i violenti, forti e risoluti, conquistano e rapiscono ( Mt 11,12 ); ma un regno vicino ( Lc 9,10 ), un regno che già ci circonda, fino ad essere già fra noi, dentro di noi ( Lc 17,21 ); un regno che i poveri, gli umili, i semplici, i fanciulli, i puri di cuore possono facilmente possedere.
A tanto Cristo vi invita, e a ciò vi conduca anche la Nostra Benedizione Apostolica.