20 Agosto 1969
Diletti Figli e Figlie!
Il nostro colloquio si dirige oggi a voi, carissimi visitatori, che Noi pensiamo spinti a questa Udienza non per sola curiosità turistica, né per sola devozione filiale, ma per un segreto desiderio, quasi per un bisogno, una speranza d'avere da Noi una parola di luce spirituale.
Noi dicevamo, in un precedente incontro come questo, che occorre oggi e sempre; ma oggi, a causa delle condizioni presenti della nostra esistenza, tanto assorbita dall'incantesimo della esteriorità e tanto turbata dalla profondità e dalla rapidità dei cambiamenti in corso, oggi più che mai occorre alimentare uno spirito e una pratica di orazione personale.
Senza una propria, intima, continua vita interiore di preghiera, di fede, di carità, non ci si può conservare cristiani, non si può utilmente e saggiamente partecipare alla rifiorente rinascita liturgica, non si può efficacemente dare testimonianza di quella autenticità cristiana, della quale spesso si parla, non si può pensare, respirare, agire, soffrire, sperare pienamente con la Chiesa viva e pellegrina: occorre pregare.
Sia l'intelligenza delle cose e degli avvenimenti, sia il misterioso, ma indispensabile aiuto della grazia diminuiscono in noi, e forse vengono a mancare, per deficienza di preghiera.
Noi crediamo che molte delle tristi crisi spirituali e morali di persone, educate e inserite, a diverso livello, nell'organismo ecclesiastico, siano dovute al languore e forse alla mancanza d'una regolare e intensa vita d'orazione, sostenuta fino a ieri da sagge abitudini esterne, abbandonate le quali l'orazione si è spenta: e con essa la fedeltà e la gioia.
Oggi Noi vorremmo, con queste semplicissime parole, confortare in voi la vita di preghiera, qualunque sia la vostra età ed il vostro stato.
Noi supponiamo che ciascuno di voi avverta in qualche modo il proprio problema relativo al dovere e al bisogno della preghiera.
Vi pensiamo anzi fedeli ad essa e desiderosi di ritrovarla migliore in se stessa, specialmente per l'animazione scaturita dal Concilio, e di nuovo affiatata con la moderna ed onesta profanità della vita moderna.
Ma vorremmo che ciascuno di voi classificasse se stesso in una delle categorie, che un'elementare osservazione offre alla comune esperienza.
Vi è una prima categoria, forse la più estesa; ed è quella delle anime spiritualmente assopite.
Il fuoco non è estinto, ma è coperto di cenere.
Il seme non è morto, ma, come dice la parabola evangelica, è soffocato dalla vegetazione circostante ( Mt 13,7-22 ), dalla « sollecitudine del secolo presente » e dalla « illusione delle ricchezze ».
La tendenza a secolarizzare ogni umana attività esclude gradualmente la preghiera dal costume pubblico e dalle abitudini private.
Si recita ancora la preghiera mattutina e serale con la coscienza d'infondere con essa un significato trascendente, un valore superstite alla giornata fuggitiva?
Vogliamo supporre che si frequenta ancora la chiesa, si recita ancora, il breviario, si assiste al coro; ma il cuore dov'è?
Indice di questa fiacchezza spirituale è il peso, che la preghiera infligge all'osservanza priva di devozione; la sua durata sembra sempre troppo lunga, la sua forma è accusata d'incomprensibilità e di estraneità.
La preghiera manca di ali; non è più un gusto, un gaudio, una pace dell'anima.
Saremmo noi in questa categoria?
Un'altra categoria, arricchita di numero e di ansietà dopo le riforme liturgiche conciliari, è quella dei sospettosi, dei critici, dei malcontenti.
Disturbati nelle loro pie abitudini, questi spiriti non si rassegnano che a malincuore alle novità, non cercano di capirne le ragioni, non trovano felici le nuove espressioni del culto, e si rifugiano nel loro lamento, che toglie alle formule di prima il loro antico sapore e impedisce di gustare quello che la Chiesa, in questa primavera liturgica, offre alle anime aperte al senso e al linguaggio dei riti nuovi, collaudati dalla sapienza e dall'autorità della riforma post-conciliare.
Uno sforzo non difficile di adesione e di comprensione darebbe l'esperienza della dignità, della semplicità, della moderna antichità delle nuove liturgie, e ne porterebbe la consolazione e la vivacità dalla celebrazione comunitaria nel santuario della singola personalità.
La vita interiore porterebbe una superiore pienezza.
Altra categoria è quella di coloro che dicono di tenersi paghi della carità verso il prossimo per mettere in ombra o per dichiarare superflua la carità verso Dio.
Tutti sanno quale forza negativa ha assunto questo atteggiamento spirituale, secondo il quale non la preghiera, ma l'azione terrebbe vigile e sincera la vita cristiana.
Il senso sociale subentra al senso religioso.
L'obiezione divorante si travasa da una letteratura audace, e perfino spregiudicata, alla pubblica opinione, alla mentalità popolare, e si diffonde anche in alcuni « gruppi spontanei », così detti, che inquieti ricercatori d'una propria più intensa religiosità, avulsa da quella consueta della Chiesa, e da loro detta autoritaria e artificiosa, finiscono per perdere una vera religiosità, sostituita da una simpatia umana, bella e degna per se stessa, ma presto evacuata di verità teologica e di carità teologale.
Quale consistenza reale, quale merito trascendente può avere una religiosità, in cui la dottrina della fede, del rapporto con l'Assoluto, col Dio uno e trino, il dramma della Redenzione e il mistero della grazia e della Chiesa sono ordinariamente taciuti, e posposti ai commenti della situazione sociale e del momento politico e storico?
Vi sarebbe tanto da dire su questo tema; ma non adesso.
Ci basti ora mettere in guardia gli spiriti generosi, avidi di Vangelo e di religione personale circa il falso fondamento di tale tendenza e circa i pericoli, ch'essa può generare di effetti totalmente opposti anche sul piano umano a quelli cercati, quali sono: la libertà, la verità, l'amore, l'unità, la pace, la realtà religiosa infusa nella società e nella storia.
Vediamo dunque di classificarci fra quelli che Gesù vuole portatori di lucerne accese: « Sint … lucernae ardentes in manibus vestris » ( Lc 12,35 ).
Non foss'altro, l'orazione rischiara la via, tiene desta la vigilanza, stimola la coscienza.
Un celebre scrittore del nostro tempo fa dire ad uno dei suoi personaggi, un coltissimo e infelice sacerdote: « Io ho creduto troppo facilmente che ci si può dispensare da questa sorveglianza dell'anima, in una parola da questa ispezione forte e sottile, a cui i nostri vecchi maestri danno il bel nome di orazione » ( Bernanos, L'impost., p. 64 ).
L'orazione vince l'oscurità e l'uggia del nostro cammino.
Non per nulla il Signore ci ha lasciato questo binomio evangelico: « Vigilate e pregate » ( Mt 26,41 ).
Non solo.
L'orazione, la vita d'orazione, cioè l'abituale direzione dello spirito verso Dio, mediante il filiale colloquio e il concentrato silenzio con Lui porta a quella forma di spiritualità ch'è imbevuta del dono della Sapienza dello Spirito Santo ( cfr. Rm 8,14 ), e che possiamo chiamare, anche per il semplice fedele, vita contemplativa.
Ora Maestro Tommaso, con la consueta incisività, dice che la vita contemplativa costituisce in qualche modo un inizio della beatitudine ( quaedam inchoatio beatitudinis, II-IIæ, 180,4 ); si riferisce all'episodio di Marta e Maria, dove quest'ultima, assorta nel dialogo con Cristo, ottiene da Lui le famose parole: « Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta » ( Lc 10,42 ), mai più.
Ecco dunque la consolazione che Noi a voi tutti auguriamo: che possiate trovare nell'orazione, cordialmente compiuta, bene dosata nella quantità, sempre accesa nell'intenzione ( cfr. Lc 18,1 ), la sorgente di letizia e di speranza, di cui ha bisogno il nostro pellegrinaggio terreno.
Con la Nostra Apostolica Benedizione.