1 marzo 1972
Non possiamo staccarci dal pensiero dominante nella Chiesa durante questo periodo di preparazione alla Pasqua.
È il pensiero della penitenza, che contrasta con le nostre abitudini e con la nostra mentalità.
Noi siamo rivolti con ogni nostra intenzione e con ogni nostro sforzo a togliere dalla nostra vita quanto ci procura sofferenza, dolore, fastidio, incomodo;
siamo orientati verso una continua ricerca di comodità, di godimento, di divertimento;
vogliamo essere circondati dal benessere, dagli agi, dalla buona salute, dalla fortuna;
tutto facciamo per ridurre sforzo e fatica;
siamo, in fondo, gente che vuol godere la vita: un buon pasto, un buon letto, un buon passeggio, un buono spettacolo, un buono stipendio, … ecco l'ideale.
L'edonismo è la filosofia comune, il sogno della esistenza per tanti nostri contemporanei.
Tutto vorremmo facile, soffice, igienico, razionale, perfetto d'intorno a noi.
Perché penitenza?
V'è forse bisogno di rattristare l'animo con un simile pensiero?
Donde viene un così sgradito richiamo?
Non è forse un'offesa alla nostra concezione moderna dell'uomo?
Questo monologo apologetico del « comfort », come espressione del modo ideale di trascorrere gli anni del nostro vivere, potrebbe continuare assai, e documentarsi di ottimi ragionamenti e di ancor migliori esperienze; ma ad un certo punto deve arrestarsi di fronte a non meno valide obiezioni: vogliamo rendere molle, mediocre, la nostra vita?
Oziosa ed imbelle, e senza la pazienza e lo sforzo di grandi virtù?
Dov'è l'agonismo, dov'è l'eroismo, che dà all'uomo la sua vera e migliore statura?
Dov'è il dominio della propria pigrizia e della connaturata viltà?
E poi: come armare lo spirito di fronte alle sofferenze e alle sventure, di cui la vita non ci risparmia la sorte?
E come dare all'amore la sua vera e più alta misura, ch'è il dono di sé, il sacrificio?
E non è il sacrificio, questa attitudine, per sé antinaturale, classificabile nel grande libro della penitenza?
E poi ancora: può un cristiano sfuggire alla legge della penitenza?
Cristo parla forte: « Se non farete penitenza, voi tutti perirete » ( Lc 13,5 ).
Cioè: il bisogno, il dovere della penitenza non nascono forse da necessità intrinseche al nostro essere di uomini decaduti?
Perché tali siamo: noi portiamo in noi una malattia atavica, le conseguenze cioè del peccato originale, le quali rimangono in grande parte anche dopo il battesimo; siamo esseri bisognosi di sorveglianza morale, di riparazione, di espiazione, cioè di penitenza.
Che se a questa cronica e comune disfunzione congenita del nostro organismo psico-morale si sono aggiunte altre deficienze e altre rovine, cioè i peccati personali, attuali, come li chiamano i maestri di morale, questa obbligazione di restaurarci nell'ordine con Dio, con la coscienza e altresì con la comunità dei fratelli ( sulla quale si riflettono, volere o no, le nostre colpe personali ), si fa più grave e più urgente e, pur troppo, spesso ricorrente; il precetto della penitenza, a nuovo titolo dunque, inesorabilmente s'impone.
Ma che cosa è dunque la penitenza?
È una autorepressione, una reazione contraria al soggetto che la compie.
È una terapia molesta compiuta da chi vuole entrare o rientrare nel regno della salvezza, il regno dei cieli ( Cfr. Mc 1,15; Mt 3,2; Mt 4,17 ).
In che cosa consiste?
Qui il discorso si farebbe lungo, se dovesse enunciare le varie forme esterne, interne, sacramentali, rituali … , in cui la penitenza può essere praticata.
Basti dire che questa cura ricostituente e preservativa della nostra perpetua caducità deve durare almeno come sentimento e proposito, per tutta la vita ( Cfr. S. TH. III, 74, 8).
Ma ora fermiamo un istante l'attenzione sopra l'aspetto interiore della penitenza, quello obbligatorio e per tutti possibile, quello che con il termine biblico, divenuto quasi d'uso corrente, si chiama metánoia, che vuol dire conversione, pentimento, cambiamento interiore.
Vuol dire mutazione di mentalità.
Ed è questa che più importa: mutare pensiero, mutare idee, mutare maniera di giudicare se stessi, mutare coscienza, da falsa in vera.
Questa penitenza interiore è indispensabile, anche per noi credenti, per noi cristiani; perché significa raddrizzare il proprio orientamento logico e morale secondo l'itinerario di quella verità, che rivolge all'ordine, al bene, all'amore, a Dio la nostra vita.
E noi, che abbiamo la fortuna di conoscere questa concezione della nostra vita destinata, per congenita vocazione e per l'inserzione battesimale nel disegno della salvezza, alla comunione con Dio, il Padre celeste, mediante Cristo, nello Spirito Santo, dobbiamo avvertire continuamente l'ansia di questa rettifica generosa ed amorosa, come il pilota della nave avverte continuamente il dovere di manovrarne il timone per mantenerla sulla rotta stabilita, dalla quale, per onde e venti, è facile deviare.
Ed in questo periodo liturgico, nel quale l'esortazione a questa metánoia, a questa penitenza interiore, a questo riordinamento della nostra mentalità e della nostra moralità, si fa pressante, dobbiamo domandare a noi stessi con coraggiosa franchezza: che cosa dobbiamo correggere nel nostro segreto, intimo governo personale?
Ancora una volta ritorna alle labbra la sentenza scultorea di Pascal: « Tutta la nostra dignità consiste nel pensiero …
Procuriamo dunque di pensare bene: ecco il principio della morale » ( Pascal, Pensées, 186 ).
Pensare bene!
Sarebbe questa la migliore metánoia, la migliore conversione, la migliore penitenza!
Cioè la migliore disposizione per entrare nel piano della salvezza, per bene celebrare il mistero pasquale, per dare al nostro cristianesimo la sua verace e felice espressione, personalmente e socialmente!
Pensare bene!
Fratelli e Figli carissimi!
Ricordate che da questo punto si deve cominciare.
Ricordate che non è facile.
Non solo per un certo sforzo mentale a ciò richiesto, che ai professionisti del pensiero, ai filosofi, ai cercatori della verità speculativa può essere faticosissimo e drammatico ( ricordiamo i grandi convertiti ), ma anche, e questo per tutti, per un certo sforzo morale, che il ben pensare richiede.
Il cambiare la propria mentalità errata e difettosa domanda umiltà e coraggio.
Il dire a se stesso: ho sbagliato, esige non poca forza di animo.
La rinuncia a certe proprie idee fisse, che sembrano definire la personalità: « Io la penso così! io sono libero di pensare come voglio! io appartengo alla tale ideologia, e nessuno me la farà cambiare », ecc., domanda davvero un rivolgimento di spirito, solo possibile a chi sacrifica ciò che ha di più suo, la propria opinione o convinzione, alla verità.
E per chi di solito è dominato da istinti passionali o da interessi illeciti, l'innestare un'altra marcia nella guida delle proprie azioni, la marcia dell'onestà, della virtù, della religiosità, è operazione sconvolgente e rinnovatrice assai costosa e meritoria.
Perdonare un'offesa, ad esempio, superare un'antipatia capricciosa, un puntiglio d'onore, un'occasione di usare la violenza, ecc., può essere esercizio di penitenza, proprio sulla buona linea dell'amore cristiano.
Del resto, cambiare, demolire, rinnovare … non è nell'indole del nostro tempo rivoluzionario?
Tutto sta a vedere che cosa, e come, e perché si deve tutto mutare.
Per noi cristiani valga l'esortazione, che la Chiesa fa propria, di S. Paolo: « Rinnovatevi nello spirito della vostra mente » ( Ef 4,23; Rm 12,2 ).
Con la nostra Apostolica Benedizione.