24 Marzo 1976
Noi ripensiamo ancora all'avvenimento, ch'è stato per noi l'Anno Santo, ricercando la traiettoria storico-spirituale della sua recente celebrazione in due direzioni, l'origine e il risultato;
l'origine prossima e determinante non può essere che il Concilio ecumenico, dal quale l'Anno Santo ha attinto la sua ricchezza dottrinale e la sua fecondità rinnovatrice:
Concilio e Anno Santo sono stati per la Chiesa e per l'umanità due momenti fra loro coordinati e determinanti per l'avvenire.
Lo sguardo dal passato si volge all'avvenire, e lo interroga circa il risultato, circa le conseguenze, circa i frutti, che noi siamo in dovere di attendere da fatti così importanti e ricchi di impegni e di promesse.
Abbiamo accennato, per quanto riguarda appunto il futuro, alla « civiltà dell'amore », che dovrebbe essere rigenerata dall'Anno Santo; ma la formula, è chiaro, si presta ad applicazioni e ad amplificazioni diverse.
Quello che ora interessa la nostra attenzione è il fatto di questa continuità, di questa coesione tra un momento e l'altro, fra quello originante e quello derivante per la vita della Chiesa.
Diciamo la definizione logica di questo processo storico religioso; essa è contenuta nella parola « coerenza »: la vita della Chiesa in questo epilogo del secolo ventesimo segue una linea di coerenza; ed è sempre stata questa, nonostante i sussulti drammatici e le diversità di condizioni storiche, la linea direttiva di fondo della Chiesa, quella della coerenza a se stessa, o meglio della coerenza ai suoi principii, quali sono nel Vangelo, e alle sue applicazioni, quali sono nella ricerca della santità dei suoi figli.
Forse un'altra parola è religiosamente più espressiva, e a noi più cara e ben nota: è la parola « fedeltà ».
È una parola sacra e forte, è una parola, riguardo al tempo, bifronte:
la fedeltà guarda al passato, al punto di partenza, alla sorgente, che è Cristo;
e guarda all'avvenire, al tempo che viene e che passa, che tutto consuma, e divora, eccetto lei, la fedeltà, che rimane e vuol rimanere:
non apatica,
non immobile,
non ignara dell'evoluzione delle cose e dei bisogni,
ma sempre viva ed eguale a se stessa
e sempre pronta a inserirsi nella storia,
per darle una direzione,
un significato,
un processo, ch'è vero progresso;
così è la fedeltà.
Bisogna che noi ci armiamo di questa virtù, se vogliamo valorizzare l'eredità del passato per le acquisizioni future.
Si classifica nel settore delle virtù derivate da quella cardinale della fortezza: la fedeltà è una manifestazione di fortezza, ma è, nella vita vissuta, collegata con le virtù teologali;
con quella della fede, di cui vuol essere professione pratica e costante,
e con quella della carità, al cui servizio può raggiungere il vertice della perfezione cristiana ( Cfr. Gv 15,13; S. Thomae Summa Theologiae, II-IIæ, 124, 3 ).
Non sarà difficile rilevare come la fedeltà, intesa come logica che coordina il pensiero all'azione, abbia nel Vangelo la sua ripetuta apologia: « Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne' cieli »: così si esprime Cristo, il Quale inoltre ripetutamente ci ammonisce: « chi persevererà fino alla fine sarà salvato » ( Mt 10,22 et 24 ).
Bisogna essere, farà eco l'apostolo Pietro, « forti nella fede » ( 1 Pt 5,9 ).
E così via.
Difatti, lo sappiamo, il cattolicesimo è un atto perenne di fedeltà, che attraversa la storia.
E qui dobbiamo fare attenzione a due formidabili obiezioni, le quali potrebbero scuotere la nostra fedeltà, diciamo pure la nostra identità cristiana, se non fossimo difesi da adeguate risposte interiori.
La prima difficoltà ci è data dalla vertigine della novità; della novità per se stessa, la quale pervade e domina la mentalità moderna.
Per l'uomo che vive davanti allo spettacolo del trasformismo filosofico e sociale dei nostri tempi, anzi ne è lui stesso partecipe, si forma interiormente l'opinione che ogni fissità è negativa, ogni mobilità è positiva.
Si arriva a confondere il mutamento con le pulsazioni della vita.
La rivoluzione è il programma normale.
La moda è l'interprete della sempre nuova primavera.
Tutto si cambia, tutto si evolve.
La verità stessa dovrebbe subire questa sola, inesorabile legge fissa: la mutazione.
Che questa possa essere un'osservazione, che si giustifica nella instabilità della creatura, dell'essere cioè che non ha in se stesso la ragione sufficiente della propria esistenza ( Cfr. il « pánta rei »: ogni cosa scorre, di Eraclito ), nessuno forse lo nega; ma che questa volubilità si possa applicare a Dio, alla Sua Parola, alla rivelazione quindi e alla fede, non è per noi ammissibile; è questa, possiamo dire, l'ineffabile originalità di Cristo, il Verbo eterno di Dio calato nel flusso della storia umana: « il cielo e la terra, ha proclamato appunto Gesù, il Maestro, passeranno » ( Mt 24,35 ).
La nostra fedeltà cristiana può trovare qui la sua soprannaturale radice, e la sua radice naturale nella immutabile essenza dell'uomo creato a immagine di Dio.
E l'altra difficoltà nasce dal timore che la fedeltà paralizzi l'azione conforme alle contingenze dei tempi e alle necessità dell'amore.
Non è così.
La fedeltà a Cristo è una fontana inesausta di rinnovamento nella logica dei principii, donde essa trae sorgente.
È novità vissuta: sempre « noi possiamo camminare in una vita nuova », scrive S. Paolo ( Rm 6,4 ).
Così noi. Con la nostra Benedizione Apostolica.