Lo spirito di povertà nel matrimonio: l'aspetto pratico |
B169-A5
( Relazione del prof. Siniscalco al corso di formazione per sposi, organizzato dall'Unione Catechisti )
Quando si parla in un ambiente cristiano medio di virtù della povertà, il pensiero corre subito agli ordini religiosi o alle persone consacrate e si lega a quello di voto di povertà.
Ora i religiosi hanno un voto di povertà tale per cui il singolo non possiede nulla e l'uso dei beni è controllato dai superiori.
In questi ultimi decenni sono sorte altre forme di vita perfetta, come quelle degli Istituti Secolari, presso taluni dei quali il voto di povertà ( insieme a quello di castità e obbedienza ) sussiste, assumendo però una fisionomia particolare: il consacrato pur conservando la proprietà radicale dei propri beni e la capacità di acquistare, rinuncia al diritto di disporne liberamente, spogliandosi quindi della possibilità di usarne indipendentemente.
Sono questi dei modelli che la Chiesa propone ai fedeli, indicando una via che, non nella lettera, certo nello spirito, è valida per tutti.
Ma qual è a tal proposito la concreta situazione in cui il semplice laico si trova?
A lui non meno che a tutti, sono state rivolte le parole di Gesù: « Siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli », e se si collegano queste parole agli ammonimenti, alle invettive di Gesù contro la ricchezza ( e sono molte ), si vede come lo spirito di povertà sia essenziale per giungere nel regno dei cieli.
A questo punto è necessario richiamare alla mente la definizione di laico che il Concilio Vaticano II, in una costituzione dogmatica ha dato, per poter meglio approfondire la sua posizione di fronte la problema della ricchezza.
Nella costituzione « Lumen Gentium 31 » si dice : « Col nome di laici si intendono tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, e cioè i fedeli che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti Popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.
L'indole secolare è propria e peculiare dei laici.
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale di cui la loro esistenza è come intessuta ».
Ecco l'ambito, ecco lo spirito con cui il laico deve muoversi nel mondo.
Il laico, impegnato per sua specifica vocazione nelle cose del mondo attinge il regno di Dio attraverso le cose del mondo.
La costituzione Lumen Gentium nel medesimo paragrafo che è già stato citato, parlando del valore autonomo delle realtà terrestri, ha messo in rilievo quest'idea.
Il laico deve rispettare la verità interna delle cose in cui si trova implicato, cioè deve saperne cogliere la natura propria e le esigenze particolari.
L'impegno che egli deve avere, deriva dall'esigenza di rispetto verso questa realtà.
Un impegno sincero, pieno, con lo scopo di ordinare tutte queste cose secondo Dio.
Infatti: « i laici nel secolo sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno, a modo di fermento, alla santificazione del mondo, mediante l'esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico e in questo modo a manifestare Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità.
A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e Redentore ».
Questa posizione dunque del laico, lo impegna da una parte nelle cose, mentre dall'altra esige il suo distacco dalle cose.
Per il laico, lo spirito di povertà è perciò una condizione indispensabile per realizzare la sua propria vocazione.
Uno spirito di povertà che non coincida però con la povertà esteriore, cioè con la mancanza di beni.
La spogliazione materiale che consegue al voto religioso non può essere senz'altro identificata con lo spirito di povertà; la spogliazione materiale è un ottimo strumento a servizio della virtù di carità, ma anche la ricchezza può essere in molti casi utile ad essa, e questo deve essere il caso del laico.
La privazione totale può aiutare ad acquistare lo spirito di povertà, ma non è questa la via che si apre dinanzi al laico, il quale si trova in certi casi e sotto alcuni aspetti in una posizione più difficile, perché deve giungere allo scopo che è quello di tutta la sua vita usando della ricchezza e usandone bene.
Nell'imminenza del sacrificio supremo, nella preghiera sacerdotale Gesù pronuncia parole profondissime: « Io prego per il mondo … Essi sono nel mondo … Padre santo conservali nel tuo nome … Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma chiedo che tu li custodisca dal maligno, essi non sono del mondo come io non sono del mondo.
Santificali nella verità … Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io li ho mandati » ( Gv 17,9ss ).
Si profilano con chiarezza in queste espressioni due aspetti della missione del cristiano; il cristiano è mandato nel mondo, ma la missione stessa che deve assolvere esige che non sia del mondo.
Del resto chi è « povero in spirito » non fa altro che rispettare una gerarchia di valori e riconoscere il principio fondamentale della moralità, che è quello di dare a ciascuno il suo e dare quindi ai beni, quali che siano, il valore che hanno.
Vi sono delle tentazioni che per i laici sono particolarmente forti.
Si bada molto di più all'avere e talvolta al fare, piuttosto che all'essere.
Ma « l'uomo vale più per quello che è che per quello che ha » ( Gaudium et Spes 35 ).
Un'altra osservazione sembra opportuna: sarebbe un errore riferire lo spirito di povertà solo ai beni materiali; c'è chi ha ricchezza spirituale e che ha verso i fratelli delle responsabilità e dei doveri non minori di chi ha ricchezze materiali.
È un caso che l'esame di coscienza forse troppo facilmente trascura, ma è importante.
Ci sono beni di differente natura che il Creatore ha dato a ciascuno di noi.
Il metterli tutti a disposizione degli altri vuoi dire amare gli altri ed esercitare una forma di distacco da sé.
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Lo spirito di povertà nasce, si apprende, si realizza innanzi tutto nell'ambito familiare.
Fin dal momento in cui due giovani si conoscono, in vista del matrimonio, c'è già tutta una mentalità attinta dalle famiglie da cui provengono, che emerge, mentalità che si ripercuote su tutte le questioni pratiche che devono affrontarsi e risolversi: la scelta dell'alloggio, della zona in cui abitare, il numero di camere, la loro stessa disposizione.
Lo spirito di povertà può e deve intervenire in tutto ciò, come ugualmente nella scelta dell'arredamento, nell'acquisto del vestiario, ed in mille altre cose, forse piccole, spesso trascurabili in se stesse, ma che nell'insieme formano il quadro e danno l'atmosfera in cui vive una famiglia.
È molto difficile indicare una regola generale di comportamento che comprenda casi tanto diversi e sia sufficientemente precisa.
Nonostante ciò, se di un certo criterio si può parlare, ci sembra che debba essere quello dettato dalla semplicità e dalla funzionalità.
Tra due possibili cose si sceglierà quella che è più funzionale e che è più semplice, che serve cioè per l'uso a cui è destinata e vale di meno; così intanto si bandisce ogni sfoggio inutile, vano, superfluo di ricchezza.
Ci sono poi altri aspetti, ad es. quelli relativi all'educazione dei figli che varrebbe la pena di considerare: quando i figli stanno crescendo ed hanno le loro esigenze, non è facile risolvere con equilibrio le questioni che si riferiscono alle spese e al danaro.
Per i coniugi ci può essere uno stile di vita voluto e costruito di comune accordo e coscientemente.
Per i figli la cosa sta diversamente: senza forzature e rigorismi, proponendo un esempio sempre coerente, si tratta di far amare un certo spirito piuttosto che di importo.
Se da una parte la famiglia ha l'obbligo di assicurare a tutti i suoi membri un'esistenza in cui non manchi quanto è necessario al benessere fisico e allo sviluppo morale e intellettuale che la vocazione di ciascuno esige, dall'altra essa ha pure il dovere di educare i figli alla povertà, al senso del sacrificio e della responsabilità, non rendendo troppo facile la loro vita e non affidando loro mezzi finanziari che risulterebbero più dannosi che utili.
Tutto ciò per essere realizzato richiede anche uno spirito critico, indipendente, anticonformista, rispetto all'ambiente che ci circonda e di cui si respira ogni giorno l'atmosfera.
Occorre reagire perché la missione dei genitori e l'educazione dei figli riescano.
D'altronde si deve sottolineare che l'ideale proposto è molto positivo, influisce beneficamente su tutta la vita, liberandola da molte false esigenze e dando uno sguardo semplice ed essenziale sulle cose.
Quest'educazione allo spirito di povertà non rimane chiusa in se stessa, ma reca vantaggio agli altri e anche in tal senso diviene un fatto positivo.
Si può quindi accennare al grave problema del superfluo e della sua determinazione; lo faremo molto in breve ricorrendo a due voci particolarmente autorevoli.
In un discorso tenuto poco prima dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII, illustrandone i temi disse: « Dovere d'ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui, e di ben vigilare perché l'amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti.
Questo si chiama diffusione del senso sociale e comunitario che è immanente nel Cristianesimo antico … ».
E il Concilio ha affermato solennemente che « a tutti gli uomini spetta il diritto di avere parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia.
Questo ritenevano giusto i Padri e Dottori della Chiesa …, quando hanno insegnato che gli uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo » ( Gaudium et Spes, 69 ).
Sono affermazioni che non possono non far riflettere ed il proporle all'intera comunità familiare è certo di grande aiuto anche per un fine educativo.
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Accanto all'uso dei beni esteriori, considerati in una giusta prospettiva, ci sono altre forme di povertà, d'indole diversa, che trovano espressione nella vita familiare.
La virtù della povertà può manifestarsi, per esempio, nei rapporti col coniugo, estrinsecandosi in almeno due atteggiamenti, l'uno consistente nel non voler possedere l'altro, il secondo nel privarsi di se stesso.
I. Gobry, in un libro su La povertà del laico ( Boria, Torino 1962, pp. 180 sg. ), ha messo finemente in evidenza, insieme a molti altri, anche questi aspetti, scrivendo: « Devo ricordarmi che non soltanto l'altro si è dato a me liberamente, ma che io mi sono dato a lui incondizionatamente … ecco la grande povertà della nostra consacrazione: ciascuno dei due si perde per l'altro, senza impadronirsi di lui, o almeno senza guadagnarlo per sé.
Infatti il dono della povertà ha questa virtù, di guadagnare a Dio tutto ciò che dona e tutti coloro cui egli dona purché essi … non facciano servire la povertà altrui alla loro ricchezza terrena.
La povertà coniugale esige che ciascuno rinunci ai propri agi per sostenere e agevolare l'altro; che ciascuno abbandoni il proprio egocentrismo per comprendere i sentimenti, i desideri, i motivi dell'altro; che ciascuno faccia tacere i propri gusti e le proprie preferenze, i propri disgusti e le proprie indifferenze, le proprie preoccupazioni, le proprie inquietudini, per ascoltare quelle dell'altro.
Un tale atteggiamento per essere fecondo deve essere ispirato dal disinteresse, senza il quale non esiste mai la povertà di cuore ».
Così la virtù di povertà integra e completa la virtù di castità e quella di ubbidienza.
La virtù di povertà si esercita anche nella procreazione, non solo per il fatto che ogni figlio è un motivo di impoverimento in quanto riduce per un non breve periodo d'anni la disponibilità del bilancio familiare e costringe a limitare comodità e piaceri, a rinunciare a certe libertà prima consentite, ma soprattutto per il fatto che esige che si abbia su di lui uno sguardo amorevolmente disinteressato, che sappia considerare la sua libertà, che sappia aiutarlo a scoprire la sua vocazione, che sappia, insomma rispettarlo come creatura di Dio, alla cui opera si è collaborato, da non ritenere dominio esclusivo o possesso geloso.
Se nell'ambito familiare si coltiverà e si svilupperà una sensibilità di tal genere, non potranno mancare di ripercuotersi influssi benefici anche su quelle realtà e quegli ambienti con cui ciascun membro della famiglia viene in contatto.
Il lavoro non sarà più una corsa affannosa al danaro per acquisire agi superflui a se e ai figli.
Certo sarà l'attività mediante cui si provvede alla famiglia il necessario per vivere, ma anche il modo per realizzare la propria misura umana, per rendere un servizio agli altri, per dare un contributo personale alla realizzassione del piano di Dio nella storia ( Gaudium et Spes 34 ).
La riuscita, e in particolare quella economica, non sarà il metro esclusivo di giudizio; proprio perché considerata nel suo giusto valore, non potrà mai imporre mezzi disonesti per ottenerla.
I rapporti con le altre persone non saranno ispirati da calcoli prettamente egoistici, ma si realizzeranno più liberamente e tanto maggior vantaggio ne trarranno le persone, reciprocamente, salvando la propria dignità e affermando la propria libertà.
Così i rapporti tra la famiglia e altre famiglie o comunità, saranno improntati non ad uno spirito mondano o guidati da criteri di prestigio.
Tutto insomma, dalle relazioni che si mantengono, al tempo che si spende, alle attività che si svolgono prescindendo dal lavoro, saranno illuminate da uno spirito positivo per sé e per gli altri, se avranno presente il significato e il valore della povertà cristiana.
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C'è una parola di S. Paolo che deve farci riflettere: « Radice d'ogni male è la cupidigia » ( 1 Tm 6,10 ); c'è soprattutto un esempio che deve essere il nostro modello, quello di Cristo « … per voi egli, ricco qual era, si fece povero per arricchire voi mediante la sua povertà » ( 2 Cor 8,9 ).
« La profonda e rapida trasformazione delle cose esige, con più urgenza, che non vi sia alcuno che … indulga ad un'etica puramente individualistica.
Il dovere della giustizia e dell'amore viene sempre più assolto per il fatto che ognuno, contribuendo al bene comune secondo le proprie capacità e le necessità degli altri, promuove ed aiuta anche le istituzioni pubbliche e private che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini » ( Gaudium et Spes 50 ).
Questo ci propone e a questo ci stimola il Concilio.
Un qualcosa che presuppone il dono sincero di sé, il quale non può realizzarsi se manchi lo spirito di povertà e di distacco anche dalle cose.
Quanto sia essenziale, lo ricorda Gesù Cristo nel discorso delle Beatitudini: « Beati i poveri in spirito perché ad essi appartiene il regno dei cieli » ( Mt 5,3; Lc 6,20 ).
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Si è delineato un breve orizzonte, si è indicato qualche caso in cui lo spirito di povertà può esercitarsi, come consigliava di fare una relazione, qual è stata questa, di carattere applicativo.
Su tale strada appunto si deve procedere molto più avanti, col contributo di tutti, perché i principi cristiani possano realizzarsi in forme più concrete e sempre più estese a rendere maggiormente manifesta la viva presenza di Cristo e della Sua Chiesa nel mondo.