La vita come vocazione |
B261-A3
I ritiri spirituali mensili sono una delle attività cardine dell'Unione catechisti, secondo le indicazioni ispirate da Gesù al Servo di Dio fra Leopoldo.
Per offrire un saggio di tali ritiri, riportiamo una delle meditazioni dettate dal rev. don Giuseppe Pollano nell'incontro svoltasi domenica 11 ottobre 1992 al centro spirituale dell'Unione « La Sorgente », a Baldissero, nella collina torinese.
Pensiamo di fare cosa gradita ai lettori, per la congenialità del tema « La vocazione » con la spiritualità dell'Unione, e per la profondità delle riflessioni.
Il testo, ricavato dalla registrazione al magnetofono, non e stato rivisto dall'Autore; tuttavia pensiamo che si presti lo stesso a una proficua lettura.
Don Pollano al ritiro dell'Unione
C'è qualche cosa di strano nella nostra esistenza.
Quello che siamo già non basta mai.
Non basta mai a noi, ma quando anche basti a noi, non basta a Dio.
Essere è: essere chiamati a essere di più. Perché?
L'essere compiuto ( o perfetto ) è in Dio, è Dio.
Perciò, posti da Lui dinanzi a se stesso, noi abbiamo come sorte di essere non solo at-tratti a lui, ma contemporaneamente, e proprio per questo, estratti da noi.
Una chiamata inesauribile ci interpella come legge dell'esistenza.
Rivelazione teologica.
Dio è Dio che ci chiama in crescendo fino al punto di attirarci nella sua natura, divinizzati nella sua partecipazione.
Abramo, per un popolo il cui apice è Dio che si fa uomo in Gesù Cristo, da cui il popolo divinizzato e santo.
Dal mondo dei « bisogni » ( esserci ) a quello delle « autoaffermazioni » ( essersi ), si è elevati alla condizione divina ( esserlo ) per una serie di trasformazioni crescenti rispetto al punto di partenza.
La trasformazione in Cristo è definitiva e radicale, perché riprende tutto il nostro essere nell'energia creatrice: uomo ulteriore, rispetto a quello storico.
La presente esposizione, più che a uno schema, risponde a una successione di idee.
Il tema trattato è incentrato su una realtà che stiamo tuttora vivendo, ed è quella di « essere chiamati ».
Anche questo incontro, senza dubbio, fa parte di un momento della chiamata di Dio.
Ciò che diciamo può servire a ciascuno di noi individualmente e nello stesso tempo servire al discorso vocazionale che siamo chiamati a fare tutti nella vita di ogni giorno, nelle più svariate maniere.
Sulla questione della vita come vocazione, possiamo tenere presenti alcune icone: quella di Gesù che passa vicino ai suoi primi discepoli e dice il famoso « Seguitemi, io vi farò altro da quello che siete », o una icona molto più remota, che è il mito sapienziale della creazione e della chiamata dell'uomo al giardino.
Sono icone bibliche a cui ci si può riferire per avere un lume interiore.
Dal punto di vista della nostra esperienza, ci rendiamo conto tutti che in questa nostra vita, come è stata sistemata dalla Provvidenza, c'è qualcosa che, sebbene sia normalissimo, a pensarci bene è singolare, strano.
E lo strano consiste in questo: ciò che siamo, non basta mai, non è sufficiente.
Ma tale insufficienza va considerata non tanto con riguardo a noi, ma rispetto a Dio.
Da parte nostra c'è anche la tendenza ad accontentarci di ciò che siamo, a sistemarci in ciò che siamo: la nostra vita, le nostre qualità, la nostra collocazione nel mondo, le nostre capacità.
Invece ci rendiamo conto che , posti dinanzi a Dio, è come se sempre Lui ci stimolasse a uscire, ad andare oltre ciò che siamo già arrivati ad essere, per conquistare un misterioso « di più », nascosto nella nostra potenzialità, e che siamo invitati a realizzare, ascoltando la sua chiamata.
Essere, esserci, vivere, di fatto equivale a sentirsi chiamati a essere di più.
La nostra vita è dominata da questa ulteriorità misteriosa.
A parte l'uomo, nessuno dei viventi che noi conosciamo ha questa caratteristica, dato che ciascuno è programmato e possiamo prevedere i comportamenti di qualsiasi vivente nel tempo dei millenni.
Ma per l'uomo non è così, e non alludo soltanto al suo intimo istinto di diventare, che d'altra parte è un riflesso di questa chiamata, ma proprio alla parola che Dio dice all'uomo: « Tu devi essere più di quello che sei, io con te ho soltanto cominciato, ma devo terminarti a modo mio ».
Chi coglie questo senso profondamente rivelato e biblico della vita, non pone più termine al proprio divenire: anzi, lo stesso essere diventa appunto divenire.
Ecco l'icona adamitica.
Adamo è colui che arriva sulla terra e la terra, dice la Genesi, era informe e vuota.
La Bibbia usa un certo termine per dire terra: erets, e vuoi proprio dire: sì, la terra c'è, la materia esiste, ma è ancora priva di colui che deve viverci dentro, è appena un inizio.
Poi il racconto continua, e si dice che Dio dalla polvere del suolo, che non è più la terra, è il suolo, impastò, fece l'immagine del primo uomo.
Questa polvere rimane polvere, ma nello stesso tempo possiede in sé l'animazione di un destino nuovo: non è più la terra informe, è suolo, tanto è vero che Adamo, tratto dal suolo ( il termine ebraico è adamà, che suona esattamente come adam ), dovrà dedicarsi a questo suolo, dovrà far diventare questo suolo qualche cosa di molto nobile.
Infatti in questo suolo Dio pone Adamo; dove? Nel giardino di Eden, quel punto fiorente, colmo di vita, dove l'uomo realizza l'incontro con Dio, perché lì c'è l'albero della vita e lì c'è anche il gioco della libertà.
« Qui tu sceglierai se vuoi essere Dio o no ».
Vi è dunque un'ascesa dalla terra arida al suolo, che diventa coltura dell'uomo, fino al punto paradisiaco della sua esistenza.
Ad essa segue però anche la scala di discesa, perché di fatto l'uomo, avendo fatto la sua scelta dinanzi a Dio, avendo scelto di essere Dio da sé, è tornato suolo, ma è tornato al suolo nella maledizione di Dio: « Tu sei polvere e ritornerai polvere ».
Con l'episodio di Caino che conclude questo mito, l'uomo torna a un suolo che sarà sterile, che lo respingerà da sé, torna alla terra arida e informe, torna al nichilismo della vita.
É un mito molto sapiente, molto grande, che ho esposto in poche parole, ma nel quale c'è tutta la nostra storia.
Davvero siamo stati fatti dal nulla, e quante volte ce ne accorgiamo di questo niente che serpeggia in noi, la nostra fragilità, la nostra debolezza, il nostro pessimismo, la nostra stanchezza di vivere dal punto di vista esistenziale.
Ma ciò non ci esaurisce, perché siamo chiamati a diventare quelli che paradisiacamente si incontrano con Dio.
É questa è una chiamata che ci costituisce.
Non siamo dunque stati fatti e poi chiamati, ma siamo stati chiamati e poi fatti, e non finisce mai dentro di noi la spinta della voce che ci chiama.
C'è una ragione profonda, che possiamo definire una ragione metafisica, che il regno dell'essere, la patria della vita è Dio, è chi è fuori di Dio non può fare a meno di volgere se stesso a quella patria perché di Essere perfetto ce n'è uno solo, è Lui.
Noi siamo certo stati fatti, ma non per essere autosufficienti e indipendenti.
E così vivendo abbiamo in noi un tortissimo, più o meno consapevole, desiderio di Dio.
Noi lo realizziamo addirittura come credenti ormai, ma tormenta tutti il bisogno di Dio.
Sicché noi siamo attratti a Dio, ma notiamo che essere attratti a Dio, di fronte a noi, vuoi anche dire cha siamo tratti fuori, estratti da quello che siamo.
Ricordiamo che Gesù in Luca dice: « Guai a chi è sazio, guai a chi si accontenta di quello che è, guai a chi ora ride, guai a chi si ritiene ormai compiuto! ».
Perché questi guai? Che cosa c'è di male a essere intelligente, a essere ben collocato nel mondo?
C'è di male questo: che se si è sazi, si pensa che il cammino sia finito, si sta in una situazione dalla quale non si vuole più essere estratti, tirati fuori.
Come si fa a proporre la santificazione a una persona che ormai sta bene com'è?
É un'esperienza che conosciamo bene di fatto, sia per nostra personale vicenda, sia per la fatica che si fa molte volte a proporre ad altri un cammino più nobile, più alto.
La circostanza che molta gente si ritenga troppo soddisfatta e che la nostra stessa cultura scivoli in questo concetto dell'uomo appagato, purtroppo anche se appagato di poco, è proprio quello che si pone in antitesi con questa urgenza inferiore di estrarsi dalla propria situazione perché si è attratti da Dio.
Eppure Gesù non ha fatto altro che estrarre gli uomini da quello che erano: « Seguitemi e io vi farò pescatori di uomini. E, lasciate le reti e le barche, lo seguirono ».
Se questo non è essere estratti da una situazione con enorme forza e buttati in un'altra, non so come possa definirsi.
D'altronde morendo saremo estratti da questa maniera di vivere, e saremo definitivamente attratti dentro la realtà di Dio.
Questa è la ragione filosofica appunto che sta in noi, nel grande e nel piccolo, nel sensibile e nell'insensibile, e che tutti ci rode.
Ecco perché dicevo di quell'ansia che abbiamo di uscire per immergerci nel meglio, e che non è che il riflesso di questa nostra maniera d'essere, che si giustifica pienamente soltanto là dove l'altro a cui tendiamo è Dio.
Ma abbiamo tutti esperienza della vita, e sappiamo quanti sbagli si possono commettere su questa strada.
Tu incontri una persona che ti sembra l'altra a cui devi tendere e ti lasci attrarre per una vita intera da una persona come se fosse il tuo piccolo dio.
E questo è un caso così banale che non varrebbe la pena di citarlo, eppure la vita è questo intreccio di attrazioni e di chiamate equivoche che non sono la « chiamata ».
E capiamo allora perché tutta la teologia non fa altro che dirci questo: Dio è un Dio che ci chiama in crescendo.
La mia e le nostre vite sono la storia di una risposta a una chiamata, che abbiamo dato, bene o male, tanto o poco ( questo non conta, è il nostro bilancio personale ), ma di fatto la nostra vita è una risposta a una chiamata, perché Dio non cesserà mai di chiamarci.
La sua chiamata è inesauribile e non cesserà mai di interpellarci perché la sua ambizione, essendo Egli un amore che ci ama, è altissima.
Dio non sarà contento con l'uomo finché non sarà riuscito ad attirarlo dentro la sua stessa vita.
Come se Dio dicesse all'uomo: vieni in me e imparerai che cosa significa vivere.
E vero, siamo stati fatti, dice Pietro nella sua lettera, partecipi della natura di Dio.
Tutto l'evento di Gesù Cristo è questo Dio che si fa uomo, che si appaia a noi, che si mette con noi e nello stesso tempo che ci attira e quasi ci assorbe nella sua vita.
Attraverso il filtro della sua croce che ci purifica. Gesù Cristo ci rende veramente concorporei a Lui.
« Tu mangi e bevi di me, io sarò in tè, tu sarai in me, tu vivrai la stessa vita che vivo io, dove sono io tu vivrai e perciò risorgerai ».
L'Eucaristia è questo capolavoro di vitalizzazione da parte di Dio, perché Dio, che è padre, non si da pace finché non riesce a portarci là, in quel punto per il quale siamo stati fatti: la sua stessa vita trinitaria.
« Voglio che il mio Spirito spiri dentro di te ».
Ricordiamo le lettere ai Romani e ai Galati: « Noi diciamo Abbà, Padre, perché lo Spirito lo sospira in noi ».
Siamo presi dentro dei dinamismi inimmaginabili dal punto di vista umano, ma questa è la teologia cristiana.
E dunque noi, noi qui siamo chiamati a poco a poco a questo cammino che si addentra dentro il mistero di Dio con il quale, tra l'altro, siamo familiarissimi.
Non ci comunichiamo tutti i giorni con il Corpo del Signore?
Non riceviamo tutti i giorni il suo Spirito?
Il suo Spirito non sta abitando in noi anche adesso?
Certo. Non diciamo Padre a pieno diritto? Sicuro.
Siamo molto più trinitari di quanto la nostra piccola esperienza non ci renda consapevoli: la fede ce lo dice.
Allora, ringraziando Dio, eccoci già molto avanti, noi cristiani e credenti, in questo cammino.
Esso però, tra l'altro, comporta il dovere di aiutare gli altri a rendersi conto di questa verità.
Non ci meravigliamo che in questa luce di un amore che ci ama, e perciò ci chiama, e ci chiama fino a quel livello indicato, tutta la storia umana, quella vera, sia la storia di una chiamata.
Nella vicenda umana confusa, inquieta, incerta, emerge Abramo, il quale è l'uomo che Dio comincia a chiamare.
E in questo senso è inconfondibile Abramo, perché in lui Dio svela qual'è veramente la sua ansia di averci.
« Io farò di te un popolo, vieni ».
E dalla lettera agli Ebrei sappiamo quanto Abramo sia stato anch'egli estratto dalla sua situazione.
« Lascia dietro di te tutto e vieni ».
E Abramo, dice la Bibbia, partì, non sapendo neppure dove andava.
Questa situazione è stupenda, come disponibilità a Dio.
Dio attrae e perciò continuamente estrae dal resto.
E Abramo comincia una storia diversa: finalmente l'uomo sa che Dio lo chiama, finalmente l'uomo non deve più tradurre un vago senso di Dio nei suoi idoli, nelle sue religioni, nei suoi tentativi religiosi, nelle sue superstizioni, finalmente ha udito la voce giusta.
Anche noi l'abbiamo udita, questo è il fatto consolante.
La nostra epoca, che perde orecchio alla chiamata di Dio, sta riscivolando nelle interpretazioni deboli, nella superstizione, nei miti, nei culti e mille altre di queste cose.
Queste velleità significano che l'uomo, avendo perso il senso della voce che chiama, ricomincia a tentare, come nel precristianesimo, di arrivare a Dio in qualche modo.
Non è una bella epoca la nostra, da questo punto di vista, è un'epoca che è ridiventata selvaggia e che bisogna nuovamente evangelizzare.
La Chiesa l'ha capito molto bene, e ci lancia questo messaggio.
Abramo lui sì, lui finalmente sa che, camminando segue una voce.
Che bello poter dire: anch'io camminando seguo una voce.
In apparenza vado come tutti gli altri, camminando faccio i miei affari, bado alle mie cose, vado e vengo.
Ma in realtà camminando seguo una voce, so che Iddio mi chiama tutti i giorni ed è perciò che ogni giorno aprendo la Bibbia, mi incontro con la sua parola e mi lascio, per quel giorno, chiamare in quel modo.
Non si può vivere senza la parola di Dio, affogati come siamo in un mare di parole.
Guai se la Parola non ci ricordasse come siamo chiamati.
E così Abramo realizza il suo popolo, sarà un popolo non tanto fedele, eppure è un popolo benedetto, perché da questo popolo nasce per Dio la possibilità suprema: « Vengo io a essere uomo con voi, per concludere la mia chiamata ».
Come lo sa Dio che da soli non possiamo fare molto cammino, come lo sa Dio quello che Paolo non finirà di ripetere, che la legge non ci fa giusti, come lo sa Dio che ispirarci alla legge ci rende soltanto più consapevoli e più vergognosi dei nostri peccati, come lo sa che abbiamo bisogno di salvezza! Allora viene.
Abramo è colui che crea il popolo nel quale e dal quale nasce Gesù Cristo.
E a sua volta Gesù Cristo, che è Dio fatto uomo, si crea un popolo che siamo noi, la cui caratteristica è ormai quella di essere un popolo divinizzato.
Questa parola non è moderna, non fa parte delle nostre culture, non la diciamo mai, se la dicessimo forte rischieremmo molto il ridicolo, probabilmente, o ci faremmo ritenere gente ingenua e, perché no, un poco fanatica.
Eppure se diamo ai termini il senso che hanno, la Bibbia dice proprio così: « Il popolo di Dio è un popolo divinizzato » ( Conc. Vat. II, Lumen Gentium, cap. V ).
Il popolo di Dio è un popolo chiamato alla santità, che è diventata per noi una parola di repertorio a cui siamo troppo avvezzi, che pronunciamo come se fosse niente.
Se appena ci rendessimo conto di cosa significa essere portati dallo Spirito Santo ( Enciclica « Dominum et vivificantem », del 18.5.1986 ), allora saremmo consapevoli che noi siamo proprio un popolo diverso.
E ciò non per farci una mentalità elitaria, evidentemente, né aristocratica, ma per avere coscienza che siamo un popolo diverso, chiamati giorno per giorno a santificarci, perché ormai Dio ci chiama sempre più a essere Cristo.
La vita quindi non è più soltanto essere chiamati da Dio, ma essere chiamati da Dio in Gesù Cristo, in altre parole conformarsi gradatamente a Gesù Cristo.
Rileggiamo in questa luce la lettera ai Romani, al cap. 8: noi siamo stati pensati prima da Dio e tutto il nostro significato è che ci conformiamo all'icona di Gesù Cristo mentre siamo in questo mondo.
Ecco il grande « affare » dell'esistenza, che si svelerà quando compariremo in giudizio all'eterno Padre, assimilati a Gesù Cristo.
Tutto il resto non conta davanti a Dio, conta Gesù Cristo, icona di Dio e nostro modello.
Sicché l'esistenza è un dinamismo nuovo: noi lentamente ci stiamo conformando a Gesù Cristo, pur con i nostri peccati, i nostri limiti, i nostri difetti, nella divina misericordia, ricordando il paradosso biblico: Dio ha posto tutti nella disobbedienza per poter usare a tutti misericordia.
Questo è impressionante, detto da Dio.
Egli ci ha posti nella disobbedienza, ci ha lasciati andare avanti nel peccato per poter usare misericordia.
Allora in questa luce noi siamo soltanto come un'attesa di Gesù Cristo.
E l'insegnamento della lettera ai Romani ( Rm 5,14 ) che dice: Il primo Adamo, cioè noi, è soltanto la figura di quello che deve venire, che è l'Adamo definitivo, cioè l'uomo perfetto, Gesù Cristo.
Ed è anche ciò che ha detto molto bene la Gaudium et Spes al capo 20: Gesù Cristo, l'uomo perfetto.
E io e voi siamo qui, nella nostra povertà, ma pur nella nostra immensa ricchezza; poiché Egli è il nostro modello vivo e i nostri atteggiamenti, i nostri comportamenti hanno senso in Lui.
Noi abbiamo la fierezza di poter dire, secondo l'insegnamento della 1 Corinzi: abbiamo il pensiero di Cristo.
E molto, perché avere il pensiero di Cristo finché siamo in chiesa, passi, ma avere il pensiero di Cristo nella vita di ogni giorno, a casa nostra, nei nostri affari, nel trattare gli amici, le altre persone, nel trattare le questioni economiche, le nostre ambizioni, e così via, e veramente una totale metamorfosi, è una trasformazione radicale.
Gesù non ha avuto esitazione a dirci parole che ogni volta che le leggiamo, ci impressionano, come: chi non odia padre, madre, fratelli e sorelle, casa, per amor mio, non è degno di me; se tu vuoi trovare la vita, devi morire.
E così per le altre affermazioni evangeliche, che ci sono familiari.
Ma notiamo che Gesù ha preso come unità di misura la vita stessa, non di meno.
Paolo dirà che siamo consepolti dentro e conrisorti con Gesù Cristo.
Insemina, è un rovesciamento copernicano della situazione.
Prima di Cristo il centro ero pur io.
Era logico che fosse così: io, la mia affermazione, la mia vita, la mia carriera e ciò che è mio, le mie cose, le mie persone.
Ora tutto si è rovesciato: io sono di Cristo e Cristo è di Dio, dirà Paolo.
Mi interessa che il Signore cresca in me, perciò prego ogni giorno, mi ascolto nello spirito, perciò mi raffino nel mio stile di vita e so che questo si compie perché Iddio mi sta chiamando, il mio nome davanti a Lui è già Gesù Cristo, non è più il mio nome di prima.
Noi siamo figli nel Figlio, verità che conosciamo, ma che bisogna rinfrescare con la riflessione profonda, con una meditazione di fede che non ce la lasci passare come già fin troppo conosciuta.
Allora sì, a poco a poco, siamo attratti in Lui: Egli è venuto, il Verbo si fa carne, ( Gv 1,14 ), poi si fa pane ( Gv 6,56-57 ), poi si fa il nostro sostegno ( Gv 15 ): « Io sono la vite, tu sei il mio tralcio e darai molti frutti ».
E così siamo presi dentro, noi siamo già i tralci di Gesù Cristo: non è questo un bell'esempio, è la realtà.
Ci vedessimo come siamo, in questo istante, ci vedremmo attaccati con molta forza, io spero, a questa vite fondamentale, che è Gesù Cristo, che sta vivendo in noi, mentre stiamo qua, che parliamo, che ci ascoltiamo e che fraternamente ci vogliamo bene.
Certamente questa è un'esperienza storica destinata a diventare per noi una vita totale.
Qui però dobbiamo interrogarci sul concreto di questo.
Dunque, siamo chiamati.
Quindi questa chiamata è « la chiamata », « la voce di oggi ».
E però di fatto, dal punto di vista fenomenologico, di ciò che sta accadendo tra noi e Dio, qual'è la situazione di fondo?
Perché noi ne percepiamo altre di chiamate, certamente, noi abbiamo le chiamate che ci vengono dai nostri bisogni esistenziali.
La prima questione per l'uomo è « esserci » in questo mondo, aver da mangiare oggi, domani e dopodomani, avere una grotta in cui rifugiarsi quando fa freddo, avere qualcosa da mettersi addosso, esserci nel mondo, insomma.
Il problema dell'esserci ce l'abbiamo tutti, le questioni economiche che oggi, per esempio, girano per l'Italia acuiscono il problema dell'esserci in questo mondo: bisogna pure stare in piedi, con tutte le problematiche relative.
Per il fatto che siamo cristiani, non siamo esentati da questo, e quante volte la nostra esperienza ci dice che i problemi dell'esserci possono diventare affannosissimi, possono occupare tutto lo spazio della nostra coscienza, possono crearci l'insonnia nella vita e toglierci ogni pace, e far diminuire molto in noi il senso dell'affidamento a Dio e il senso di fiducia in Dio.
Sì, continueremo ad andare a Dio, ma come ci vanno coloro che gridano per essere guariti, e quando sono guariti hanno finito con Dio.
Cioè Dio diventerebbe per noi il Dio dei nostri bisogni.
Bonhoeffer direbbe « il Dio tappabuchi ».
Ora, ammettiamolo, siamo cristiani, sono vere per noi le cose che abbiamo ricordato, ma siamo anche povere creature affannate dal problema dell'esserci.
Quando la salute comincia a incontrare delle difficoltà, quando le forze se ne vanno, quando l'età anziana ci fa avvertiti che la vita finisce, allora ecco nuove ansie, nuovi stati d'animo che non conoscevamo, assediano la nostra pace e dobbiamo teresianamente, alla carmelitana, cambiare mansione, cioè la nostra fede deve crescere di fronte a questa sfide: o cresce o va in crisi.
Ancora una volta siamo chiamati a credere di più.
Ma allora si pone una piccola verifica: abbiamo tutti avuto delle prove, ne abbiamo.
Le prove esistenziali che sosteniamo per esserci in questo mondo, sono in genere da noi interpretate come passaggi per una maggior fede, oppure ci buttano in uno scoramento per il quale la fede pare quasi che non ci serva, e soprattutto va in crisi la nostra speranza in Dio?
Di cristiani tristi, affannati e angosciati, ce ne sono molti.
Diciamo che ce ne sono troppi dal punto di vista teorico, perché noi diciamo Padre, e ci fidiamo di Lui, perché sta scritto ( Mt 5,6 ): « Il Padre sa tutto di voi ».
Però di fatto la chiamata che sale dai bisogni della vita può essere troppo forte.
Se è così, abbiamo bisogno di una prima purificazione, dobbiamo renderci conto che la fede va oltre, che la fede qualche volta diventa scura, non si vede più niente, ma va oltre lo stesso, come una freccia attraverso una nuvola e arriva a Dio: « Signore, tu ci sei, tu mi ami, di te mi fido, sono tuo figlio, conducimi.
E so che mi conduci anche se mi conduci su una strada sassosa, anche se non so dove vado, anche se ho paura, Signore ».
Non dimentichiamo che le frasi più forti della chiamata Gesù le ha lanciate ai suoi discepoli in situazioni che noi giudicheremmo quasi ingiuste, eccessive.
L'icona della tempesta sul lago: ricordiamo questi poveri uomini che, molto realisticamente, pur essendo pescatori, gente che sa stare su una barca, si sente perduta, e sveglia il Maestro, il quale dorme.
E il Maestro per tutta risposta dice: « Uomini di poca fede, perché avete paura? ».
Questo a viverlo davvero è un episodio che sembra strano, perché noi avremmo avuto molta più compassione, molta più pietà, avremmo detto: « coraggio, coraggio, ci sono io, non abbiate paura ».
Lui invece: « uomini di poca fede ».
Perché ha detto questo? Perché li amava meno di noi? Certamente no.
Voleva far capire che la fede ha una dimensione capace di superare tutto, purché, al momento buono, non ci lasciamo andare, nella nostra sentimentalità agitata, e la fede la dimentichiamo.
Più specificatamente, non è che dimentichiamo che c'è Dio, ma dimentichiamo di esercitare la fede.
Mio Dio, mi fido di te! Ecco il grido che deve salire dalle nostre angosce, possibilmente non prima e non dopo, ma nel momento in cui sembra che la barca vada a fondo.
Chi una volta ha fatto questa esperienza e ha colto la chiamata di Dio nella tempesta, ha fatto un passo avanti, un salto di qualità, la sua fede è molto aumentata, saprà dirlo tutte le volte che serve.
Oltre all'aspetto considerato, ce n'è anche un altro nella nostra vita.
Non solo abbiamo il problema di esserci, ma quello, direi molto più affascinante, di « essersi », di « essere noi ».
Io sono io, tu sci tu, egli è se stesso, si tratta dell'affermazione di noi, che di per sé non è poi una cosa demoniaca, dello sviluppo della nostra personalità, della nostra dignità, delle capacità, dell'importanza e del prestigio che possiamo avere, del potere di cui possiamo usufruire.
« Essersi » è veramente la vocazione dell'uomo, perché quanto all'esserci, anche la volpe ha bisogno della tana, direbbe Gesù, anche l'uccello ha bisogno del nido, ma quanto all'essersi, questo è squisitamente umano.
Solo che è molto pericoloso, perché l'essersi, come dicevamo, è connesso all'affermazione di sé, e può sfociare nell'ambizione.
Quanti cristiani sono presi dentro questo incanto dell'essersi, e non ne escono più.
Se una parte della vita politica, non so giudicare quanta, si è così degradata, è perché molti hanno dimenticato che si erano presa la responsabilità del bene degli altri, e hanno trasformato l'avventura del loro essersi, cioè del loro realizzarsi, in questa enorme area pubblica, di fronte a decine, centinaia, migliaia di persone, e non solo di fronte ai familiari e a qualche collega.
Allora c'è l'ubriacatura della propria ambizione.
E si va a rischio di non uscire da questo che è veramente un circolo malefico, si muore dentro la propria ambizione, anche se si continua ad andare a Messa la domenica.
Allora, percependo noi la chiamata a essersi, siamo capaci si sentirci profondamente feriti, e di portare anche delle buone pezze di appoggio al nostro amor proprio quando veniamo in qualche maniera avviliti, offesi o addirittura umiliati.
Eppure abbiamo il modello di Gesù Umiliato.
Con tutto questo, guai a chi, non dico si permettesse di ridurci in quello stato, ma ci pungesse con uno spillo: quella puntura ce ne mettiamo a dimenticarla.
Sapremmo contestare all'interessato: tu due anni fa mi hai punto con uno spillo.
E ciò che cosa vuoi dire? Vuoi dire che la nostra chiamata a essersi occupa ancora molto la nostra vita.
Ed ecco perché quando ci mettiamo davanti a Gesù e ci rendiamo conto che è Lui il modello, e che noi siamo chiamati a esserlo, non a essersi, allora ci sentiamo un po' freddi, e la sua figura potrebbe anche dirci poco.
Siamo portati magari a rilevare che Lui è il Signore, mentre ognuno di noi è solo se stesso.
E con questo, dimenticando che siamo i suoi tralci, ci riteniamo esentati dall'imitarlo.
Se avverto di stare male perché sono stato umiliato, il che può ritenersi una reazione normale, tanto che anche Lui c'è stato male, tuttavia non posso fermarmi lì.
E questa la nostra ultima parola? No, non è l'ultima parola, è la penultima parola.
Se ci sto male, ma mi aggrappo all'Umiliato con la « u » maiuscola, che è il mio Dio, capisco che è un cammino d'amore che mi è offerto, e ci cammino dentro.
Anche se ogni passo mi fa male, ci cammino dentro.
Perché? Perché io non faccio altro che mettere il mio piede nelle orme insanguinate di Gesù Cristo, che ci ha camminato prima di me e più di me.
Questo è sfruttare la vita essendo fedele alla chiamata.
« Assomiglia a me! », dice il Signore, perché secondo l'insegnamento della Sacra Scrittura, chi dice di credere in Gesù Cristo deve vivere come Egli è vissuto, in tutto.
Allora, di fatto, l'esperienza personale ci permette a tutti, molto serenamente, di valutare che in noi c'è ancor sempre un miscuglio.
Paolo direbbe: « Sento in me la voce dello Spirito, ma sento anche la voce della carne », ed è naturale che sia così, non siamo ancora nel Regno.
Non meravigliamoci e non scandalizziamocene, però ammettiamolo con umiltà che questa chiamata può diventare sempre più vera, sempre più forte, sempre più realistica.
E la sua rilevazione può emergere nelle più diverse circostanze della vita, come esemplifichiamo nella seguente formula di meditazione: lo sento.
Signore, che tu mi chiami da due anni, perché sono due anni che io, dentro di me, non sono sereno con quella persona, non mi sono profondamente riconciliato.
Sì, la saluto, la tratto a modo, ma dentro di me qualche cosa non è in pace.
Eppure sento che Tu mi tiri da quella parte.
Io continuo a fare altre cose, ma sento che non ti piace: sono andato a Lourdes, ho aggiunto un Rosario, ho fatto del bene ai poveri, ma non c'è niente da fare.
Signore. Tu mi aspetti lì, e mi aspetti lì perché è lì che io risponderò alla tua chiamata, perché Tu hai lavato i piedi anche a Giuda, sapendo che quei piedi poco dopo sarebbero andati a consegnarti, eppure l'hai fatto.
Allora tutto questo mi sconvolge, però mi rendo conto che sono continuamente chiamato.
Ammetto che sono ancora un po' attaccato al mio « essersi », ma mi prendo come sono, mi consegno a te.
Però non chiudo, non ti dico.
Signore: in questo lasciami stare, in questo non mi toccare, per favore, non ti dico questo.
Ti dico, come esclamava Paolo: « Signore conquistami, conquistami Signore! ».
Tu mi hai già conquistato, ma io non ti ho ancora conquistato del tutto: però, dimentico del passato, guardo al futuro e mi slancio verso di te, cioè continuo a rispondere alla tua chiamata.
Chi di noi a questo punto non è in grado di identificare con sufficiente chiarezza alcuni punti in cui la chiamata lampeggia?
Io non guarderei neanche tanto a quelle mancanze che potrebbero verificarsi ogni tanto, ma che non sono parte del nostro abituale comportamento; guarderei a quei punti dove lampeggia da tanto tempo una nuova chiamata del Signore.
Sento che tu mi vuoi più ricco d'amore, più generoso, più distaccato, più puro, più umile.
Lo sento, lo percepisco, Signore.
La tua voce mi interpella, come quella del sangue di Abele, grida dalla terra, sale, e io non posso fermarla, né voglio fermarla.
Non voglio contristare lo Spirito, non voglio soffocare in me lo Spirito, voglio che lo Spirito possa « in me gemere », dice Paolo, e poi condurmi.
Vivere così è bellissimo, perché è un modo divino di vivere questa nostra stupenda avventura.
Nei pochi anni che abbiamo a disposizione in questo mondo, noi possiamo divinizzarci, guadagnarci l'essere di Dio per sempre, realizzando la finalità della vita.
Purtroppo di queste cose non si tratta mai nella cultura, e spesso se ne parla poco anche nei nostri discorsi cristiani.
Abbiamo perso un po' questa forza escatologica della vita, per cui le relative tematiche ricadono spesso nella tristezza dei nostri problemi.
Occorre lanciarle di più oltre, riparlare più facilmente di questa ampiezza dell'orizzonte, perché il Padre ci chiama « ad essere santi tra i santi nella sua Casa », come è detto in una delle orazioni eucaristiche, ed è proprio così.
Ma è un pensiero di ogni giorno? E sì; dovrebbe esserlo.
Quando saremo santi tra i santi nella Casa del Padre, tutto sarà in pace.
Per adesso, andiamo avanti.
É una frase, questa, che dovrebbe essere normale per il credente.
Se non è un mito, se non è una favola stupenda a lieto fine, se non abbiamo spezzato l'esistenza rispetto alla fede, allora è la frase dei credenti.
La si prenda come si vuole, ma il Vangelo ci dice proprio questo.
Ed è dunque un punto di riflessione.
Dio certamente ci sta chiamando: ringraziamolo perché la nostra vita di cristiani ha conosciuto la pienezza della chiamata.
Oggi dimorano tra noi immigrati di vario genere: questi non sono neppure battezzati, non ne sanno nulla di queste cose, e noi siamo dunque ricchi al loro confronto.
Siamo gli uomini più informati sul destino e sul senso di tutto.
Per noi Gesù ha fatto tutto, e gli dobbiamo essere grati che ci ha fatti cristiani.
Torna molto attuale, al confronto con i non cristiani, quest'umile gratitudine.
E però allora, mettiamoci in cammino, conformiamoci a Cristo, promettiamogli di riconoscerlo meglio, con occhio più limpido, che tutti i fatti possano servire a conformarci a Lui.
Non mi lascerò trattenere delle mie miseriole, che ci sono, dai miei modi di reagire, che ci sono, sarò più libero: « La verità vi farà liberi », dice Lui.
E allora gli sarò più simile.
Imitare Cristo.
Non è un caso che « L'imitazione di Cristo » sia tornato uno dei libri più venduti, come per una nostalgia antica che i credenti hanno di ritrovare questa essenzialità.
( dalla registrazione della conferenza di don Giuseppe Pollano, non rivista dall'Autore )