La castità nella rivelazione cristiana |
B266-A6
Pubblichiamo la seconda delle meditazioni svolte dal rev. mons. Giuseppe Pollano sulla castità, nel ritiro tenutosi il 16 gennaio 1994 per l'Unione Catechisti presso la sede di e.so B. Brin 26, alla Casa di Carità Arti e Mestieri.
La prima meditazione è stata pubblicata nel precedente bollettino ( n. 3-4/1994 ).
Le riflessioni riguardano non solo la condizione di vita dei consacrati, ma sono un invito o, se vogliamo, una provocazione per ogni cristiano.
Il testo, ricavato dalla registrazione al magnetofono, non è stato rivisto dall'Autore.
1.1 La reciprocità definitiva in Ef 5,25-27.
L' « io » e l' « Io » ( Gv 8,58 ) di Gesù Cristo.
Relazione-mistero rispetto alle relazioni terrene evidenti, perché ultima.
Conferma della condizione autentica in Mt 22,30: statuto personalistico di reciprocità con Dio.
1.2 La chiamata generale dei discepoli di Gesù Cristo in Lc 14,26: l'Altro assoluto è già presente, questo « a tu per Tu » sorpassa ogni « a tu per tu ».
La forza della discriminazione è sovrumana ( Mt 10,34-39 ), la verginità diviene non solo possibile ma inevitabile.
1.3 La chiamata anticipatoria in Mt 19,12.
Il discorso violento di Gesù Cristo sottrae alla normativa naturale una condizione più forte di reciprocità non divisa ( 1 Cor 7,35 ).
2.1 La persona umana è sollevata oltre la sua misura d'amore ( con tutte le sue specificità ) quando trabocca su di lei la Agape, Amore assoluto.
Essendo la persona fatta « a immagine secondo somiglianza » ( Gen 1,26 ) la sua reazione è il trascendimento delle relazioni precedenti.
Non vuole appartenere-a ( nessuno ) per donarsi-del-tutto ( a Dio ): verginità unitiva.
2.2 Questa reciprocità secondo il divino rende la persona non soltanto partner dell'Amore assoluto, ma partecipe dell'Amore assoluto in quanto ama tutti: essa possiede la forza dell'Amore che fa e dunque « è Uno » ( Gv 17,26 ): verginità veicolo di Agape piano di Dio.
2.3 Gesù Cristo e la sua Chiesa, nella quale eccelle Maria, possiedono e fanno passare la Vita del Regno con una fecondità che non appartiene alla sfera terrena ( sessualità ) e rendono possibile agli uomini la nascita secondo lo Spirito Santo ( Gv 3,3.5-8 ); tale nascita, prodotta da Dio, esula da carne e sangue ( Gv 1,13 ) ma non dalla corporeità sacramentale: verginità consacrata e santificante.
Nella prima parte abbiamo esaminato la castità come un modo di capirci, di interpretarci e anche di metterci in rapporto con gli altri.
Perciò la castità cambia molto come valore fino a scomparire del tutto in una cultura, come accade oggi, se la gente si interpreta in modo tale che si lascia sfuggire la propria realtà spirituale.
E così, dicevo, bisogna ricordare che la persona ha un principio spirituale irriducibile alla vita fisica e alla vita psichica: è l' « io » profondo da cui nasce il valore, il capirsi, e da cui nasce anche il mettersi in relazione con gli altri.
Diventi il mio tu non quando la mia mano tocca la tua o le mie labbra toccano le tue, ma quando il mio io spirituale riesce a mettersi in comunione con il tuo io spirituale.
E questo chiaramente crea una dimensione profonda che è la dimensione della amicizia, dicevamo rara al giorno d'oggi, ma che di fatto permette la castità.
Perché, se mi metto in rapporto con te in forza del mio io spirituale profondo ( e ciò vale per tutti, consacrati e coniugati ), la mia corporeità non è più il principio e la fine, ma è ciò grazie a cui mi metto in comunione con te.
Ti segnalerò la mia comunione con te attraverso tutta la mia corporeità, ma sempre partendo dal profondo.
Questo è l'equilibrio che crea un rapporto casto tra le persone, al di là della loro condizione.
Parlando adesso di castità nella rivelazione cristiana ( perché il discorso precedente era sul piano naturale, in termini di sola ragione ) affermiamo che la venuta di Gesù Cristo, il quale svela la verità profonda del nostro essere, mette pienamente in luce il senso della castità.
Ci dà ragione, quando avevamo intuito che è dal profondo del nostro essere spirituale che parte il segreto della comunione.
Per di più, facendo un discorso di rivelazione, che si appoggia sulla Parola di Dio, affermiamo che con Gesù Cristo non emerge soltanto la castità, ma una categoria più profonda che è la verginità della persona.
E anche questa verginità riguarda sia i consacrati che i coniugati, proprio perché si affonda nel segreto della persona.
Emerge questa verginità, e la verginità vissuta secondo Gesù Cristo ci svela una potenza rivelatrice, rispetto ai molti vincoli e ai molti condizionamenti che altrimenti non riusciremmo a evitare.
Cominciamo allora da un breve brano di Ef 5,25-27: è un brano che molto spesso si sente rileggere nelle cerimonie nuziali, proprio perché qui Paolo, attingendo alla spiritualità neo-veterotestamentaria, ma rivelandone la ricchezza, afferma che la sponsalità più profonda, il darsi del tu e il vivere la reciprocità, non si realizza tra persona umana e persona umana, anche nella ottima ipotesi del matrimonio, bensì tra la persona umana e il Dio personale.
Dei due tu, uno è minuscolo e l'altro è maiuscolo; e questa reciprocità di fondo è la condizione nuziale per la quale siamo stati tutti indistintamente creati.
Tant'è vero che il matrimonio, cioè la reciprocità fra due persone umane, nella sua validità, è però soltanto anche come un segno dell'altra nuzialità.
Il matrimonio ha la provvisorietà delle cose, dicevamo, penultime, che accadono qui, mentre le nozze spirituali e totali nel Verbo, invece, sono la nostra condizione di beatitudine per sempre.
« Cristo ha amato la Chiesa - dice Paolo - e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, facendosela comparire dinanzi gloriosa, senza macchia ne ruga o alcunché di simile ».
É certo un rapporto nuziale tutto particolare, ma lo sposo è Dio.
Egli dunque non è come uno sposo umano che sceglie una sposa che c'è già, e spera di trovare in lei delle doti che ha già, ma essendo il Creatore, rende la sua creatura sponsale facendosela gradita, rendendola santa, ossia divinizzandola.
Ma, aldilà di questo, che è un grande aspetto, la realtà dell'essere reciprocamente uniti rimane tutta quanta.
Cristo si pone in questa linea in modo tale per cui la persona umana scopre ciò che aveva forse intuito, ma non più che intuito e che in ogni caso non era in grado di realizzare, scopre di essere fatta per un solo Altro, che si chiama Dio.
Ci sono tutti gli altri e il nostro destino si intreccia con essi, e Dio è d'accordo con questo: chi ha fondato le parentele umane se non Lui?
Chi benedice le nozze umane se non Lui?
Ma questi intrecci fitti e necessari di rapporti tra persona e persona, sono tutti superati dal fatto che ciascuna di quelle persone, che sono in relazione tra loro, fa partire da sé all'altro, che è Dio, una relazione più forte, definitiva e totale.
É il mistero di questa nuzialità completa che è vissuto nello stato coniugale, e che è vissuto anticipatamente nello stato consacrato che, andando aldilà delle situazioni del tempo, delle situazioni intermedie, testimonia a sé e agli altri che la reciprocità definitiva da del Tu a Dio ovviamente per un rapporto di amore.
Ne si dà altra reciprocità in cielo o in terra se non per amore.
Si tratta di vedere quale amore è in giuoco: qui è l'amore stesso di Dio, il suo amore versato nel mio cuore - direbbe Paolo ai Romani - e che dal mio cuore torna a Lui ( Rm 8,31-32,35,38-39 ), rendendomi capace di questo rapporto d'amore del quale non sarei capace.
Il mio cuore non ha la misura di Dio.
Posso dire a Dio « ti amo », ma glielo dico con la mia forza.
Perché questo « ti amo » giunga a Dio e gli dia una divina gioia, bisogna che sia amore suo, non mio.
Ed Egli lo infonde in me, elevandomi all'altezza del suo dialogo, che è dialogo eterno.
Dico in Cristo Signore, grazie al suo Spirito, a Dio « ti amo », e questo è un pezzo del dialogo dell'eternità: a tanto mi innalza la mia condizione nuziale che è propria del Battesimo, di cui dobbiamo dunque essere molto lieti e di cui siamo anche rallegrati nella misura che la viviamo e di cui dovremmo essere, nella misura ancora che ne siamo convinti, apostoli, annunziatori, perché questa è la condizione della beatitudine.
É una condizione decisiva, radicale, un altro passo che conferma questa reciprocità totale, questa relazione ultima rispetto alle relazioni terrene.
É quello che troviamo in Mt 22,30 a proposito di quella questione capziosa che avevano posto a Gesù: era una questione di repertorio, direi, sulla risurrezione della moglie che aveva avuto tutto quei mariti, da cui la domanda: « a chi andrà, allora? ».
Gesù dà una risposta che è un lampo di luce, svelandoci la condizione dell'oltre: « Voi non conoscete né la scrittura, né la potenza di Dio, dice ai suoi interlocutori.
Alla resurrezione non si prende né moglie né marito: si è come Angeli nel Cielo ».
Il che non vuol dire dei senza-corpo, ma creature ormai dominate e pienamente integrate da questo rapporto d'amore con Dio.
Questa è una rivelazione di grandissimo rilievo, anche se Gesù l'ha posta quasi a commento di una piccola questione, ma ci svela la logica del principio: « Cristo assume la Chiesa », la quale - aldilà della prova terrena, che per lunga che sia ha la finitezza del tempo - si accorge di questa sponsalità che portava in sé ed entra nella fruizione unitiva con Dio.
É questo che si chiama la verginità.
Il discorso della castità non ce la fa più a dire tutto.
E si chiama verginità proprio perché c'è qualche cosa che sorpassa la misura umana.
In Lc 14,26, Gesù fa una di quelle sue forti affermazioni di scelta definitiva: « Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i fratelli e perfino la vita, non può essere mio discepolo ».
Questo Gesù che il padre, la madre, la moglie, e i figli li ha creati Lui, non è che ci comandi di distruggere tutto con sentimenti negativi, ma semplicemente mette in evidenza con una forza concreta immensa che c'è un amore più grande, e che non c'è nessun amore di questo mondo, per quanto importante, giusto, serio, doveroso, che possa mettersi di fronte all'Amore totale del nostro destino e dirgli « passo prima io ».
E questo in realtà rispecchia moltissime condizioni concrete della vita.
Siamo anzi abituati in genere a lasciare che le relazioni umane sorpassino la relazione con Dio.
Purtroppo oggi non si pone neppur più questo problema: sorpasso o non sorpasso?
Sembra ci sia solo più una strada: quella delle relazioni fra noi.
La relazione sponsale con Dio è un discorso tanto vero quanto direi quasi da catacomba, cioè lo tacciamo tra noi, perché richiede un fondamento di fede, una conoscenza della scrittura e una convinzione dello Spirito, che oggi come oggi non appartengono alla maggioranza dei nostri amici e conoscenti.
Eppure le cose sono così.
La chiamata generale di tutti i discepoli presume questo Altro meraviglioso e totale.
É l'Assoluto di Dio, non di meno.
Di più ancora non potremmo avere.
Il quale Assoluto è già venuto.
Si presenta a noi come Colui che dobbiamo amare: « Mi amerai con tutta la mente, la vita, le forze e l'anima ».
Ecco la pretesa di questo « Tu » che assorbe la nostra capacità di amore e in questi termini è molto chiaro che la verginità non è una possibilità: è inevitabile.
Se appena ci accorgiamo di quel che siamo, ci accorgiamo di portare in noi qualche cosa che è solo fatto per Dio.
Ecco perché questo si adatta a tutti noi.
Se due coniugi pensassero di essersi così bene integrati che la loro religione rimane soltanto come una specie di buona convinzione condivisa, ma che in realtà non è la più profonda relazione che vivono, essi ampiamente si illudono, perché c'è una parte del loro essere che con tutto l'amore che potrebbero darsi non riusciranno mai a consegnare all'altro: quella parte in cui il partner è Dio stesso.
C'è dunque una parte sommersa e misteriosa della nostra spiritualità, della nostra anima, anzi, che solo toccata da Dio si accende e si innamora; altrimenti né si accende, né si innamora, anche se un'altra parte di noi meno profonda e meno definitiva si è accesa, si è innamorata.
Questo è dottrina; questo è anche pratica di tutti coloro veramente cristiani che vivono consacralmente o coniugalmente in modo primario la relazione con Dio.
Ma oggi come oggi anche questa è una dottrina relativamente debole, non è sul mercato; proprio perché presume un orizzonte di trascendenza e di presenza di Dio che non fa parte delle nostre idee dominanti.
Allora questa verginità inevitabile, questa parte di me che deve essere toccata da Dio per risvegliarsi e innamorarsi, se non è in realtà accesa e innamorata, crea dentro di noi il mistero di una solitudine irrimediabile; la solitudine che non è più quella del pathos ( « mi sento solo perché non so a chi pensare » ), ma è la solitudine dell'essere profondo, quella che, quand'anche tutte le creature ci cercassero e ci dessero tutto il loro amore, resterebbe senza nutrimento, perché fatta per nutrirsi di Dio.
É questa solitudine di fondo, questa melanconia profonda produce il senso del vuoto, produce quel tipico senso del nulla che sta sotto le cose che oggi col nome corrente di nichilismo è una delle dottrine diffusissime, ma diffuse anche tra i giovani, diffuse dappertutto.
Perché ormai stiamo tutti comprendendo che sotto la rete delle relazioni umane, anche intense, vivaci, interessanti, sta il vuoto di quell'Altro che non sentiamo.
Siamo cioè malati di assenza di Dio.
Non è la questione dell'esistenza di Dio che conta.
In realtà tutti che Dio ci sia, volenti o nolenti, lo ammettono.
Ma non servirebbe a nulla che Dio ci fosse, se non fosse un Dio presente.
In questa cultura malata dell'assenza radicale di Dio e perciò melanconica e spesso tragicamente triste, i cristiani dovrebbero avere qualcosa da dire, solo che sia chiaro dalla loro vita che essi hanno Dio, proprio come il ragazzetto ha la ragazza; ma con un salto analogico dal finito all'infinito noi abbiamo Dio.
Si deve vedere! Non solo che crediamo in Dio: è troppo poco, data la valenza intellettualistica che questo termine ha assunto tra noi.
Noi abbiamo Dio; e quando uno ha qualcuno come Dio, qualche cosa cambia nella sua vita, e questo si deve vedere prima di ogni argomento: col dare ragione della speranza, ma in questo senso molto corposo, molto concreto.
Se la gente vede che una persona normale, intelligente, che se la cava sul lavoro, commette la stranezza di starsene mezz'ora al giorno davanti a un tabernacolo, dirà o che ha una mania, o che ha Dio.
Cioè cerca l'incontro con Colui che è.
Allora la verginità trova il suo spazio.
Ed è inutile voler possedere la verginità dell'altro, in questo senso.
Ci sono amori così possessivi che vorrebbero tutto.
Quando di due coniugi uno ha Dio e l'altro non l'ha ( e non importa che sia il marito o la moglie, perché oggi i casi sono pressappoco equivalenti ), colui che non ha Dio vorrebbe possedere tutto l'altro, anche il pezzo riservato a Dio; e ci sono delle misteriose gelosie, dei conflitti più o meno rivelati, più o meno ammessi, che però veramente drammatizzano queste cose.
Perché un uomo, o una donna, deve irritarsi, e così tanto, perché l'altra o l'altro semplicemente trova uno spazio di preghiera?
Che male fa? Non fa nessun male, ma in quel momento non è dell'altro, ossia l'altro capisce che non può possedere tutta una creatura come vorrebbe, perché non è sua: quella verginità non la violerà mai, non la possederà mai.
Gli o le sfuggirà sempre, perché siamo fatti per Dio.
Posizione molto bella questa, molto forte, vincente, insomma; non per sopraffare, ma vincente come testimonianza.
Infatti, chi la sua verginità la vive sponsalmente con Dio, possiede la gioia tipica della presenza dell'amato.
« Farete digiuno quando lo sposo non ci sarà; ma se lo sposo c'è, voi non digiunate mai » ( Mt 9,14-15 ).
É la verità della gioia cristiana, che avendo altra origine non è defettibile.
Perciò la chiamata generale dei discepoli è in questa linea.
Ma la chiamata anticipatoria avviene attraverso la consacrazione, cioè il vivere già avendo Dio come unico Altro.
É una chiamata che non dipende dalla nostra scelta, appunto perché è una chiamata: è Dio che raccoglie questi esemplari per far vedere la possibilità di tale situazione, ed è quella che Gesù enunciò con un linguaggio molto urtante per i suoi ascoltatori, mentre essi gli avevano semplicemente posto la questione sul matrimonio: « É lecito l'uso del ripudio? » ( molto facile, molto banalizzato in Israele al tempo di Gesù ).
Quando Egli richiamò l'attenzione al fatto che non c'era nessun ripudio che sciogliesse un matrimonio, se era un matrimonio, i discepoli risposero: « Allora è meglio non sposarsi », atterriti da questa morale forte ( Mt 19,3-12 ).
Ma Gesù andò molto oltre, perché proprio in questa condizione propose non il non sposarsi, o meglio lo sposarsi monogamico serio, ma addirittura la verginità per il Regno.
Noi non possiamo più renderci conto di cosa volesse dire, nel contesto culturale ebraico, una proposta di questo genere: l'uomo che non si sposava e che non aveva figli era considerato peccatore; sappiamo bene che la infecondità femminile era considerata un'infamia o maledizione di Dio: « Dio mi ha tolto la mia vergogna » ( Lc 1,25 ), dice Elisabetta.
Pertanto non era neppure concepibile, nella mentalità ebraica, la figura verginale, come la sto illustrando adesso: l'uomo solo, la donna sola.
E Gesù affronta questa situazione in maniera volutamente urtante.
« Non tutti possono capirlo - dice - ma coloro ai quali è stato concesso.
Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della loro madre.
Altri sono stati resi tali dagli uomini.
Altri si fanno tali per il Regno dei Cieli » ( Mt 19,12 ).
E nel simbolo fisico c'è chiaramente il destino verginale.
Questa frase non poteva essere più urtante, più terribile per gli ebrei, perché mentre le culture attorno coltivavano tale genere di categoria, per gli ebrei questo era un obbrobrio indicibile; roba da condanna a morte.
Ebbene, Gesù urta volutamente questa struttura che, peraltro nel suo genere era retta, perché deve estrarre la figura nuova che è quella che vive già adesso per Dio, e quindi verginalmente sposa.
Il discorso non fu capito nemmeno dai discepoli, lì per lì: fu capito dopo ( come tante altre cose furono capite dopo: il mistero pasquale e la venuta dello Spirito ).
Ma qui si trattava non di una chiamata a una virtù, ma di una capriola culturale, di un rovesciamento.
Anche per noi, in quanto siamo post-cristiani, si tratta ancora di un rovesciamento.
Bisogna far capire alla gente con il nostro modo di essere che l'uomo non perde, ma acquista ricchezza, equilibrio, integrazione nella sua vita quando a tu per tu parla con Dio.
Certo non si tratta di celibato passivo, di celibato rinunciatario, di celibato egoistico: questa sarebbe una soluzione puramente umana e negativamente umana.
Si tratta in realtà di una apertura che trascende la dimensione corporea e vive di un'intensa comunione con Dio.
In questi termini si capisce la logica liberatoria, la potenza di liberare una persona, quando la verginità si vive così.
La Chiesa, nella sua storia, ha generazioni per secoli che hanno fondato l'interpretazione della vita proprio su questa verità.
Fatichiamo noi oggi anche soltanto a recuperare i concetti, e questo aspetto concettuale ci pare già una conquista.
Ci furono altri tempi in cui la verginità vissuta per Dio era la logica della vita e poi c'erano tutte le altre condizioni.
Non si tratta di recuperare tempi perduti; si tratta di recuperare però valori umani.
Perché le persone verginalmente fecondate da Dio ( come Maria ), sono quelle che nella storia portano effetti più grandi.
Non è un caso che Dio abbia legato alle consacrazioni religiose tutte le attività che gli stavano più a cuore.
Per esempio la cura dei malati trascurati da tutti e l'educazione dei giovani.
E non è affatto detto che questo gusto di Dio sia passato di moda, per il solo fatto che, ad esempio, in Italia in questo tempo scarseggiano le vocazioni.
Non dobbiamo essere provinciali e immainare che ciò che accade qui voglia dire un cambiamento nella santa Chiesa: ci sono dei valori intramontabili.
Allora, eccoci liberati, nel senso profondo della parola.
La persona umana, in questo caso ( ricordiamo che l'Altro è Dio ), è sollevata oltre la sua misura d'amore, perché tutti conserviamo la capacità e una misura d'amore, solo che siamo sollevati oltre.
É come se - direbbe Paolo - non fossimo più bambini ( paragone che tiene fin che può, perché l'adulto coniugato non è un bambino ); si passa dalla finitezza, dal limite ( che non è affatto un peccato, è la condizione creaturale ) a una anticipazione di una dimensione in cui la nostra capacità di amare, potenziata e dilatata, in qualche modo non riesce più ad accontentarsi di meno che di questo.
É l'Amore assoluto che si chiama l'Agape.
Bisogna dargli il suo nome proprio.
Qui non basta né eros, né pathos, né filìa; qui ci vuole il nome, e di Dio: l'Agape.
E l'Agape rivelata, è la Carità assoluta, è la persona dello Spirito che, toccando in noi il nostro essere a immagine e secondo somiglianza ( Gen 1,26 ) lo fa vibrare di verità.
Che gioia accorgersi che siamo adatti all'amore di Dio!
Che gioia accorgersi di questo!
Sembra già aldilà di ogni felicità possibile la persona che umanamente si sente toccata dall'amore di un'altra persona, che si accorge di essere capace di amare in risposta, che si esalta perché è stata scelta da quell'amore lì: è già un poema.
Com'è tristezza quello della persona che si convince di non saper amare nessuno!
Ma quando la creatura si accorge d'essere capace di amare Dio, allora qui il discorso cambia.
Nell'entusiasmo spirituale dei santi, nel rendersi conto d'essere capaci di dare del tu d'amore a Dio, è tutta la nostra letteratura spirituale e, per quanto cambi carisma e dunque si rinnovi questa esperienza, il discorso rimane sempre quello.
Il nostro cuore dilatato ha una reazione di trascendimento: supera, va oltre tutte le relazioni precedenti; non le rinnega: le supera semplicemente. Ama di più, oltre.
Ecco perché la gelosia del coniuge che non ha rapporto con Dio non ha senso; non deve offendersi di percepire che nel cuore dell'altro c'è un amore che lo trascende.
Non deve offendersi: Dio non è un rivale; Dio è il fine.
E allora chi invece ama Dio, questo lo percepisce e scopre l'essenza della verginità: non poter appartenere del tutto a nessuno, in questo mondo.
Perché? Perché si sente di doversi donare del tutto a Dio.
La verginità non è dunque una chiusura né una difesa.
Il coniuge che ama Dio è come se dicesse all'altro: non offenderti se non mi dono del tutto a te.
Mi dono del tutto a te nella misura che sai accogliermi, ma c'è qualcosa di me che non posso donare a nessuno, perché sono di Dio.
Il discorso della consacrazione radicalizza questo.
La verginità consacrata è quella che si possiede tutta per donarsi tutta.
La verginità consacrata si compromette quando si lascia possedere un poco da qualcuno, perché quel poco non sarà più dato a Dio.
La verginità consacrata, quindi, ha un suo stile, una sua purezza di cuore, mai finita.
E non è soltanto l'amicizia che minaccia la consacrazione, ma tutte le forme di affetto umano: una parentela che sia troppo nella mente, con i suoi problemi, i suoi fastidi, in realtà finitizza, limita di nuovo, prende possesso di noi, che dobbiamo essere a servizio, ma liberi.
Lo stesso vale per le questioni economiche: che cosa importa essere casto se siamo avari?
Non siamo vergini. Perché la verginità presumeva che lasciassimo tutti gli affetti umani; allora non serve essere casto, se si è avari.
Abbiamo fatto degli esempi da cui risulta l'eccellenza della verginità.
Essa non coincide mai con la castità; la presume, la regge, ma la supera.
Essa richiede che si sia di nessuno per essere di Dio e perciò essere per tutti; non si è per Dio se non si è per: sono di Dio.
Questa sarebbe una tendenza pericolosa, perché l'essere per tutti diventa un atteggiamento sociale; ricade nella filantropia, bella, ma di nuovo limitata.
Anche Buddha, nel Grande Veicolo, dice che resterà nel mondo sebbene egli abbia la possibilità di smarrirsi in alto, per compassione verso gli uomini e continuerà a incarnarsi, così dice la sua dottrina.
Ma neanche questo basta.
Essere per gli altri è molto di più, ed essere per gli altri però si acquista solo se ci si è buttati in Dio e se si è finiti in Dio.
Da ciò deriva l'illusione di molte consacrazioni che non hanno più quella robustezza d'impianto, e passano direttamente al prossimo senza essersi perse in Dio.
Insomma, se non si verifica prima quel: « Vai avanti e non voltarti indietro », non ci si può dedicare veramente agli altri.
Questa reciprocità secondo Dio per un lato dunque ci rende veramente liberi: le nostre scelte sono per Lui.
Certo non ci rende già celesti come saremo nel Regno, per cui occorre vigilanza, attenzione: in breve occorre davvero intendersela con Dio.
Infatti basta diminuire la preghiera perché tutto questo stupendo strutturarsi si afflosci, la verginità diventi pesante, non capita, o addirittura recitata.
Per cui può capitare che pur avendo scelto il celibato, si pensi che sia meglio essere preti con moglie.
Se si arriva a questo, quale che sia la retta intenzione, si pensa molto sbagliato.
Si pensa come persone che recuperando di nuovo una dimensione umana, bella quanto si vuole, lasciano però inaridire interiormente il segreto di quella reciprocità definitiva con Dio alla quale erano stati chiamati.
È sempre triste la ricaduta su un piano relazionale umano, per quanto ben vissuto, quando si era stati chiamati ad un sì verso Dio che ormai ci concludeva dal punto di vista della relazione.
Tempi deboli di unione con Dio, e il nostro è uno di questi tempi, producono in genere tali fenomeni di fragilità.
Oggi l'unione con Dio non è un ideale, spesso neanche per gli uomini e le donne della Chiesa.
E dire questo significa svelare la patologia essenziale della Chiesa, perché se la sposa non desidera più lo sposo che è Cristo, allora diventerà la prostituta che è sulla strada.
E non ci sono tante illusioni da farsi; non dimentichiamo che « prostituzione » è il tipico termine per significare « idolatria ».
Altri tempi ci sono stati, e torneranno, in cui invece l'unione con Dio era vista come il grande destino, il desiderabile destino.
Si poteva dire ad un giovane: « tu sei fatto per l'unione con Dio; pensaci ».
Egli poteva rispondere sì o no.
Ma accettava pienamente l'ipotesi.
Proviamo a dire questo ad un giovane oggi, e ci renderemo conto ancora una volta di cosa significhi il vuoto culturale: avere annullata l'ipotesi che Dio sia un partner interessante o addirittura che sia il partner assoluto.
E allora si lavora con più fatica; lo Spirito Santo opera lo stesso, ma non c'è dubbio che le culture favorevoli siano una grande facilitazione perché armonizzano il creato con la redenzione santificante.
Nella vita matrimoniale il marito e la moglie riconoscono di essere in rapporto con lo stesso Dio, ed è come se si dicessero a vicenda: « tu sei in rapporto con l'Altro ».
Questo rapporto è personale e singolare.
Però la spiritualità coniugale richiede, come elemento non opzionale, ma necessario, una condivisione dello stare davanti a Dio.
Ciò non significa affatto che questa preghiera rimanga indifferenziata.
Facciamo un esempio molto semplice: immaginiamo due persone di sensibilità e cultura musicale diversa che stiano ascoltando lo stesso concerto.
Ebbene, esse ricevono tutte e due un messaggio forte, e tutte e due secondo la loro capacità se ne inebriano e condividono questa emozione particolare: ma ciò non comporta certo che l'esperienza di uno equivalga a quella dell'altro dinanzi alla grandezza di questo dono artistico che li trascende.
Nel matrimonio bisogna condividere l'esperienza della preghiera.
Non è un pregare insieme « soli »: non ha senso.
É una vera comunione.
É una vera emozione spirituale che lascia più uniti di prima: è vivere il sacramento.
Però nello stesso tempo c'è un segreto di reciprocità che solo Dio misura, ed è il segreto irrinunciabile e irripetibile di ciascuno di noi.
Il nostro rapporto con Dio ci consegna singolarmente a Dio, anche se ci consegna a Dio in comunione.
Tale ragionamento vale identicamente per la comunità religiosa, che non è propriamente legata da un sacramento com'è il matrimonio, ma realizza la sacramentalità comunionale della cresima: lo spirito dell'uno.
E anche lì l'esperienza di preghiera comune è certamente un arricchirsi, è un dono orizzontale che ci traversa tutti.
Ma nello stesso tempo traluce diversamente in ogni luce: ogni intimo brilla in Dio a modo suo.
Si tratta di due dimensioni che vanno benissimo insieme, e quindi non bisogna fare delle scelte strane: « o tutto in su o tutto in largo ».
No, l'equilibrio dello spirito è più semplice.
Entrando però così in Dio si ha un vantaggio enorme: Dio ci prende nel suo cuore e non soltanto ci accoglie nel cuore, ma ci fa condividere il suo cuore.
Quel « abbiate in voi i sentimenti di Cristo », di Paolo ai Filippesi, non si riferisce soltanto al momento dell'umiliazione: in realtà noi partecipiamo all'amore che ci ama; partecipiamo all'amore assoluto, che diventa nostro, palpita dal nostro cuore.
Ecco cosa ci hanno insegnato i santi coi fatti: ci hanno insegnato che dal loro cuore partiva un altro amore.
E il mistero di tutti i santi e di tutti i cristiani.
Perché il Cottolengo bravo canonico diventa il Santo Cottolengo che conosciamo, e a un certo punto dal suo cuore si sprigiona un'ondata di carità?
Qualcosa è accaduto!
Da quel cuore da cui partiva già un po' di amore, si è messo a effondersi totalmente un amore di Dio.
Partecipi di questo altro amore, il nostro cuore è come se ci scoppiasse: deve trovare delle dimensioni più grandi; abbiamo troppo amore per amare soltanto qualcuno.
Perché, infatti, l'amore di Dio non ama soltanto qualcuno: Dio fa piovere su giusti e ingiusti e da il sole ai buoni e ai cattivi.
Dio non potrebbe mai amare soltanto qualcuno.
Dio ama con infinita misura.
E chi prende parte per questa sponsalità all'amore di Dio, ormai porta nel suo cuore quella misura che, direbbe Bernard, è la « dismisura » dell'amore.
Allora il santo non può amare soltanto qualcuno.
Una persona che passi per santa, ma che ami solo qualcuno, che ami la sua gente, la sua comunità, la sua congregazione, il suo progetto, ma fuori di lì ami poco, è un illuso.
Potremmo riconoscerne la perfetta buona fede, ma dovremmo affermare: « il tuo stile falsifica la tua tesi; tu non stai amando con il cuore di Dio ».
Certo, ciascuno amerà poi ciò a cui Dio lo indirizza: è evidente.
Ma la « dismisura » dell'amore è totale.
Il farsi prossimo non finisce mai; quando comincia a finire bisogna preoccuparsi molto.
Se un istituto religioso, ben specializzato nelle sue cose, fa soltanto più quelle, o addirittura si professionalizza al punto che, operando perfettamente nel suo campo, non senta più l'ansia dell'altro, l'ansia dello sconfinare perché tutti sono amabili, ci sarebbe da temere che si verifichi una sclerosi, un pericolo.
Invece l'amore di Dio non circolerebbe più bene, non sarebbe più libero; non saremmo più la sua misura, limitandoci alla nostra piccola misura.
Questo spiega anche perché spesso Dio non doni chiamate a vocazioni.
Non si può mettere un seme in un terreno esausto, perché verrebbe fuori una piantina da quattro soldi.
Occorre il fervore per ottenere la vocazione.
D'altra parte anche oggi nella Chiesa questo è ampiamente confermato.
Allora, partecipi dell'ampiezza, della spinta, del dinamismo di Dio, più siamo vergini, cioè più Gli apparteniamo, siamo uno con Lui, e più Egli ci da tutto Sé.
I vergini, quali che essi siano, consacrati o coniugati, ma che profondamente coltivano in sé tale offerta, possiedono la misura di Dio.
Può accadere benissimo che dei coniugati siano più vergini dei consacrati, cioè più appartenenti a Dio.
Scopriamo figure di laici coniugati che in realtà portano, o hanno portato dentro, una misura divina grandissima, ed erano ottimi mariti e mogli.
Non si tratta di fare confronti, ma affermare che la dimensione della verginità, quando si sviluppa, da sempre un frutto divino.
Pensiamo al Santuario di Pompei che non è stato fondato da un grande carismatico, ma dall'avvocato Bartolo Longo, convertito, sposato, toccato nel cuore, preso da Dio e che ha realizzato quell'opera nella valle di Pompei.
Ecco la potenza dell'avere il cuore verginalmente fecondato da Dio.
Ed in questo orientamento il prototipo è Maria.
Lei è vergine fecondissima: addirittura il Verbo è nato da Lei.
Allora la verginità è veicolo dell'agape.
Più siamo vergini e più Dio passa attraverso di noi.
É il segreto contagioso dei santi che attirano, che convincono, che portano a Dio, che non portano mai a sé.
Non intendono portare a sé non solo perché, essendo santi, sono uniti, ma perché gli altri non possano più fermarsi a loro.
É il meccanismo dell'icona di cui si è già detto: chi ha un cuore ricco di Dio fa sì che chi passa per il suo cuore arrivi a Dio, perché nel suo cuore si assapora Dio e allora si cerca Dio.
Capiamo bene la verginità di Gesù Cristo, certo.
Capiamo la verginità di Maria, certo.
Capiamo la verginità della Chiesa.
Capiamo come questa bellissima categoria sia molto più ampia delle condizioni storiche.
Andrà recuperato questo valore, perché è perduto.
Allora lo stesso matrimonio cristiano si basa troppo soltanto sulle sue proprie risorse.
Quanti cristiani si sposano manco immaginando queste realtà che pure potrebbero essere note; non sono certo segrete, ne sono difficili.
E allora si avventurano nella vita cercando di tenere salda, per quanto è possibile, solamente la loro capacità di unirsi.
Mentre ci saranno dei momenti in cui sarà l'agape ad unirli; se essi sono cristiani si ameranno più per l'agape di Dio che per i loro affetti umani.
L'amore umano assunto in quello di Dio non è dimenticato, ma fortificato.
La morale tra due coniugi è quella delle beatitudini, della carità, della gratuità, del perdono.
É questa la morale: l'agape tra due.
Il dare la vita per l'altro è anche questo.
Tutto ciò guasta forse un affetto bello, buono e ricco?
Non lo guasta affatto.
Semplicemente lo colma.
Se non c'è questa ricchezza agapica, questa verginità che rimane tra loro e consente il passaggio dell'amore di Dio, le crisi sono inevitabili, perché la realtà umana è quella che è, è povera.
La fecondità del Regno è questa.
Essa non appartiene alla sfera terrena, non appartiene alla sessualità.
La fecondità dei santi è un'altra.
Ma non è minore.
Non è affatto minore, perché in noi produce la vita, che è la vita stessa della Spirito.
É molto bello pensare che attraverso una verginità vissuta, noi facciamo passare negli altri la nascita secondo lo Spirito Santo ( Gv 3,3-8, colloquio con Nicodemo ).
I santi convenivano.
Facevano passare nel cuore degli altri lo Spirito Santo.
Perché è lo Spirito che tocca, che purifica.
É lo Spirito che convince di Dio, non è mica il santo.
Ma attraverso la verginità del santo, il suo amore forte, lo Spirito passa nel cuore degli altri.
É la fecondità che converte.
Esula da carne e sangue, fa nascere secondo Dio ( Gv 1,13 ) ed è il segreto della fecondità della Chiesa.
É anche questo avviene attraverso la corporeità.
É vero: noi otteniamo la Grazia pregando.
Allora il nostro io spirituale, a tu per tu con Dio, se la intende con Lui, parla con Lui, combina con Lui.
Ma è anche vero che, appena usciti fuori, noi corporalmente incontriamo altra gente.
E allora, ecco il culmine: la nostra corporeità diventa segno sacramentale.
Invero, poiché la Chiesa è sacramento, in qualche modo da la Grazia che significa, fa passare la benevolenza che esprime.
Il sorriso di un santo tocca un cuore.
Che differenza c'è tra il sorriso di un santo e il sorriso di un altro?
Come movimento di muscoli labiali, pressappoco è lo stesso.
Ma come segno ed efficacia è un po' diverso, è un segno che fa capire: « sono benevolo verso di te », un segno che, in quella corporeità diafana, ricca di grazia, fa arrivare la benevolenza di Dio e attua ciò che significa.
Il sacramento è questo.
Dovremmo sfruttare molto di più il fatto che noi siamo realtà sacramentale.
La sacramentalità della Chiesa è una tesi non certo nuova, ma grazie a Dio è stata recuperata dal Concilio.
I sacramenti sono sempre sette, ma la sacramentalità della Chiesa li contiene, li vive e li esprime.
Pensiamo in una corsia d'ospedale, ad esempio, quante volte una suora è stata capace di funzionare da segno sacramentale; perché quel malato la manda a chiamare, senza averla mai vista ne conosciuta, e le dice: « Voglio confessarmi »?
Questa è conversione!
Perché quella figura sacramentale, senza forse mai parlargli in modo esplicito di confessione, ha semplicemente svolto una funzione « significa », cioè di segno che ha fatto passare una realtà, e lo ha « toccato ».
Ciò è incoraggiante, perché noi siamo questo.
É anche stimolante, perché se non siamo ancora tale segno, dobbiamo cercare di esserlo.
É molto obbligante, perché l'immagine della Chiesa e questa, come dichiara la Lumen Gentium, al capo V: « occorre che il popolo di Dio sia santo e che si veda ».
L'umanesimo futuro, che ci sarà perché Dio non ci abbandona, avrà da essere un umanesimo santo, di santi; tutto il resto chiaramente non avrebbe alcuna utilità.
Che bello allora considerare questa verginità così colma di Cristo, questo essere « membra di Cristo », e portarci il carico di questa semplice gloria, dovunque e sempre, sapendo che la gente se ne accorge!
La gente ha una intuizione fondamentale.
Perché tutti sono fatti per questa verità e, che l'aspettino o non l'aspettino, sono preparati per l' « incontro ».
Teniamo presente come vi sia nella gente una percezione intesa a cogliere se ci sia, o meno, in noi una verità di cui facciamo araldi.
Se tale verità non c'è, è inutile che pretendiamo farcene banditori.
Se c'è, allora la irradiamo.
La verità, quella di Gesù, quella che in Gesù ha indisposto satana per primo, era proprio questa urtante affermazione: « tu sei troppo vero per me ».
Ecco perché qualche volta, proprio senza volerlo, risultiamo attraenti per qualcuno e del tutto insopportabili per qualcun altro, e senza avere mosso un dito: la verità, o se vogliamo la verginità impegnata con Dio, producono questo effetto e ci rendono segno di contraddizione.
Il cristiano neutro, che non produce nessuna contraddizione, dovrebbe fare una seria revisione del suo essere cristiano.
Speriamo che a noi accada diversamente, come esito concreto e storico, del fatto che siamo convinti di questa verginità.
Mons. Giuseppe Pollano
( Dalla registrazione al magnetofono, non rivista dall'Autore )
Mons. Pollano ad un ritiro dell'Unione svolge il tema sulla castità.