Incontro del personale CFPP - Casa di Carità Onlus

B285-A3

Venerdì 13 settembre 2002 - Intervento di Mons. Anfossi

La formazione professionale svolta nei confronti dei carcerati da parte del personale del CFPP - Casa di Carità Onius, anche se retribuita e quindi caratterizzata da un rapporto di lavoro, può arricchirsi di caratteristiche volontaristiche nella misura in cui vi è assunzione di una responsabilità di tipo educativo più ampia che va oltre l'impegno, già di per sé importante, della mera formazione professionale: il volontario infatti è persona che accetta di assumere una responsabilità senza esserne obbligato.

Le motivazioni.

Per chiarire questo aspetto possiamo considerare alcune motivazioni che possono stare alla base di un impegno nei confronti di persone che sono in difficoltà.

Ci possono esser motivazioni di tipo religioso, motivazioni sociali di solidarietà, di impegno per risolvere problemi e sanare carenze, di riconoscenza.

Altre motivazioni vengono dal profondo della nostra psiche e rappresentano quasi un bisogno di curare se stessi; non sempre queste ultime sono motivazioni valide.

Altre ancora derivano dalle finalità date dal complesso delle normative in atto, ad esempio il sostegno morale, il futuro reinserimento delle persone di cui ci si occupa.

Ci sono poi finalità proprie dell'attività che si svolge e possono essere a seconda dei casi culturali, di insegnamento, di ricreazione, di …

Occorre infine, soprattutto oggi, porre attenzione a non cadere nell'equivoco di un intervento di tipo assistenziale, non coerente con uno stato democratico in cui ciascuno è soggetto di pari dignità e ha diritto di partecipare in prima persona ai processi personali e sociali.

Anche il volontariato non si pone in parallelo con lo Stato, ma partecipa alla sua realizzazione come soggetto importante della società civile.

L'atteggiamento di solidarietà insito nell'attività di volontariato è indubbiamente rilevante, talora però non è così genuino come appare.

Ad esempio vedi il mutuo aiuto di un tempo tra gli abitanti di un villaggio in caso di incendio, dove la solidarietà comporta la sicurezza di essere ricambiati in situazioni analoghe: aiutare il vicino era garanzia di poter ricevere il medesimo aiuto.

Talora riaffiorano motivazioni profonde ambivalenti e sono gli stessi operatori di volontariato solidale che dichiarano che la motivazione reale del loro agire può anche essere quella di una gratificazione personale che viene dal compimento del servizio, cosa che consente di "sentirsi realizzati" e in definitiva di perseguire un interesse personale.

L'autorealizzazione è, sul piano psicologico, l'esigenza dell'individuo di attuarsi e di perfezionarsi pienamente, e in tale spinta c'è senza dubbio un aspetto valido perché la persona tende al proprio bene. ( da questo punto di vista ad esempio il movimento femminista ha propugnato valori autentici ).

Approfondendo però il concetto di autorealizzazione, se questa viene considerata come un valore assoluto, può sottintendere il rifiuto della proposta cristiana, che ha come fondamento il rinnegamento di se stesso, per ritrovarsi, come nuova creatura avendo Cristo come modello.

Difatti la sfida cristiana è incentrata sulla gratuità del dono, indipendentemente dal fatto di avere dei ritorni: "Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà" ( Mt 10,39 ).

Conseguentemente l'autorealizzazione va temperata e completata con la "eterorealizzazione", cioè con la realizzazione del destinatario delle nostre azioni.

Queste considerazioni sono valide in modo particolare nel rapporto di coppia tra gli sposi e tra genitori e figli.

Molte crisi coniugali hanno come loro causa la mancanza di rispetto reciproco, per cui il coniuge viene considerato non per quello che è, ma per l'utilità in senso lato che da all'altro.

Parimenti nel rapporto tra genitore e figlio, l'accettazione di questo, e quindi in definitiva l'amore verso di lui, non deve essere intaccato dai suoi sbagli ( è da ricordare in proposito ad esempio la tragedia del figlio carcerato che, rifiutato dalla famiglia per il preteso disonore conseguente, si è suicidato ).

A questo riguardo, per una valutazione equilibrata, è risolutivo il fatto di considerare ogni persona essenzialmente come creatura di Dio.

Le considerazioni fatte ci inducono a riflettere sulla autenticità delle motivazioni che ciascuno di noi cerca di perseguire nel servizio del prossimo, specialmente verso persone che sembrano presentare difficoltà insormontabili.

Nel caso di persone che operano con i carcerati è nota la difficoltà di ottenere cambiamenti significativi di personalità, ma devono far da guida ai nostri passi alcune convinzioni fondamentali.

- ogni persona ha dei talenti; ha un suo passato e va verso un proprio futuro, per il quale è importante capire ciò che vuole e ciò che ha la possibilità di diventare.

È importante per lui essere aiutato a riscoprire le proprie potenzialità avendo come regola di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi; si impara così a non considerare gli altri come dei contenitori, ma come delle persone che possono dare delle cose anche a noi;

- la persona reclusa in genere non si aspetta nulla da chi sta fuori, per cui se si riesce a creare una sorpresa positiva, "viene da fuori e mi ascolta", si può avviare un processo di cambiamento: ma solo a quella condizione;

- di fatto le comunità cristiane sono generalmente poco sensibili al carcere e ai suoi ospiti: prevalgono la diffidenza e la paura.

Sul piano religioso il cristianesimo ci assicura che il male non è mai definitivo, per cui il detenuto è sempre nella potenzialità di redimersi ( un piccolo esempio in proposito può esser dato da una moneta che cade nel fango e che anche se imbrattata non perde il suo valore ).

L'uomo per quanto possa contaminarsi, ha pur sempre l'apertura al trascendente "l'uomo è un fuscello che galleggia sull'acqua sporca, ma è un fuscello che pensa" ( Pascal ).

Ogni uomo ha almeno questa dignità e valore.

Qualità e atteggiamenti richiesti.

Chi è animato dalla carità, cioè dall'amore di Dio e del prossimo, cercherà in qualche modo di suscitare nel detenuto il suo riscatto di fronte a Dio, e pertanto il recupero della sua dignità personale, aprendosi a lui, e tentando di conquistare la sua fiducia.

In tale atteggiamento è fondamentale un dialogo corretto, una conversazione buona, e soprattutto l'atteggiamento interiore che cerca veramente il bene dell'altro, e che non può non trapelare dal comportamento e dalle parole di chi fa il formatore.

Teniamo presente l'esortazione di San Paolo rivolta ai padri cui raccomanda di non punire i figli fino a costringerli a perdere la stima in se stessi: "Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino" ( Col 3,21 ).

La perdita di stima, come già detto sopra, è la fase precedente al conflitto fra le persone.

Il nostro atteggiamento di fondo deve quindi far trapelare la nostra stima e fiducia verso i nostri allievi, proprio per aiutare loro stessi a recuperarla.

Nel Vangelo sono eloquenti e toccanti le esortazioni sulla correzione, sul perdono e sulla giustificazione.

Se poi il discorso, sia pure in taluni casi con parsimonia e con tatto, può direttamente annunciare Gesù Cristo, il Crocifisso Risorto, nostro Maestro e Salvatore, la nostra figliolanza da Dio Padre, l'operazione salvifica dello Spirito in ogni uomo, ne consegue che, se esso è accolto, le prospettive di redenzione del detenuto possono essere illimitate, anche sul piano interiore, dandogli la certezza di essere amato pur nelle prove e nelle sofferenze e infondendogli speranza.

Proseguendo la riflessione sulle qualità e sugli atteggiamenti richiesti a chi si pone in posizione di sostegno e di aiuto, occorre porre molta attenzione ai seguenti aspetti.

Il detenuto è persona non solo da punire, ma da redimere e al riguardo occorre anche fronteggiare correttamente la mentalità di allarme tipica di chi "sta fuori" a cui preme soprattutto tutelare la società civile, e ciò va fatto al di là delle diverse ideologie.

Anche in una visuale puramente umana l'educatore non può prescindere da un senso di umiltà e, a fronte di un fallimento di vita, è d'obbligo farsi la domanda: "cosa avrei fatto io al suo posto?"

Circa l'atteggiamento da seguire nell'approccio e nel contatto con gli allievi detenuti, si deve fare ricorso a modalità di carattere psicologico, prima ancora che pedagogico, e perciò affinare la sensibilità e la capacità di essere discreti.

Ci limitiamo a qualche indicazione esemplificativa.

In linea generale può non essere corretto, ne opportuno interpellare il detenuto sulle cause della sua carcerazione, indagare al riguardo, e neppure mai forzare l'interessato a riconoscere la sua colpevolezza.

Dobbiamo sempre tenere presente che nessuno è tenuto ad accusare se stesso davanti agli altri; tanto meno dobbiamo assumere un comportamento da confessore.

Occorre aspettare con pazienza che sia l'interessato a volersi aprire spontaneamente a noi.

È da escludere anche un atteggiamento di tipo moralistico che fa leva sui concetti di sicurezza sociale e di legittimità delle sanzioni …; l'accettazione da parte nostra di queste regole sociali non comporta che esse debbano essere espressamente contestate al detenuto: non abbiamo compiti che riguardano la sua responsabilità relativa alle azioni che hanno causato la detenzione.

La nostra condanna è alle azioni, ma mai a chi le ha compiute, non ci compete proprio.

Occorre tuttavia sapere che spesso le persone detenute per aver compiuto azioni criminose, tentano di giustificarsi o almeno di dare a chi non le conosce una immagine positiva ( ciò anche perché con la buona condotta in carcere è possibile usufruire di agevolazioni ).

Tuttavia questo è un meccanismo di difesa che può costituire una barriera nel rapporto con loro e renderlo difficile.

È importante perciò non scoraggiarsi, sapendo che già la nostra presenza ha valore di per sé.

L'efficacia della testimonianza e del reale interesse che nutriamo per le persone detenute che incontriamo come allievi può ricevere un notevole contributo dal livello della conversazione con loro, se il nostro parlare è ispirato dalla verità e dal bene.

Ciò non significa che il nostro conversare debba sempre vertere su temi di impegno, può infatti riguardare argomenti comuni, ma non dovrebbe mai essere frivolo ( se mai scherzoso, che è un'altra cosa ), tanto meno poi apparire offensivo, anche se talora occorresse porsi su un piano critico.

Occorre pertanto riporre fiducia nel proprio lavoro, non lasciassi deprimere, neppure quando pare che i nostri interlocutori tendano a dare una diversa immagine di sé a seconda di chi interagisce con loro e ad essere quindi poco coerenti e sinceri.

Per altro verso occorre tenere presente che potrebbe anche accadere che essi ci considerino persone pulite e disinteressate, aperte all'ascolto e all'accoglienza, con le quali potere abitualmente comunicare.

Noi potremmo così dare loro la consapevolezza che c'è qualcuno fuori dal carcere che li aiuta e che è loro vicino.

La fiducia nel proprio lavoro passa anche attraverso alcune consapevolezze:

- sapere perché facciamo questa attività ( avere delle buone motivazioni )

- conoscere i limiti delle possibilità ( vincoli di legge - diritti e doveri reciproci )

- essere in grado di non scaricare su di loro i nostri problemi

- esser certi di avere altre persone con cui confrontarsi

- sapere bene che cosa significa aiutare

- privilegiare sempre il rapporto personale.

Riferimenti alle istituzioni e alla politica.

Non vi è dubbio che dalla legislazione vigente emergono chiare le esigenze del sostegno morale al carcerato e del suo reinserimento nella società e questo ci aiuta a capire che non può essere disattesa la finalità della crescita morale delle persone.

Per essere realisti dobbiamo avere la consapevolezza che perseguiamo obiettivi modesti orientati in tal senso; sarebbe infatti già rilevante conseguire il risultato per loro di una buona percezione di se stessi e degli altri e del reciproco rapporto.

Tale esito sarebbe già verificabile nel mutamento, durante il corso, dell'atteggiamento degli allievi verso gli insegnanti e gli istruttori, con una maggiore apertura e confidenza.

Vi sono poi altri elementi da considerare, ma per i quali è possibile al momento fare solo qualche accenno.

- Operare nel carcere comporta relazione con il personale di guardia; anche con loro occorre sforzarsi di intraprendere un rapporto ispirato all'integrazione, senza esprimere nei limiti del possibile giudizi e valutazioni, a meno di non essere espressamente tenuti a renderli espliciti.

- anche il territorio esterno e quindi anche la Diocesi è impegnata in questo settore, in particolare per accogliere il carcerato dopo la detenzione.

Da parte dei CFPP - Casa di Carità, è bene segnalarlo, è stata realizzata una struttura operativa in questa direzione.

Questa iniziativa viene citata per il suo valore essenziale.

- un altro aspetto del nostro rapporto con i detenuti, è la dimensione politica.

Che spazio può avere la politica nel carcere? In genere essa non va tenuta fuori, ma nemmeno può indicarsi come la ragione primaria ed esclusiva del nostro operare sociale, non fosse altro che per evitare delusioni nei nostri interlocutori.

Occorre che noi tendiamo a che la base psicologica dei nostri allievi sia ben assestata e non turbata, per cui le motivazioni politiche, ancorché non omesse, non devono avere un peso determinante.

Quindi è bene fare riferimento agli elementi di incontro, di dialogo di concordia per instillare semi di pace.

Germi di speranza.

Concludendo è utile fare una cenno alla necessità di effettuare, nel momento operativo e di incontro, una sintesi di tutti i contenuti su esposti, perché si fa sempre riferimento non ad un aspetto specifico delle persone che incontriamo ( la detenzione ) ma alla globalità e unicità che caratterizza ogni persona.

Se nella nostra azione siamo animati da ideali alti e da forti passioni, siamo esposti anche a delusioni, qualora non intravediamo immediati risultati.

Ciò non è tuttavia sufficiente per farci desistere, anzi se ben riflettiamo, il risultato è comunque già dato dalla nostra stessa presenza.

Trattando con le persone si ha esperienza dei loro condizionamenti, ma prima di questi si è consapevoli di loro come persone presenti; il contatto con loro lascia dei segni, prima o dopo, in essi stessi o in altri, in una misteriosa quanto prodigiosa compensazione tra gli spiriti.

Formulata in termini di fede, questa compensazione avviene nel corpo mistico, ed è la comunione dei santi.

Il riferimento che viene dalla Sacra Scrittura e che ci sostiene è la misericordia di Dio, come ha ricordato il Papa nel discorso tenuto in Polonia.

Discussione

De Salvia.

Esprime gratitudine per la profonda riflessione, dichiarando piena consonanza di intenti sia sui principi, che sugli orientamenti e metodi di lavoro.

In effetti, più che porre l'accento su quanto l'individuo ha fatto, si deve puntare su ciò che egli è in grado di essere, e in questa prospettiva il formatore può svolgere il ruolo di sollecitatore.

Inoltre va tenuto presente che l'educatore, ancorché in un contesto di detenuti, deve porsi nell'atteggiamento non solo di dare, ma anche di ricevere, appunto perché il nostro rapporto è con persone.

Infatti gli "altri", per quanto carcerati, non sono contenitori vuoti, ma con una loro personalità che, per quanto in crisi, è in grado di dare.

Michelizza.

Lo stato d'animo dei carcerati in genere è aggressivo verso il mondo esterno, dal quale non si attende nulla.

Noi dobbiamo essere mediatori per smussare tale durezza e favorire un'attesa, sollecitando però anche quello che per loro è appunto l'ambiente esterno.

Possiamo contribuire alla trasformazione di questo atteggiamento facendo leva sul senso di umanità mai spento in ogni uomo.

Un metodo efficace può essere quello di suscitare una sorpresa.

E una sorpresa appunto può essere il fatto che il formatore, che in definitiva appartiene al mondo esterno, si occupi del carcerato.

Circa l'assistenza ai carcerati pensa che le comunità cristiane debbano maggiormente sensibilizzarsi, poiché in talune vi è indifferenza.

Tessa

Per quanto riguarda l'assistenza e l'accoglimento dopo la detenzione, il nostro Ente si sta impegnando anche in Valle d'Aosta come conseguenza della nostra presenza nel carcere di Brissogne, e altresì perché sotto l'aspetto carcerario la Valle d'Aosta costituisce una realtà unica col Piemonte.

Moccia.

Rinnovando i ringraziamenti per la profonda meditazione, si limita a sottolineare come la conclusione del discorso sia stata la medesima della sua breve riflessione sull'Annuncio di Dio Misericordioso, che è poi il tema sviluppato dal Papa nel suo recente viaggio in Polonia.

E la conclusione si riannoda ai punti cardine del nostro Ente, cioè basato sulla verità della Croce di Cristo, e il Vangelo della Carità per una civiltà dell'amore.

Mons. Anfossi.

Sottolinea come siano state aggiunte negli interventi altre motivazioni a quelle su cui si è soffermato in particolare, e ne prende atto.

In effetti verso l'ambiente carcerario deve determinarsi un maggior interessamento, superando limiti che talora sono favoriti dagli stessi ordinamenti amministrativi, tanto più che la ricaduta di tale interessamento si risolve anche a vantaggio della comunità civile e religiosa.

Nella diocesi di Aosta questo obiettivo è non solo in fase di discussione, ma anche di attuazione.

Circa le difficoltà, va tenuto presente che il cristiano si pone contro corrente, per cui le opposizioni e le contrarietà sono scontate, tanto più che oggi dobbiamo confrontarci con una mentalità tendenzialmente gretta, poco generosa e scarsamente attiva.

Occorre quindi che il laicato sia animato da autentica fecondità e da magnanima generosità.