23 giugno 1947
La santità, diletti figli, è una mirabile e multiforme gemma, con cui la Chiesa, Sposa di Cristo, adorna il suo manto stellato, eleggendo ed elaborando con l'arte finissima della grazia divina le più svariate pietre preziose in ogni ceto e in ogni regione del mondo.
Oggi la Compagnia di Gesù le porge lo splendore simultaneo di due nuove gemme: due fulgori diversi, ma ambedue scintillanti di una medesima religiosa bellezza; come già un luminoso esempio avevano offerto al Nostro grande Predecessore Leone XIII i tre Santi Pietro Claver, Giovanni Berchmans, Alfonso Rodriguez, diversi di età, di ufficio e di propositi santi.
Nella bellezza della santità, che noi veneriamo sugli altari, risplende quell'armonica unità che concentra in una medesima luce i raggi della molteplice sua varietà.
Non appare forse a chi mira l'Istituto e gli eroi della Compagnia di Gesù, che la divina Provvidenza sia venuta compiacendosi di fare della diversa emulazione di una pari santità una delle caratteristiche dei figli del Loyola?
Non meno eguali e diversi si presentano a Noi i due nuovi Santi, Giovanni de Britto e Bernardino Realino.
Pur nel contrasto che sembrano opporre, a chi li guardi dall'esteriore, i loro caratteri naturali, come le circostanze della loro vita, ricca nel suo progresso fino alla santa morte, di attività e di virtù; una rassomiglianza ancor più viva fa riconoscere in loro due genuini fratelli, due figli di uno stesso padre, di cui portano nei loro lineamenti l'impronta inconfondibile.
Primogenito di un gentiluomo al servizio delle corti nell'Italia settentrionale, Bernardino si slancia con animo aperto e ardente nella vita giovanile delle Università, passando dall'una all'altra, sempre dedito con un medesimo brio e con felice successo alla medicina e alle lettere, alla filosofia e al diritto, lieto compagno nei circoli studenteschi di Modena e socio nei rumorosi loro svaghi.
Avviatosi per così sdrucciolevole china, dove andrà egli?
Il freno della sua profonda fede religiosa lo ratterrà sull'orlo dell'abisso, mentre un onesto amore coltivato nel segreto del suo cuore lo custodisce e, stimolando la sua applicazione allo studio, lo indirizza e lo conduce alla giurisprudenza.
Vincitore delle seduzioni e sprezzatore delle tentazioni volgari, ma altero e inflessibile sul punto di onore, non sa abbastanza signoreggiare se stesso, dominare il suo amor proprio e il suo senso di giustizia offeso e trattenere la sua spada che vibra e freme nel fodero.
Proscritto dal giudizio rigoroso del suo principe, è accolto e desiderato in ogni luogo altrove: qualche smacco ben sensibile e un'angosciosa avversità, se lo amareggiano, risvegliano però il suo sentimento cristiano, e tutto torna a sorridergli.
Ma ecco che, mentre davanti ai suoi passi si apre la via brillante delle magistrature, la voce di Dio, che discretamente gli parla al cuore, si fa sentire sempre più incalzante; dalla quale mosso, voi lo vedete all'età di trenta quattro anni presentarsi al noviziato di Napoli.
Quanto differente da questa giovinezza piena di movimento e di vicende ci appare quella di Giovanni de Britto!
Beniamino della sua famiglia, orfano di padre dalla più tenera infanzia, allevato alla corte del saggio re di Portogallo, Giovanni IV, in mezzo all'allegria dei paggi suoi compagni, non smentisce in sè l'amabile immagine di un nuovo Stanislao: la sua modestia, la sua pietà, la franca custodia della sua angelica purezza, diventano per lui altrettanti bersagli di beffe e di trattamenti ancor più indiscreti, che, sopportati con costante pazienza, lo fanno soprannominare, quasi come presagio della sua eroica fine, il martire.
Non lo crediate insensibile a ciò che punge il suo amor proprio, ma è di tale tempra benevola anche verso coloro i quali non apprezzano la sua virtù, da rispondere a chi lo deride e l'offende con un più dolce sorriso e una più grande affabilità.
Entrato che fu nell'adolescenza, più alti pensieri illuminano la sua mente e più ardenti ed estesi propositi infiammano il suo cuore; tanto che, vincendo le istanze della Famiglia reale, che vorrebbe ritenerlo alla sua corte per esserne il modello e un giorno l'apostolo, rinnova e compie l'intento già da tempo concepito di darsi tutto a Dio nella Compagnia di Gesù.
Se la grazia non distrugge la natura e le buone inclinazioni umane, ma le perfeziona, la vita religiosa dei due Santi, sostenuta dalla loro forza naturale, non presenterà un minore contrasto.
Per un singolare mutamento del loro destino, pur sempre nella mano di Dio, il giovane paggio di Lisbona silenzioso, raccolto nel suo ardore apostolico, lascia la patria, i parenti e tutto ciò che lo circonda e parte per l'India, ove lo attende in un campo immenso di fatiche e di pericoli una vita di incessanti imprese missionarie, di avventure, di cimenti, di persecuzioni fino al martirio.
Egli sarà martire e per ben due volte; la prima volta, già torturato, sfuggirà alla morte soltanto perchè il cielo lo riserbava a nuovi grandi lavori e sofferenze.
Gl'interessi della missione, a lui affidati, e il volere dei Superiori lo spingono sul mare a intraprendere il viaggio di ritorno al Portogallo; ma l'amor patrio, nonchè rattenerlo, ne acuisce lo zelo di apostolo dell'India, ove rientra, dopo lunga e penosa navigazione, per consumarvi all'età di quarantacinque anni il sacrificio dianzi cominciato, che si terminerà con l'essere la sua spoglia mortale in gran parte divorata dalle fiere.
Al contrario, che vedete voi nell'antico magistrato italiano?
Dopo aver consacrato alcuni anni in Napoli stessa alla propria perfezione spirituale e alle opere di apostolato, specialmente a vantaggio dei suoi confratelli e della gioventù, eccolo inviato a Lecce, palestra del suo fervido zelo, e al pari di India per lui, dove il consiglio della Provvidenza non dubiterà di mantenerlo a forza e quasi miracolosamente, perchè vi dedichi tutti i suoi giorni nell'umile ministero delle confessioni e della direzione spirituale delle anime, che troveranno in lui una sapiente guida nel cammino della salvezza eterna e gli si affolleranno intorno, come a padre amatissimo.
La morte verrà a cogliervelo all'età di ottantasei anni, circondato dalla venerazione di tutti, e in quella sua città di adozione, che lo aveva scelto, ancor vivente, per suo protettore e patrono, « il suo sepolcro sarà glorioso ».
Ma se grande ci apparisce la diversità di questi due Santi, nella loro fisonomia e nella loro storia; più grande ancora, perchè più intima e profonda, è la loro rassomiglianza.
La vita esteriore dell'uomo, il temperamento naturale, i fatti che si susseguono nei suoi giorni, quel che arriva al nostro sguardo, non è tutto l'uomo: l'uomo più che corpo è spirito, quello spirito immortale, che attraverso l'intelletto e la volontà si protende al di fuori, concepisce alti propositi, supera l'ondeggiare fra il bene e il male, fra la giustizia e l'offesa altrui; quello spirito immortale, in cui risiede la vita interiore e più propria dell'uomo, il principio dei suoi atti e delle sue azioni, la radice e il processo, l'importanza e il valore dei più grandi avvenimenti, come dei più piccoli incidenti nel corso del suo terrestre cammino, non meno che il loro senso e il loro colore.
Senza dubbio si potrà sempre dire che dal lato dello spirito tutti i Santi si somigliano e sono imitatori di Cristo, modello di ogni santità, comunque voi la contempliate, perché tutti riflettono in sè la chiarezza di Lui, tutti risplendono della sua grazia, tutti ardono della sua carità, tutti un tale ardore irradiano nel multiforme zelo per le anime e nel servizio di Dio.
Ma, come i carismi, così anche la grazia ha le sue divisioni ( cfr. 1 Cor 12,4 ); e il Sole di giustizia, che illumina tutto il mondo spirituale dei Santi, vi varia e moltiplica indefinitamente i suoi fulgori di santità.
Così nei nostri due Santi noi vediamo brillare di un meraviglioso splendore il medesimo lampo ideale della Compagnia di Gesù, quale vario e identico rifulgeva nello spirito e nel cuore di S. Ignazio, e quale i vostri primi Padri, valendosi del linguaggio dell'Apostolo Paolo ( Gal 6,14 ), felicemente formularono ed espressero nel proemio delle vostre Costituzioni.
« Homines mundo crucifixos et quibus mundus ipse sit crucifixus»: tali noi ravvisiamo l'uno e l'altro dei due nuovi Santi, Giovanni de Britto e Bernardino Realino, immagini del loro capitano Cristo crocifisso.
Che importa la varietà del metallo e della forma dei chiodi visibili, quando l'amore invisibile più forte del ferro li fissa sulla croce del Maestro?
Illuminato per la sua propria esperienza sopra la vanità delle gioie del mondo, la inconsistenza dei suoi beni e dei suoi favori, Bernardino sempre più conosce la fugacità di quanto l'attornia, sempre più risolutamente si distacca da tutto ciò che passa, ricchezze, onori, vincoli di affezioni anche legittime ma troppo umane, per consacrarsi senza riserve a Colui che solo resta immutabile Signore, Ispiratore, Reggitore e Rimuneratore di ogni bene in mezzo al flusso della presente vita mortale.
Giovanni, che fin dalla nascita era stato santificato dal dono della grazia divina, e poi gustò quanto è soave il Signore, passa attraverso il mondo come il raggio per l'ombra della selva oscura; cresce quale giglio tra le spine, s'innalza verso il cielo e fiorisce, dimenticando quanto lo circonda al piede; alimenta in sè, al soffio dei favori di Dio, quella forte adolescenza, la quale, « allorchè piacque a Colui, che lo aveva scelto fin dal seno di sua madre, di chiamarlo a predicare il suo Figlio alle genti, non prese consiglio dalla carne e dal sangue » ( cfr. Gal 1,15-16 ); si sottrasse alle tenerezze materne, all'affezione regale, alla tranquillità del suolo nativo.
Ma ambedue hanno bramato d'inchiodarsi con la crocifissione dei tre chiodi religiosi della povertà, della castità e dell'ubbidienza all'albero salutifero e trionfatore del Re eterno sotto lo sguardo della Madre comune degli uomini.
« In laboribus »: Mirate il giovane missionario e l'eroismo della sua azione, che si dilata in mezzo ai popoli infedeli, azione splendida, azione imperterrita, azione feconda.
Bisognerebbe non avere alcun ideale nel cuore, per non sentire l'entusiasmo che suscita il racconto di quella vita ardente, per non provare con un senso di santa invidia il desiderio di partecipare a così ardue fatiche evangelizzatrici ed emularne i meriti secondo le proprie forze.
Tale santa invidia, tali infocati desideri divoravano l'anima generosa del Realino; anch'egli aveva sognato l'India, l'aveva sospirata, aveva chiesto il favore di partire per quelle lontane regioni, alle quali non cessò mai per tutta la sua vita di rivolgere il suo pensiero pieno di sollecitudine; ma le sue missioni, la sua India, altro non dovevano essere che la vicina Lecce: là nell'oscuro ritiro del confessionale e della camera, ove fino all'estrema vecchiezza lo ritennero l'obbedienza e la carità, Dio gli aveva assegnata la cattedra della sua missione, il campo della diffusione popolare della parola e del Vangelo di Cristo, il terreno della copiosa mèsse del suo lungo e incessante lavoro e del suo zelo sacerdotale.
Nell'uno di questi eroi della santità è un istancabile moto di azione senza respiro nè requie, ove si sarebbe presto consumata la vita operosa del missionario, se il martirio non fosse sopraggiunto così subitamente ad arrestarne l'attività e l'ardore della predicazione e della morale evangelica, interrompendo il cammino della vita e delle opere intraprese.
Nell'altro è la immobilità senza impazienza del confessore, del direttore spirituale, dell'istruttore dei penitenti, del confortatore dei dubbiosi e degli infelici, che sacrifica giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, per tutta la lunghezza della sua già avanzante e avanzata età, insieme con se stesso ogni attimo del suo vivere e delle sue fatiche, per dare agli uomini i lumi della sua dottrina e il fuoco della sua carità durante la giornata e a Dio nelle notti la serafica altezza della sua anima contemplativa.
Il loro zelo pareggia il fuoco che non dice mai: basta ( Pr 30,16 ); lo zelo apostolico nei loro due cuori appena è che non si attenti di oltrepassare i limiti estremi del loro potere, se mai fosse dato di appagare l'intensa loro brama di formare apostoli, - come li incitava il loro Padre Ignazio, o meglio ancora, il Maestro divino -, i quali moltiplichino ed estendano fuori di ogni termine di spazio e di tempo la loro propria azione.
Le vittorie della fede vanno crescendo.
Tra i nuovi cristiani, alcuni giovani, fiore dei neofiti, partecipano, aiutano e promuovono i lavori del loro missionario e ne fanno proprie le sofferenze: conquistano a Cristo i loro parenti, i loro amici e perfino i loro carcerieri.
Un secolo prima, col ministero dei sacerdoti, dei nobili, degli operai, dei giovani delle sue Congregazioni mariane, il Realino, pur non movendosi dal suo posto, evangelizza tutta la città di Lecce, penetrando invisibile negli angoli più riposti, nei ricoveri più inaccessibili, sollevando le miserie più nascoste e timide, pervenendo con la sua parola e col suo invito ai peccatori più induriti e feroci.
Per tal modo l'ideale della Compagnia continua in loro a disegnarsi: « passando per le cose prospere come per le avverse, avanzando a gran passi verso la patria celeste, trascinandovi anche gli altri con ogni sforzo e studio, maximam Dei gloriam semper intuentes ».
L'ardore di promuovere la gloria di Dio fu la fiamma illuminatrice e la sorgente di ogni più alta energia nella vita e nell'azione di Giovanni de Britto e di Bernardino Realino, e li fece fratelli nella indefessa operosità a pro delle anime redente da Cristo.
Esso ci rivela il segreto di quel disprezzo del mondo, di quei lavori eroici, di quella indifferenza per tutti i casi del cammino, per il quale quei due apostoli non cessavano di indirizzare e di guidare quanti li seguivano e ne ascoltavano la parola di ministri di Dio a salvezza di vita eterna.
Nella luce della maggior gloria di Dio voi li riconoscete e li venerate, diletti figli della Compagnia di Gesù, come vostri fratelli e modelli innalzati alla massima lode sugli altari.
Dalla loro esaltazione quale onore e quale incoraggiamento scende per voi, che, possedendo la medesima vocazione, vi studiate con la grazia divina di emularli nella immensa varietà dei vostri doveri religiosi e dei vostri ministeri apostolici!
Onore e incoraggiamento si spande anche sopra di voi, cari pellegrini di Carpi, di Modena, di Napoli, e soprattutto figli di quella « nobilissima, devotissima e cortesissima città di Lecce », come il Realino si compiacque di chiamarla.
Santamente orgogliosi di custodire la sua spoglia mortale, fedeli specialmente a mantenere viva la memoria e l'osservanza dei suoi paterni insegnamenti, siate ben sicuri che, se egli accolse da vivo la domanda di essere vostro patrono, nella gloria celeste non mancherà di dimostrarsi quello che promise e volle essere, grande intercessore presso Dio a vostro favore.
Infine con profondo compiacimento rivolgiamo il Nostro paterno saluto alle schiere di pellegrini accorsi a Roma per celebrare la gloria di Giuseppe Cafasso, che ieri egualmente abbiamo ornato con l'aureola dei Santi.
Il Nostro saluto è diretto innanzi tutto a voi, Venerabili Fratelli e diletti figli, Vescovi e sacerdoti, che nel nuovo Santo vedete un Padre, un Maestro, un Modello.
Niuno forse più di lui ha scolpito nel Clero piemontese dei secoli 19° e 20° la sua impronta; egli lo ha sottratto al clima disseccante e sterilizzante del Giansenismo e del Rigorismo, lo ha preservato dal pericolo di profanarsi e sommergersi nella secolarizzazione e nel laicismo.
All'influsso del suo spirito illuminato dall'alto, alla guida della sua mano sicura, quanti ministri del Santuario debbono la loro fermezza nel « sentire cum Ecclesia », la santità della loro vita sacerdotale, la indefettibile fedeltà ai molteplici obblighi della loro vocazione!
Unitevi dunque a Noi, Venerabili Fratelli e diletti figli, nel rendere grazie all'Onnipotente Iddio per l'opera supremamente importante e feconda della formazione e della santificazione del Clero, che il Signore ha compiuta e continua ancora a compiere per il ministero del suo Servo Giuseppe Cafasso.
Senza dubbio i tempi cambiano, e anche la cura delle anime deve adattarsi alle sempre mutevoli circostanze.
Così i doveri sociali, che pesano oggi sulle spalle del sacerdote, sono incomparabilmente più gravi e difficili che al tempo del novello Santo.
Ma, pur attraverso tutte le umane vicissitudini, il solido fondamento, lo spirito, l'anima della vita e dell'attività sacerdotale rimangono invariabili.
Come il faro sta immobile sulla roccia, così la boa, che l'onda culla e che, con questa elevandosi e abbassandosi, sembra obbedire al suo capriccio, non è una guida sicura, se non è saldamente ormeggiata al fondo tranquillo e stabile.
Tale è l'insegnamento costante che il nostro Santo ha dato con le sue lezioni, le sue missioni e i suoi Esercizi, e specialmente con gli esempi della sua vita.
In tutti i tempi il sacerdote, secondo la promessa del divino Maestro, è stato fatto segno alle ingiurie ed alle persecuzioni, e quella promessa conta nel suo cuore come una beatitudine.
Ma oggi egli è tanto più esposto al fuoco incrociato di amare critiche, non solo da parte di avversari senza scrupoli, che gettano su di lui il fango della denigrazione e della calunnia, ma talvolta - ciò che è più penoso - anche dalle proprie file.
Noi pensiamo in modo particolare ad un caso concreto e recente d'oltralpe, un caso di critica irriverentemente offensiva e aspramente ingiusta, mossa da penna cattolica.
Poichè le presenti condizioni di cose lasciano pur troppo pressochè disarmate e indifese le vittime di tali diffamazioni, è tanto più necessario che voi, diletti sacerdoti, evitiate di dare alla critica non solo alcun motivo, ma anche il minimo pretesto.
Al quale scopo il mezzo più elevato e più santo è di modellare la vostra condotta su quella di Giuseppe Cafasso con l'assoluta abnegazione di voi stessi, liberi da tutte le inclinazioni e da tutti gl'interessi terreni, con una vita intemerata, unita a quel fine tatto e a quella delicata comprensione delle anime, che fu in così alto grado la sua caratteristica.
Ma il Nostro saluto s'indirizza altresì a voi, diletti figli e figlie, che, pellegrini nella città Eterna, avete voluto seguire i vostri Vescovi e i vostri sacerdoti, per portare al vostro Santo l'omaggio di una pia devozione.
Perchè egli è ben vostro; vostro soprattutto, pellegrini di Castelnuovo Don Bosco.
Felice Castelnuovo, che puoi chiamar veramente tuoi i due astri gemelli, splendenti nel firmamento del secolo 19°, i due incomparabili sacerdoti, Giovanni Bosco e Giuseppe Cafasso, anche in vita così intimamente e fraternamente congiunti dai vincoli di una santa amicizia e dal comune lavoro apostolico!
La vostra presenza qui, diletti figli e figlie, è la manifestazione sensibile della stretta unione fra il sacerdote e il popolo, del rispetto che i fedeli portano alla dignità sacerdotale, della filiale fiducia verso colui, che è ministro di Cristo in mezzo a loro.
Ove quella unione si rallenta, non è pur troppo difficile di diagnosticare l'indebolimento della vita religiosa.
Ove invece questa fiorisce, si può con certezza concludere che là è un buon pastore, circondato dalla stima delle sue pecorelle.
Noi abbiamo recentemente messo in luce la forte convinzione, l'intimo sentimento della comune appartenenza al medesimo Corpo mistico, che al presente anima i figli della Chiesa cattolica in tutto il mondo.
Necessariamente si deve in ciò riconoscere la mano di Cristo; ma come sarebbe possibile che al tempo stesso non crescesse e non s'invigorisse anche l'unione fra il sacerdote e il popolo?
Con cuore ardente raccomandiamo questa intenzione a Giuseppe Cafasso.
Avendo ravvisato in lui un santo sacerdote, i fedeli tutti, giovani e vecchi, poveri e ricchi, di umile e di alta condizione, gli aprivano la loro anima e la loro coscienza col più schietto abbandono.
Si degni il nuovo Santo d'impetrare da Dio per la sua patria e per tutta la Chiesa un popolo pieno di confidenza verso il sacerdote e sacerdoti interamente meritevoli di questa fiducia!
Con tale augurio, su voi, Venerabili Fratelli e diletti figli qui presenti, come su tutti coloro che vi sono cari, Noi imploriamo, per l'intercessione dei tre gloriosi novelli Santi, l'abbondanza delle grazie celesti, di cui sia pegno la paterna Benedizione Apostolica, che di gran cuore v'impartiamo.