Rerum novarum |
8 Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all'uomo l'uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà.
Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l'uomo degli effetti del suo lavoro.
Giacché il campo dissodato dalla mano e dall'arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace.
Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili.
Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti?
Come l'effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora.
A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l'occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell'uomo e alla pacifica convivenza sociale, l'ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli.
E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale1, confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza.
Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l'asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono ( Dt 5,21 ).
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1 | S. Th. I-II, q. 95, a. 4 |