Tametsi futura
1 novembre 1900
Sebbene non sia possibile guardare all'avvenire con l'animo scevro da inquietudine, e diano anzi non poco a temere le molte e inveterate cause di mali di ordine privato e pubblico, tuttavia per divino favore, questi ultimi anni secolo sembra abbiano emesso qualche raggio di speranza e di conforto.
Perché non si deve credere che non conferisca al bene comune la rinascente cura degli interessi dell'anima, il ravvivarsi della fede e della cristiana pietà; e che tali virtù vadano effettivamente rinverdendo e riprendendo vigore presso molti, appare da segni assai manifesti.
Anche in mezzo alle lusinghe del mondo e nonostante gli ostacoli che la pietà trova intorno a sé da ogni lato, ecco che, ad un solo cenno del papa, convengono da ogni parte a Roma, alle soglie dei santi apostoli, folte schiere: cittadini e forestieri uniti adempiono pubblicamente le pratiche religiose, e fidenti nell'indulgenza offerta dalla chiesa, ricercano più diligentemente i mezzi di salvezza eterna.
E non è inoltre commovente questa pietà particolarmente fervida, come da tutti si può vedere, verso il Salvatore del genere umano?
Senza dubbio sarà giudicato degno dei migliori tempi cristiani questo fervore, che dall'alba al tramonto infiamma migliaia di anime, in consonanza di volontà e pensiero, ad acclamare ed esaltare il nome e le glorie di Gesù Cristo.
E piaccia al cielo che queste fiamme erompenti di rinnovato fervore della religione avita divampino in un vasto incendio, e che l'edificante esempio di molti attragga tutti gli altri.
Il ritorno completo della società allo spirito cristiano e alle antiche virtù non è forse il maggior bisogno dei tempi moderni?
Vi sono altri, troppi, che tengono chiuse le orecchie e non vogliono udire l'ammonimento di questo risveglio religioso.
Ma, "se conoscessero il dono di Dio", se pensassero, che non vi è disgrazia più grande che l'aver abbandonalo il Salvatore del mondo, e l'aver deviato dai costumi e dagli insegnamenti cristiani, certo si scuoterebbero anch'essi e si affretterebbero tornando sui loro passi, ad evitare una sicura rovina.
Orbene, custodire e dilatare sulla terra il regno del Figlio di Dio, e adoperarsi con tutte le forze per condurre a salvezza l'umanità mediante la partecipazione ai benefici divini, è compito della chiesa, compito così grande e così proprio di lei, che a questo principalmente è ordinata tutta la sua autorità e il suo potere.
A tale scopo Ci sembra di aver fino ad oggi indirizzate le maggiori cure possibili nell'arduo e travagliato esercizio del sommo pontificato; e quanto a voi, venerabili fratelli, è certo che Ci secondano in questo, di continuo, le sollecitudini del vostro zelo vigile e operoso.
Ma dobbiamo, Noi e voi, data la condizione dei tempi, sforzarci di fare di più, e specialmente ora, che ce ne offre l'opportunità l'anno santo, diffondere più largamente la conoscenza e l'amore di Gesù Cristo, ammaestrando, persuadendo, esortando.
Possa la nostra voce essere ascoltata, non tanto, diciamo, da coloro che sono soliti porgere docile orecchio agli insegnamenti cristiani, quanto da tutti gli altri, immensamente infelici, che conservano il nome di cristiani, ma conducono una vita senza fede, senza amore per Cristo.
Di questi soprattutto Noi sentiamo compassione; questi singolarmente vorremmo che riflettessero a quello che fanno, e a ciò che li attende, se non si ravvedono.
Non aver mai, in alcun modo, conosciuto Gesù Cristo è somma infelicità, tuttavia non è perfidia né ingratitudine: ma ripudiarlo o dimenticarlo dopo averlo conosciuto, questo è un delitto tanto spaventoso e insano da sembrare appena credibile possa avverarsi in un uomo.
Cristo infatti è il principio e l'origine di tutti i beni: e come non era possibile riscattare il genere umano senza l'opera benefica di lui così non è possibile conservarlo nel bene senza il concorso della sua grazia: "Non c'è in nessun altro salvezza, e non c'è altro nome sotto il cielo dato agli uomini in virtù del quale possiamo salvarci" ( At 4,12 ).
Quale sia la vita umana dove manca Gesù, "virtù di Dio e sapienza di Dio", quali siano i costumi, a quale disperato termine si arrivi, non ce lo mostrano abbastanza col loro esempio i popoli privi della luce cristiana?
Basta richiamare un poco alla mente l'Immagine, che di loro ha tratteggiata Paolo ( Rm 1 ): cecità d'intelletto, peccati contro natura, mostruose forme di superstizioni e libidini, perché ognuno si senta subito ripieno di compassione e insieme di orrore.
Le cose che qui ricordiamo sono conosciute da tutti, ma non da tutti meditate e considerate.
Non sarebbe altrimenti così grande il numero degli sviati dalla superbia o dei rattrappiti dall'indolenza, se più universalmente si coltivasse la memoria dei divini benefici e si meditasse più spesso da dove Cristo ha tratto l'uomo e fin dove lo ha innalzato.
Diseredata ed esule già da lunghi secoli, l'umanità precipitava in perdizione ogni giorno, immersa in quei spaventosi guai e in altri mali causati dal peccato dei progenitori, e nessuna potenza umana avrebbe potuto sanarli, dopo comparve Cristo Signore, il liberatore inviato dal cielo, Dio medesimo lo aveva promesso fin dal principio del mondo, come colui che avrebbe un giorno vinto e domato il "serpente"; per questo alla sua venuta erano rivolte le ansiose brame dei secoli che seguirono.
I vaticini dei profeti avevano per lungo tempo e chiaramente predetto che in lui era riposta ogni speranza; ed anzi le vane vicende di un popolo eletto, le sue imprese, le istituzioni, le leggi, le cerimonie, i sacrifici avevano con precisione e chiarezza preannunciato che in lui il genere umano avrebbe trovato piena e intera salvezza, in lui che era predetto sacerdote e insieme vittima espiatoria, restauratore della libertà umana, principe della pace, maestro di tutte le genti, fondatore di un regno che non avrebbe mai avuto fine.
Sotto questi titoli, immagini e vaticini, vari nella forma, ma concordi nell'oggetto, era designato unicamente colui, che, per l'eccessiva sua carità con cui ci amò, si sarebbe un giorno immolato per la nostra salvezza.
Infatti, quando giunse il tempo da Dio prestabilito, l'unigenito Figlio di Dio, fatto uomo, soddisfece, per gli uomini, col proprio sangue, in maniera sovrabbondante, la maestà offesa del Padre, e fece così proprietà sua il genere umano riscattato a così alto prezzo, "Non a prezzo di cose corruttibili, oro o argento, siete stati riscattati;… ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e senza difetto" ( 1 Pt 1,18-19 ).
E così fece nuovamente suoi, con pieno diritto, per averli veramente e propriamente redenti, tutti gli uomini che già erano soggetti alla sua potestà e al suo impero, poiché egli è di tutti creatore e conservatore. "Non appartenete a voi stessi; infatti siete stati comprati a caro prezzo" ( 1 Cor 6,19-20 ).
Per questo tutte le cose sono state instaurate da Dio in Cristo.
"Il mistero della sua volontà, secondo il disegno che si era proposto e da eseguire nella pienezza dei tempi, di ricapitolare in Cristo tutte le cose" ( Ef 1,9-10 ).
Non appena Gesù ebbe tolto il chirografo del decreto della nostra condanna, affiggendolo alla croce, subito si placò l'ira divina; furono sciolti i vincoli dell'antica schiavitù all'umanità confusa ed errante, Dio tu riconciliato, restituita la grazia, riaperto l'adito all'eterna beatitudine, conferito il diritto e offerti i mezzi per conseguirla.
Allora, come risvegliato da un lungo e mortale letargo, l'uomo scorse il lume della verità desiderata per tanti secoli e invano cercata; allora conobbe, principalmente, di essere nato per destini molto più alti e molto più degni di quanto non siano le cose sensibili, fragili e caduche, alle quali fino allora aveva indirizzato unicamente i suoi pensieri e i suoi desideri; e riconobbe che questo è il carattere costitutivo della vita umana, questa la legge suprema, e che il fine a cui tutto deve essere indirizzato è in questa direzione, perché da Dio usciti, a Dio dobbiamo un giorno ritornare.
Suscitata da questo principio e fondamento, si ridestò la coscienza della dignità umana; i cuori accolsero il sentimento della fratellanza comune, e, come naturale conseguenza, doveri e diritti furono in parte perfezionati, in parte rinnovati e nello stesso tempo si ebbe un fiorire di tali virtù, quali nessuna delle antiche filosofie avrebbe potuto immaginare.
Per questo presero altro indirizzo i pensieri, le azioni e i costumi; una volta diffusa l'ampia conoscenza del Redentore, una volta immessa nelle intime vene della società la virtù di lui, vincitrice dell'ignoranza e degli antichi vizi, ne seguì quel capovolgimento di cose che diede vita alla civiltà cristiana e trasformò completamente la faccia della terra.
A tali ricordi, venerabili fratelli, si sente nell'animo una immensa consolazione, e insieme un vivo senso di dover rendere grazie con tutta l'anima, per quanto ci è possibile, al divino Salvatore.
Siamo lontani dalle origini e dai primordi della redenzione, ma che importa se è perenne la sua efficacia e imperituri e perpetui ne rimangono i benefici?
Colui che una volta operò la salvezza dell'umana natura perduta per il peccato, è lo stesso che la salva e la salverà in eterno: "Diede se stesso in redenzione per tutti" ( 1 Tm 2,6 ), "Tutti saranno vivificati in Cristo" ( 1 Cor 15,22 ).
"E il suo regno non avrà mai fine" ( Lc 1,33 ).
Dunque, secondo l'eterno consiglio di Dio, in Cristo Gesù è posta la salvezza sia degli individui sia di tutta l'umanità.
Quelli che lo abbandonano corrono, per ciò stesso, alla propria rovina con cieco furore, e nello stesso tempo, per quanto sta da loro fanno sì che l'umanità, flagellata da immane tempesta, ripiombi in quell'abisso di mali e di calamità da cui il Redentore l'aveva pietosamente tolta.
Tutti quelli che si mettono fuori della diritta via vagano alla cieca e si allontanano dalla meta desiderata.
Similmente se si rigetta la luce pura e sincera del vero, sottentrano perniciosi errori e inevitabilmente le tenebre oscureranno la mente e il cuore intristisce.
Infatti che speranza di sanità può restare a chi abbandona il principio e la fonte della vita?
Ora la via, la verità e la vita è soltanto Cristo: "Io sono la via, la verità e la vita" ( Gv 11,6 ); così che, abbandonato Cristo, vengono a mancare quei tre principi necessari per ogni salvezza.
È forse necessario dimostrare ciò che l'esperienza continuamente prova, e che ognuno, anche quando si trova nell'abbondanza di beni terreni, sente profondamente dentro di sé, e cioè che non vi è nulla all'infuori di Dio che possa assolutamente e totalmente appagare il desiderio umano?
Fine dell'uomo è Dio e tutto questo tempo che si trascorre sulla terra non è che una specie di pellegrinaggio.
Ma Cristo è la nostra "via", perché in questo viaggio mortale così difficile e pieno di pericoli, non possiamo in alcun modo giungere al sommo e ultimo bene, Dio, senza l'opera e la guida di Cristo, "Nessuno viene al Padre, se non per me" ( Gv 14,6 ).
Che cosa significa questo? Significa che, principalmente e prima di tutto, non si può andare al Padre se non mediante la grazia di Gesù, la quale tuttavia resterebbe nell'uomo infruttuosa, se si trascurasse l'osservanza dei precetti e delle leggi di lui.
Come era conveniente, Gesù Cristo, operata la redenzione, pose a custodia e tutela del genere umano la sua legge, perché, da essa governati, gli uomini potessero convertirsi da una vita non buona e sicuri rivolgersi verso il loro Dio.
"Andate e ammaestrate tutte le genti;… insegnando loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate…" ( Mt 28,19-20 ).
"Osservate i miei comandamenti" ( Gv 14,5 ).
Da ciò bisogna dedurre che, nella professione cristiana, l'atto fondamentale e necessario è sottomettersi con docilità ai precetti di Gesù Cristo, e a lui, quale padrone e re supremo, assoggettare devotamente in tutto la volontà.
Cosa grande questa e che esige spesso sacrificio non lieve, duro sforzo e costanza.
Poiché, quantunque la natura umana sia stata risanata dall'opera benefica del Redentore, rimane tuttavia in ciascuno di noi come una qualche malattia, una infermità, una tendenza al male.
Cupidigie diverse trascinano l'uomo ora in una direzione ora in un altra, e le attrattive delle cose sensibili facilmente piegano la volontà, e ci portano a fare quello che piace, non quello che Cristo comanda.
Ma è indispensabile resistere e combattere con tutte le forze le passioni, "in ossequio a Cristo" ( 2 Cor 10,5 ); le passioni, se non obbediscono alla ragione, prendono il sopravvento, e sviando tutto l'uomo dalla sottomissione a Cristo, lo rendono loro schiavo, "Gli uomini corrotti di mente e guasti nella fede non possono liberarsi dalla schiavitù, …sono anzi schiavi di tre passioni: la voluttà, la superbia, il mettersi in mostra".
E in questa lotta bisogna che ognuno sia disposto ad accettare volentieri sofferenze e fatiche per amore di Cristo.
È difficile respingere cose tanto allettanti e attraenti; è duro e penoso disprezzare ciò che è considerato bene del corpo e ricchezza, e fare ciò per volontà e comando di Cristo Signore; ma, pazienza e fortezza sono assolutamente necessarie al cristiano che voglia vivere in conformità alla sua professione.
Abbiamo forse dimenticato di quale corpo e di quale capo siamo membra?
Colui che ci comanda di rinnegare noi stessi è quello stesso che, propostosi il gaudio, sopportò la croce.
E da quella disposizione d'animo, cui abbiamo accennato, dipende la dignità medesima della natura umana.
Poiché comandare a se stesso, far sì che la parte inferiore di noi obbedisca alla superiore, non è viltà di un animo fiacco, ma piuttosto, come anche i saggi dell'antichità non di rado compresero, è virtù generosa, mirabilmente conforme alla ragione e in sommo grado degna dell'uomo.
Del resto sopportare e patire molto è condizione umana.
L'uomo non può distruggere la volontà del suo divino Creatore, il quale volle che restassero perpetue le conseguenze della prima colpa; similmente non può costruirsi una vita completamente scevra da ogni dolore e piena di ogni felicità.
È quindi ragionevole non ripromettersi quaggiù la fine del dolore, ma piuttosto fortificare l'animo a sopportare il dolore, il quale appunto ci insegna a sperare, con certezza di avere i beni supremi.
Cristo infatti non ha promesso la beatitudine eterna del cielo alle ricchezze o alla vita comoda, ne agli onori e alla potenza, bensì alla pazienza e alle lacrime, all'amore della giustizia e alla purezza del cuore.
Di qui facilmente appare che cosa si debba sperare dall'orrore e dalla superbia di coloro che, disprezzata la sovranità del Redentore, pongono l'uomo al di sopra di tutte le cose, e vogliono il regno assoluto e universale della natura umana; sebbene in pratica poi non possano conseguire questo regno, anzi neppure sappiano ben definire in che cosa esso consista.
Il regno di Gesù Cristo prende forma e consistenza dalla divina carità: l'amore santo e ordinato ne è fondamento e compendio.
Da questo necessariamente scaturiscono i seguenti principi; bisogna fare bene il proprio dovere, non bisogna fare nessun torto al prossimo, bisogna stimare le cose terrene come inferiori a quelle celesti, bisogna amare Dio sopra tutte le cose.
Ben diverso è quel dominio dell'uomo, che apertamente respinge Cristo o che trascura di conoscerlo, si fonda tutto sull'egoismo, che non conosce la carità, né lo spirito di sacrificio.
Secondo l'insegnamento di Gesù è anche lecito all'uomo imperare, ma lo deve egli fare alla sola condizione possibile, ossia prima di tutto deve servire lui a Dio, e deve attingere dalla legge di Dio le norme e la guida della propria vita.
Quando diciamo legge di Cristo non intendiamo solo i precetti naturali, o solo quelli che gli antichi ricevettero da Dio, precetti che Gesù Cristo completò col dichiararli, interpretarli e sancirli, ma intendiamo anche tutto il resto della sua dottrina, e tutte espressamente le cose da lui istituite.
Di esse la principale, senza dubbio, è la chiesa: che vi è infatti fra ciò che Cristo ha istituito, che essa non abbracci, che non contenga pienamente?
Certo egli volle che, mediante il ministero della chiesa da lui stesso così mirabilmente costituita, fosse perpetuata la missione affidatagli dal Padre.
E avendola fatta depositarla di tutti i mezzi di salvezza per l'uomo, dispose solennemente che gli uomini a lei prestassero obbedienza come a lui stesso, e da lei si lasciassero sempre condurre come da guida sicura, "Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me" ( Lc 10,16 ).
Per cui solo nella chiesa bisogna cercare la legge di Cristo; infatti via dell'uomo è Cristo, e ugualmente lo è la chiesa: egli per sé e per propria natura, essa per ufficio affidatole e per comunicazione di poteri.
Quindi chiunque presume di giungere alla salvezza al di fuori della chiesa percorre una via sbagliata, e si sforza invano.
Né molto dissimile dal destino degli individui è quello degli stati; anche questi corrono verso la loro perdizione se si allontanano dalla "via".
Il Figlio di Dio, creatore e redentore dell'umana natura, è re, è padrone di tutta la terra ed ha suprema potestà sugli uomini, sia presi singolarmente, sia raccolti in civile società.
"Diede a lui potestà, onore, e regno e tutti i popoli, tribù e lingue lo serviranno" ( Dn 7,14 ).
"Io poi sono stato da lui costituito re… Io ti darò in eredità le genti, in tuo dominio gli ultimi confini del mondo" ( Sal 2,6.8 ).
Dunque anche nel convivere umano e nella civile società deve imperare la legge di Cristo, così che non solo nella vita privata, ma anche in quella pubblica essa sia guida e maestra.
Or poiché questo è il decreto di Dio, e nessuno può impunemente trasgredirlo mal si provvede alla cosa pubblica se le cristiane istituzioni non si tengano nel conto dovuto.
Allontanandosi da Gesù rimane abbandonata a se stessa ragione umana, privata dell'aiuto più valido e del lume più prezioso; e allora con tutta facilità si perde di vista il fine stesso stabilito da Dio nell'istituire il consorzio civile: e questo fine consiste formalmente nell'aiutare i cittadini a conseguire il benessere naturale; ma in un modo che si armonizzi del tutto col conseguimento di quel sommo, perfettissimo e sempiterno bene, che trascende tutti gli ordini della natura.
Perdere di vista tali idee conduce fuori strada sia i reggitori sia i sudditi, per difetto d'indirizzo sicuro e di un sicuro punto d'appoggio.
Se lacrimevole causa di sventure è il fuorviare dal retto sentiero, lo è similmente l'abbandono della verità.
Ora la prima, assoluta ed essenziale verità è Cristo, poiché è Verbo di Dio, consustanziale e coeterno al Padre, una cosa stessa col Padre.
"Io sono la via e, la verità".
Dunque, se si cerca il vero, l'umana ragione obbedisca anzitutto su Gesù Cristo e sicura riposi nel suo magistero poiché per bocca di Cristo è la verità stessa che parla.
Innumerevoli sono le materie in cui l'ingegno umano può liberamente spaziare investigando e contemplare come in fertilissimo campo, e campo proprio, e questo è non solo consentito, ma espressamente voluto dalla natura.
E invece cosa illecita e contraria alla natura, non voler contenere la mente dentro i suoi confini, e, abbandonata la necessaria moderazione, deprezzare l'autorità di Cristo che insegna.
Quella dottrina dalla quale dipende la salvezza di tutti noi, quasi tutta tratta di Dio e delle cose che specialmente riguardano la divinità: essa non è prodotto di umana sapienza, ma il Figlio di Dio l'attinse e la ricevette tutta dal suo stesso Padre; "Le parole che hai dato a me le ho date a loro" ( Gv 17,8 ).
E questo necessariamente comprende molte cose, che non ripugnano alla ragione, il che non può essere in alcun modo, ma delle quali non possiamo raggiungere la profondità con la nostra ragione, come non possiamo con essa comprendere la divina essenza.
Ma se vi sono tante cose oscure e dalla natura stessa avvolte nell'arcano, che non possono essere spiegate dall'uomo, ma delle quali tuttavia nessuno sano di mente oserebbe dubitare, è certo uno strano abuso di libertà negare poi l'esistenza di altre cose molto superiori alla natura, solo perché non é possibile comprenderne l'intima essenza.
Rifiutare i dogmi equivale a rigettare completamente tutta la religione cristiana.
È doveroso invece piegare la mente con umiltà e senza riserva "in ossequio a Cristo", fino al punto che essa stia sottomessa al suo divino impero; "Assoggettiamo ogni intelletto all'obbedienza di Cristo" ( 2 Cor 10,5 ).
Tale è l'ossequio che Cristo esige; e lo esige con pieno diritto; egli infatti è Dio e perciò ha somma potestà sulla volontà dell'uomo come sulla sua intelligenza.
Ma sottomettendo la propria intelligenza a Cristo signore l'uomo non agisce servilmente, bensì in modo convenientissimo sia alla ragione, sia alla sua originale dignità.
Infatti non assoggetta la propria volontà ad un uomo qualsiasi, ma al suo creatore, signore di tutte le cose, Dio, cui è sottomesso per legge di natura, e non si lega alle opinioni di un maestro umano, ma all'eterna e immutabile verità.
In tal modo egli raggiunge il bene naturale dell'intelletto e consegue insieme la libertà.
Infatti la verità, che procede dal magistero di Cristo, pone apertamente in luce l'essenza e il valore di ogni cosa, per cui l'uomo illuminato da questa conoscenza, se darà ascolto alla verità conosciuta, non dovrà soggiacere alle cose, ma le cose a lui saranno soggette, né la sua ragione soggiacerà alla passione, bensì la passione sarà regolata dalla ragione, e l'uomo, liberato dalla più grande schiavitù dell'errore e del peccato, sarà confermato nella più preziosa libertà: "Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" ( Gv 8,32 ).
È chiaro quindi che coloro che ricusano l'impero di Cristo, con pervicace volontà si ribellano a Dio.
Emancipatisi dalla divina potestà, non saranno per questo più indipendenti, poiché cadranno sotto qualche potestà umana, eleggendosi, come suole accadere, qualche loro simile, che ascolteranno, obbediranno e seguiranno come loro maestro.
Inoltre costoro, impedendo alla loro mente di comunicare con le cose divine, restringono il campo dello scibile, e vengono a trovarsi anche meno preparati a progredire nelle scienze puramente naturali, perché vi sono nella natura molle cose, alla cui comprensione e chiarificazione giova assai la luce della dottrina rivelata.
E non raramente, a castigo della loro superbia, Dio permette che costoro non discernano il vero, così che sono puniti nel campo stesso del loro peccato.
Per l'uno e l'altro motivo, spesso si vedono uomini di grande ingegno e di non comune erudizione, perdersi, anche nello studio stesso della natura, in assurdità inaudite, che non hanno precedenti.
Sia dunque chiaro, che chi fa professione di vita cristiana deve sottomettere la sua intelligenza totalmente e pienamente alla divina autorità.
E se in questa sottomissione della ragione all'autorità si mortifica e si reprime quell'amor proprio che è così forte in noi, proprio da ciò si deve dedurre la necessità assoluta per ogni cristiano di mortificare non solo la volontà, ma anche l'intelletto.
E vorremmo che ciò ricordassero coloro che si propongono un cristianesimo secondo i loro gusti, governato, nell'ordine intellettivo e nell'ordine pratico, da leggi più miti e maggiormente indulgenti alla natura umana, così da imporle nessuna o poche mortificazioni.
Essi non comprendono abbastanza l'esigenza della fede e dei precetti cristiani; non vedono come da ogni parte ci si presenti la "croce", esempio di vita e vessillo perpetuo di tutti coloro che vogliono essere, non soltanto di nome, ma nella realtà e con le opere, seguaci di Cristo.
Dio solo è la vita. Tutti gli altri esseri sono partecipi della vita, ma non sono la "vita".
Da tutta l'eternità, invece, e per sua propria natura, Cristo è la vita, allo stesso modo che è verità, perché è Dio da Dio.
Da lui, come da primo e augustissimo principio, fluì nel mondo ogni vita e fluirà perpetuamente.
Tutto ciò che esiste, esiste per lui; tutto ciò che vive, vive per lui, perché "tutte le cose" per mezzo del Verbo "sono state fatte, e senza di lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto".
Questo quanto alla vita naturale.
Ma abbiamo sopra accennato ad una vita assai migliore e infinitamente più preziosa, generata dall'opera benefica di Cristo stesso, ossia la "vita della grazia", il cui fine beatissimo è la "vita di gloria", alla quale debbono essere ordinati pensieri e azioni.
In ciò consiste tutta la forza della dottrina e delle leggi cristiane, che "morti al peccato, viviamo per la giustizia", cioè per la virtù e la santità e in ciò consiste la vita morale degli uomini con la sicura speranza della beatitudine eterna.
Ma la giustizia, veramente e propriamente in un modo efficace per la salute, di nient'altro si alimenta se non della fede cristiana: "Il giusto vive di fede" ( Gal 3,11 ).
"Senza la fede è impossibile piacere a Dio" ( Eb 11,6 ).
Ecco perché Gesù Cristo autore, padre e sostegno della fede, è pure colui che conserva e alimenta in noi la vita morale, e questo fa soprattutto mediante il ministero della chiesa.
Ad essa, infatti, con benigno e provvidentissimo consiglio, ha affidato l'amministrazione di quei mezzi, che generano la vita di cui noi parliamo, generata la conservano, e la rinnovano qualora si sia estinta.
Perciò, se si separa la morale dalla fede divina, viene ad essere distrutta in radice la forza che genera e conserva le virtù salutari.
Quelli che vogliono formare ad onestà i costumi mediante i dettami della sola ragione, spogliano l'uomo della sua massima dignità e, con sua grande perdita, dalla vita soprannaturale lo retrocedono alla vita puramente naturale.
Con la retta ragione l'uomo può bensì conoscere e praticare molti precetti naturali, ma anche se li conoscesse tutti e tutti li praticasse senza alcuna imperfezione per tutta la vita - cosa del resto impossibile senza la grazia del Redentore - invano spererebbe di salvarsi eternamente, se non ha la fede.
"Chi non rimane in me sarà gettato via come tralcio e seccherà e, raccolto, sarà gettato nel fuoco a bruciare" ( Gv 15,6 ).
"Chi non avrà creduto sarà condannato" ( Mc 16,16 ).
E poi, quanto valga e quali frutti produca questa onestà noncurante della fede, ne abbiamo troppe prove sotto gli occhi.
Come mai nonostante il tanto impegno di stabilire e accrescere la pubblica prosperità ogni giorno più soffrono gli stati in punti di capitale importanza e appaiono come infermi?
Si asserisce, è vero, che la società civile basta a se stessa; che è capace di fiorire egregiamente senza il concorso delle istituzioni cristiane, e con le sole proprie forze conseguire il proprio fine.
Quindi negli ordini amministrativi si vuole laicizzare tutto; nella disciplina civile e nella vita pubblica dei popoli si vede dileguare a mano a mano le vestigia della religione dei padri.
Ma non si riflette abbastanza dove conducano questi principi.
Poiché, tolta di mezzo l'idea della sovranità di Dio giudice e retributore del bene e del e del male, è inevitabile che perdano la loro più valida autorità le leggi, e che venga meno la giustizia; eppure sono questi i due più necessari e saldi legami della società civile.
Similmente, estinta la speranza e l'attesa dei beni eterni, s'accende necessariamente nei cuori la sete irrefrenabile dei beni terreni, e ciascuno cercherà, con tutte le sue forze, di accaparrarne quanto più può.
Quindi gare, invidie, odii; poi biechi propositi: aspirare all'abolizione di ogni potere, minacciare ovunque folli rovine.
Non tranquillità fuori, non sicurezza dentro, sconvolta da delitti la convivenza civile.
In tanto contrasto di passioni e tra si gravi pericoli, non c'è via di mezzo: o aspettarsi le peggiori catastrofi, o cercare senza indugio un valido rimedio.
Reprimere i delinquenti, ingentilire il costume delle plebi, e in ogni modo prevenire i mali mediante provvide leggi, è cosa buona e necessaria; ma non sta tutto qui.
Più in alto bisogna cercare il risanamento dei popoli: conviene chiamare in soccorso una forza superiore a quella umana, la quale tocchi direttamente le anime e, rigenerandole alla coscienza del dovere, le renda migliori, vogliamo dire quella forza medesima che da ben più disperate condizioni trasse altra volta in salvo la famiglia umana.
Fate sì che in grembo al civile consorzio rifiorisca lo spirito cristiano, dategli agio di svilupparsi libero da ostacoli, e il civile consorzio ne sarà ristorato.
Taceranno le lotte di classe, e il rispetto reciproco sarà garanzia a ciascuna dei propri diritti.
Se ascoltano Cristo, osserveranno pure il loro dovere sia i ricchi sia i poveri; quelli comprenderanno che debbono cercare la salute nella giustizia e nella carità, questi nella temperanza e nella moderazione.
Perfetto sarà l'ordinamento della società domestica, quando sia governata dal salutare timore di Dio, suo legislatore supremo.
E per lo stesso motivo parleranno forte al cuore dei popoli quei precetti morali, inculcati pur dalla natura: rispettare i poteri legittimi, obbedire alle leggi, non ordire sedizioni né partecipare a cospirazioni settarie.
E così, dove regna sovrana la legge di Cristo, vige inalterato l'ordine stabilito dalla divina provvidenza donde germogliano incolumità e benessere.
È questo dunque il grido della comune salvezza: ritorni la universale comunanza civile, e anche ognuno in particolare, là donde conveniva non allontanarsi mai, a Colui, cioè, che è via e verità e vita.
Bisogna reintegrare nel suo dominio Cristo signore, e far si che quella vita, di cui egli è fonte, rifluisca ad irrigare copiosamente e rinsanguare tutte le parti dell'organismo sociale, i dettati delle leggi, le istituzioni nazionali, le università, la famiglia e il diritto matrimoniale, le corti dei grandi, le officine degli operai.
E si ponga ben mente che da ciò sommamente dipende quella civiltà delle nazioni che con tanto ardore si cerca, poiché essa si alimenta e matura non tanto di quelle cose che s'attengono alla materia, come le comodità della vita e l'abbondanza dei beni terreni, ma piuttosto di quelle, che sono proprie dell'anima, i lodevoli costumi e il culto della virtù.
Molti sono lontani da Gesù Cristo per ignoranza, più che per cattiva volontà; molti sono infatti coloro che si dedicano a studiare l'uomo, a studiare il mondo, ma pochissimi sono coloro che cercano di conoscere il Figlio di Dio.
Prima di tutto, dunque, si vinca l'ignoranza con la conoscenza, così che non si ripudi né si disprezzi uno che non si conosce.
Noi scongiuriamo tutti i cristiani, quanti e dovunque sono, di fare il possibile per conoscere il loro Redentore, quale veramente egli è.
Quando avranno fissato in lui con sincerità e senza preconcetti lo sguardo, subito vedranno chiaro, che non può esservi nulla più salutare della sua legge, né più divino della sua dottrina.
Per raggiungere questo scopo riuscirà particolarmente efficace l'autorità e l'opera vostra, venerabili fratelli, come pure lo zelo e la Sollecitudine di tutto il clero.
Ritenete come parte essenziale del vostro ufficio, scolpire nelle menti dei popoli il concetto vero, la nitida immagine di Gesù Cristo, e far bene conoscere la sua carità, i suoi benefici, i suoi insegnamenti con gli scritti, con la parola, nelle scuole elementari e nelle superiori, nella predicazione, ovunque se ne presenti l'occasione.
Molto si è parlato alle folle circa quelli che sono definiti "i diritti dell'uomo"; si parli loro anche dei diritti di Dio.
Che questo sia il tempo propizio per fare ciò, ne è prova l'amore del bene ridestatosi in molti, come dicemmo, e, specialmente questa pietà verso il Redentore, manifestatasi in tante forme: pietà che, quale auspicio di tempi migliori, stiamo per consegnare in eredità, se piace a Dio, al secolo che sta per sorgere.
Ma poiché si tratta di cosa che possiamo sperare soltanto dalla grazia divina, congiunti nello zelo comune e nella preghiera, supplichiamo Dio onnipotente che voglia piegarsi a misericordia.
Non permetta che periscano coloro, che egli stesso ha liberato, con l'effusione del suo sangue, Guardi propizio a questo secolo che, è vero, molto peccò, ma molto anche sofferse in espiazione dei suoi errori; e, abbracciando amorosamente gli uomini di ogni nazione e di ogni stirpe, si ricordi della sua parola: "E io, quando sarò innalzato da terra, trarrò tutto a me" ( Gv 12,32 ).
Quale auspicio dei divini favori, e come espressione della Nostra paterna benevolenza, a voi, venerabili fratelli, al clero e al popolo vostro, di tutto cuore, impartiamo nel Signore l'apostolica benedizione.
Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1900, anno XXIII del Nostro pontificato.
Leone XIII