Cantico spirituale Manoscritto B |
1 - Come un cervo ferito il quale, se intossicato da un'erba, non trova riposo ma corre da ogni parte in cerca di qualche rimedio, ora tuffandosi in un ruscello ora in un altro e nonostante gli sforzi che fa e i farmachi che prende, sente crescere sempre più la forza del veleno finché questo non si impossessa del suo cuore e lo uccide, così accade all'anima di cui stiamo parlando, toccata dall'erba dell'amore.
Ella incessantemente va in cerca di qualche rimedio al suo dolore e non solo non lo trova, ma tutto ciò che pensa, dice e opera serve ad aumentarlo.
Si accorge quindi che per lei non vi può essere altra medicina all'infuori di quella di mettersi nelle mani di Dio affinché Egli, togliendola dalle sofferenze, finisca davvero di ucciderla con la forza del suo amore.
Rivolgendosi dunque allo Sposo, che è la causa di tutto questo dolore, dice la strofa seguente:
Dopo aver piagato
questo mio cuor, perché non lo sanasti?
Giacché me l'hai rubato,
perché così il lasciasti,
senza prender con te quel che rubasti?
2 - In questa strofa l'anima torna a parlare con l'Amato lamentandosi ancora del suo dolore poiché l'amore impaziente, quale ella dimostra di avere, non concede alcun riposo alla sua pena; espone quindi in ogni modo le sue ansie finché non trova rimedio.
L'anima dunque vedendosi piagata e sola senza altro rimedio e medicina ad eccezione del suo Amato, cioè colui che l'ha ferita, si rivolge a Lui chiedendogli per quale motivo, dopo averle piagato il cuore con l'amore della sua notizia, non glielo abbia poi risanato con la sua presenza.
Dal momento poi che glielo ha anche rubato per mezzo dell'amore con cui l'ha innamorata, strappandolo al suo potere, gli chiede anche perché glielo ha lasciato così, ossia sottratto al suo potere ( infatti chi ama non è più padrone del suo cuore, poiché l'ha dato alla persona amata ) e non l'ha collocato veramente nel suo, prendendolo per sé nell'intera e perfetta trasformazione di amore nella gloria.
Perciò dice:
Dopo aver piagato
questo mio cuor, perché non lo sanasti?
3 - L'anima non si lamenta di essere stata piagata, poiché la persona innamorata è tanto più contenta quanto più è ferita, ma del fatto che lo Sposo, avendole piagato il cuore, non l'ha risanato, finendo di ucciderla.
Le ferite di amore sono così dolci e gustose che non possono soddisfare l'anima, se non la conducono a morte; le sono però tanto gustose che ella desidera che esse la piaghino in maniera tale da toglierle la vita.
Per questo ella dice: Dopo aver piagato - questo mio cuor, perché non lo sanasti? quasi dicesse: Se tu l'hai ferito fino a piagarlo, perché dunque non lo risani, facendolo morire di amore?
Poiché tu hai causato la piaga nella pena di amore, sii anche la causa della salute nella morte di amore, così il cuore piagato dal dolore della tua lontananza, risanerà con il diletto glorioso della tua dolce presenza.
E soggiunge:
Giacché me l'hai rubato,
perché così il lasciasti?
4 - Rubare è l'atto mediante cui il ladro toglie la roba al padrone e se ne impossessa.
L'anima quindi ora si lamenta con l'Amato chiedendogli per qual ragione, dopo averle rubato il cuore sottraendolo al suo potere, l'ha lasciato sospeso, senza farlo passare davvero in suo possesso, come fa il ladro il quale di fatto porta via con sé gli oggetti rubati.
5 - Si afferma che all'innamorato è stato rubato il cuore dalla persona amata, perché ormai lo tiene fuori di sé nella cosa che ama, per cui non lo ha più per sé, ma per l'amato.
Da ciò l'anima potrà conoscere molto bene se ama puramente Dio; se infatti lo ama, non avrà più il cuore per sé stessa, né avrà di mira il proprio gusto e la propria capacità, ma solo l'onore e la gloria di Dio, cercando di piacere a Lui, poiché quanto più riserba il cuore per sé, tanto meno lo possiede per il Signore.
6 - Che il cuore sia stato ben rubato da Dio, si può vedere osservando se l'anima prova ansie per l'Amato, senza godere di altra cosa all'infuori di Lui, come fa capire qui.
La ragione va ricercata nel fatto che il cuore non può stare in pace e in riposo se non possiede qualche cosa per cui, quando è assai affezionato, non ha più il possesso né di sé, né di alcun'altra cosa; se poi non possiede perfettamente neppure ciò che ama, non può essere esente da un dolore conforme alla mancanza finché non lo possiede.
Infatti fino a questo punto, l'anima è come un vaso vuoto in attesa di essere riempito, come un affamato che desidera il cibo, come un infermo che sospira per la salute e come chi sta sospeso in aria e privo di un sostegno a cui appoggiarsi.
Tale è la condizione del cuore veramente innamorato.
L'anima dunque, sentendo ciò per esperienza, esclama: perché così il lasciasti? vale a dire, perché lo lasciasti vuoto, affamato, solo, piagato e infermo di amore, sospeso in aria,
senza prender con te quel che rubasti?
7 - vale a dire: perché non prendi il cuore che rubasti per amore, per riempirlo, sfamarlo, accompagnarlo e sanarlo dandogli sede e riposo pieno in te?
L'anima innamorata, per quanta sia la sua somiglianza con l'Amato, desidera necessariamente la ricompensa del suo amore, ricompensa per la quale ella serve l'Amato, poiché altrimenti il suo non sarebbe vero amore.
Tale ricompensa, senza che l'anima possa desiderare altro, consiste solo in un amore sempre maggiore fino a raggiungerne la perfezione.
L'amore infatti ricompensa di sé con se stesso, secondo quanto fa capire Giobbe con queste parole parlando con le stesse ansie e lo stesso desiderio con cui si esprime l'anima: Come il servo desidera l'ombra e come il mercenario aspetta la fine della sua opera, così anch'io ho avuto i mesi vuoti e ho contato le notti dolorose e lunghe.
Se mi metto a dormire, dico: - Quando spunterà l'alba per alzarmi? -
E poi tornerò nuovamente ad attendere la sera e sarò pieno di dolore fino alle tenebre notturne ( Ct 7,2-4 ).
In tal modo l'anima che cammina ardendo di amore di Dio, ne desidera il compimento perfetto per raggiungere il pieno refrigerio.
Come il servo, fiaccato dal calore estivo, desidera il sollievo dell'ombra e come il mercenario aspetta il termine della sua opera, cosi l'anima attende la fine della sua.
C'è da notare come il profeta Giobbe non dice che il mercenario aspetta la fine « del suo lavoro », ma della « sua opera » per farci comprendere quanto andiamo dicendo e cioè che l'anima amante non aspetta la fine del suo lavoro, ma quella della sua opera.
Infatti la sua opera è quella di amare, opera della quale attende il termine, che è la perfezione completa dell'amore di Dio.
Finché non ha raggiunta questa meta, l'anima si trova nelle condizioni descritte nel testo di Giobbe, stimando vuoti i giorni e i mesi, dolorose e lunghe le notti.
Da quanto è stato detto si capisce come l'anima che ama Dio, per il suo servizio, non deve volere né sperare da Lui altra ricompensa all'infuori di quella della perfezione dell'amore divino.
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