Vita seconda |
La contemplazione del Creatore nelle creature
[750] 165. Desiderando questo felice viandante uscire presto dal mondo, come da un esilio di passaggio, trovava non piccolo aiuto nelle cose che sono nel mondo stesso.
Infatti si serviva di esso come di un campo di battaglia contro le potenze delle tenebre, e nei riguardi di Dio come di uno specchio tersissimo della sua bontà.
In ogni opera loda l'Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore.
Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la ragione che le vivifica.
Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per lui è buono sale un grido: « Chi ci ha creati è infinitamente buono ».
Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono.
Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una devozione quale non si è mai udita, parlando loro del Signore ed esortandoli alla sua lode.
Ha riguardo per le lucerne, lampade e candele, e non vuole spegnerne di sua mano lo splendore, simbolo della Luce eterna.
Cammina con riverenza sulle pietre, per riguardo a colui, che è detto Pietra.
E dovendo recitare il versetto, che dice: Sulla pietra mi hai innalzato, muta così le parole per maggiore rispetto: « Sotto i piedi della Pietra tu mi hai innalzato ».
Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l'albero, perché possa gettare nuovi germogli.
E ordina che l'ortolano lasci incolti i confini attorno all'orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato.
Vuole pure che nell'orto un'aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino a chi li osserva il ricordo della soavità eterna.
Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell'inverno.
Chiama col nome di fratello tutti gli animali, quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti.
Ma chi potrebbe esporre ogni cosa?
Quella Bontà « fontale », che un giorno sarà tutto in tutti, a questo Santo appariva chiaramente fin d'allora come il tutto in tutte le cose.
[751] 166. Tutte le creature da parte loro si sforzano di contraccambiare l'amore del Santo e di ripagarlo con la loro gratitudine.
Sorridono quando le accarezza, danno segni di consenso quando le interroga, obbediscono quando comanda.
Sia sufficiente qualche esempio.
[752] Al tempo della sua malattia d'occhi, trovandosi costretto a permettere che lo si curasse, viene chiamato un chirurgo, che giunge portando con sé il ferro per cauterizzare.
Ordina che sia messo nel fuoco, sino a che sia tutto arroventato.
Il Padre, per confortare il corpo già scosso dal terrore, così parla al fuoco: « Frate mio fuoco, di bellezza invidiabile fra tutte le creature, l'Altissimo ti ha creato vigoroso, bello e utile.
Sii propizio a me in quest'ora, sii cortese!, perché da gran tempo ti ho amato nel Signore.
Prego il Signore grande che ti ha creato di temperare ora il tuo calore in modo che io possa sopportare, se mi bruci con dolcezza ».
Terminata la preghiera, traccia un segno di croce sul fuoco e poi aspetta intrepido.
Il medico prende in mano il ferro incandescente e torrido, mentre i frati fuggono vinti dalla compassione.
Il Santo invece si offre pronto e sorridente al ferro.
Il cautere affonda crepitando nella carne viva, e la bruciatura si estende a poco a poco dall'orecchio al sopracciglio.
Quanto dolore gli abbia procurato il fuoco, ce lo testimoniano le parole del Santo, che lo sapeva meglio di tutti.
Infatti, quando ritornarono i frati che erano fuggiti, il Padre disse sorridendo: « Pusillanimi e di poco coraggio, perché siete fuggiti?
In verità vi dico, non ho provato né l'ardore del fuoco né alcun dolore della carne ».
E rivolto al medico: « Se la carne non è bene cauterizzata, brucia di nuovo », gli disse.
Il medico, che conosceva ben diverse reazioni in casi simili, magnificò il fatto come un miracolo di Dio: « Vi dico, frati, che oggi ho visto cose mirabili ».
A mio giudizio, il Santo era ritornato alla innocenza primitiva, e quando lo voleva, diventavano con lui miti anche gli elementi crudeli.
[753] 167. Francesco stava attraversando su una piccola barca il lago di Rieti, diretto all'eremo di Greccio e un pescatore gli fece omaggio di un uccellino acquatico, perché se ne rallegrasse nel Signore.
Il Padre lo prese con piacere e, aprendo le mani, lo invitò con bontà a volersene andare liberamente.
Ma l'uccellino rifiutò, accovacciandosi nelle sue mani come dentro a un nido.
Il Santo rimase con gli occhi alzati in preghiera e poi, dopo lungo tempo, ritornato in se stesso come da lontano, gli ordinò di riprendere senza timore la libertà di prima.
E l'uccellino, avuto il permesso con la benedizione, se ne volò via, dando col movimento del corpo segni di gioia.
[754] 168. Mentre Francesco, rifuggendo come era sua abitudine dalla vista e dalla compagnia degli uomini, si trovava in un eremo, un falco che aveva lì il suo nido strinse con lui un solenne patto di amicizia.
Ogni notte col canto e col rumore preannunciava l'ora in cui il Santo era solito svegliarsi per le lodi divine.
Cosa graditissima, perché con la grande premura che dimostrava nei suoi riguardi, riusciva a scuotere da lui ogni ritardo di pigrizia.
Quando poi il Santo era indebolito più dei solito da qualche malattia, il falco si mostrava riguardoso e non dava così presto il segnale del risveglio
Ma come fosse istruito da Dio, solo verso il mattino faceva risuonare con tocco leggero la campana della sua voce.
Non è meraviglia se le altre creature veneravano chi più di tutti amava il Signore
[755] 169. Era stata un tempo costruita una celletta su un monte, e qui il servo di Dio passò quaranta giorni in durissima penitenza.
Quando, trascorso il periodo di tempo, se ne partì, la cella rimase vuota senza che altri prendesse il suo posto, essendo il luogo isolato.
E rimase pure lì il vasetto di terra, che gli serviva per bere.
Un giorno vi si recarono alcune persone per devozione al Santo: il vaso era pieno di api, che con arte mirabile vi stavano formando le cellette dei favi.
Certamente volevano indicare la dolcezza della contemplazione, di cui si era inebriato in quel luogo il Santo di Dio.
[756] 170. Un nobile della terra di Siena mandò in regalo a Francesco ammalato un fagiano.
Il Santo lo accettò con piacere, non per desiderio di mangiarlo, ma perché, come avveniva sempre in questi casi, ne provava gioia per l'amore che aveva al Creatore.
E gli disse: « Sia lodato il nostro Creatore, frate fagiano! ».
Poi rivolto ai frati continuò: « Proviamo ora se frate fagiano vuole rimanere con noi o se preferisce ritornare ai luoghi abituali e più adatti a lui ».
Un frate, per ordine del Santo, lo portò lontano in una vigna, ma egli se ne ritornò rapidamente alla cella del Padre.
Lo fece porre una seconda volta ancora più lontano, ma ritornò con la più grande celerità alla porta della cella e, quasi facendo violenza si introdusse sotto le tonache dei frati, che erano lì sulla soglia.
Allora il Santo ordinò che fosse nutrito con cura, mentre lo abbracciava e lo vezzeggiava con dolci parole.
Vedendo ciò un medico assai devoto di Francesco lo chiese ai frati, non per mangiarlo ma voleva mantenerlo per venerazione verso il Santo.
In breve, se lo portò a casa ma il fagiano, come se fosse rimasto offeso per essere stato separato dal Santo, non volle assolutamente toccare cibo fino a che rimase lontano.
Stupito il medico glielo riportò subito e gli raccontò tutto l'accaduto.
Appena il fagiano, deposto a terra, scorse il Padre suo, abbandonò ogni tristezza e comincio a mangiare gioiosamente.
[757] 171. Alla Porziuncola, su un fico posto accanto alla cella del Santo stava una cicala, che cantava frequentemente con la soavità consueta.
Un giorno il Padre, allungando verso di lei la mano, la invitò dolcemente: « Sorella mia cicala, vieni a me! ».
Come se comprendesse, subito gli volò sulle mani, e Francesco le disse: « Canta, sorella mia cicala, e loda con gioia il Signore tuo creatore! ».
Essa obbedì senza indugio.
Cominciò a cantare e non cessò fino a quando l'uomo di Dio unì la propria lode al suo canto, e le ordinò di ritornare al suo posto.
Qui rimase di continuo per otto giorni, come se vi fosse legata.
Quando il Padre scendeva dalla cella, l'accarezzava sempre con le mani e le ordinava di cantare.
Ed essa era sempre pronta ad obbedire al suo comando.
« Diamo ormai licenza alla nostra sorella cicala - disse un giorno Francesco ai suoi compagni -.
Ci ha rallegrati abbastanza fino ad ora con la sua lode: la nostra carne non deve trovarvi un motivo di vanagloria ».
E subito avuta la sua licenza, si allontanò e non si rivide più in quel luogo.
Davanti a questi fatti, i frati rimanevano grandemente ammirati.
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