83 questioni diverse

Indice

20 - Il luogo di Dio

Dio non è in un luogo.

Infatti ciò che si trova in un luogo è racchiuso dal luogo e ciò che è racchiuso dal luogo è corpo.

Ora Dio non è corpo: dunque non si trova in un luogo.

E tuttavia, poiché è e non è in un luogo, in lui sono tutte le cose piuttosto che lui in qualche luogo.

Le cose però non sono in lui come se egli fosse un luogo, perché il luogo è nello spazio, che è occupato dalla lunghezza, dalla larghezza e dall'altezza del corpo.

Dio non è nulla di tutto questo.

Eppure tutte le cose sono in lui ed egli non è un luogo.

Tuttavia solo abusivamente si dice che il luogo di Dio è il tempio di Dio, non perché vi è contenuto, ma perché egli è presente.

Ora non si può concepire un tempio migliore dell'anima pura.

21 - Dio non è autore del male

Chiunque è l'autore di tutto ciò che esiste, soltanto dalla sua bontà dipende l'esistenza di tutto ciò che è; a lui non può assolutamente appartenere il non essere.

Tutto ciò che viene meno si allontana dall'essere e tende al non essere.

Ora l'essere e il non venir meno in alcuna parte è bene, invece il venir meno è male.

Ma colui al quale non appartiene il non essere, non è la causa del venir meno, cioè del tendere al non essere, perché è, se si può dire così, la causa dell'essere.

Dunque è soltanto causa del bene e per questo motivo egli è il sommo Bene.

Di conseguenza non è autore del male colui che è autore di tutte le cose esistenti le quali, in quanto sono, sono buone.

22 - Dio non è soggetto alla necessità

Dove non c'è indigenza, non c'è necessità; dove non c'è difetto, non c'è indigenza.

Ora a Dio non manca nulla, quindi non c'è alcuna necessità.

23 - Il Padre e il Figlio

Il casto è casto per la castità; l'eterno è eterno per l'eternità; il bello è bello per la bellezza; il buono è buono per la bontà.

Quindi anche il sapiente è sapiente per la sapienza e il simile per la somiglianza.

In due modi però si può dire casto per la castità: o perché la produce, sicché è casto per quella castità che genera e della quale è principio e causa di esistenza, oppure, in altro senso, è casto perché partecipa della castità, sicché a volte può anche non essere casto.

Lo stesso dicasi degli altri casi.

È infatti oggetto di conoscenza e di fede che anche l'anima consegua l'eternità, ma essa diventa eterna perché partecipa dell'eternità.

Dio invece non è eterno in questo modo: egli è autore dell'eternità stessa.

Ciò vale anche per la bellezza e la bontà.

Pertanto, allorché si dice che Dio è sapiente, e lo si dice per quella sapienza di cui sarebbe un delitto credere che talvolta sia stato privo o potrebbe essere privo, non è detto sapiente perché partecipa della sapienza, come l'anima che può essere o non essere sapiente, ma perché egli stesso ha generato quella sapienza, per la quale è detto sapiente.

Allo stesso modo le cose che sono o caste, o eterne, o belle, o buone, o sapienti per partecipazione hanno la possibilità, come si è detto, di non essere né caste, né eterne, né belle, né buone, né sapienti.

Ma la castità stessa, l'eternità, la bellezza, la bontà, la sapienza non sono affatto soggette o alla corruzione o, per così dire, alla temporalità, o alla deformità, o alla malizia.

Anche le cose che sono simili per partecipazione sono dunque soggette alla dissomiglianza.

La somiglianza stessa però non può assolutamente essere dissimile in alcuna parte.

Di conseguenza quando il Figlio è detto somiglianza del Padre ( poiché per partecipazione a lui sono simili tutte le cose che si assomigliano tra loro o a Dio: tale è infatti la prima specie da cui le cose ricevono, per dire così, la loro specie e forma da cui tutte sono formate ), da nessun punto di vista il Figlio può essere dissimile dal Padre.

Egli è dunque uguale al Padre, solo che uno è Figlio e l'altro Padre, cioè uno è la somiglianza e l'altro colui del quale il Figlio è la somiglianza; uno è sostanza e l'altro sostanza, da cui risulta un'unica sostanza.

Se infatti non è una sola, la somiglianza riceve la dis ( somiglianza ): ipotesi che ogni ragionamento rigoroso rifiuta.

24 - Peccato e buona azione dipendono dal libero arbitrio della volontà

Tutto ciò che avviene a caso, avviene senza riflessione; tutto ciò che avviene sconsideratamente esula dalla provvidenza.

Se dunque nel mondo succedono cose fortuite, l'universo non è regolato dalla provvidenza.

Se tutto l'universo non è guidato dalla provvidenza c'è qualche natura o sostanza che sfugge all'azione della provvidenza.

Ora tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è bene.

Bene sommo è il bene di cui partecipano tutti gli altri beni.

Ora tutto ciò che muta, poiché esiste, è bene non per se stesso, ma per partecipazione al bene immutabile.

Invece il bene immutabile, di cui partecipano tutti gli altri beni, comunque siano, è bene per se stesso senza relazione ad altro: noi lo chiamiamo anche divina provvidenza.

Dunque nel mondo niente avviene a caso.

Ammesso questo ne segue che tutto ciò che accade nel mondo, in parte dipende dall'azione divina e in parte dalla nostra volontà.

Ma Dio è di gran lunga e senza paragone migliore e più giusto di qualunque uomo pur ottimo e giustissimo.

Ora il Dio giusto che regge e governa ogni cosa non permette che qualcuno sia castigato o premiato senza che lo meriti.

Ora merita castigo il peccato, merita ricompensa la buona azione.

Ma né il peccato né la buona azione si possono giustamente imputare a chi non ha agito di propria volontà.

Il peccato e la buona azione dipendono dunque dal libero arbitrio della volontà.

25 - La croce di Cristo

La Sapienza di Dio ha assunto l'umanità per mostrarci come noi possiamo vivere rettamente.

È proprio della vita buona non temere ciò che non deve temersi.

Ora non si deve temere la morte.

Era pertanto opportuno mostrarlo con la morte di quell'Uomo che la Sapienza di Dio ha assunto.

Vi sono però degli uomini che, pur non temendo la morte, hanno in orrore un particolare genere di morte.

Ciononostante, come non bisogna temere la stessa morte, così per l'uomo che vive bene e rettamente non c'è da temere alcun genere di morte.

Ma anche questo si doveva dimostrare con la croce di quell'Uomo.

Infatti, tra tutti i generi di morte, non ce n'era uno più odioso e spaventoso di quello.

26 - La diversità dei peccati

Alcuni sono peccati di debolezza, altri di inavvertenza, altri di malizia.

La debolezza è contraria alla fortezza, l'inavvertenza alla sapienza, la malizia alla bontà.

Chi è in grado di conoscere cos'è la potenza e la sapienza di Dio ( 1 Cor 1,24 ) può discernere quali sono i peccati veniali; chi è in grado di conoscere cos'è la bontà di Dio può valutare quali peccati meritano una determinata pena sia in terra che nel secolo futuro.

E dopo aver ben valutato tutto ciò, si può giudicare, con probabilità, chi non deve essere sottoposto alla penitenza luttuosa e lacrimevole, sebbene confessi i suoi peccati, e chi invece non può sperare salvezza, a meno che non offra a Dio come sacrificio uno spirito contrito dalla penitenza.

27 - La provvidenza

Può avvenire che la divina Provvidenza punisca o salvi mediante un uomo cattivo.

L'empietà dei Giudei ha infatti soppiantato i Giudei e salvato le Genti.

Può anche accadere che la divina Provvidenza condanni o aiuti mediante un uomo buono, come dice l'Apostolo: Noi siamo per gli uni odore di vita per la vita e per gli altri odore di morte per la morte. ( 2 Cor 2,16 )

Ma poiché ogni tribolazione è castigo per gli empi e prova per i giusti - una stessa trebbiatrice, da cui prende nome la tribolazione, trita la paglia e libera il grano dalla paglia -, anche la pace e la quiete dalle molestie corporali tornano a vantaggio dei buoni e a danno dei cattivi: è la divina Provvidenza a regolare tutto questo secondo i meriti delle anime.

I buoni tuttavia non ricercano l'aiuto della tribolazione né i cattivi amano la pace.

Costoro pertanto, perché sono strumenti inconsapevoli di ciò che avviene, ricevono la ricompensa della loro malizia non della giustizia che dipende da Dio.

Allo stesso modo non viene imputato ai buoni, desiderosi di giovare, ciò che danneggia qualcuno, ma viene concesso il premio della benevolenza alla buona intenzione.

Ugualmente anche il resto della creazione, a seconda dei meriti delle anime razionali, o è percepito o è nascosto, o è dannosa o utile.

Poiché il sommo Dio governa saggiamente tutto il creato, nel mondo non c'è nessun disordine e nessuna ingiustizia, sia che noi ne siamo consapevoli o meno.

Ma l'anima peccatrice è parzialmente danneggiata: poiché a causa delle sue colpe si trova dov'è giusto che sia un tale essere e subisce quanto è giusto che subisca un tale essere, non riesce tuttavia con la sua deformità a sfigurare l'insieme del regno di Dio.

Dunque, poiché non conosciamo totalmente quanto realizza a nostro vantaggio l'ordine divino, operiamo secondo la legge con la sola buona volontà; per il resto lasciamoci guidare dalla legge, poiché la legge stessa permane immutabile e governa tutte le cose mutevoli con un perfettissimo regolamento.

Quindi gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. ( Lc 2,14 )

28 - Perché Dio ha voluto creare il mondo

Chi si domanda perché Dio ha voluto creare il mondo, cerca la causa della volontà di Dio.

Ma ogni causa è efficiente.

Ora ogni efficiente è maggiore dell'effetto prodotto.

Ma niente è maggiore della volontà di Dio.

Non c'è dunque motivo di cercarne la causa.

29 - Nell'universo esiste l'alto e il basso?

Pensate alle cose di lassù. ( Col 3,2 )

Siamo invitati a gustare le cose di lassù, cioè le cose spirituali, che non sono da intendere come se fossero innalzate negli spazi o nelle parti di questo mondo, ma a motivo della loro eccellenza, purché non attacchiamo il nostro cuore a qualche parte di questo mondo, da cui dobbiamo liberarci totalmente.

Nelle sue parti c'è l'alto e il basso.

Ma l'universo in se stesso non ha né alto né basso.

È infatti corporeo e tutto ciò che si vede è corporeo.

Ora nell'universo corporeo non c'è niente di alto e di basso.

Poiché sembra che il moto rettilineo, vale a dire quello non circolare, avviene in sei direzioni: avanti e indietro, destra e sinistra, sopra e sotto, non c'è affatto alcun motivo perché nell'universo corporeo non vi sia nulla avanti e indietro, a destra e sinistra, mentre invece sia sopra e sotto.

Ma coloro che pensano così s'ingannano, perché è difficile resistere ai sensi e all'abitudine.

Infatti non sarebbe così facile per noi capovolgere il corpo, come avviene se qualcuno volesse muoversi a testa in giù, come invece lo sarebbe muoversi da destra a sinistra o avanti e indietro.

Lasciamo pertanto da parte le parole e preoccupiamoci seriamente di comprendere con l'intelletto la questione.

30 - Tutto è stato creato per l'utilità dell'uomo?

Tra onesto e utile intercorre la stessa differenza che c'è tra godere e usare.

Sebbene con una certa sottigliezza si possa infatti sostenere che ogni onesto è utile e ogni utile è onesto, tuttavia, siccome è più appropriato e comune chiamare onesto ciò che si desidera per se stesso e utile ciò che si riferisce a qualcos'altro, noi ora parliamo secondo questa differenza, dando per scontato che onesto e utile non si oppongono affatto tra loro, poiché talvolta si ritiene, sconsideratamente e superficialmente, che siano in opposizione tra loro.

Godere si dice dunque di una cosa da cui traiamo piacere; usare si dice invece di una cosa che riferiamo ad un'altra da cui si ricava piacere.

Tutta la perversione umana, che ha anche il nome di vizio, consiste nel volere fare uso delle cose da godere e nel voler godere delle cose da usare.

Invece il retto ordine, che ha anche il nome di virtù, consiste nel godere delle cose da godere e nell'usare delle cose da usare.

Bisogna godere delle cose oneste e fare uso delle utili.

Chiamo onestà la bellezza intelligibile, detta più propriamente spirituale, e utilità la divina Provvidenza.

Per questo motivo, sebbene molte siano le cose visibili, che solo impropriamente si chiamano oneste, la stessa bellezza, per cui sono belle tutte le cose belle, non è assolutamente visibile.

Anche molte cose utili sono visibili, ma la stessa utilità, per cui tornano a nostro vantaggio le cose che giovano, e che noi chiamiamo divina Provvidenza, non è visibile.

Con il termine visibile, s'intendono, com'è noto, tutte le cose corporee.

Bisogna quindi godere delle bellezze invisibili, cioè oneste; se poi si tratta di tutte, è un'altra questione; sebbene sia forse conveniente chiamare oneste solo quelle da godere.

Bisogna invece far uso di tutte le cose utili, a seconda della necessità che si ha di ognuna.

A ragione si ritiene che anche le bestie godano del cibo e di qualsiasi soddisfazione corporea; solo l'animale dotato di ragione può invece far uso di una cosa.

Sapere infatti a che debba riferirsi una cosa non è concesso agli esseri privi di ragione e neppure agli stolti dotati di ragione.

Nessuno poi può utilizzare una cosa se ignora a che cosa debba riferirla, e nessuno può saperlo all'infuori del sapiente.

Di coloro perciò che fanno cattivo uso delle cose si dice di solito e più giustamente che ne abusano.

Il cattivo uso infatti non giova a nessuno, e ciò che non giova non è certamente utile.

Invece ciò che è utile è utile perché si usa e nessuno utilizza se non ciò che è utile; chi poi ne usa male, in realtà non ne fa uso.

La perfetta ragione dell'uomo, che si chiama virtù, si serve innanzitutto di se stessa per conoscere Dio e godere di colui dal quale è stata anche creata.

Si serve poi degli altri esseri ragionevoli in funzione della società, e degli esseri irrazionali in funzione della supremazia.

Orienta inoltre la sua vita al godimento di Dio: solo così infatti è felice.

Si serve dunque anche di se stessa e sicuramente dà inizio alla propria miseria, a causa della superbia, se si rivolge a se stessa e non a Dio.

Fa uso anche di alcuni corpi, che essa vivifica per fare del bene ( così infatti fa uso del proprio corpo ): ne accoglie alcuni e rifiuta altri in vista della salute, alcuni sopporta con pazienza, altri ordina alla giustizia, altri indaga per approfondire qualche verità; si serve anche di ciò da cui si astiene in vista della temperanza.

In tal modo si serve di tutto ciò che passa o non passa attraverso i sensi: non c'è una terza possibilità.

Giudica poi tutte le cose che utilizza.

Essa non giudica solo Dio, perché in rapporto a Dio giudica tutto il resto: di lui non fa uso, ma gode.

Dio infatti non si deve riferirlo ad altro, perché tutto ciò che si riferisce ad altro è inferiore a quello a cui viene riferito.

Non c'è niente di superiore a Dio, non dal punto di vista dello spazio, ma dell'eccellenza della sua natura.

Tutto ciò che è stato creato è dunque stato creato ad uso dell'uomo, perché la ragione, che è stata data all'uomo, fa uso di tutto giudicando di tutto.

Prima della caduta l'uomo non faceva uso delle cose da sopportare, dopo la caduta ne fa uso solo se si è convertito e, ancor prima della morte del corpo, è diventato, per quanto è possibile, amico di Dio, servendolo volentieri.

31 - Teoria di Cicerone sulla diversità e definizione delle virtù dell'anima1

1. " La virtù è un abito dell'animo conforme al modo di essere della natura e della ragione.

Conosciute quindi tutte le sue parti, sarà presa in considerazione tutta la forza della semplice onestà.

Ora la virtù consta di quattro parti: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.

La prudenza è la scienza delle cose buone, cattive e indifferenti.

Sue parti sono la memoria, l'intelligenza e la previsione.

La memoria è la facoltà dell'animo che rievoca le cose passate; l'intelligenza è la facoltà che comprende le cose presenti; la previsione è la facoltà che percepisce un evento futuro prima che accada.

La giustizia è un abito dell'animo mantenuto per l'utilità sociale, che dà a ciascuno il suo merito.

Ha origine dalla stessa natura: alcune cose poi sono diventate consuetudini per ragione di utilità; in seguito il rispetto delle leggi e la religione hanno consacrato ciò che era scaturito dalla natura e approvato dalla consuetudine.

Il diritto naturale non è originato dall'opinione, ma è radicato da una forza innata, come la religione, la pietà, la gratitudine, la punizione del male, il rispetto, la sincerità.

La religione insegna la venerazione e il culto di una natura superiore, chiamata divina.

La pietà rende ai consanguinei e alla patria un devoto servizio e una diligente venerazione.

La gratitudine conserva la memoria delle amicizie e dei benefici e la volontà di ricambiarli.

La vendetta respinge con la difesa e la repressione l'ingiuria e tutto ciò che potrebbe essere nocivo.

Il rispetto ritiene degni di onore e riverenza le persone che primeggiano per qualche dignità.

La sincerità riconosce la stabilità delle cose presenti, passate e future.

Il diritto consuetudinario invece è quello che, derivato timidamente dalla natura, è alimentato e sviluppato dall'uso, come la religione e, tra le cose menzionate precedentemente, quelle che, derivate dalla natura, noi vediamo rafforzate a motivo della consuetudine, oppure quelle che per la loro antichità sono diventate consuetudine per consenso popolare.

Di questo genere sono il patto, la parità, la sentenza.

Il patto è un accordo tra alcuni; la parità è uguaglianza per tutti; la sentenza è ciò che è stato sanzionato da un atto giudiziario nei riguardi di qualcuno o di alcuni.

Il diritto legale è codificato in un testo ed esposto al pubblico per essere osservato.

La fortezza consiste nell'affrontare i pericoli e sopportare le fatiche.

Sue parti sono: la magnanimità, la fiducia, la pazienza, la perseveranza. La magnanimità è la progettazione e l'attuazione di grandi e nobili imprese con ampia e splendida disposizione di animo.

La fiducia è la virtù per la quale, nelle cose grandi ed oneste, l'animo confida molto in se stesso con ferma speranza.

La pazienza è la sopportazione volontaria e costante delle cose ardue e difficili, per amore dell'onestà e dell'utilità.

La perseveranza è la persistenza stabile e continua di un proposito ben ponderato.

La temperanza è il dominio fermo e moderato della ragione sulle passioni e sugli altri moti sregolati dell'animo.

Sue parti sono: la continenza, la clemenza, la modestia.

Mediante la continenza la cupidigia è governata dalla ragione.

Mediante la clemenza gli animi, sedotti ed eccitati sfrenatamente dall'odio contro qualcuno, sono moderati dalla serenità.

Mediante la modestia il pudore decoroso si guadagna una limpida e solida autorità ".

2. " Tutte queste virtù sono da ricercarsi per se stesse, senza ricerca di qualche vantaggio.

Non rientra nel nostro proposito la dimostrazione di questa affermazione, né conviene alla brevità dell'insegnamento.

Sono inoltre da evitarsi per se stessi non soltanto i vizi che sono loro contrari, come l'ignavia alla fortezza e l'ingiustizia alla giustizia, ma anche quelli che sembrano simili e vicinissimi alla virtù, mentre sono molto distanti.

Così la diffidenza si oppone alla fiducia e per questo è un vizio; l'audacia invece non è contraria ma le è affine e vicina, eppure anch'essa è un vizio.

Per ogni virtù si scopre così un vizio affine o già definito con un nome preciso, come l'audacia vicina alla fiducia e l'ostinazione alla perseveranza, la superstizione prossima alla religione, oppure senza una denominazione specifica.

In quanto contrari alle cose buone, si collocano tutti questi vizi tra le cose da evitare.

Abbiamo dunque detto abbastanza di quel genere di onestà che si ricerca integralmente per se stessa.

Ora sembra doveroso trattare del genere a cui si aggiunge anche l'utilità, e che tuttavia chiamiamo onesto ".

3. " Molte sono le cose che ci attirano sia per il loro pregio che per il loro vantaggio.

In questa serie si trovano la gloria, la dignità, la grandezza, l'amicizia.

La gloria è la reputazione abituale e lodevole di qualcuno.

La dignità è l'autorità onesta di qualcuno, meritevole di rispetto, onore e riverenza.

La grandezza è la grande disponibilità di potenza o di maestà o di mezzi diversi.

L'amicizia è la benevolenza verso qualcuno, che si ama per se stesso e, da parte sua, corrisponde con identico volere.

Poiché noi qui trattiamo di pubblici affari, aggiungiamo all'amicizia i frutti, perché appaia desiderabile anche in vista di questi, e così non ci riprendano coloro i quali ritengono che noi parliamo genericamente dell'amicizia.

Anche se vi sono alcuni che credono che l'amicizia si deve ricercare solo in vista dell'utilità, vi sono che affermano che sia da ricercarsi per se stessa e altri ancora che la ricercano tanto per se stessa quanto per l'utilità.

Quale di queste opinioni sia la più vera, sarà esaminato altrove ".

32 - Può uno intendere una cosa meglio di un altro? e la comprensione di questa cosa può crescere all'infinito?

Chiunque intende una cosa diversamente da quella che è, si sbaglia; e chiunque si sbaglia non capisce dove sbaglia.

Chiunque pertanto intende una cosa diversamente da quella che è, non la capisce.

Dunque non si può comprendere nulla se non così com'è.

Capita anche a noi di capire una cosa non diversamente da quella che è, oppure di non capire assolutamente nulla, perché non la s'intende così com'è.

Non c'è dubbio pertanto che esista un'intelligenza perfetta, di cui non ci può essere un'altra più eccellente.

Di conseguenza non si può procedere all'infinito nella conoscenza di una cosa, e neppure uno può comprenderla meglio di un altro.

33 - Il timore

Nessuno dubita che l'unico motivo del timore sia il pensiero di perdere quello che amiamo dopo averlo conquistato o di non ottenere quello che si è desiderato.

Perciò chiunque sarà capace di apprezzare e possedere questa stessa mancanza di timore, che timore potrà mai avere di perdere questa condizione?

Poiché noi temiamo di perdere molte delle cose che amiamo e possediamo, le custodiamo con timore.

Nessuno però può con la paura custodire la libertà dal timore.

Ugualmente chi desidera non avere paura, anche se non vi è ancora giunto ma spera di arrivarvi, non deve temere di non conseguirlo.

Con questo timore infatti non si teme altro che lo stesso timore.

Invero ogni timore è fuga da qualcosa, ma nessuna cosa fugge da se stessa.

Dunque non si teme il timore.

Se poi qualcuno ritiene che è improprio dire che il timore teme qualcosa, poiché è piuttosto l'animo a temere a causa del timore, faccia attenzione a una cosa di facile comprensione: non c'è timore se non di un male futuro o imminente.

È necessario però che chi teme fugga qualcosa; chi invece ha paura di temere si pone in una situazione più che assurda, perché fuggendo ritrova le stesse cose che fugge.

Poiché infatti non si teme se non che accada qualcosa di male, temere che capiti di aver paura non è altro che abbracciare ciò che si respinge.

Se la cosa è contraddittoria, e lo è, non teme assolutamente chi non desidera altro che non avere paura.

Pertanto nessuno può desiderare solo questo, senza ottenerlo.

Se poi debba desiderarsi solo questo, è un'altra questione.

Chi non è paralizzato dal timore, non è sconvolto dalla cupidigia, né tormentato dalla tristezza, né sballottato dalla gioia frivola e sfrenata.

Se infatti è preso dalla cupidigia - la quale non è altro che la brama delle cose che passano - temerà necessariamente o di perderle una volta ottenute o di non riuscire ad ottenerle.

Se invece non ha paura, allora non è bramoso.

Ugualmente se è angustiato dal dolore, necessariamente è anche agitato dalla paura, poiché l'angoscia dei mali presenti è uguale alla paura dei mali imminenti.

Ma se non ha paura, non ha neppure angoscia.

Ugualmente se si rallegra sconsideratamente, si rallegra di cose che può perdere, è dunque necessario che tema di perderle.

Ma se non ha alcun timore, non si rallegra affatto sconsideratamente.

34 - Non si deve desiderare altro che essere liberati dalla paura

Se il non avere paura è un vizio, non bisogna desiderarlo.

Ma nessuno pienamente felice ha paura e nessuno al colmo della felicità si trova nel vizio.

Non avere paura non è dunque un vizio.

L'audacia invece è un vizio.

Non segue però che sia audace chiunque non ha paura, mentre chiunque è audace non ha paura.

Un cadavere non ha paura.

Poiché l'assenza di timore è comune a chi è al colmo della felicità, all'audace e al cadavere - ma chi è pienamente felice non teme per serenità d'animo, l'audace per temerarietà, il cadavere per mancanza di ogni sensibilità -, si deve desiderare di essere liberi dalla paura, perché vogliamo essere felici; ma non si deve desiderare soltanto questo, poiché non vogliamo essere audaci e insensibili.

35 - Che cosa si deve amare

1. Poiché ogni essere senza vita non teme, nessuno ci convincerà a privarci della vita per essere liberi anche dal timore.

Bisogna desiderare di vivere senza paura.

Ma poiché la vita senza timore, se è anche sprovvista d'intelligenza, non è affatto desiderabile, bisogna desiderare di vivere senza timore ma con l'intelligenza.

Bisogna amare solo questo o anche lo stesso amore? Sì, certamente, perché senza amore non si amano neppure quelle cose.

Ma se l'amore è amato in vista di altre cose da amare, è un'imprecisione dire che sia amato.

Amare infatti altro non è che desiderare una cosa per se stessa.

Si deve dunque desiderare l'amore per se stesso, per il fatto che quando manca ciò che si ama, questa mancanza è una vera miseria?

Poiché inoltre l'amore è uno slancio, e non c'è slancio se non verso qualcosa, quando cerchiamo che cosa sia da amare, cerchiamo quale sia l'oggetto verso cui conviene muoversi.

Pertanto se bisogna amare l'amore, non ogni amore è certamente da amare.

C'è infatti anche l'amore turpe, col quale l'animo si attacca alle cose inferiori a sé e che più propriamente si chiama cupidigia, ed è la radice di tutti i mali. ( 1 Tm 6,10 )

Non si deve perciò amare ciò che può essere sottratto a chi ne ama e gode.

Che cosa deve dunque amare l'amore se non ciò che non può venire a mancare finché si ama?

Questa cosa non è altro che l'identità di avere e conoscere.

Ora per l'oro e le altre cose materiali non è lo stesso avere e conoscere: perciò non si devono amare.

E poiché si può amare una cosa, senza possederla, non solo tra le cose che non sono da amarsi, come la bellezza fisica, ma anche tra quelle da amarsi, come la felicità, e poiché si può possedere una cosa anche senza amarla, come i ceppi ai piedi, è giusto domandarsi se qualcuno può non amare, quando la possiede, cioè la conosce, una cosa per cui possedere e conoscere s'identificano.

Ma poiché vediamo alcuni che, ad esempio, imparano i numeri solo per diventare ricchi o piacere agli uomini grazie a questa scienza e, una volta appresa, ad essa riferiscono quello stesso scopo che si erano prefissi quando li imparavano - per nessuna scienza il conoscere è diverso dal possedere - può succedere che qualcuno possegga qualcosa per cui conoscere e avere sono tutt'uno e tuttavia non la ami, sebbene non sia possibile possedere e conoscere perfettamente un bene che non si ama.

Chi può infatti apprezzare la grandezza di un bene di cui non gode? E non ne gode, se non l'ama.

Chi non ama, non possiede dunque ciò che si deve amare, anche se chi non possiede può amare.

Pertanto nessuno che conosce la vita beata è infelice, perché, se si deve amarla, com'è giusto, conoscerla è uguale a possederla.

2. Stando così le cose, che cos'è la vita beata se non possedere, mediante la conoscenza, qualcosa di eterno?

Eterno infatti è solo ciò di cui si è fermamente convinti che non può essere tolto a chi l'ama; l'eterno poi è lo stesso di possedere e conoscere.

L'eternità è la più eccellente di tutte le cose, e perciò non possiamo averla se non per mezzo della facoltà che ci rende superiori, cioè la mente.

Ora ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, e nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente.

Ma come la mente da sola non può conoscere, così da sola non può amare.

L'amore infatti è una tensione e noi vediamo che anche nelle altre parti dell'animo c'è un appetito il quale, se è in accordo con la mente e la ragione, permetterà di contemplare con la mente, in questa pace e tranquillità, ciò che è eterno.

L'animo deve quindi amare anche con le altre sue parti questo bene così grande che bisogna conoscere con la mente.

E poiché l'oggetto amato configura necessariamente di sé il soggetto che ama, avviene che l'eterno, amato così, renda eterna l'anima.

Di conseguenza la vita beata è in definitiva la vita eterna.

Ma qual è il bene eterno, che rende eterna l'anima, se non Dio?

Ora l'amore delle cose da amarsi si chiama più propriamente carità o dilezione.

Per questo bisogna considerare con tutte le forze della mente quel precetto tanto salutare: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, ( Mt 22,37 ) e ciò che ha detto il Signore Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. ( Gv 17,3 )

36 - Occorre alimentare la carità

1. Chiamo carità l'amore delle cose che non sono spregevoli agli occhi di chi le ama.

Esse sono l'eternità e colui che può amare la stessa eternità.

L'amore fra Dio e l'animo, si chiama giustamente carità purissima e perfetta, se non si ama nient'altro; ci piace chiamarla anche dilezione.

Ma quando Dio è amato più dell'anima, sicché l'uomo preferisce essere di Dio piuttosto che di se stesso, allora ha veramente a cuore e in sommo grado l'anima e di conseguenza il corpo, che curiamo spinti non da qualche istinto, ma prendendo solo ciò che è disponibile e offerto.

Al contrario il veleno della carità è la brama di conseguire e possedere beni materiali; suo alimento è invece la diminuzione della cupidigia e sua perfezione l'eliminazione di ogni bramosia.

Segno del suo progresso è la diminuzione del timore; segno della sua perfezione l'assenza di timore, poiché la cupidigia è la radice di tutti i mali, ( 1 Tm 6,10 ) e la carità perfetta scaccia il timore. ( 1 Gv 4,18 )

Chi dunque vuole alimentarla insista nell'eliminare la cupidigia.

La cupidigia poi è la smania di conquistare e di ottenere beni materiali.

L'inizio di questa eliminazione è il timore di Dio, l'unico che non si può temere senza amarlo.

Si tende infatti alla sapienza e non c'è nulla di più vero del detto: Inizio della sapienza è il timore del Signore. ( Sir 1,16 )

Non c'è invero nessuno che non fugga maggiormente il dolore più di quanto desideri il piacere, giacché vediamo che anche le belve più feroci sono distolte dai piaceri più forti per paura dei dolori.

Quando questo loro atteggiamento diventa un'abitudine, diciamo che sono domate e ammansite.

Perciò, poiché l'uomo ha la ragione, che, quando viene asservita per deplorevole perversione alla cupidigia, suggerisce, per liberarsi dal timore degli uomini, di poter celare quanto è stato commesso ed escogita astutissimi inganni per coprire i peccati occulti, ne deriva che gli uomini, non ancora attratti dalla bellezza della virtù, se non vengono distolti dal peccato per mezzo delle pene, che sono giustamente predicate da uomini santi e amici di Dio, e se non riconoscono che ciò che nascondono agli uomini non si può nascondere a Dio, si dominano più difficilmente delle belve.

Affinché temano Dio, bisogna convincerli che tutte le cose sono governate dalla divina Provvidenza, non tanto con ragionamenti - chi riesce a penetrarli può già scoprire la bellezza della virtù - quanto con esempi o recenti, se ve ne sono, o desunti dalla storia, specialmente da quella che, per disposizione della divina Provvidenza, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, ha ricevuto la suprema autorità della religione.

Allo stesso tempo bisogna trattare anche delle pene dei peccati e dei premi delle buone opere.

2. Quando poi ci saremo persuasi che l'abitudine a non peccare è facile, mentre prima la si riteneva gravosa, s'incomincia a gustare la dolcezza della pietà e ad apprezzare la bellezza della virtù, sicché la libertà della carità prevale sulla schiavitù del timore.

Bisogna allora persuadere i fedeli, una volta ricevuti i sacramenti della rigenerazione, i quali devono necessariamente scuoterli in profondità, sulla differenza che esiste tra i due uomini: il vecchio e il nuovo, l'esteriore e l'interiore, il terreno e il celeste, vale a dire tra colui che desidera i beni carnali e temporali e colui che desidera i beni spirituali ed eterni.

Bisogna inoltre ammonirli a non attendere da Dio benefici labili e passeggeri, di cui possono abbondare anche i cattivi, ma quelli stabili ed eterni; per ottenerli occorre disprezzare assolutamente tutte le cose che in questo mondo sono ritenute beni o mali.

A questo punto bisogna proporre l'esempio straordinario e unico dell'Uomo-Dio, il quale, pur mostrando con tanti miracoli il grande potere che aveva sulle cose, disprezzò le cose che gli ignoranti reputano grandi beni e sopportò quelle che ritengono grandi mali.

E perché nessuno sia tanto esitante ad adottare questi atteggiamenti e questo insegnamento quanto più lo ammira, bisogna mostrare, con le sue promesse ed esortazioni e la moltitudine dei suoi imitatori, Apostoli, martiri e santi innumerevoli, che non c'è motivo di disperare di realizzarli.

3. Superate le lusinghe dei piaceri carnali, bisogna stare attenti che non s'insinui e si accresca la brama di piacere agli uomini o per qualche gesto sensazionale o per un'esagerata austerità e pazienza o per qualche elargizione o per il prestigio della scienza o dell'eloquenza. In questa classe rientra anche il desiderio degli onori.

Contro tutte queste cose si proclami quanto è stato scritto a lode della carità e sulla vanità dell'orgoglio.

Bisogna anche insegnare che è vergognoso desiderare di piacere a coloro che non vuoi imitare.

Infatti o non sono buoni, e allora non c'è nulla di grande a essere lodati dai cattivi; o sono buoni e allora occorre imitarli.

Ma coloro che sono buoni, lo sono per la virtù; la virtù però non desidera quello che è in potere degli altri.

Chi dunque imita i buoni non ricerca la lode di un uomo; chi invece imita i cattivi non è degno di lode.

Se poi vuoi piacere agli uomini per aiutarli ad amare Dio, allora non desideri più questo ma ben altro.

Chi desidera piacere è ancora soggetto necessariamente al timore: prima perché, peccando di nascosto, non sia annoverato dal Signore tra gli ipocriti; poi perché, se desidera piacere per le buone azioni, dando la caccia a questa ricompensa, non perda quella che Dio darà.

4. Una volta vinta questa cupidigia, bisogna guardarsi dalla superbia.

È difficile infatti che si degni di mettersi alla pari con gli altri, chi non desidera più di piacere loro e si ritiene pieno di virtù.

Il timore è perciò ancora necessario, affinché non gli sia tolto anche quello che crede di avere ( Mt 25,29 ) e, legato mani e piedi, sia gettato fuori nelle tenebre. ( Mt 22,13 )

Perciò il timore di Dio non solo incomincia, ma porta anche a perfezione la sapienza dell'uomo che ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stesso.

Quali poi siano i pericoli e le difficoltà da temersi in questo cammino e quali i rimedi da adottare, è un'altra questione.

37 - Colui che è sempre nato

Chi è sempre nato è migliore di chi nasce sempre.

Chi nasce sempre, non è ancora nato; e se nasce sempre, non è mai nato e non sarà mai nato.

Altro infatti è nascere, altro essere nato.

Per questo non c'è mai un figlio, se non è mai nato.

Ma un figlio, poiché è nato, è sempre figlio: quindi è sempre nato.

38 - La struttura dell'anima

Una cosa è la natura, altra la scienza, altra l'attività: tutte queste cose sono però comprese in una sola anima, senza diversità di sostanza; una cosa inoltre è l'indole, altra la virtù, altra la tranquillità: anch'esse fanno parte di un'unica e medesima sostanza.

L'anima infine è sostanzialmente diversa da Dio, ancorché creata da lui, mentre Dio è la santissima Trinità, che molti conoscono a parole e pochi in realtà.

È necessario esaminare con somma diligenza ciò che dice il Signore Gesù: Nessuno viene a me se il Padre non l'avrà attirato; ( Gv 6,44 ) e: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me; ( Gv 14,6 ) e: Egli vi guiderà alla verità tutta intera. ( Gv 16,13 )

39 - Gli alimenti

Qual è quella cosa che ne prende un'altra, trasformandola? L'animale che si nutre.

Qual è la cosa che viene presa e trasformata? Il cibo.

Qual è la cosa che viene presa senza essere trasformata? La luce dagli occhi e il suono dagli orecchi.

Ma l'anima riceve queste cose mediante il corpo.

Che cosa invece ricava da se stessa e assimila a sé? Un'altra anima che, accogliendola nell'amicizia, rende simile a sé.

E che cosa ricava da se stessa, senza trasformarla? La verità.

Bisogna perciò comprendere quello che è stato detto a Pietro: Uccidi e mangia; ( At 10,13 ) e quello che è scritto nel Vangelo: E la vita era la luce degli uomini. ( Gv 1,4 )

Indice

1 De invent. 2, 53, 159 - 55, 167