La città di Dio |
Ritengo che è stato detto abbastanza nei confronti dei mali morali e spirituali i quali più degli altri si devono evitare e cioè che gli dèi falsi non si sono affatto preoccupati di aiutare il popolo che li adorava affinché non ne fosse schiacciato dal cumulo, ma si adoperarono piuttosto che ne fosse gravato al massimo.
Penso che ora si debba parlare di quei mali, i soli che i pagani non vogliono subire, come povertà, malattia, guerra, saccheggio, schiavitù, strage e altri simili di cui ho già parlato nel primo libro.
I malvagi ritengono unici mali questi che non rendono malvagi e non si vergognano di essere malvagi fra le cose che valutano come beni proprio essi che così le valutano.
Si stizziscono di più se hanno una cattiva villa che una cattiva condotta come se stimare un bene tutte le cose fuorché se stessi sia il più grande bene dell'uomo.
Eppure i loro dèi, quando ne era permesso il culto, non impedirono che accadessero loro questi mali, i soli che essi temevano.
Prima della venuta del nostro Redentore in luoghi e tempi diversi l'uman genere fu colpito da innumerevoli e alcune perfino incredibili sventure.
Eppure se si eccettuano il popolo ebraico e fuori di esso alcuni che in ogni parte della terra per occulto e giusto giudizio di Dio furono degni della grazia divina, il mondo adorava soltanto questi dèi.
Tuttavia, per non farla troppo lunga, non parlerò delle gravissime sciagure degli altri popoli nelle diverse regioni.
Parlerò soltanto, per quanto attiene a Roma e all'impero romano, cioè alla città in particolare e alle altre che in tutto il mondo furono alleate o soggette, dei mali che subirono prima della venuta di Cristo, quando appartenevano per così dire al corpo dello Stato.
Comincio da Troia o Ilio, da cui deriva la stirpe dei Romani perché non si deve tralasciare o evadere l'argomento che ho toccato anche nel primo libro.1
Se dunque Ilio aveva e onorava i medesimi dèi, perché fu vinta, saccheggiata e distrutta dai Greci?
Furono fatte pagare a Priamo, dicono, i falsi giuramenti di suo padre Laomedonte.2
Dunque è vero che Apollo e Nettuno prestarono servizio a Laomedonte come salariati?
Si narra infatti che promise loro un salario e giurò il falso.3
Mi meraviglio che Apollo presentato come divinatore faticò ad un'opera così grandiosa senza prevedere che Laomedonte non avrebbe mantenuto le promesse.
Neanche per Nettuno, suo zio paterno, fratello di Giove e re del mare, era dignitoso essere inconsapevole del futuro.
Infatti Omero che, come si dice, visse prima della fondazione di Roma, lo presenta nell'atto di divinare un glorioso avvenire alla stirpe di Enea,4 dai cui posteri è stata fondata Roma.
Lo avvolse perfino in una nube perché non fosse ucciso da Achille, sebbene bramasse distruggere dalle fondamenta, come confessa nel testo di Virgilio, le mura di Troia spergiura costruite con le proprie mani.5
Dunque dèi così grandi, come Nettuno e Apollo, senza sapere che Laomedonte avrebbe negato la paga, furono costruttori delle mura di Troia, per i grati e per gli ingrati.
Riflettano i Romani se non è più pericoloso riconoscerli come dèi che non mantenere loro le promesse giurate.
Lo credette molto probabilmente anche Omero perché presenta Nettuno che combatte contro i Troiani ed Apollo in loro favore, sebbene il mito racconti che furono ambedue offesi dal falso giuramento.
Se dunque credono ai miti, si vergognino di adorare simili divinità; e se non credono ai miti, non adducano a pretesto i giuramenti falsi di Troia o si meraviglino che gli dèi punirono gli spergiuri di Troia e amarono quelli di Roma.
Per quale ragione infatti la congiura di Catilina ebbe in uno Stato tanto grande e tanto depravato un numeroso gruppo di cittadini che l'azione e la parola nutrivano di falso giuramento o di strage civile?6
Quale altra mancanza insomma se non spergiurare commettevano i senatori, tante volte corrotti nei giudizi ed altrettante il popolo nelle votazioni e negli altri affari che si trattavano nelle sue assemblee?
A causa infatti dell'immoralità si conservava l'antico istituto del giuramento, non allo scopo di astenersi dai delitti col timore della religione, ma per aggiungere agli altri delitti anche i giuramenti falsi.
Non v'è motivo dunque perché si immagini poeticamente che gli dèi, dai quali, come dicono, fu difeso il dominio di Troia,7 fossero adirati contro i Troiani spergiuri.
È chiaro che furono vinti dai Greci più forti.
E neanche abbandonarono Troia perché erano indignati per l'adulterio di Paride, come si dice a loro difesa da alcuni.
Di solito favoriscono e insegnano i peccati, non li puniscono.
All'inizio, come io ho appreso, dice Sallustio, i Troiani che profughi sotto la guida di Enea vagavano senza meta fissa, fondarono Roma e vi si insediarono.8
Se dunque le divinità pensarono di punire l'adulterio di Paride, soprattutto nei Romani o senz'altro anche nei Romani doveva esser punito, perché pure la madre di Enea lo commise.
Con quale criterio potevano odiare in Paride quel misfatto se non odiavano nella loro compagna Venere l'atto, per tacere di altri, compiuto con Anchise, da cui aveva avuto Enea?
Forse perché uno fu compiuto malgrado lo sdegno di Menelao e l'altro con la condiscendenza di Vulcano?
Mi par proprio che gli dèi non siano gelosi delle proprie mogli al punto di accondiscendere ad averle in comune con gli uomini.
Si pensa forse che sto schernendo i miti e che non tratto con la dovuta serietà un argomento tanto importante.
Dunque, se si vuole, non crediamo che Enea fosse figlio di Venere; lo concedo se crediamo che neanche Romolo lo fu di Marte.
Se l'uno, perché non anche l'altro?
È forse ammissibile che gli dèi si uniscano a uomini femmine ed è inammissibile che uomini maschi si uniscano alle dee?
È dura e piuttosto incredibile la condizione che ciò che per diritto di Venere fu lecito a Marte nell'accoppiamento non fosse lecito nel proprio diritto alla stessa Venere.
Ma l'uno e l'altro sono stati confermati da un'autorevole letteratura romana.
Cesare a noi vicino non credette di meno di avere per antenata Venere9 di quel che l'antico Romolo credette di avere per padre Marte.
Si dirà: "E tu credi a queste fole?". No, io non ci credo.
Infatti anche Varrone, il più dotto dei Romani, lo ammette, sia pure non risolutamente e non decisamente, comunque indirettamente.
È utile, egli dice, agli Stati che gli eroi credano, anche se è falso, di essere stati generati dagli dèi.
Così l'animo umano, portatore di questa sicurezza, intraprende con maggiore audacia le grandi imprese, le continua con maggior vigore e, data questa sicurezza, le porta a termine con maggior successo.10
Questa opinione di Varrone, citata a senso, come mi è stato possibile con le mie parole, apre, come puoi vedere, una larga falla all'inganno perché ci lascia intendere che si poterono imbastire molte credenze già sacrali e quasi religiose, laddove si pensò che ai cittadini giovassero le menzogne perfino sugli dèi.
Ma lasciamo da parte se Venere poté partorire Enea dall'accoppiamento con Anchise o Marte generare Romolo dall'accoppiamento con la figlia di Numitore.
In definitiva un problema analogo si rileva anche dalle nostre Scritture, se cioè gli angeli prevaricatori si fossero accoppiati con le figlie dell'uomo.
La terra così si popolò di giganti, cioè di grandissimi eroi che nacquero da quell'accoppiamento. ( Gen 6,2-4 )
Quindi per adesso la nostra discussione può riferirsi all'uno e all'altro caso.
Se dunque sono veri i fatti che nei loro scrittori si leggono della madre di Enea e del padre di Romolo, per quale motivo potrebbero dispiacere agli dèi gli adulteri degli uomini, quando li sopportano in tutta pace in se stessi?
Se poi sono falsi, neanche in tal caso possono adirarsi contro i veri adulteri umani, giacché si compiacciono dei propri adulteri immaginari.
Si aggiunge che se non si presta fede all'adulterio per quanto riguarda Marte, allo scopo di non credere neanche quello di Venere, non si può difendere la posizione della madre di Romolo col pretesto dell'accoppiamento col dio.
Era una vestale e perciò gli dèi avrebbero dovuto punire più severamente contro i Romani il misfatto sacrilego che contro i Troiani l'adulterio di Paride.
Infatti gli antichi Romani sotterravano vive le sacerdotesse di Vesta sorprese nel disonore e invece non condannavano alla pena di morte, ma ad altre pene, le donne adultere.
Con maggiore severità appunto proteggevano quelli che ritenevano i santuari del dio che il talamo dell'uomo.
Aggiungo un'altra considerazione.
Se a quelle divinità dispiacevano i peccati degli uomini al punto di abbandonare Troia alla strage e all'incendio per l'episodio dell'odiato Paride, l'uccisione del fratello di Romolo li avrebbe irritati contro i Romani più gravemente che contro i Troiani il disonore di un marito greco.
Li avrebbe irritati di più il fratricidio di una città che sorgeva dell'adulterio di una città che già dominava.
E non attiene all'argomento trattato se Romolo comandò di compiere il delitto o se lo compì di propria mano.
Molti per sfrontatezza negano il fatto, molti ne dubitano per vergogna, molti non ne parlano per la pena.
Ed anche io non voglio trattenermi a investigare accuratamente il fatto attraverso l'esame delle testimonianze di molti scrittori.
È noto a tutti che il fratello di Romolo fu ucciso, non da nemici, non da estranei.
Se Romolo compì o comandò il delitto, si pensi che egli era il capo dei Romani a maggior diritto di quel che lo fosse Paride dei Troiani.
Perché dunque uno, rapitore della moglie altrui, provocò l'ira degli dèi contro i Troiani, e l'altro, uccisore del proprio fratello, attirò la protezione dei medesimi dèi sui Romani?
Se poi il delitto fu estraneo all'azione e al comando di Romolo, dato che doveva essere punito, tutta la città ne fu responsabile perché non lo punì e per di più non uccise un fratello ma il padre, che è peggio.
Tutti e due infatti furono fondatori ma ad uno non fu consentito di essere re, perché eliminato da un delitto.
Non v'è motivo di chiedersi, come penso, quale colpa commise Troia perché gli dèi l'abbandonassero per farla distruggere e quale opera buona compì Roma perché gli dèi la facessero propria dimora per farla prosperare.
Questo soltanto c'è, che essendo stati vinti si trasferirono presso i Romani per ingannarli comunque.
Anzi rimasero anche a Troia per ingannare, come al solito, i nuovi abitanti di quelle regioni e a Roma riscossero gloria con grandi onoranze esercitando anche più largamente le arti del loro inganno.
Quando poi le guerre civili erano già scoppiate, quale colpa aveva commesso Ilio perché fosse devastata da Fimbria, malvagio individuo del partito di Mario, con più spietata ferocia che in passato dai Greci?
Almeno allora molti poterono fuggire dalla città ed alcuni, fatti prigionieri, sia pure in schiavitù, ebbero salva la vita.
Invece Fimbria promulgò in precedenza un editto di non risparmiare alcuno e fece bruciare tutta la città e tutti i suoi abitanti.
Questo trattamento si meritò Troia non dai Greci che aveva irritato col proprio misfatto ma dai Romani ai quali aveva dato origine con la propria distruzione.
Eppure avevano i medesimi dèi che non l'aiutarono affatto ad evitare queste sventure o meglio, e questa è la verità, non ne erano capaci.
Ma anche allora abbandonati templi e altari, si allontanarono tutti gli dèi11 da cui era stata difesa quella città ricostruita dopo l'antico incendio e distruzione?
E se si erano allontanati, ne chiedo la giustificazione e trovo che quanto è più buona quella degli abitanti, tanto è meno buona quella degli dèi.
Gli abitanti infatti avevano chiuso le porte a Fimbria per mantenere fedele a Silla la cittadinanza e per questo Fimbria adirato l'incendiò o meglio la rase al suolo.
Silla era in quel tempo il capo del partito nobile, si accingeva allora a riordinare con le armi lo Stato, non aveva ancora dato i cattivi risultati di questi buoni inizi.
Che cosa dunque di meglio, di più onesto e leale e di più degno della madre patria romana avrebbero potuto fare gli abitanti di quella città che conservare la cittadinanza alla più giusta causa dei Romani e chiudere le porte all'assassino dello Stato romano?
Ma i difensori degli dèi pensino che quel gesto si cambiò per loro in una immane catastrofe.
Gli dèi avrebbero abbandonato gli adulteri e consegnato Troia al fuoco dei Greci perché dalle sue ceneri nascesse una Roma più casta.
E allora perché hanno lasciato la medesima città, che è della stirpe dei Romani, nobile figlia che non si ribellava contro Roma ma manteneva la più costante e doverosa fedeltà al partito più legittimo e l'abbandonarono al saccheggio non degli eroi della Grecia ma del più lurido individuo di Roma?
Ovvero poniamo che dispiacesse agli dèi l'adesione al partito di Silla, giacché per mantenere fedele la città a lui quegli sventurati avevano chiuse le porte.
E allora perché essi promettevano e preannunciavano tante vittorie al medesimo Silla?
Oppure anche in questo caso si fanno conoscere come adulatori dei fortunati anziché difensori degli sventurati.
Dunque anche nei tempi antichi Troia non fu distrutta perché abbandonata da loro.
I demoni sempre vigili all'inganno hanno fatto ciò che hanno potuto.
Distrutte infatti e incendiate tutte le statue assieme alla città, si tramanda, come Livio,12 che rimase intatta soltanto quella di Minerva nonostante la distruzione del suo tempio.
E questo non perché si dicesse a loro lode: Gli dèi della patria sotto la cui protezione Troia è continuamente,13 ma perché non si dicesse a loro difesa: Abbandonati templi e altari, si sono allontanati tutti gli dèi.
Fu infatti permesso loro di avere potere su quel fatto, non perché da esso si confermasse la loro potenza ma perché da esso si evidenziasse la loro presenza.
Con quale prudenza infine, dopo la lezione della stessa Troia, si è affidata la difesa di Roma agli dèi di Troia?
Un tizio potrebbe rispondere che di solito risiedevano a Roma quando Troia cadde nel saccheggio di Fimbria.
E allora perché rimase in piedi la statua di Minerva?
Poi se erano a Roma quando Fimbria distrusse Troia, forse erano a Troia quando Roma stessa fu presa e saccheggiata dai Galli; ma siccome sono finissimi nell'udire e velocissimi nello spostarsi, rientrarono subito allo strepito delle oche per difendere almeno il colle capitolino che non era stato preso; del resto erano stati avvertiti troppo tardi per difendere le altre parti.
Si crede che gli dèi abbiano aiutato anche Numa Pompilio, successore di Romolo, ad avere pace in tutto il periodo del suo regno e a chiudere le porte del tempio di Giano che di solito sono aperte in guerra, per quel titolo, cioè, che egli istituì molti misteri per Roma.14
Ci si deve invece felicitare con quell'uomo per un così lungo periodo di pace, se pure avesse saputo impiegarlo per attività vantaggiose e, disprezzata una dannosa curiosità, avesse cercato con vera pietà il vero Dio.
Ora non gli dèi gli accordarono quel periodo di pace, ma forse lo avrebbero ingannato di meno, se non lo avessero trovato inattivo.
Quanto lo trovarono meno occupato, tanto più essi lo occuparono.
Infatti ciò che egli istituì e con quali mezzi poté associare a sé e alla cittadinanza tali dèi ce lo narra Varrone.15
Se ne parlerà, se il Signore vorrà, più accuratamente a suo luogo.16
Ora l'argomento riguarda i favori degli dèi.
Certamente la pace è un grande beneficio, ma è un beneficio del Dio vero, concesso il più delle volte, come il sole, la pioggia e le altre necessità della vita agli ingrati e ai malvagi.
Ma se gli dèi hanno concesso a Roma o a Pompilio un bene così grande, perché in seguito non l'hanno mai più accordato all'impero romano anche in periodi di grande dignità morale?
Forse che erano più utili i misteri quando venivano istituiti che quando già istituiti venivano compiuti?
Al contrario, in quei tempi non c'erano ancora, ma venivano aggiunti perché ci fossero; in seguito c'erano già, ma venivano conservati perché giovassero.
Ma che discorso è questo? Sono trascorsi in una lunga pace sotto il regno di Numa quarantatré, o come vogliono altri, trentanove anni.17
In seguito, dopo l'istituzione dei misteri e sotto la protezione e la tutela degli dèi stessi, che erano stati invitati a quelle celebrazioni, per lunghi anni, dalla fondazione di Roma fino ad Augusto, si considera come fatto meraviglioso un solo anno dopo la prima guerra punica in cui i Romani poterono chiudere le porte della guerra.
Rispondono forse che l'impero romano non si potrebbe incrementare da ogni parte ed essere celebrato con sì grande gloria se non mediante continue guerre che si succedono ininterrottamente?
Bella giustificazione! Per essere grande, perché l'impero dovrebbe essere senza pace?
Non è forse preferibile nella fisiologia umana avere una piccola statura con buona salute che giungere a una mole gigantesca con continue disfunzioni e, una volta che l'hai raggiunta, non esser sano ma essere afflitto da malattie tanto più grandi quanto più grandi sono le membra?
Cosa ci sarebbe di male e non piuttosto molto di bene se persistessero i tempi antichi?
Sallustio li ha compendiati con queste parole: Dunque all'inizio i re ( questa dapprima fu nella regione la denominazione del potere ) furono diversi; alcuni esercitavano la mente, altri il corpo; allora la vita umana si menava senza desiderio smodato; a ciascuno bastavano le proprie cose.18
Forse perché si allargasse un dominio tanto esteso doveva avvenire ciò che Virgilio denunzia?
Egli dice: Fino a che un po' alla volta sopravvennero un periodo deteriore e degenere, la violenza della guerra e l'amore del possedere.19
Ma, dicono, i Romani hanno una giustificazione per le grandi guerre intraprese e condotte a termine, giacché li costringeva a resistere ai nemici che li aggredivano con la violenza non il desiderio smodato della lode umana ma la necessità di difendere la sopravvivenza e la libertà.
E sia pure così. Infatti dopo che la società, come scrive lo stesso Sallustio, rafforzatasi con le leggi, le istituzioni e i possedimenti sembrava abbastanza prospera e abbastanza fiorente, come avviene per la maggior parte delle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia.
Quindi i re e i popoli vicini cominciarono ad attaccare con la guerra; pochi fra gli amici erano di aiuto, poiché i più per paura si tenevano lontani dai pericoli.
Ma i Romani attivi in pace e in guerra si affaccendavano, preparavano, si esortavano a vicenda, fronteggiavano i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia.
Poi appena avevano con il valore allontanato i pericoli, portavano aiuto agli amici alleati e si cattivavano le amicizie più col fare che col ricevere i favori.20
Roma si accrebbe convenientemente mediante questa tecnica.
Ma sotto il regno di Numa i nemici aggredivano egualmente e attaccavano con la guerra perché si avesse una pace così lunga, ovvero non si compiva alcuna azione militare perché la pace potesse continuare?
Se infatti anche in quel tempo Roma era provocata con guerre e non si resisteva alle armi con le armi, i sistemi usati per tenere quieti i nemici, sebbene non sconfitti in combattimento e non atterriti dalla violenza di Marte, si dovevano usare per sempre e Roma avrebbe dominato sempre tranquilla con le porte di Giano chiuse.
Che se questo stato di cose non fu in suo potere, dunque Roma non ebbe la pace fino a che lo vollero i suoi dèi ma fino a che lo vollero i circonvicini che non li attaccarono con la guerra; a meno che simili dèi non si arroghino di vendere a un uomo ciò che un altro ha voluto o non voluto.
Importa infatti fino a qual punto sia concesso a questi demoni di atterrire o stimolare le cattive volontà con la propria perversità.
Se sempre lo potessero e per un occulto superiore potere non si avesse, in opposizione al loro tentativo, un effetto diverso, avrebbero sempre in loro potere le paci e le vittorie militari che quasi sempre avvengono mediante determinazioni dell'animo umano.
Tuttavia che questi fatti avvengono contro le disposizioni degli uomini lo ammettono non solo le favole che falsano molte cose e indicano o significano appena qualche cosa di vero, ma anche la stessa storia romana.
Non per altro potere l'Apollo di Cuma, come si venne a sapere, pianse per quattro giorni mentre si combatteva la guerra contro gli Achei e re Aristonico.21
Gli aruspici atterriti dal prodigio ritennero che la statua si dovesse gettare in mare.
I maggiorenti di Cuma s'interposero informando che un prodigio simile si era verificato nella medesima statua anche durante la guerra contro Antioco e in quella contro Perseo e poiché si ebbe un esito felice per i Romani attestarono che per delibera del senato erano stati mandati doni al loro Apollo.
Allora gli aruspici convocati diedero, come più esperti, il responso che il pianto della statua di Apollo era di buon auspicio per i Romani perché la colonia cumana era greca e il pianto di Apollo significava lutto e sconfitta per la regione, da cui era stato importato, cioè per la stessa Grecia.
Subito dopo si ebbe la notizia che re Aristonico era stato vinto e fatto prigioniero e Apollo non voleva certamente che fosse vinto, se ne doleva e lo dava a vedere perfino con le lacrime della propria statua.
E per questo non del tutto a sproposito il comportamento dei demoni viene descritto nelle composizioni verosimili, sebbene mitiche, dei poeti.
Infatti in Virgilio Diana provò dolore per Camilla, ed Ercole pianse per Pallante che stava per morire.22
Forse per questo Numa Pompilio, sovraccarico di pace, ma non sapendo e non domandandosi chi è che la dava, pensò nella sua inoperosità a quali dèi affidare la difesa della salvezza e del regno di Roma.
Non sapeva che l'unico vero onnipotente sommo Dio provvede alle cose del mondo.
Rifletteva inoltre che gli dèi di Troia importati da Enea non avrebbero potuto conservare a lungo il regno di Troia e di Lavinio fondato dallo stesso Enea.
Ritenne opportuno allora di procacciarsi altri dèi da usare o come custodi dei fuggitivi o come difensori degli invalidi oltre ai primi che erano passati a Roma con Romolo o che sarebbero passati in seguito con la distruzione di Alba.
Tuttavia Roma non si degnò di essere contenta dei molti culti religiosi che vi istituì Pompilio.
Non aveva ancora il grandissimo tempio di Giove; fu re Tarquinio a costruire il Campidoglio.23
Esculapio venne da Epidauro a Roma24 allo scopo di esercitare, come medico espertissimo, la sua arte con gloria maggiore nella città più illustre.
Venne da Pessinunte anche la madre degli dèi non saprei da quale stirpe;25 era indegno infatti che quando già suo figlio dominava sul colle capitolino, lei fosse ancora nascosta in una località poco conosciuta.
Tuttavia se è madre di tutti gli dèi, non solo è venuta a Roma dopo alcuni suoi figli ma ne ha preceduti altri che l'avrebbero seguita.
Mi fa un po' meraviglia che proprio lei abbia partorito Cinocefalo perché questi venne dall'Egitto molto più tardi.
Se poi anche la dea Febbre è nata da lei, lo decida Esculapio, suo pronipote; ma da qualunque connubio sia nata, gli dèi stranieri non oseranno, penso, considerare oscura una dea cittadina romana.
Dunque Roma fu posta sotto il patrocinio di tanti dèi.
E chi potrebbe contarli? Indigeni e stranieri, celesti e terrestri, sotterranei e marini, delle fonti e dei fiumi e, come dice Varrone, legittimi e spuri, e di tutti i tipi di dèi maschi e femmine come negli animali.26
Roma dunque posta sotto la protezione di tanti dèi non avrebbe dovuto essere duramente colpita dalle grandi e orribili sventure, come quelle che fra tante citerò in seguito.
Col fumo della sua grandezza come con un segnale aveva radunato troppi dèi a difesa.
Istituendo e offrendo ad essi templi, altari, sacrifici e sacerdoti offendeva il sommo vero Dio a cui soltanto si devono questi onori debitamente compiuti.
Ed era più felice finché visse con un numero minore di essi; ma quanto maggiore divenne, come una nave più grande che imbarca più marinai, pensò di dover procurarsene di più.
Non si fidava, credo, che quei pochi con i quali aveva tenuto una condotta abbastanza onesta, se confrontata con una moralità più bassa, fossero sufficienti a soccorrere la sua grandezza.
Dapprima infatti sotto gli stessi re, eccetto Numa Pompilio di cui ho parlato dianzi, vi fu il grande male della lotta dovuta alla discordia che indusse a far uccidere il fratello di Romolo.
Indice |
1 | 1, 3-4 |
2 | Virgilio, Aen. 4, 542; Georg. 1, 502 |
3 | Omero, Il. 21, 441-457; Orazio, Odi 3, 3, 21; Arnobio, Adv. nat. 4, 25 |
4 | Omero, Il. 20, 302ss |
5 | Virgilio, Aen. 5, 810-811 |
6 | Sallustio, Catil. 14, 1-3 |
7 | Virgilio, Aen. 2, 352 |
8 | Sallustio, Catil. 6, 1 |
9 | Giulio Cesare, Laud. Iuliae amit., fr. 7, in Svetonio, Vitae, Iul. 6 |
10 | Varrone, Append. op. hist., fr. 134 (solo in Agostino) |
11 | Virgilio, Aen. 2, 351-352 |
12 | Livio, Ab Urbe cond., fr. 20; Giulio Ossequente, De prod. 56b |
13 | Virgilio, Aen. 1, 702-703 |
14 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 20; Cicerone, De rep. 2, 14, 26 |
15 | Varrone, Antiq., fr. 178 (solo in Agostino) |
16 | Cf. 7, 34 |
17 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 21, 6; Eutropio, Brev. 1, 3; Cicerone, De rep. 2, 14, 27 |
18 | Sallustio, Catil. 2, 1 |
19 | Virgilio, Aen. 8, 326-327 |
20 | Sallustio, Catil. 6, 3-5 |
21 | Giulio Ossequiente, De prod. 28; Cicerone, De div. 43, 98 |
22 | Virgilio, Aen. 11, 836-849; 10, 464-465 |
23 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 55, 1 |
24 | Livio, Ab Urbe cond. 10, 47, 7; Per. 11 |
25 | Livio, Ab Urbe cond. 29, 10, 5 - 11, 7 |
26 | Varrone, Antiq., frr. 185. 194; Tertulliano, Ad nat. 2, 9, 3. 12, 2; Arnobio, Adv. nat. 7, 19-20 |