La città di Dio |
E come mai neanche Giunone, che col suo Giove ormai favoriva i Romani padroni del mondo e gente togata,27 e Venere stessa non riuscì ad aiutare i discendenti del suo Enea affinché i matrimoni si ottenessero con una legittima e giusta istituzione?
La sventura della mancanza di donne fu così grande che le rapirono con l'inganno e furono costretti immediatamente a combattere contro i suoceri.
Così le sventurate donne, non ancora unite ai mariti mediante un'ingiustizia, ricevevano in dote il sangue dei padri.28
Ma, obiettano, in questo conflitto i Romani vinsero i loro vicini.
Simili vittorie, rispondo, risultarono di molte e grandi ferite e morti dall'una e dall'altra parte, tanto dei cittadini che dei confinanti.
Considerando la colpa del solo suocero Cesare e del solo suo genero Pompeo, dopo la morte della figlia di Cesare e moglie di Pompeo, con grande e giusto impulso di dolore Lucano esclama: Canto le guerre peggiori di quelle civili per i campi della Tessaglia e il diritto accordato alla scelleratezza.29
Vinsero dunque i Romani ma per costringere con le mani insanguinate nell'uccisione dei suoceri le loro figlie a deplorevoli amplessi.
Ed esse non osavano piangere il padre ucciso per non offendere il marito vincitore perché non sapevano, mentre essi ancora combattevano, per chi fare auspici.
Non Venere ma Bellona donò simili nozze al popolo romano; o forse Aletto, la furia infernale, poiché ora Giunone favoriva i Romani, ebbe un'autorizzazione più ampia di quando fu istigata dalle sue preghiere contro Enea.30
Andromaca fu fatta prigioniera con una condizione più felice di quella con cui quelle coppie romane si sposarono.
Dopo gli amplessi con lei, per quanto trattata da schiava, Pirro non uccise più alcun troiano; i Romani invece uccidevano in battaglia i suoceri mentre ne abbracciavano le figlie nel letto.
Andromaca soggetta al vincitore poté soltanto dolersi della morte dei propri cari, non temere;31 le Sabine, congiunte ad uomini che si combattevano, temevano la morte dei padri quando i mariti uscivano in guerra e la piangevano quando rientravano, prive della libertà di temere e di piangere.
Infatti o erano tormentate dall'affetto filiale o si rallegravano con crudeltà per le vittorie dei mariti a causa della morte dei cittadini, dei congiunti, dei fratelli, dei padri.
Si aggiungeva che, secondo l'alterna vicenda delle guerre, alcune perdettero il marito per mano del padre, altre il padre e il marito per mano dell'uno e dell'altro.
Infatti anche per i Romani non furono piccoli i rischi se si giunse all'assedio della loro città.
Si difesero chiudendo le porte.
Ma furono aperte con la frode e i nemici penetrarono dentro le mura.
Avvenne allora nel foro stesso una scellerata e veramente atroce zuffa fra generi e suoceri; i rapitori erano anche sopraffatti e fuggendo ripetutamente entro le proprie case disonoravano le vittorie di prima, sebbene anche esse vergognose e deplorevoli.
A questo punto Romolo, disperando ormai del valore dei suoi, pregò Giove perché stessero al proprio posto e per quell'occasione gli trovò il titolo di Statore.32
Non si sarebbe avuta la fine di una sventura così grave se le donne rapite, strappandosi i capelli, non si fossero slanciate nella mischia e, prosternandosi ai padri, non avessero placato la loro giustissima ira non con le armi vittoriose ma con il supplichevole affetto filiale.33
In seguito Romolo, intollerante del fratello come compagno, fu costretto a prendere come socio nel regno Tito Tazio re dei Sabini.
Ma come avrebbe potuto sopportare a lungo anche costui se non sopportò il fratello e per di più gemello?
Quindi ucciso anche lui, per essere un dio più grande, tenne da solo il regno.
E sono questi i diritti delle nozze, queste le giustificazioni delle guerre, questi i patti della fratellanza, dell'affinità, della convivenza, della divinità?
Questa infine la vita di una città sotto la protezione di tanti dèi?
Puoi osservare che sull'argomento si potrebbero fare molte e serie considerazioni, se il nostro assunto non avesse interesse a quelle che restano e il discorso non volgesse ad altro.
Che avvenne dopo Numa sotto gli altri re?
Con grande danno loro e dei Romani gli abitanti di Alba furono provocati alla guerra perché in definitiva la tanto lunga pace di Numa si era svilita.
Vi furono ripetuti massacri dell'esercito di Roma e di Alba e un decremento dell'una e dell'altra città.
Alba, fondata da Ascanio figlio di Enea, pur essendo madre di Roma più da vicino che Troia, provocata da Tullo Ostilio venne a conflitto e venuta a conflitto fu afflitta e afflisse, finché a causa dell'egual numero di morti rincrebbero i molti combattimenti.
Si decise allora di affidare l'esito della guerra a tre fratelli da una parte e a tre fratelli dall'altra.
Dai Romani furono presentati i tre Orazi, dagli Albani i tre Curiazi; dai tre Curiazi furono vinti e uccisi due Orazi e da un solo Orazio i tre Curiazi.
Quindi Roma risultò vincitrice mediante quella strage anche nella gara decisiva, sicché dei sei uno solo tornò a casa.
Ma per chi furono il danno e la perdita se non per la stirpe di Enea, per i posteri di Ascanio, per la discendenza di Venere, per i nipoti di Giove?
Fu infatti peggiore di una guerra civile perché una città figlia combatté con la città madre.
E a quest'ultimo combattimento dei tre gemelli si aggiunse un altro delitto veramente atroce.
Poiché infatti i due popoli prima erano amici essendo vicini e della medesima stirpe, una sorella degli Orazi era fidanzata ad uno dei Curiazi.
Ella, viste le spoglie del fidanzato sul fratello vincitore, si mise a piangere e per questo fu uccisa dal fratello stesso.
Mi sembra che soltanto il sentimento di questa fanciulla sia stato più umano di quello di tutto il popolo romano.
Ritengo che abbia pianto senza colpa perché soffriva per l'uomo che in base alla fedeltà promessa considerava marito o forse anche per il fratello stesso che l'aveva ucciso, sebbene gli avesse fidanzata la sorella.34
Per qual motivo dunque in Virgilio il pietoso Enea è lodato perché si affligge per il nemico ucciso di sua mano?35
Per qual motivo Marcello, riflettendo sulla comune condizione umana, commiserò col pianto la città di Siracusa perché ricordò che il suo splendore e gloria di poco prima erano caduti per sua mano?36
Riconosciamo, per favore, a un sentimento di umanità che una fanciulla non abbia commesso un delitto perché piangeva il proprio fidanzato ucciso dal proprio fratello, se alcuni uomini ebbero lode perché piansero sui nemici da loro stessi uccisi.
Dunque mentre quella piangeva la morte procurata dal fratello al fidanzato, Roma esultava per aver combattuto con grande massacro contro la città madre e per aver vinto con grande effusione di sangue fraterno dall'una e dall'altra parte.
Perché mi si adducono come pretesto il concetto di onore e il concetto di vittoria?
A scanso dei pregiudizi di una folle mentalità, i fatti siano considerati senza orpelli, siano valutati senza orpelli, siano giudicati senza orpelli.
Si adduca una colpa di Alba come si adduceva l'adulterio di Troia. Non esiste, non si trova.
C'è soltanto che Tullo volle muovere alle armi gli uomini inerti e l'esercito disabituato ai trionfi.37
Per quella colpa dunque fu commesso il grande delitto di una guerra fra alleati e individui della medesima stirpe.
Sallustio accenna di passaggio a questa grande colpa.
Dopo aver ricordato con lode i tempi antichi, quando senza cupidigia si trascorreva la vita umana e a ciascuno bastavano le proprie cose, soggiunge: Dopo che Ciro in Asia e gli Spartani e gli Ateniesi in Grecia cominciarono a sottomettere città e nazioni, considerarono la passione del dominio una giustificazione della guerra, pensarono che la più grande gloria fosse nel più grande impero.38
Seguono gli altri concetti che aveva iniziato ad esporre.
A me può bastare aver citato le sue parole fino a questo punto.
La passione del dominio scuote e abbatte il genere umano con grandi sciagure.
Vinta da questa passione Roma credeva un trionfo l'aver vinto Alba e denominava gloria l'esaltazione del proprio delitto, giacché, dice la nostra Scrittura, il peccatore si esalta nei desideri della sua anima e si parla bene di chi compie azioni inique. ( Sal 11,3 )
Si spoglino dunque dei fatti e vernici menzognere e imbiancature ingannevoli perché siano osservati con esame sereno.
Non mi si venga a dire: "Grande quel tale ed anche quell'altro, perché ha combattuto e vinto con quel tale e con quell'altro".
Combattono anche i gladiatori, anche essi vincono, anche quella crudeltà ha il premio della lode, ma io penso che è preferibile subire la condizione penosa della inettitudine che procurarsi la gloria di quei combattimenti.
Ma chi sopporterebbe tale spettacolo se scendessero nell'arena per battersi due gladiatori, di cui uno è il figlio, l'altro il padre? Chi non lo eliminerebbe?
Come dunque poté essere gloriosa la contesa armata fra due città, di cui una la madre, l'altra la figlia?
È forse diverso perché in questo caso non c'era l'arena e terreni più spaziosi si riempivano di cadaveri non di due gladiatori ma di molti dei due popoli e perché quelle gare non erano circoscritte all'anfiteatro ma al mondo intero e vi si dava uno spettacolo spietato ai vivi di allora e ai posteri, fin quando se ne estende la fama?
Tuttavia gli dèi tutelari del dominio di Roma e quasi spettatori di tali lotte sentivano insoddisfatta la propria passione finché la sorella degli Orazi come compenso dei tre Curiazi uccisi non fu aggiunta dall'altra parte anche essa come terza ai due fratelli dalla spada del fratello.
Così Roma che aveva vinto non aveva un minor numero di morti.
Poi per avere il vantaggio della vittoria Alba fu distrutta, in cui, terza nell'ordine, avevano abitato le divinità troiane, dopo Troia distrutta dai Greci e dopo Lavinio, in cui Enea aveva costituito un regno provvisorio di nomadi.
Ma secondo il loro costume gli dèi anche da essa erano fuggiti e per questo è stata distrutta.
Quanto dire che si erano allontanati tutti gli dèi da cui era stato conservato quel dominio.39
Si erano allontanati già per la terza volta perché come quarta fosse loro affidata Roma.
Erano scontenti di Alba, in cui aveva regnato Amulio dopo aver espulso il fratello ed erano contenti di Roma, in cui aveva regnato Romolo dopo avere ucciso il fratello.
Ma prima che Alba fosse distrutta, il suo popolo fu travasato, dicono,40 in Roma in modo che di due si facesse una città. E sia, così è avvenuto.
Tuttavia quella città, regno di Ascanio, terzo domicilio degli dèi troiani e città madre fu distrutta dalla città figlia.
E perché i superstiti della guerra costituissero di due un solo popolo, il molto sangue versato dell'uno e dell'altro ne fu un legame degno di compassione.
Perché ormai dovrei parlar singolarmente delle medesime guerre ripetutesi tante volte sotto gli altri re, che sembravano chiuse con una vittoria ma erano di nuovo condotte con tante stragi e di nuovo ancora riprese dopo il patto e la pace fra suoceri e generi, tra la loro stirpe e i discendenti?
Non piccolo indizio di questa sventura fu che nessuno di quei re chiuse le porte della guerra.
Nessuno di loro dunque con tanti dèi tutelari regnò in pace.
E quale è stata la fine degli stessi re?
Per quanto riguarda Romolo, se la veda l'esaltazione mitica con cui si afferma che fu accolto in cielo; se la vedano alcuni scrittori romani i quali hanno detto che a causa della sua crudeltà fu fatto sparire per ordine del senato e che fu incaricato alla chetichella non saprei quale Giulio Proculo perché dicesse che gli era apparso e che per mezzo suo ordinava al popolo romano di venerarlo fra le divinità.41
In questo modo il popolo, che aveva cominciato a sollevarsi contro il senato, fu ricondotto alla calma.
Era avvenuta anche un'eclissi solare e poiché la massa ignorante non sapeva che si era verificato per una legge fissa del corso del sole, lo attribuiva ai meriti di Romolo.
Al contrario, se quello fosse stato il cordoglio del sole, si doveva piuttosto pensare che egli fosse stato ucciso e che il delitto veniva denunziato anche con l'oscuramento della luce del giorno, come di fatto avvenne quando il Signore per la crudele empietà dei Giudei fu crocefisso. ( Mt 27,45; Mc 15,33; Lc 23,44-45 )
Il fatto appunto che allora era la Pasqua dei Giudei, celebrata solennemente nel plenilunio, dimostra che l'oscurarsi del sole non dipendeva dal corso regolare dei corpi celesti, mentre di regola l'eclissi di sole avviene nel novilunio.
Abbastanza chiaramente Cicerone mostra che l'apoteosi di Romolo fu piuttosto creduta che avvenuta, giacché pur esaltandolo nei libri Sullo Stato con le parole di Scipione, scrive: Ha conseguito un così alto onore perché, non essendosi improvvisamente più fatto vedere in seguito a un'eclissi di sole, si pensò che fosse annoverato nel numero degli dèi.
Nessun mortale poté mai raggiungere una simile reputazione senza un'eccezionale distinzione nel valore.42
Quando dice che improvvisamente non fu più visto, si intende certamente o la violenza del temporale o la segretezza di una uccisione delittuosa.
Gli altri scrittori romani aggiungono infatti all'eclissi solare anche un improvviso temporale che sicuramente o offrì l'occasione al misfatto o fece scomparire esso stesso Romolo.43
Infatti pure di Tullo Ostilio, terzo re dopo Romolo, anche egli folgorato, non si credette, come dice Cicerone nella medesima opera, che con tale morte fosse accolto fra gli dèi.44
I Romani non vollero estendere a tutti, cioè svilire, ciò che era accertato, ossia opinabile, di Romolo, se il fatto fosse attribuito con facilità anche ad un altro.
Dice inoltre apertamente nelle orazioni invettive: Abbiamo per gratitudine a voce di popolo innalzato fino agli dèi immortali l'uomo che fondò questa città.45
Mostra così che non era divenuto dio realmente ma che per gratitudine, a causa dei meriti del suo valore, era stato esaltato dalla tradizione.
Nel dialogo Ortensio, parlando dell'eclissi normale del sole, afferma: Affinché produca le stesse tenebre che produsse nella morte di Romolo, la quale avvenne durante un'eclissi solare.46
Qui evidentemente non teme di parlare della morte di un uomo, perché parlava da pensatore e non da encomiasta.
Gli altri re di Roma, esclusi Numa Pompilio e Anco Marzio che morirono di malattia,47 subirono una fine orribile.
Come ho già detto, Tullo Ostilio, vincitore e sterminatore di Alba, morì folgorato assieme a tutta la famiglia.48
Il primo Tarquinio fu fatto uccidere dai figli del suo predecessore.49
Servio Tullio fu ucciso con un esecrando delitto dal genero Tarquinio il Superbo che gli successe nel regno.50
Tuttavia non si allontanarono gli dèi abbandonando templi e altari quando fu commesso questo assassinio contro il migliore re del popolo romano.
Eppure affermano che furono indignati per l'adulterio di Paride al punto di fuggire dalla misera Troia e abbandonarla ai Greci per essere distrutta col fuoco.
Anzi Tarquinio successe al suocero da lui stesso ucciso.
Gli dèi, senza allontanarsi ma rimanendo presenti, videro questo detestabile assassino divenir re con l'uccisione del suocero, gloriarsi di molte guerre e vittorie e costruire con i bottini di guerra il Campidoglio,51 sopportarono anche che Giove loro re in quell'augusto tempio, cioè nell'edificio costruito dall'assassino, dominasse e regnasse su di loro.
Infatti non aveva costruito il Campidoglio quando era ancora innocente per essere in seguito espulso da Roma per le sue malvagità, ma giunse al regno, durante il quale costruì il Campidoglio col commettere l'esecrabile delitto.
La causa per cui più tardi i Romani lo scacciarono dal regno esiliandolo dalla città fu la colpa, non sua ma del figlio, della violazione di Lucrezia, e commessa non solo a sua insaputa ma anche in sua assenza.52
Assediava allora la città di Ardea, era in guerra per il popolo romano.
Non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse venuto a conoscenza del misfatto del figlio.
Tuttavia senza conoscere la sua sentenza e senza informarlo il popolo gli tolse il dominio, quindi fatto entrare l'esercito con l'ordine di abbandonarlo e chiuse le porte, non lo lasciò tornare in città.
Egli dopo pesanti guerre, con cui sollevando i popoli vicini logorò i Romani, abbandonato da coloro nel cui aiuto aveva sperato, non riuscì a riacquistare il regno.
Condusse comunque nella città di Tuscolo vicina a Roma per quattordici anni, come si narra, vita privata in tranquillità, giunse alla vecchiaia assieme alla moglie53 e si spense con una fine più desiderabile di quella del suocero ucciso col delitto del genero e, come si narra, col consenso della figlia.54
Tuttavia i Romani non denominarono questo Tarquinio crudele o scellerato ma superbo forse perché per un altro genere di superbia non sopportavano il suo orgoglio di re.
Infatti non presero in considerazione il delitto dell'uccisione del suocero, il migliore dei loro re, tanto che lo elessero re.
In proposito mi meraviglio che abbiano dato una così grande ricompensa a un delitto così grave senza ricorrere a un delitto più grave.
E gli dèi non si allontanarono abbandonando templi e altari.
Ma qualcuno potrebbe difendere questi dèi col dire che rimasero a Roma per punire con pene i Romani anziché aiutarli con favori perché li ingannavano con vane vittorie e li sterminavano con guerre sanguinose.
Questa fu la vita dei Romani nel periodo encomiabile dello Stato fino all'espulsione di Tarquinio il Superbo per circa duecentoquarantatré anni.
Eppure tutte quelle vittorie, ottenute con molto sangue e grandi sventure, non estesero il suo dominio oltre le venti miglia dalla città.55
Ed è uno spazio che non si può affatto paragonare all'attuale territorio di una qualsiasi città della Getulia.
A questo periodo aggiungiamo anche quello in cui, come dice Sallustio, si amministrò con diritto giusto e moderato, mentre si avevano il timore da parte di Tarquinio e la grave guerra con l'Etruria.56
Infatti finché gli Etruschi aiutarono Tarquinio che tentava di rioccupare il regno, Roma fu logorata da una grave guerra.
E Sallustio dice che lo Stato fu amministrato con legislazione giusta e moderata, perché il timore incalzava e non perché decideva la giustizia.
In quel breve periodo fu veramente funesto l'anno in cui, dopo la fine del potere regio, furono eletti i primi consoli.
Essi intanto non portarono a termine il loro anno.
Giunio Bruto infatti depose ed esiliò da Roma il collega Lucio Tarquinio Collatino.57
Subito dopo egli cadde in combattimento uccidendo a sua volta il nemico, dopo aver fatto uccidere in precedenza i figli e i fratelli della moglie, perché aveva scoperto che congiuravano per ristabilire Tarquinio.58
Virgilio, ricordato l'episodio con ammirazione, immediatamente ne prova orrore per senso di umanità.
Dice infatti: Un padre per l'amata libertà condannerà a morte i figli che preparavano nuove guerre; ma subito aggiunge l'esclamazione: Sciagurato, in qualsiasi modo i posteri giudicheranno quei fatti.
Comunque, egli dice, i posteri giudichino i fatti, cioè vantino ed esaltino un individuo che ha ucciso i figli, Bruto è uno sciagurato.
E come a consolare lo sciagurato, soggiunse: Vincono l'amore della patria e l'immensa passione della gloria.59
E in Bruto, che uccise perfino i figli e non poté sopravvivere al nemico figlio di Tarquinio da lui ferito a morte perché a sua volta ferito a morte, mentre a lui sopravvisse Tarquinio, non sembra vendicata l'innocenza del collega Collatino?
Questi, pur essendo un buon cittadino, subì, dopo l'espulsione di Tarquinio ciò che aveva subito lo stesso Tarquinio che era un tiranno.
Si narra infatti che anche Bruto fosse consanguineo di Tarquinio60 ma fu la omonimia a danneggiare Collatino, perché aveva come nome anche Tarquinio.
Si doveva costringerlo a mutare il nome non la patria; in definitiva nel suo nome si sarebbe avuto un termine di meno, si sarebbe chiamato Lucio Collatino.
Ma per questo appunto non fu costretto a perdere ciò che avrebbe potuto perdere senza danno per costringerlo a perdere la carica di primo console e la cittadinanza sebbene buon cittadino.
Anche questa detestabile ingiustizia di Giunio Bruto e niente affatto vantaggiosa allo Stato è gloria?
E per commetterla vincono l'amor di patria e l'immensa passione della gloria?
Ormai espulso il tiranno Tarquinio, fu eletto console assieme a Bruto il marito di Lucrezia, Lucio Tarquinio Collatino.
Giustamente il popolo badò nel cittadino ai costumi, non al nome.
Ma Bruto, che avrebbe potuto privare il collega nella carica, istituita da poco per la prima volta, soltanto del nome se esso gli dava fastidio, spietatamente lo privò della patria e della carica.
Si compirono queste malvagità, avvennero queste sciagure nello Stato romano quando si amministrò con legislazione giusta e moderata.
Anche Lucrezio, eletto in luogo di Bruto, morì di malattia prima che l'anno finisse.
Furono Publio Valerio, che era succeduto a Collatino e Marco Orazio, sostituito al defunto Lucrezio, a chiudere quell'anno fatale e cupo che ebbe cinque consoli.61
E proprio in quell'anno lo Stato romano diede l'avvio alla nuova carica politica del consolato.
Allora diminuito ormai il timore, non perché le guerre fossero cessate, ma perché non incalzavano tanto gravemente, finito cioè il tempo in cui si amministrò con legislazione giusta e moderata, seguirono le condizioni che il citato Sallustio espone in breve così: In seguito i patrizi trattarono la plebe come schiava, ne disposero della vita e dell'opera con diritto regio, la privarono della proprietà dei campi e amministrarono da soli con l'esclusione di tutti gli altri.
La plebe, oppressa dalla vessazione e soprattutto dalle tasse giacché doveva subire l'imposta e insieme il servizio militare per le continue guerre, occupò armata il monte Sacro e l'Aventino e così rivendicò i tribuni della plebe e gli altri diritti.
Fine delle discordie e della lotta fra le due parti fu la seconda guerra punica.62
Perché dunque dovrei subire continue dilazioni e imporle ai lettori?
Da Sallustio è stata rilevata la grande crisi della società romana, perché da lungo tempo e per tanti anni fino alla seconda guerra punica le guerre non cessarono di turbarla dall'esterno e le discordie e le sedizioni civili nell'interno.
Pertanto quelle vittorie non sono state gioie piene di individui felici ma vuote consolazioni d'individui infelici e sollecitazioni ingannevoli d'individui guerrafondai a subire continue sventure prive di risultato.
E i buoni Romani non devono arrabbiarsi con noi perché diciamo queste cose, sebbene non devono essere né richiesti né avvertiti in proposito, perché è assolutamente certo che non si arrabbieranno affatto.
Infatti io, inferiore per cultura letteraria e disponibilità di tempo, non posso certamente dire più duramente cose più dure dei loro scrittori, tanto più che i Romani stessi si sono applicati e costringono i loro figli ad applicarsi per conoscerli.
Ma coloro che si arrabbiano non mi perdonerebbero certamente se fossi io a dire queste parole di Sallustio: Si ebbero moltissimi tumulti, sedizioni e infine guerre civili, giacché pochi potenti, la cui influenza parecchi avevano accettato, aspiravano alle cariche con la speciosa adesione al partito senatoriale o democratico.
Furono considerati buoni anche i cattivi cittadini e non per benemerenze verso la società, giacché tutti erano depravati, ma il più ricco e più capace nel commettere ingiustizia era considerato onesto perché difendeva lo stato presente delle cose.63
Dunque gli storiografi hanno considerato di pertinenza di una onorata libertà non tacere i mali della propria città, sebbene in molti passi sono stati costretti a lodarla con alto encomio, perché non conoscevano quella ideale, nella quale si devono raccogliere i cittadini dell'eternità.
Che cosa dunque dovremmo far noi che dobbiamo avere una libertà tanto più grande, quanto è migliore e più certa la nostra speranza in Dio, quando rinfacciano i mali presenti al nostro Cristo?
E lo fanno per distogliere le coscienze più deboli e inesperte da quella città in cui soltanto si potrà vivere in una felicità perpetua?
E io non dico contro i loro dèi cose più tremende di quelle dette allo stesso modo dai loro scrittori che essi leggono ed esaltano, giacché da loro le ho apprese e non sono certamente da tanto di dirle tutte e come loro.
Dove erano dunque quegli dèi, che si ritiene di dover onorare in vista dell'insignificante e fuggevole felicità di questo mondo, quando i Romani, ai quali con l'astuzia dell'impostore si esibivano per farsi onorare, erano travagliati da tante sciagure?
Dove erano quando il console Valerio fu ucciso mentre difendeva con successo il Campidoglio, al quale esiliati e schiavi avevano appiccato il fuoco?64
Eppure era stato di maggior aiuto egli al tempio di Giove che a lui la ressa di tante divinità col loro re ottimo massimo, di cui aveva salvato il tempio.
Dove erano quando la cittadinanza, afflitta dal male incessante delle sedizioni, in un breve periodo di tranquillità, aspettava gli ambasciatori mandati ad Atene per derivarne le leggi, fu spopolata da grave fame e pestilenza?65
Dove erano quando, in altra occasione, il popolo travagliato dalla fame creò il primo prefetto della provvigione annuale e aumentando la fame Spurio Melio, per il fatto che offrì grano alla massa affamata, fu incolpato di aspirare al regno e su richiesta del medesimo prefetto fu condannato dal dittatore Lucio Quinzio, rimbambito dall'età, e fu giustiziato, durante un gravissimo e pericolosissimo tumulto popolare, dal capo della cavalleria Quinto Servilio?66
Dove erano quando, scoppiata una gravissima epidemia, il popolo a lungo e pesantemente logorato, prese la deliberazione, mai avutasi prima, di offrire nuovi lettisterni agli dèi inefficienti?67
Si stendevano dei letti conviviali in onore degli dèi e da quell'uso ebbe nome questo rito sacro o meglio sacrilegio.
Dove erano quando l'esercito romano, poiché combatteva male, per dieci anni continui aveva ricevuto presso Veio frequenti e pesanti sconfitte, se infine non fosse stato soccorso da Furio Camillo che in seguito l'ingrata città condannò?68
Dove erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma?69
Dove erano quando una straordinaria epidemia menò tanta strage di cui morì anche Furio Camillo che difese prima l'ingrata patria dai Veienti e poi la protesse anche dai Galli?
Durante questa epidemia i Romani introdussero gli spettacoli teatrali, altra nuova peste non per il loro corpo ma, che è molto più funesto, per la loro moralità.70
Dove erano quando si sospettò che un'altra forte mortalità fosse dovuta ai veleni propinati da certe matrone e si scoprì che la moralità di molte nobili donne insospettate era più rovinosa di qualsiasi epidemia?71
O quando ambedue i consoli con l'esercito, assediati dai Sanniti alle forche caudine, furono costretti a stipulare con loro un patto disonorevole al punto che consegnati come ostaggi seicento cavalieri romani, gli altri, perdute le armi, spogliati e privati del resto dell'armatura, furono fatti passare sotto il giogo dei nemici, con un solo indumento addosso?72
O quando, mentre alcuni erano colpiti da grave pestilenza, molti altri, anche nell'esercito, morirono folgorati?73
O quando, scoppiata un'altra paurosa epidemia, Roma fu costretta a chiamare Esculapio da Epidauro per servirsene come di un dio medico,74 perché le frequenti fornicazioni, cui aveva atteso da giovanotto, non avevano permesso a Giove, che da tempo comandava in Campidoglio, di apprendere la medicina?
O quando in seguito all'alleanza simultanea di Lucani, Bruzi, Sanniti, Etruschi e Galli Senoni, in un primo tempo furono uccisi i legati romani e poi fu sconfitto l'esercito guidato dal pretore e morirono assieme a lui sette tribuni e tredicimila soldati?75
O quando dopo lunghe e gravi sedizioni a Roma, alla fine la plebe, con ostile discordia, fece secessione sul Gianicolo?
Era così grave il danno di questa sciagura che in vista di essa, e questo avveniva in pericoli di estrema gravità, fu creato dittatore Ortensio il quale, fatta tornare la plebe, morì durante la magistratura.76
Non si era mai verificato prima di lui ad alcun dittatore.
Fu quindi un reato più grave degli dèi, perché era già presente Esculapio.
E scoppiarono in quei tempi tante guerre che per carenza di soldati furono arruolati i proletari, così chiamati perché attendevano a generare prole non potendo fare il soldato per mancanza di mezzi.
Anche Pirro, un re della Grecia, fatto venire dai Tarentini, venuto allora in grande fama, divenne nemico dei Romani.
Mentre egli consultava Apollo sulla futura eventualità dei fatti, il dio con discreto buon garbo diede un responso così ambiguo che, qualunque delle due eventualità si fosse verificata, egli come divinatore se la cavava.
Rispose infatti: "Ti dico, o Pirro, che puoi vincere i Romani"; o anche: "Ti dico, o Pirro, che i Romani ti possono vincere".
Così, sia che Pirro vincesse i Romani o che i Romani vincessero Pirro, il vaticinatore poteva aspettare senza preoccupazioni l'uno o l'altro evento.
Si verificò comunque un grande e spaventoso massacro dell'uno e dell'altro esercito.77
Tuttavia in quel caso vinse Pirro che poteva perciò dal proprio punto di vista considerare divinatore Apollo, se subito dopo in altra battaglia non avessero vinto i Romani.
Durante così grande strage militare scoppiò anche una grave morìa di donne.
Morivano nella gravidanza prima di dare alla luce i figli.
Esculapio, penso io, si scusò del fatto perché era di professione primario medico non levatrice.
Morivano con la medesima patologia anche gli animali domestici al punto da far credere che perfino la generazione degli animali cessasse.78
Quell'inverno fu memorabile perché incredibilmente rigido al punto che a causa delle nevi, le quali rimasero a una preoccupante altezza per quaranta giorni anche nel foro, perfino il Tevere gelò.
Se si fosse avuto ai nostri tempi, costoro ne avrebbero dette tante e tanto grosse.
Allo stesso modo una straordinaria epidemia, finché infierì, ne fece morire molti.
Ed essendosi prolungata con maggiore virulenza nell'anno successivo malgrado la presenza di Esculapio, si consultarono i libri sibillini.79
In questo tipo di oracoli, come ricorda Cicerone nel libro Sulla divinazione, abitualmente si crede di più agli interpreti che spiegano le cose dubbie come possono o come vogliono.80
Il responso fu che causa dell'epidemia era il fatto che molti occupavano abusivamente parecchi edifici sacri.
Così per il momento Esculapio fu scolpato dall'accusa d'incapacità o di trascuratezza.
Gli edifici erano stati occupati senza che alcuno lo impedisse perché erano state inutilmente a lungo rivolte suppliche a una così folta moltitudine di divinità.
Così un po' alla volta i locali venivano disertati dai devoti in modo che essendo vuoti si potevano senza offesa di alcuno adibire agli usi umani.
Per far cessare la pestilenza furono fatti restituire e restaurare.
E se in seguito non fossero rimasti sconosciuti perché di nuovo abbandonati e occupati, non si darebbe certamente merito alla grande erudizione di Varrone che scrivendo sugli edifici sacri ne ricorda molti ignorati.81
In quel caso non si ottenne la fine della epidemia ma per un po' di tempo una diplomatica scusa per gli dèi.
Con le due guerre puniche poi, dato che fra i due domini la vittoria rimase a lungo incerta con alterne possibilità e due popoli forti si sferravano attacchi violentissimi e con molti mezzi, i regni più piccoli furono abbattuti.
Molte città illustri per fama furono distrutte, molte travagliate, molti Stati mandati in rovina.
Molte regioni e paesi furono interamente devastati.
Molte volte i vinti divennero vincitori dall'una e dall'altra parte.
Molte persone furono uccise tanto fra i combattenti che fra la popolazione civile.
Una enorme quantità di navi fu distrutta nelle guerre navali o colata a picco nelle numerose tempeste.
Se mi sforzassi di esporre o richiamare, anche io sarei soltanto uno storiografo.82
In quell'occasione la città di Roma presa da grande timore ricorse a rimedi vani e ridicoli.
Furono ripresi per ordine dei libri sibillini i giochi secolari, la cui celebrazione era stata stabilita ogni cento anni e che era stata sospesa per dimenticanza in tempi più tranquilli.
I pontefici ristabilirono anche gli spettacoli sacri agli dèi inferi anche essi aboliti negli anni migliori del passato.
Quando furono ristabiliti, infatti, era un gran divertimento rappresentare anche scenicamente che l'Ade si arricchiva di tanti morti.
I poveri disgraziati appunto rappresentavano come spettacoli dei demoni e come lauti banchetti dell'Ade le guerre rabbiose, le sanguinose inimicizie, le funeste vittorie dell'una e dell'altra parte.
Niente di più degno di compassione si ebbe durante la prima guerra punica della sconfitta subita dai Romani tanto duramente che fu fatto prigioniero anche Regolo.
Ne ho parlato nel primo e nel secondo libro.
Uomo veramente grande e in un primo tempo vincitore e soggiogatore dei Cartaginesi avrebbe portato a termine definitivamente la prima guerra punica se per eccessivo desiderio di lode e di gloria non avesse imposto agli stanchi Cartaginesi condizioni più pesanti di quanto essi potessero sopportare.
Se l'imprevedibile sconfitta, la schiavitù indecorosa, il giuramento fedele e la morte veramente crudele di quell'uomo grande non costringe gli dèi ad arrossire, si vede proprio che sono fatti d'aria e che non hanno sangue.
Non mancarono in quel periodo sventure gravissime nella città.
In una straordinaria inondazione del Tevere quasi tutte le parti pianeggianti della città furono battute perché alcune furono travolte dalla violenza come di un torrente, altre rimasero inondate e sommerse per lungo tempo come in uno stagno.
A questa calamità seguì il fuoco, ancor più pericoloso.
Dopo avere invaso alcuni edifici più illustri attorno al foro, non risparmiò neanche il tempio di Vesta.
D'altronde gli era molto familiare perché in esso le vestali, non tanto onorate quanto condannate, avevano la mansione di mantenergli quasi una vita perpetua con l'assidua sostituzione delle legna da bruciare.
In quel caso il fuoco non solo si mantenne in vita ma incrudelì anche.
Le vestali atterrite dalla sua violenza non riuscirono a salvare dall'incendio gli oggetti fatali che avevano già procurato la rovina delle tre città in cui avevano dimorato.
Allora il pontefice Metello, dimentico in certo senso della propria incolumità, si precipitò e sebbene mezzo abbruciacchiato li mise in salvo.83
Il fuoco non riconobbe neanche lui, oppure vi era in quel posto una divinità che, anche se lo fosse stata, non riusciva a fuggire da sola.
Quindi un uomo poté aiutare le insegne divine di Vesta anziché esse l'uomo.
E se non erano capaci di respingere da se stessi il fuoco, in che cosa potevano aiutare la città contro le acque e le fiamme?
Eppure si pensava che ne proteggessero l'incolumità.
Il fatto in sé dimostrò che non potevano proprio un bel niente.
Non farei certamente queste obiezioni se dicessero che quegli oggetti sacri non erano destinati a difendere i beni temporali ma a significare gli eterni; perciò se eventualmente venivano distrutti, perché corporali e visibili, non veniva tolto nulla a quei significati, cui erano destinati, e potevano essere riacquistati per i medesimi usi.
Invece essi con incredibile cecità ritengono possibile il fatto che in virtù di quegli oggetti, che potevano essere distrutti, la salvezza terrena e il benessere temporale della patria non potevano essere distrutti.
Pertanto, quando si dimostra loro che malgrado l'incolumità degli oggetti sacri sono sopravvenute o la perdita della salvezza o la sciagura, si vergognano di mutare un parere che non sono capaci di difendere.
Per quanto riguarda la seconda guerra punica, sarebbe troppo lungo rammentare le stragi dei due popoli che combatterono per tanto tempo e su un vasto territorio.
Per confessione stessa di coloro che hanno inteso non tanto di narrare le guerre romane quanto piuttosto di esaltare la dominazione romana, il vincitore fu pari al vinto.84
Infatti quando Annibale, partendo dalla Spagna, superò i Pirenei, attraversò la Gallia, valicò le Alpi devastando e sottomettendo tutte le regioni con le forze aumentate lungo il tragitto e precipitò come torrente nel valico verso l'Italia, si ebbero molti sanguinosi combattimenti, molte volte i Romani furono sconfitti, molti paesi passarono al nemico, molti furono presi e distrutti, si ebbero dure battaglie il più delle volte gloriose per Annibale data la sconfitta romana.
Che dire del disastro di Canne, tremendo oltre ogni pensare?
Dopo di esso si dice che Annibale, per quanto molto crudele ma saziato dell'enorme massacro dei suoi più spietati nemici, abbia comandato di risparmiarli.
Dopo la strage mandò a Cartagine tre moggi di anelli d'oro per far capire che in quella battaglia era caduta molta nobiltà romana e che la segnalava meglio la misura che il numero.85
Si doveva da ciò dedurre che il massacro del resto dell'esercito, tanto più numeroso quanto più povero che giaceva senza anelli, era più da congetturarsi che da segnalarsi.
Ne seguì una così forte carenza di soldati che i Romani coscrissero i delinquenti dopo aver assicurato loro l'impunità ed emanciparono gli schiavi per costituire e non solo per redintegrare un esercito che era così un disonore.
Mancavano le armi per gli schiavi, o meglio tanto per non far torto per gli ormai liberti destinati a combattere per lo Stato romano.
Le armi furono detratte dai templi come se i Romani volessero dire ai propri dèi: "Deponete le armi che avete tenuto in mano inutilmente, perché i nostri schiavi forse possono fare qualche cosa di utile con quei mezzi con cui voi nostre divinità non siete state capaci".
Non bastando più l'erario per corrispondere lo stipendio, le ricchezze private divennero di pubblico uso.
Ciascuno pose in comune il proprio avere al punto che oltre tutti gli anelli e le bolle, pietosi simboli di nobiltà, il senato stesso e a più forte ragione gli altri ceti e classi non si lasciarono alcun oggetto d'oro.86
Chi sopporterebbe i nostri avversari se in questi tempi fossero costretti a tanta povertà?
Li sopportiamo appena adesso che in vista di un superfluo divertimento si dà più denaro agli attori di quanto ne fu ammassato allora per le legioni in vista di un disperato tentativo di salvezza.
Ma fra tutti i disastri della seconda guerra punica il più degno di pietà e di deplorazione fu il massacro di quei di Sagunto.
Questa città della Spagna, amicissima del popolo romano, fu distrutta perché gli si mantenne fedele.
Annibale, violato il patto con i Romani, proprio da questa circostanza cercava il pretesto per provocarli alla guerra.
Dunque assediava con ferocia Sagunto.
Appena si seppe a Roma, furono mandati degli ambasciatori ad Annibale per indurlo ad abbandonare l'assedio.
Non tenuti in alcun conto, essi andarono a Cartagine e lamentarono la violazione del patto ma tornarono a Roma senza aver concluso nulla.
Durante questi indugi la disgraziata città molto ricca e molto cara alla Spagna e a Roma fu distrutta dai Cartaginesi all'ottavo o nono mese d'assedio.
Fa raccapriccio leggerne e tanto più narrarne la fine.
La ricorderò comunque brevemente giacché è molto pertinente all'argomento.
Dapprima fu straziata dalla fame; si narra da alcuni che i cittadini si cibarono perfino dei cadaveri dei caduti.
Infine stremati, per evitare almeno di cadere prigionieri nelle mani di Annibale, allestirono pubblicamente un grande rogo, nelle cui fiamme, dopo essersi anche trafitti di spada assieme ai propri familiari, tutti si abbandonarono.
In questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa gli dèi ghiottoni e ciarlatani nebulosi che bramano il grasso delle vittime e ingannano con la foschia di presagi ambigui; in questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa, soccorrere una città molto amica del popolo romano e non permettere che subisse la catastrofe perché la subiva per aver mantenuta la fedeltà.
Essi certamente intervennero quando si alleò mediante un patto allo Stato romano.
Dunque perché mantenne fedelmente il patto, che sotto la loro protezione aveva stretto mediante delibera, che aveva reso vincolante con la fedeltà e indissolubile col giuramento, è stata assediata, schiacciata, distrutta da un uomo sleale.
Se è vero che in seguito sono stati gli dèi ad atterrire e allontanare con temporali e fulmini Annibale vicinissimo alle mura di Roma, l'avrebbero dovuto fare anche prima.
Oso dire appunto che sarebbero stati più onesti se avessero infuriato col temporale in favore degli amici dei Romani, i quali erano in pericolo proprio per non tradire la fedeltà ai Romani e non avevano mezzi di difesa, anziché in favore dei Romani che combattevano per se stessi ed erano ricchi di mezzi nel fronteggiare Annibale.
Se fossero perciò difensori del benessere e dell'onore di Roma, ne avrebbero stornato la grave imputazione della rovina di Sagunto.
Stoltamente dunque ora si crede che in virtù della loro protezione Roma non è andata in rovina malgrado la vittoria di Annibale, giacché non furono capaci di soccorrere la città di Sagunto affinché non andasse in rovina nel mantenere l'amicizia per Roma.
Supponiamo che il popolo saguntino fosse cristiano e subisse tale sventura per la fede nel Vangelo, a parte che non si sarebbe data la morte con la spada o nel rogo, supponiamo comunque che subisse lo sterminio per la fede nel Vangelo.
Avrebbe sofferto nella speranza per cui aveva creduto in Cristo, cioè non per la ricompensa di un tempo molto breve ma di una eternità senza fine.
Ma a proposito di codesti dèi che, come si afferma, sono adorati o se ne va in cerca per adorarli al solo scopo che sia assicurato il benessere del mondo che fugge velocemente; che cosa mi risponderanno nei confronti dello sterminio di Sagunto coloro che li difendono e li scolpano?
Faranno certamente lo stesso discorso che sulla fine di Regolo.
Ma c'è una differenza. Quegli era un individuo, questa un'intera cittadinanza, sebbene causa della fine dell'uno e dell'altra sia stata la conservazione della fedeltà.
Proprio per essa Regolo volle tornare ai nemici e Sagunto non volle passare ai nemici.
Dunque il mantenimento della fedeltà provoca lo sdegno degli dèi?
Ed è possibile che nonostante la protezione degli dèi siano perduti non solo individui ma intere città?
Scelgano fra le due cose quella che preferiscono.
Se gli dèi si sdegnano contro la fedeltà mantenuta, scelgano i rinnegati per essere onorati.
Se poi è possibile che, malgrado il loro favore individui e città, colpiti da molti e gravi tormenti, vadano in rovina, gli dèi sono adorati senza il risultato del benessere terreno.
La smettano dunque di arrabbiarsi coloro che pensano di essere divenuti disgraziati con la perdita dei misteri dei propri dèi.
Anche se fossero rimasti e gli dèi li avessero aiutati, potevano non soltanto, come avviene adesso, lamentarsi del disastro avvenuto ma anche andare completamente in rovina dopo essere stati orrendamente straziati come Regolo e quelli di Sagunto.
Indice |
27 | Virgilio, Aen. 1, 281-282 |
28 | Virgilio, Aen. 7, 317-318; Livio, Ab Urbe cond. 1, 8-9 |
29 | Lucano, Phars. 1, 1-2 |
30 | Virgilio, Aen. 7, 323-326 |
31 | Virgilio, Aen. 3, 303-313 |
32 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 12, 6; Floro, Epit. 1, 1, 1, 13 |
33 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 13, 1-3 |
34 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 23-26; Floro, Epit. 1, 1, 3, 5 |
35 | Virgilio, Aen. 10, 821-826 |
36 | Livio, Ab Urbe cond. 25, 24, 11; cf. 1, 6 |
37 | Virgilio, Aen. 6, 814-815 |
38 | Sallustio, Catil. 2, 2 |
39 | Virgilio, Aen. 2, 351 |
40 | Floro, Epit. 1, 1, 3, 9; Plutarco, Vitae, Rom. 20, 1-3 |
41 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 16, 5-7; Cicerone, De rep. 2, 10, 20; De leg. 1, 1, 3 |
42 | Cicerone, De rep. 2, 10, 17; anche Fenestella, Annales, fr. 6 (in Seneca, Ep. 108, 31) |
43 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 16, 1; Floro, Epit. 1, 1, 1, 17; Eutropio, Brev. 1, 2, 2 |
44 | Cicerone, De rep. 2, 17, 32 |
45 | Cicerone, In Catil. 3, 1, 2 |
46 | Cicerone, Hort., fr. 66 |
47 | Eutropio, Brev. 1, 3, 5 |
48 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 31, 8 |
49 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 40, 7 |
50 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 48, 3-4 |
51 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 53, 3. 55, 1; Aulo Gellio, Noct. Att. 13, 23; Floro, Epit. 1, 7 |
52 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 58 |
53 | Eutropio, Brev. 1, 11, 2; Livio, Ab Urbe cond. 2, 21, 5 |
54 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 48, 5; Floro, Epit. 1, 1, 7, 3; Eutropio, Brev. 1, 7 |
55 | Eutropio, Brev. 1, 8, 3 |
56 | Sallustio, Hist. 1, fr. 10; cf. 2, 18 |
57 | Livio, Ab Urbe cond. 2, 2 |
58 | Livio, Ab Urbe cond. 2, 5-6 |
59 | Virgilio, Aen. 6, 820-823 |
60 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 56, 7; Eutropio, Brev. 1, 9, 2 |
61 | Livio, Ab Urbe cond. 2, 8, 4-5 |
62 | Sallustio, Hist. 1, fr. 11; cf. 2, 18 |
63 | Sallustio, Hist. 1, fr. 12 |
64 | Livio, Ab Urbe cond. 3, 18, 8 |
65 | Livio, Ab Urbe cond. 3, 32 |
66 | Livio, Ab Urbe cond. 4, 14 |
67 | Livio, Ab Urbe cond. 5, 13, 4-6 |
68 | Livio, Ab Urbe cond. 5, 7-21 |
69 | Livio, Ab Urbe cond. 5, 37-38 |
70 | Livio, Ab Urbe cond. 7, 2, 3; Varrone, Antiq., fr. 169; cf. sopra 1, 32; 2, 8 |
71 | Livio, Ab Urbe cond. 39, 8-18 |
72 | Livio, Ab Urbe cond. 5, 2ss |
73 | Livio, Ab Urbe cond. 10, 31, 8 |
74 | Livio, Ab Urbe cond. 29, 11; Valerio Massimo 1, 8, 2; Plinio, Hist. nat. 29, 8, 2; Arnobio, Adv. nat. 7, 44 |
75 | Livio, Ab Urbe cond. 10, 26-29; Floro, Epit. 1, 12, 17 |
76 | Livio, Per. 11 |
77 | Orosio, Hist. 4, 1, 7 |
78 | Orosio, Hist. 4, 2, 2 |
79 | Orosio, Hist. 4, 5, 6-8 |
80 | Cicerone, De divin. 2, 25, 54 |
81 | Varrone, Antiq., fr. 151 (solo Agostino) |
82 | Eutropio, Brev. 2, 21-28 |
83 | Cicerone, Pro Scauro, fr. 23, 46 |
84 | Floro, Epit. 2, 6 (22), 1 |
85 | Eutropio, Brev. 3, 11, 2 |
86 | Floro, Epit. 2, 6 (22), 23-24 |