La città di Dio |
Tratto brevemente del periodo fra la seconda e la terza guerra punica, quando, come dice Sallustio, i Romani vissero con la più alta moralità e con la massima concordia.87
Tralascio molti fatti pensando ai limiti della mia opera.
In quel tempo dunque di alta moralità e di massima concordia, Scipione, il liberatore di Roma e dell'Italia, stratega egregio e ammirevole della seconda guerra punica tanto orribile, tanto disastrosa e pericolosa, vincitore di Annibale e trionfatore di Cartagine, sebbene la sua vita fin dall'adolescenza, come si narra,88 fosse dedicata agli dèi e cresciuta nei templi, fu vittima delle accuse dei rivali.
Esiliato dalla patria, che aveva salvata e liberata col proprio valore, passò il resto della vita e la finì nella cittadina di Literno.
Nonostante il suo insigne trionfo, non fu mai preso dal desiderio di rivedere Roma, ordinò anzi, come si narra,89 che dopo la morte nemmeno il funerale si celebrasse nell'ingrata patria.
Subito dopo per la prima volta a mezzo del proconsole Gneo Manlio, vincitore dei Galati, s'introdusse a Roma la dissolutezza asiatica peggiore di ogni nemico.
Si racconta90 che per la prima volta si cominciarono a vedere divani guarniti di bronzo e tappeti preziosi; furono introdotte le suonatrici durante i conviti e altre forme di depravazione.
Ma mi sono prefisso di parlare per ora di quei mali che gli uomini subiscono contro voglia e non di quelli che compiono volontariamente.
E perciò attiene a questo discorso soprattutto l'episodio che ho citato di Scipione, che, cioè, vittima dei rivali, morì fuori della patria che aveva liberata, poiché le divinità di Roma, dai cui templi aveva allontanato Annibale, non lo ricambiarono, sebbene siano onorate soltanto per il benessere terreno.
Ma appunto perché Sallustio ha affermato che in quei tempi esisteva la più alta moralità, ho pensato che si dovesse ricordare l'episodio della frivolezza asiatica, affinché s'intenda che Sallustio ha parlato così nel confronto con altri tempi, in cui la moralità, a causa di gravissime discordie, fu certamente peggiore.
Proprio allora, cioè fra la seconda e l'ultima guerra punica fu anche promulgata la legge Voconia perché non fosse costituita erede una donna, neanche se figlia unica.91
Non so che cosa si può prescrivere o pensare di più ingiusto che una legge simile.
Comunque nell'intermezzo fra le due guerre puniche il decadimento fu più sopportabile.
L'esercito si logorava soltanto con guerre esterne ma si consolava con le vittorie; in città non si avevano le discordie avutesi in altri tempi.
Ma nell'ultima guerra punica con un solo attacco dell'altro Scipione, che per questo ebbe anche egli il soprannome di Africano, la rivale della dominazione romana fu letteralmente estirpata.
Ma lo Stato romano fu oppresso da un peso grave di mali.
Data infatti la sicurezza nel benessere, da cui con l'eccessiva corruzione morale furono accumulati quei mali, si può affermare che fu più di danno la rapida distruzione che la lunga rivalità di Cartagine.
Tralascio tutto il periodo fino a Cesare Augusto il quale, come è noto, sottrasse del tutto ai Romani la libertà che, anche secondo la loro opinione, non era più apportatrice di gloria ma di lotte e disastri e ormai completamente priva di nerbo e vigore, richiamò tutti i poteri all'illimitata autorità regale, rinvigorì e ringiovanì, per così dire, lo Stato quasi cadente per decrepitezza.
Di tutto questo periodo tralascio dunque le varie stragi militari dovute a cause diverse e il patto con Numanzia che è una macchia d'infamia.
Erano fuggiti da una gabbia alcuni galli ed erano stati, a sentir loro, di malaugurio per il console Mancino,92 come se in tanti anni, durante i quali la piccola città cinta d'assedio aveva logorato l'esercito di Roma e cominciava a sbigottire lo stesso Stato romano, gli altri comandanti l'avessero attaccata con auspicio favorevole.
Ometto, ripeto, questi fatti, sebbene non vorrei passare sotto silenzio che Mitridate, un re dell'Asia, diede ordine che in un solo giorno fossero uccisi i Romani che soggiornavano in qualsiasi posto dell'Asia e che attendevano con molte ricchezze ai propri affari.
Così fu fatto.93 Fu uno spettacolo raccapricciante che un individuo, dovunque fosse stato trovato, in un campo, in una via, in un castello, nella casa, in un borgo, in piazza, in un tempio, a letto, a mensa, senza che se l'aspettasse e contro ogni diritto venisse ucciso.
Grande fu il lamento di coloro che venivano uccisi, grande il pianto dei presenti e forse anche di coloro che uccidevano.
Dura fu la condizione degli ospitanti non solo nel vedere a casa propria quelle stragi ma anche nel doverle compiere, costretti come erano a cambiare improvvisamente il viso da una gentile espressione di cortesia a un gesto da nemico compiuto in tempo di pace e, direi, con ferite d'ambo le parti, perché il ferito era colpito nel corpo e chi colpiva nella coscienza.
Tutti quei Romani non si erano curati degli àuspici?
Non avevano forse gli dèi domestici e pubblici da consultare, quando dalle loro case partirono per quel viaggio senza ritorno?
Se non li hanno consultati, i nostri contemporanei non hanno motivo per lamentarsi della nostra civiltà, giacché da tempo i Romani disprezzano queste inutili pratiche.
Se poi li hanno consultati, mi si dica quale profitto hanno dato dette pratiche quando erano ammesse dalle leggi umane senza alcuna restrizione.
Ma ormai devo far menzione, nei limiti delle mie possibilità, dei mali che furono tanto più disastrosi perché interni: discordie civili o piuttosto incivili, che non erano più sedizioni ma vere guerre in città durante le quali fu versato molto sangue e le passioni di parte non si limitarono alle polemiche e alle varie voci della pubblica opinione ma inferocivano ormai apertamente con le armi.
Le guerre sociali, le guerre servili, le guerre civili fecero versare molto sangue romano e produssero l'immiserimento e lo spopolamento dell'Italia.
Infatti prima che si organizzasse contro Roma la lega laziale, tutti gli animali addomesticati, cani, cavalli, asini, buoi e tutte le altre bestie di proprietà dell'uomo, tornate rapidamente allo stato selvaggio e dimentiche dell'addomesticamento, abbandonate le case, vivevano brade e aborrivano l'avvicinarsi non solo degli estranei ma anche dei padroni, con la morte o il pericolo di chi osava molestarli da vicino.94
E fu segno di un grande male se fu segno, ma fu un gran male se non fu anche segno.
Se fosse avvenuto ai nostri giorni, vedremmo i nostri contemporanei più rabbiosi di quel che gli uomini di allora videro i propri animali.
Inizio dei mali civili furono le sedizioni dei Gracchi suscitate dalle leggi agrarie.
Volevano distribuire al popolo i terreni che la nobiltà possedeva illegalmente.
Ma osare di eliminare una ingiustizia ormai vecchia fu molto pericoloso e, come il fatto dimostrò, veramente deleterio.
Molte uccisioni furono eseguite quando fu ucciso il primo dei Gracchi; così pure quando, non molto tempo dopo, fu ucciso il fratello.
Infatti tanto nobili che popolani venivano giustiziati non in base alle leggi e col mandato dei magistrati ma durante le turbolenze e nei conflitti armati.
Dopo l'uccisione del secondo Gracco il console Lucio Opimio, che aveva incitato alle armi contro di lui la città, dopo averlo abbattuto e ucciso assieme ai compagni, ordinò una grande strage di cittadini.
Avendo poi fra mano l'inchiesta e perseguendo gli altri gregari col processo giudiziario, ne fece condannare a morte, come si racconta, tremila.95
Si può congetturare il numero delle esecuzioni di un cieco conflitto armato se l'informazione dovuta alla procedura ha fornito un sì gran numero di sentenze.
L'uccisore del Gracco ne vendette la testa al console avendo in cambio il peso corrispondente in oro.
Era un contratto stipulato prima dell'eccidio.
Fu ucciso in quel caso con i figli anche l'ex console Marco Fulvio.
Con opportuna delibera del senato, nel luogo in cui avvenne il fatale tumulto, in cui tanti cittadini di qualsiasi classe caddero, fu eretto il tempio a Concordia, perché testimone della pena dei Gracchi, colpisse la vista dei comizianti e ne stimolasse la memoria.
Ma costruire un tempio a quella dea fu unicamente uno scherno contro gli dèi.
Sembra quasi che se fosse stata in città, questa non sarebbe andata in rovina benché disgregata da tanti dissensi.
Ma forse Concordia, colpevole del delitto di avere abbandonato la coscienza dei cittadini, meritò di essere rinchiusa in quel tempio come in un carcere.
E per quale motivo, se volevano adeguarsi ai fatti, in quel posto non costruirono un tempio a Discordia?
E si può dare una ragione per cui la concordia è una dea e la discordia no, in maniera che secondo la distinzione di Labeone una sia buona, l'altra cattiva?
Anche egli, come sembra, aveva questa opinione perché nota che a Roma era stato eretto il tempio tanto a Febbre che a Salute.
Per lo stesso motivo doveva essere eretto non solo a Concordia ma anche a Discordia.
I Romani dunque scelsero di vivere con grave rischio irritando una dea così malvagia e non ricordarono che la fine di Troia ebbe inizio con il suo sdegno.
Non essendo stata invitata con gli altri dèi, suscitò col pretesto di una mela d'oro la lite di tre dee e da qui la rissa delle divinità, la vittoria di Venere, il rapimento di Elena e la distruzione di Troia.
Pertanto se, eventualmente sdegnata perché a Roma non meritò di avere un tempio come gli altri dèi, turbava per questo la città con tante sommosse, è probabile che si sia sdegnata più aspramente nel vedere che nel luogo di quella strage, quanto dire della sua opera, era stato eretto un tempio alla sua rivale.
I dotti e i sapienti masticano bile quando schernisco queste sciocche credenze.
Prestando tuttavia il culto a divinità buone e cattive, non escono dal dilemma di Concordia e Discordia, sia che abbiano trascurato il culto a queste dee e abbiano loro preferito Febbre e Bellona, alle quali hanno costruito templi fin dall'antichità, sia che avessero adorato anche esse, perché quando si è allontanata Concordia, Discordia ha infierito trascinandoli fino alle guerre civili.
Pensarono dunque di porre davanti ai comizianti come eccellente salvaguardia dalle sommosse il tempio di Concordia, testimone della strage e del supplizio dei Gracchi.
Quale profitto ne ricavarono lo indica il peggiorarsi degli avvenimenti che seguirono.
In seguito gli oratori si affaticarono non ad evitare l'esempio dei Gracchi ma a superarne l'intento, come il tribuno della plebe Lucio Saturnino, il pretore Gaio Servilio e più tardi Marco Druso.
In seguito alle loro sommosse si ebbero dapprima delle stragi fin d'allora gravissime e poi scoppiarono le guerre sociali.
L'Italia ne fu spaventosamente danneggiata e ridotta in uno stato d'incredibile desolazione e spopolamento.
Seguirono la guerra servile e le guerre civili.
Si ebbero molti combattimenti, fu versato molto sangue, tanto che le popolazioni italiche da cui era rinvigorita la dominazione romana, furono trattate come barbari.
Soltanto gli storiografi96 poi sono riusciti ad esporre in che modo fosse preparata da pochissimi gladiatori, meno di settanta, la guerra servile, a qual numero giungessero gli insorti e come fossero decisi ed energici, quali condottieri del popolo romano gli insorti sconfiggessero e quali città e regioni devastassero e in che modo.
E non fu la sola guerra servile.
Gli schiavi devastarono anche la provincia della Macedonia e poi anche la Sicilia e il litorale.
E chi, data la proporzione degli avvenimenti, potrebbe parlare delle tante e orribili razzie operate dai pirati e delle loro coraggiose guerre?
Mario, già macchiato del sangue dei concittadini per averne uccisi molti del partito avverso, vinto a sua volta, era fuggito da Roma.
La città respirò appena un po' quando, per usare le parole di Cicerone, vinse il partito di Cinna e Mario.
In quella circostanza con l'uccisione di uomini illustri si spensero gli occhi della città.
In seguito Silla punì la crudeltà di questa vittoria e non c'è bisogno di dire con quale diminuzione di cittadini e con quanto danno per lo Stato.97
Di questa vendetta, la quale fu più dannosa che se i delitti puniti fossero rimasti impuniti, ha detto Lucano: Il rimedio non rispettò la misura e andò troppo al di là del punto in cui le malattie guidarono la mano del medico.
Morirono i colpevoli, ma perché soltanto altri colpevoli poterono sopravvivere.
Fu data libertà agli odi e l'ira, sciolta dai freni delle leggi, infierì.98
Nella guerra civile fra Mario e Silla, senza considerare quelli che erano morti in combattimento, le strade, le piazze, i fori, i teatri, i templi nella città stessa erano pieni di cadaveri.
Era difficile giudicare quando i vincitori avessero causato un numero più alto di morti, se prima per vincere o dopo perché avevano vinto.
Dapprima con la vittoria di Mario, quando tornò dall'esilio, a parte le uccisioni avvenute dovunque, la testa del console Ottavio fu posta sui rostri, i Cesari furono uccisi da Fimbria nelle proprie case, i due Crassi, padre e figlio, furono sgozzati l'uno di fronte all'altro, Bebio e Numitorio trascinati con un arpione morirono spargendo gli intestini per la strada, Catulo si sottrasse alle mani dei nemici prendendo il veleno, Merula, flamine diale, tagliandosi le vene sacrificò a Giove col proprio sangue. Davanti agli occhi dello stesso Mario venivano uccisi cittadini soltanto se al loro saluto egli non porgeva loro la mano.
La vittoria di Silla che seguì, quanto dire la punitrice della crudeltà di Mario, ottenuta col molto sangue dei cittadini già versato, pur essendo finita la guerra ma rimanendo le rivalità, proprio in periodo di pace infierì più crudelmente.
Alle prime e alle ultime stragi del primo Mario se ne aggiunsero altre più gravi da parte di Mario il giovane e di Carbone del partito di Mario.
Quando Silla stava per ritornare, costoro disperando non solo della vittoria ma anche della vita riempirono la città con altre loro carneficine.
Infatti oltre la strage che si aveva da ogni parte, fu assediato il senato, e dalla curia, come se fosse un carcere, i senatori venivano condotti alla decapitazione.
Il pontefice Muzio Scevola, sebbene niente per i Romani era più santo del tempio di Vesta, fu ucciso mentre abbracciava l'altare e spense quasi col proprio sangue il fuoco che ardeva perpetuamente per la continua sorveglianza delle vestali.
Poi Silla entrò vincitore in città.
Nella villa pubblica egli, giacché non la guerra ma la pace mieteva vittime, ne abbatté, non in combattimento ma con un ordine, ben settemila che si erano arresi e per questo anche inermi.
In città poi qualsiasi partigiano di Silla poteva uccidere chi volesse.
Per questo era assolutamente impossibile calcolare i morti fino a che non fu consigliato a Silla di lasciarne vivere alcuni perché si dessero individui a cui i vincitori potessero comandare.
Fu frenata allora la furiosa licenza di ammazzare che impazzava dovunque e fu proposta con grande soddisfazione una tavola la quale conteneva duemila nomi di cittadini dell'una e dell'altra classe nobile, cioè equestre e senatoria, che dovevano essere uccisi e proscritti.
Rattristava il numero ma consolava il limite al massacro, e la tristezza per il fatto che tanti dovevano morire era minore della gioia perché gli altri cessavano di temere.
Tuttavia la loro tranquillità, per quanto crudele, si dolse profondamente dei raffinati sistemi di morte riservati ad alcuni di coloro che erano stati condannati a morte.
Qualcuno fu sbranato dalle mani inermi dei carnefici, uomini che straziavano un uomo vivo con maggior efferatezza di quanto siano solite le belve con un cadavere trovato in terra.
Un altro fu fatto vivere a lungo, o meglio morire a lungo fra grandi sofferenze perché gli avevano cavati gli occhi e amputate parti del corpo ad una ad una.
Furono messe all'asta, come se fossero ville, alcune illustri città; la sorteggiata fu tutta condannata ad essere ammazzata come se si trattasse dell'esecuzione di un solo delinquente.
I fatti avvennero in periodo di pace dopo la guerra, non per accelerare il conseguimento della vittoria ma per dare rilievo a quella già conseguita.
La pace gareggiò con la guerra in crudeltà e vinse.
La guerra abbatté uomini armati, la pace inermi.
La guerra significava che chi poteva essere ucciso, poteva se gli riusciva, uccidere a sua volta; la pace non significava che chi era scampato vivesse ma che morendo non desse più fastidio.
Quale furore di genti straniere, quale crudeltà di barbari si può paragonare a questa vittoria di cittadini su concittadini?
Che cosa ha visto Roma di più efferato, macabro e desolante, forse l'antico saccheggio dei Galli e il recente dei Goti o piuttosto la violenza di Mario e Silla e degli altri uomini eminenti nei rispettivi partiti?
Fu come la violenza degli occhi di Roma contro le sue membra.
I Galli uccisero i senatori dovunque li avessero trovati in tutta Roma, fuorché nella rocca del Campidoglio che comunque era la sola ad essere difesa.
A coloro però che si trovavano su questo colle permisero per lo meno di riscattare la vita con l'oro; e sebbene non potessero toglierla con le armi, avrebbero potuto farla deperire con un lungo assedio.
I Goti poi hanno risparmiato tanti senatori che farebbe meraviglia se ne hanno uccisi alcuni.
Invece Silla, e Mario era ancora vivo, s'insediò come vincitore sul Campidoglio, che fu rispettato dai Galli, per decretare le carneficine; e quando Mario gli sfuggì per tornare più violento e sanguinario, egli dal Campidoglio, anche con delibera del senato, privò molti della vita e delle sostanze.
Per i partigiani di Mario poi nell'assenza di Silla non vi fu alcun oggetto santo che risparmiassero se non risparmiarono neanche Muzio cittadino, senatore, pontefice, nell'atto che stringeva con disperato abbraccio l'altare stesso in cui erano, a sentir loro, i destini di Roma.
L'ultima tavola di Silla inoltre, per non parlare di molte altre uccisioni, mandò a morte più senatori di quanti i Goti riuscirono a derubare.
Con quale fronte dunque, con quale coraggio, con quale improntitudine, con quale stoltezza o meglio pazzia non rinfacciano i fatti antichi ai loro dèi e rinfacciano i recenti al nostro Cristo?
Le crudeli guerre civili, più dannose, per confessione anche dei loro scrittori, di tutte le guerre esterne, da cui, come è stato giudicato, lo Stato non solo fu colpito ma completamente rovinato, sono scoppiate prima della venuta di Cristo.
Per una concatenazione di delitti si venne dalla guerra di Mario e Silla a quelle di Sertorio e di Catilina, il primo proscritto, l'altro protetto da Silla; poi a quella di Lepido e Catulo, dei quali uno voleva rescindere, l'altro approvare gli atti di Silla; poi a quella di Pompeo e Cesare.
Pompeo era stato seguace di Silla ma ne aveva già eguagliato o anche superato il prestigio.
Cesare non tollerava il prestigio di Pompeo perché ne era privo, ma lo superò dopo che l'altro fu sconfitto e ucciso.
Da costoro le guerre civili passarono all'altro Cesare, detto in seguito Augusto.
Il Cristo nacque mentre egli era imperatore.
Lo stesso Augusto sostenne numerose guerre civili, durante le quali morirono molti uomini illustri fra cui anche Cicerone, l'eloquente statista.
Avvenne che una congiura di alcuni nobili senatori uccise col pretesto della libertà politica Caio Cesare, vincitore di Pompeo, accusato di aspirare al regno.
Egli comunque aveva usato con clemenza della vittoria civile e aveva donato vita e onori ai propri avversari.
Parve allora che Antonio, ben diverso per moralità da Cesare e profondamente depravato in tutti i vizi, aspirasse ad ereditarne il prestigio.
Cicerone gli resisteva vigorosamente per la libertà della patria.
S'era fatto notare intanto come giovane di indole ammirevole, l'altro Cesare, figlio adottivo di Caio Cesare che, come ho detto, fu chiamato Augusto.
Cicerone favoriva il giovane Cesare affinché si affermasse il suo prestigio contro Antonio.
Sperava che rimossa e abbattuta la signoria di Antonio, l'altro avrebbe restituito la libertà politica.
Ma era ciecamente imprevidente del futuro al punto che proprio quel giovane, di cui sosteneva la capacità nel governo, permise ad Antonio come per un tacito accordo di uccidere Cicerone stesso e sacrificò alla propria signoria quella libertà politica per cui il meschino aveva tanto gridato.
I nostri avversari, che sono ingrati al nostro Cristo di beni tanto grandi, accusino i propri dèi di mali tanto grandi.
È vero, quando si verificavano quei mali, gli altari delle divinità profumavano d'incenso d'Arabia e olezzavano di fresche ghirlande,99 splendevano le vesti sacerdotali, gli edifici sacri scintillavano, si sacrificava, si dava spettacolo, s'impazziva nei templi, anche se per ogni dove si versava da cittadini tanto sangue dei concittadini, non solo in altri luoghi ma perfino in mezzo agli altari degli dèi.
Cicerone non scelse un tempio in cui rifugiarsi perché Muzio lo aveva scelto invano.
Costoro invece, che tanto ingiustificatamente insultano la civiltà cristiana, o si rifugiarono negli edifici più illustri dedicati a Cristo o ve li condussero i barbari per salvarli.
Io sono certo di una cosa e chiunque giudica senza partigianeria viene sicuramente d'accordo con me.
Lascio da parte altri fatti perché molti ne ho citati e sono di più quelli sui quali ho ritenuto di non dovermi dilungare.
Se il genere umano avesse ricevuto l'insegnamento cristiano prima delle guerre puniche e ne fosse seguita la grande catastrofe che attraverso quelle guerre desolò l'Europa e l'Africa, ognuno di questi che esercitano la nostra pazienza avrebbe attribuito tali sciagure soltanto alla religione cristiana.
Ancora più insopportabili, per quanto riguarda i Romani, sarebbero le loro grida se al manifestarsi e diffondersi della religione cristiana avessero fatto seguito il saccheggio dei Galli, il disastro dell'inondazione del Tevere e dell'incendio, ovvero le guerre civili che sono il disastro più grande.
E rinfaccerebbero sicuramente ai cristiani come colpe altre sventure che si verificarono contro ogni aspettativa tanto da essere considerati prodigi, se si fossero verificate ai tempi del cristianesimo.
Ometto quei casi in cui si ebbe più del mirabile che del dannoso, come il fatto che buoi hanno parlato, che bimbi non ancor nati hanno gridato alcune parole dal grembo materno, che serpenti sono volati, che donne e galline sono divenute di sesso maschile e altri simili prodigi che si trovano nei loro libri, non poetici ma storici,100 e che, veri o falsi, non producono negli uomini danno ma stupefazione.
Ma quando si ebbe una pioggia di terra o di sabbia o di pietre ( non nel senso di grandine come talora si dice, ma proprio di pietre ),101 questi fenomeni poterono certamente recare danni anche gravi.
Si legge negli scrittori che a causa delle lave dell'Etna, le quali dal vertice del monte colarono fino alla spiaggia, il mare si mise in ebollizione fino ad infuocare gli scogli e a sciogliere la pece delle navi.102
Il fenomeno non costituì un lieve danno, sebbene sia singolare fino all'inverosimile.
Hanno scritto che in un'altra eruzione del vulcano la Sicilia fu invasa da tanta cenere da far crollare per il sovraccarico e il peso i tetti della città di Catania.
I Romani mossi a compassione dal disastro per quell'anno le condonarono il tributo.103
Hanno scritto anche che il numero delle cavallette in Africa, quando era già provincia romana, ebbe del prodigioso; dicono che distrutte le frutta e la vegetazione si buttarono in mare in una nube enorme al di là di ogni calcolo.
Lì morirono e furono restituite alla spiaggia.
Essendo l'aria divenuta infetta scoppiò una così grave epidemia che, come si racconta, nel solo regno di Massinissa, morirono ottocentomila individui e molti di più nelle regioni vicine al mare.104
Assicurano che ad Utica delle trentamila reclute che vi erano ne rimasero diecimila.
Dunque la superficialità, che dobbiamo tollerare e alla quale siamo costretti a rispondere, rinfaccerebbe ognuno di questi fatti alla religione cristiana se li riscontrasse ai tempi del cristianesimo.
Eppure non li rinfacciano ai loro dèi, di cui vogliono ristabilito il culto per non subire questi mali per quanto minori, sebbene gli antichi politeisti ne abbiano subiti ben più gravi.
Indice |
87 | Sallustio, Hist. 1, fr. 11 |
88 | Livio, Ab Urbe cond. 38, 51. 5-11 |
89 | Livio, Ab Urbe cond. 38, 53, 8 |
90 | Livio, Ab Urbe cond. 39, 6, 7-8 |
91 | Cicerone, In Verrem, act. sec. 1, 41, 106; Aulo Gellio, Noct. att. 6, 13 |
92 | Livio, Per. 55; Cicerone, De off. 3, 30, 109; De rep. 3, 18, 28; Giulio Ossequente, De prod. 24; Valerio Massimo, Facta et dicta mem. 1, 6, 7; Gennaro Nepoziano, Epit. Val. Max. 7, 8 |
93 | Livio, Per. 78; Appiano, De bello mitrid. 22-23 |
94 | Giulio Ossequente, De prod. 54; Orosio, Hist. 5, 18, 9 |
95 | Appiano, De bello civ. 1, 26; Sallustio, Bell. Iug. 42, 4 |
96 | Floro, Epit. 2, 8 (3, 20); Eutropio, Brev. 6, 7; Sallustio, Hist. 3, fr. 84; Diodoro Siculo, Bibl. 38, 21; Appiano, De bello civ. 1, 116-120 |
97 | Cicerone, In Catil. 3, 10, 24 |
98 | Lucano, Phars. 2, 142-146 |
99 | Virgilio, Aen. 1, 416-417 |
100 | Livio, Ab Urbe cond. 3, 10, 6; 22, 1, 13; 24, 10, 10; 27, 11, 4; 31, 12, 6; Giulio Ossequente, De prod. 15. 24. 26. 27. 27a. 41. 43. 53. 58; Orosio, Hist. 5, 4, 8 |
101 | Livio, Ab Urbe cond. 27, 37, 1. 4; Giulio Ossequente, De prod. 44. 51. 54; Orosio, Hist. 5, 18, 5 |
102 | Giulio Ossequente, De prod. 29; Orosio, Hist. 5, 6, 2 |
103 | Giulio Ossequente, De prod. 32; Orosio, Hist. 5, 13, 3 |
104 | Giulio Ossequente, De prod. 30; Orosio, Hist. 5, 11 |