La città di Dio |
All'inizio del mio discorso sulla città di Dio ho pensato prima di tutto di dover ribattere i suoi nemici che, inseguendo le gioie terrene e anelando ai beni fugaci, rinfacciano alla religione cristiana, l'unica apportatrice di salvezza e di verità, tutte le sventure che, per quanto riguarda quei beni, subiscono più per la bontà di Dio nell'ammonire che per la sua severità nel punire.
V'è fra di loro anche la massa ignorante che è stimolata più gravemente, all'odio contro di noi, dall'autorità delle cosiddette persone colte.
Gli illetterati infatti ritengono che gli avvenimenti insoliti verificatisi ai loro giorni non si verificavano di solito nei tempi passati; ed anche quelli i quali sanno che questa loro opinione è falsa, per dare a credere che hanno dei motivi giusti per dire insolenze contro di noi, la confermano facendo finta di ignorare i fatti.
Per questo si doveva dimostrare, mediante i libri scritti dai loro autori per narrare la storia dei tempi passati, che le cose sono ben diverse da come essi pensano.
Nello stesso tempo si doveva segnalare che gli dèi, da loro adorati prima in pubblico e tuttora in privato, sono spiriti immondi e demoni malvagi e impostori al punto che traggono vanto dai propri delitti o veri o perfino immaginari.
Ed essi vollero che fossero ricordati solennemente nelle loro feste affinché la debolezza umana non si ritraesse dal commettere azioni riprovevoli, dato che l'esempio divino si offriva all'imitazione.
Non ho prodotto queste argomentazioni da una mia congettura ma in parte dai fatti recenti perché io stesso ho visto simili riti in onore di simili dèi, in parte dalle opere di autori che hanno tramandato ai posteri questi fatti, non certo per infamare ma per onorare i propri dèi.
Lo stesso Varrone, il più colto della loro letteratura e di grandissima autorità, nel comporre in varie parti i libri sulla cultura e la religione, assegnandone alcuni alla cultura, altri alla religione secondo la particolare importanza di ciascun argomento, non attribuì i libri sugli spettacoli alla cultura ma alla religione.1
Che se nella città vi fossero stati soltanto uomini buoni e onesti, gli spettacoli non avrebbero dovuto essere assegnati neanche alla cultura.
Non lo fece certamente di suo arbitrio ma perché, nato ed educato a Roma, li trovò nella religione.
Ho esposto in breve alla fine del primo libro gli argomenti da trattare in seguito e di essi alcuni ne ho esposti nei due libri seguenti.
Comprendo che adesso si devono restituire all'attesa dei lettori gli altri argomenti.
Avevo promesso dunque che avrei trattato alcuni temi in risposta a coloro i quali riversano contro la nostra religione le sciagure dello Stato romano e che avrei ricordato i vari e gravi mali che mi potessero venire in mente o mi sembrassero sufficienti all'argomentazione e che la città e le province appartenenti al suo impero hanno dovuto subire prima che i loro sacrifici fossero proibiti.
L'avrebbero comunque attribuiti alla nostra religione anche gli antichi se pure a loro fosse stata nota o avesse loro vietato come oggi il culto pagano.
Ho già svolto sufficientemente, a mio parere, questi argomenti nel secondo e terzo libro.
Nel secondo ho trattato dei mali morali che si devono ritenere i soli o i più grandi mali; nel terzo, di quei mali, i soli da cui gli insipienti rifuggono, cioè dei mali fisici e materiali che spesso subiscono anche le persone dabbene, mentre posseggono, non dico con pazienza ma con soddisfazione, quei mali con cui essi stessi divengono malvagi.
E ho detto poche cose della città e del suo impero e neppure tutte dal suo inizio fino a Cesare Augusto.
Non ho voluto poi indicare nella loro gravità i disastri non provocati da alcuni uomini contro altri, quali sono le devastazioni e i saccheggi dei belligeranti, ma che si verificano in natura dalle perturbazioni degli elementi del mondo.
Apuleio li ricorda molto brevemente in una pagina del suo piccolo libro intitolato Il mondo, affermando che tutte le cose naturali subiscono alterazione, trasformazione e cessazione.
A causa di fortissimi terremoti, egli dice, tanto per usare le sue parole, si è spaccato il suolo e sono state inghiottite città con gli abitanti; per nubifragi sono state allagate intere regioni; zone di terraferma sono divenute isole perché invase dalle acque ed altre per regressione del mare sono divenute accessibili anche per terra; città sono state distrutte dai cicloni e dalle tempeste; sono scoppiati dei fulmini per cui alcune regioni dell'Oriente sono state distrutte dagli incendi e in alcune zone dell'Occidente alcune strane sorgenti e polle hanno causato i medesimi disastri; allo stesso modo una volta dalla cima dell'Etna, spaccatisi dei crateri a causa del fuoco del titano, lungo i versanti a guisa di torrente colarono fiumi di lave incandescenti.2
Se dunque avessi voluto raccogliere da dove mi era possibile questi avvenimenti e altri simili contenuti nella storia, non avrei mai finito di elencare gli eventi di quei tempi, prima che il nome di Cristo facesse cessare alcune loro pratiche inutili e contrarie alla vera salvezza.
Avevo promesso anche che avrei mostrato i loro istituti civili e la ragione vera per cui il Dio vero, giacché in suo potere sono tutti gli Stati, si è degnato di favorirli per l'accrescimento dell'impero; e che per nulla li hanno aiutati quelli che essi ritengono dèi, anzi li hanno danneggiati con l'inganno e con l'errore.
Di questo ora, a mio avviso, devo parlare e soprattutto delle conquiste dell'impero romano.
Sono state già dette parecchie cose, soprattutto nel secondo libro, sul grave loro malcostume introdotto dalla dannosa arte d'ingannare dei demoni che essi adoravano come dèi.
Attraverso i tre libri precedenti, dove mi è sembrato opportuno, ho fatto rilevare il grande soccorso che anche nei disastri militari, nel nome di Cristo al quale i barbari hanno mostrato tanto rispetto contrariamente all'uso della guerra, Dio ha accordato ai buoni e ai cattivi.
Ma egli fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. ( Mt 5,45 )
Ora esaminiamo dunque il motivo per cui osano accreditare la grande estensione e la lunga durata dell'impero romano agli dèi che sostengono di avere onorato onestamente, sebbene mediante tributi di spettacoli disonesti e attraverso l'ufficio di individui disonesti.
Ma prima vorrei per un po' esaminare quale ragionevolezza e saggezza essi hanno nel volersi vantare dell'estensione e grandezza dell'impero, quando è impossibile mostrare il benessere degli individui che, in preda al timore della morte e a una sanguinaria cupidigia, erano sempre occupati nelle imprese guerresche a spargere sangue o dei cittadini o dei nemici, che è comunque sangue umano.
È un benessere cui si può paragonare una gioia di vetro splendida nella sua fragilità perché si teme più angosciosamente che da un momento all'altro vada in frantumi.
Per giudicare meglio queste cose non ci si deve lasciar trascinare scioccamente da una vuota millanteria e non si deve rendere ottusa la facoltà di valutare a causa di altisonanti concetti, come popoli, Stati, province.
Prendiamo piuttosto in considerazione due individui.
Infatti ogni individuo, come una lettera in un discorso, è per così dire un elemento di una società civile e di uno Stato, anche se molto estesi come territorio.
Supponiamo dunque che dei due individui uno sia povero o meglio del ceto medio, l'altro ricco sfondato.
Il ricco è sempre angosciato dai timori, disfatto dalle preoccupazioni, bruciato dall'ambizione, mai sereno, sempre inquieto, angustiato da continue liti con i rivali; accresce, è vero, con queste angustie il proprio patrimonio a dismisura ma con questi accrescimenti accumula anche le più spiacevoli seccature.
Il povero, al contrario, basta a sé col modesto patrimonio disponibile, è benvoluto, gode una serena pace con parenti, vicini e amici, è piamente devoto, spiritualmente umanitario, fisicamente sano, eticamente temperante, moralmente onesto, consapevolmente tranquillo.
Non so se si trova un tizio tanto insulso da dubitare chi preferire.
E come per i due individui la regola dell'equità si applica a due famiglie, a due popoli, a due Stati.
E se con l'applicazione consapevole di quella regola si rettifica il nostro giudizio, vedremo facilmente in quale dei due si trova la vuota millanteria e in quale il benessere.
Pertanto, se si adora il vero Dio e gli si presta servizio con un culto autentico e con onesti costumi, è utile che i buoni abbiano il potere dovunque e a lungo e non è tanto utile per loro quanto per gli amministrati.
Infatti per quanto li riguarda, la pietà e la moralità, che sono grandi doni di Dio, bastano loro per il vero benessere perché con esse si conduce una vita onesta e si consegue poi la vita eterna.
In questa terra dunque il governo dei buoni non è concesso a loro favore ma dell'umanità; al contrario, il potere dei malvagi è un male più per i governanti che distruggono la propria coscienza con la più facile sfrenatezza al delitto che per i sudditi per i quali soltanto la loro individuale disonestà è il loro male.
Qualsiasi male poi si infligge dai potenti ingiusti non è per i giusti pena di un delitto ma prova della virtù.
Quindi la persona onesta, anche se è schiava, è libera; il malvagio, anche se ha il potere, è schiavo e non di un solo individuo ma, che è più grave, di tanti padroni quante sono le passioni.
Parlando di queste passioni ha detto la sacra Scrittura: L'uomo è consegnato come schiavo a colui da cui è stato sconfitto. ( 2 Pt 2,19 )
Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?
Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?
È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione.
Se la banda malvagia aumenta con l'aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell'ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell'impunità.
Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato.
Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare.
E quegli con franca spavalderia: "La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta".3
E per questo mi dispenso dal ricercare come erano gli individui che Romolo radunò.
Si dovette molto insistere per far loro capire che con la nuova vita, una volta ottenuto il consorzio civile, non dovevano più pensare alle punizioni dovute, perché il loro timore li spingeva a più gravi delitti.
Così in seguito poterono essere più disposti ai rapporti umani.
Ma voglio parlare di un fatto che lo stesso impero romano, ormai grande per avere assoggettato molti popoli e temibile agli altri, sentì dolorosamente, temé grandemente e represse a causa del non trascurabile interesse di evitare una enorme strage.
Si tratta dei pochi gladiatori che in Campania fuggiti durante uno spettacolo raccolsero un grande esercito, trovarono tre condottieri e saccheggiarono crudelmente vasti territori dell'Italia.4
Dicano qual dio aiutò costoro perché da una piccola e disprezzabile banda giungessero a un potere temibile per le grandi forze e risorse di Roma.
Si dirà, dato che non resistettero a lungo, che non furono aiutati da un dio?
Ma anche la vita di un uomo è tutt'altro che lunga.
A questa condizione gli dèi non aiutano nessuno a conquistare il potere.
I singoli individui scompaiono molto in fretta e non si deve considerare un favore che il potere scompare come nebbia in poco tempo in ciascun individuo e quindi un po' alla volta in tutti.
Che cosa importa agli adoratori degli dèi sotto Romolo, morti da tanto tempo, che dopo la loro morte l'impero romano è cresciuto tanto, se essi trattano ormai i propri affari nell'aldilà?
Se questi affari sono buoni o cattivi non rientra nell'argomento in parola.
E questo si deve intendere di tutti coloro che con rapida corsa, portando il fardello delle proprie azioni, si sono avvicendati al potere, anche se esso per cessione e successione di mortali dura a lungo.
Se dunque anche i favori di un tempo tanto breve si devono accreditare all'aiuto degli dèi, non poco sono stati aiutati quei gladiatori.
Infransero le catene della condizione servile, fuggirono, si resero liberi, raccolsero un grande e potente esercito, obbedendo alle decisioni e agli ordini dei propri capi si resero temibili per la grandezza di Roma e invincibili per alcuni comandanti romani, fecero un bel bottino, colsero parecchie vittorie, si scapricciarono nei piaceri come vollero, fecero ciò che loro suggeriva la passione e infine prima che fossero vinti, e fu molto difficile, vissero da signori e da principi.
Ma passiamo ad argomenti più importanti.
Giustino che, seguendo Trogo Pompeo, in latino come lui ma in compendio, scrisse una storia greca anzi universale, cominciò così il testo dei suoi libri: All'inizio della storia il governo dei popoli e delle nazioni era in mano ai re che non erano innalzati all'altezza della carica dalla tracotanza demagogica ma dalla saggia moderazione degli ottimati.
I cittadini non erano regolati dalle leggi, era usanza difendere e non estendere i confini del dominio, gli Stati erano limitati ai gruppi tribali.
Fu Nino re degli Assiri il primo a modificare per ambizione di dominio il vecchio costume per così dire ancestrale.
Egli per primo fece guerra ai vicini e soggiogò fino ai confini della Libia i popoli ancora inesperti della difesa.
E poco dopo soggiunge: Nino rassodò la grandezza del dominio che aveva cercato con le nuove conquiste.
Domati dunque i più vicini, passando agli altri perché reso più potente con l'aggiunta di nuove forze ed essendo ogni vittoria un mezzo per la successiva, assoggettò i popoli di tutto l'Oriente.5
Non so con quale fedeltà ai fatti abbiano scritto Giustino o anche Trogo.
Alcuni documenti più autentici dimostrano che non erano ben informati.
Tuttavia è ammesso da tutti gli altri scrittori che il regno degli Assiri fu ampiamente esteso dal re Nino.6
E durò tanto a lungo che l'impero romano non ha ancora raggiunto quell'età.
Infatti, come scrivono gli studiosi di cronologia, dall'anno primo del regno di Nino, prima di passare ai Medi, durò milleduecentoquaranta anni.7
Muovere guerra ai vicini, continuare con altre guerre, sconfiggere e assoggettare per semplice ambizione di dominio popoli che non davano molestia, che altro si deve considerare se non un grande atto di brigantaggio?
Se senza l'aiuto degli dèi il dominio degli Assiri fu tanto grande e tanto esteso, per quale ragione l'estensione e la durata dell'impero romano si accredita agli dèi di Roma?
Casi identici non possono avere spiegazioni diverse.
Se sostengono che anche l'assiro si deve accreditare all'aiuto di dèi, chiedo di quali.
I vari popoli che Nino sconfisse e assoggettò non adoravano dèi diversi.
E se gli Assiri ne ebbero dei particolari che erano abili artefici nella conquista e conservazione del dominio, erano forse morti quando anche gli Assiri perdettero l'impero, oppure preferirono passare ai Medi perché non fu loro corrisposto lo stipendio o ne fu promesso uno maggiore, e così da loro ai Persiani dietro invito di Ciro e relativa promessa di un salario più conveniente?
E dire che il popolo persiano, dopo l'esteso ma brevissimo impero di Alessandro il Grande, mantiene ancora il dominio su un non piccolo territorio dell'Oriente.
Se è così c'è un dilemma. O costoro sono dèi traditori che abbandonano i propri gregari e passano al nemico ( non lo fece neanche Camillo che era un uomo, quando dopo aver vinto ed espugnato la più accanita città nemica, provò l'ingratitudine di Roma, per cui aveva vinto, e tuttavia in seguito dimentico dell'ingiustizia e memore della patria la liberò di nuovo dai Galli ), oppure non sono dèi forti come dovrebbero essere gli dèi perché possono esser vinti da provvedimenti e forze umane; ovvero se, nel darsi guerra tra di loro, non dagli uomini ma da altri dèi sono eventualmente sconfitti gli dèi tutelari delle varie città, anche essi in tal caso hanno fra di loro delle rivalità che ciascuno si assume a favore del proprio gruppo.
Dunque lo Stato non dovrebbe onorare i propri dèi a preferenza di altri che potrebbero aiutare i propri.
Infine, comunque stiano il passaggio, la fuga, il trasferimento di residenza o la diserzione in combattimento degli dèi, il cristianesimo non era stato ancora predicato a quei tempi e in quei territori, quando quei domini attraverso straordinarie sconfitte militari furono perduti e trasferiti.
Ma poniamo che fossero trascorsi i milleduecento anni e rotti, dopo i quali cessò il regno degli Assiri, e che in quel paese già la religione cristiana avesse predicato il regno eterno e proibito i culti sacrileghi dei falsi dèi.
Gli individui impostori di quei popoli direbbero certamente che un regno conservatosi tanto a lungo era potuto cessare soltanto perché erano state abbandonate le proprie religioni ed era stata accolta quest'altra.
Gli avversari di oggi facciano riflettere sul proprio specchio questa possibile menzogna e si vergognino, se hanno un tantino di pudore, di fare simili lagnanze.
Comunque l'impero romano è stato battuto ma non è morto; e gli è capitato anche in tempi anteriori al cristianesimo e si è rifatto delle sconfitte.
E questo non si deve disperare neanche oggi. Chi conosce in proposito il volere di Dio?.
Indice |
1 | Varrone (in Agostino), Antiq., fr. 170. Livio, Ab Urbe cond. 7, 2, 1-3; Macrobio, Saturn. 1, 11 |
2 | Apuleio, De mundo 34 |
3 | Cicerone, De rep. 3, 14, 24 |
4 | Floro, Epit. 2, 8 (3, 20); Sallustio, Hist. 3, fr. 84; Diodoro Siculo, Bibl. 38, 21; Appiano, De bello civ. 1, 116-120 |
5 | T. Pompeo Trogo - M. Giuniano Giustino, Hist. Philipp. 1, 1, 1-5. 8 |
6 | Diodoro Siculo, Bibl. 2, 12; Lucio Ampelio, Lib. mem. 11, 2 |
7 | Eusebio di Cesarea - Girolamo, Chronic. 2; Orosio, Hist. 7, 2, 15 |