La città di Dio |
A questo punto chiedo prima di tutto perché anche lo Stato non è un dio.
E perché non lo sarebbe se la Vittoria è una dea?
O che bisogno c'è di Giove per questa faccenda se la Vittoria è favorevole e propizia e va sempre da quelli che vuole vittoriosi?
Se questa dea è favorevole e propizia, anche se Giove sta in riposo o pensa ad altro, quali popoli non rimarrebbero soggetti, quali Stati non cederebbero?
Oppure da persone oneste non vogliono combattere ingiustamente e provocare con una guerra ingiustificata, per allargare il dominio, i vicini che se ne stanno tranquilli e non danno alcun fastidio?
Se la pensano così, approvo e lodo.
Riflettano dunque che forse non è conveniente per le persone oneste godere dell'allargamento del dominio.
Infatti l'ingiustizia di coloro contro i quali sono state mosse guerre giuste ha favorito l'incremento del dominio.
Ed esso sarebbe stato piccolo se l'amore alla pace e la giustizia dei vicini non lo avessero provocato per qualche torto a muover loro la guerra.
Ne consegue che con maggiore benessere per l'umanità tutti gli Stati rimarrebbero piccoli godendo della pace con i vicini e vi sarebbero nel mondo molti Stati di popoli come in una città vi sono molte case di cittadini.
Quindi far guerra ed estendere il dominio con l'assoggettare i popoli può sembrare prosperità ai cattivi, ai buoni necessità.
Poiché sarebbe peggio se gli operatori d'ingiustizie dominassero sui più giusti, non sconvenientemente si considera un benessere anche questo.
Indubbiamente però è maggiore prosperità avere un buon vicino in pace che assoggettare un cattivo vicino in guerra.
È un cattivo auspicio desiderare di avere chi odiare e temere perché vi sia chi vincere.
Se dunque i Romani, muovendo guerre giuste, non contrarie all'umanità e all'equità, hanno potuto conquistare un impero così grande, forse si doveva onorare come dea anche l'ingiustizia degli altri.
Vediamo infatti che l'ingiustizia ha molto collaborato all'ingrandimento del dominio perché rendeva oltraggiosi coloro con cui far guerre giuste e incrementare così l'impero.
Perché dunque non sarebbe una dea per lo meno straniera l'ingiustizia, se Pavore, Pallore e Febbre meritarono di essere dèi romani?
Con queste due, cioè l'ingiustizia straniera e la dea Vittoria, si è ingrandito l'impero anche se Giove era in ferie, perché mentre l'ingiustizia suscitava dei motivi per le guerre, la Vittoria le conduceva a termine con successo.
Che ruolo aveva Giove nella faccenda se quelli che si potevano ritenere come suoi favori, sono considerati dèi, sono chiamati dèi, sono adorati come dèi e sono invocati in luogo degli attributi di Giove?
Anche egli avrebbe nella faccenda un certo ruolo, se anche egli fosse chiamato Stato, come la dea è chiamata Vittoria.
Ma se lo Stato è un dono di Giove, perché anche la vittoria non dovrebbe esser considerata un suo dono?
E lo sarebbe se egli non fosse conosciuto e onorato come un idolo del Campidoglio ma come re dei re e signore dei signori. ( Ap 19,16 )
Mi meraviglio assai di un fatto.
Hanno destinato singoli dèi a cose particolari e perfino a particolari movimenti.
Così hanno chiamato Agenoria la dea che muoveva ad agire, Stimola la dea che stimolava fuor di misura ad agire, Murcia la dea che non muoveva al di là della misura e rendeva l'uomo murcido, come dice Pomponio,31 cioè troppo indolente e inattivo, Strenia la dea che rendeva l'uomo strenuo.
E intrapresero a celebrare pubblici festeggiamenti di tutti questi dèi e dee, ma non vollero festeggiare pubblicamente la dea che chiamarono "Quiete", perché doveva render quieto l'uomo, sebbene avesse un tempietto fuori Porta Collina.32
Fu indizio di un animo inquieto o piuttosto si volle segnalare che chi continuava ad adorare quella schiera non di dèi ma di demoni non poteva raggiungere la quiete?
Ad essa ci invita il vero medico con le parole: Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete quiete per la vostra anima. ( Mt 11,29 )
Ma forse vogliono dire che Giove manderebbe la dea Vittoria ed ella obbedendo al re degli dèi si recherebbe dai destinatari e starebbe dalla loro parte?
Questo è vero ma non di quel Giove, che essi nel loro modo di pensare immaginano re degli dèi, ma del vero re delle vicende umane che invierebbe non la Vittoria, la quale non ha un'esistenza reale, ma il suo angelo che dia la vittoria a chi egli vorrà.
La sua decisione può essere occulta ma non ingiusta.
E se la vittoria è una dea, perché il trionfo non è un dio che si unisce alla vittoria o come marito o come fratello o figlio?
Costoro hanno imbastito sugli dèi fandonie tali che se le immaginassero i poeti e fossero da noi attaccati, risponderebbero che le finzioni poetiche sono da schernirsi e da non attribuirsi a divinità vere; e tuttavia non schernivano se stessi quando non si limitavano a leggerle nei poeti ma le onoravano nei templi.
Avrebbero dovuto quindi pregar Giove per tutti i bisogni e lui soltanto supplicare.
Se infatti Vittoria esiste ed è sotto di lui in quanto re, dovunque l'avesse mandata, non era possibile che osasse disobbedirgli e agire di proprio arbitrio.
Ma come la mettono che anche la felicità è una dea?
Ha avuto il suo tempietto, ha meritato la sua ara, le sono stati offerti convenienti misteri.
Avrebbe dunque dovuto esser adorata lei sola, perché dove si ha, si ha ogni bene.
Ma cosa significa che anche la fortuna è considerata e adorata come dea?
Sono forse diverse felicità e fortuna?
Sì, perché la fortuna può essere anche cattiva, se invece è cattiva la felicità non è più felicità.
In verità noi siamo costretti a pensare che tutti gli dèi dell'uno e dell'altro sesso ( se hanno un sesso ) non possano essere che buoni.
Lo afferma Platone, gli altri filosofi e i migliori uomini politici.33
In quale senso dunque la dea Fortuna ora è buona ora è cattiva?
Forse che quando è cattiva non è più una dea ma si muta in un demone maligno?
Quante sono dunque queste dee?
Tante, quanti gli uomini fortunati, cioè quante le buone fortune.
Infatti poiché gli sfortunati sono simultaneamente moltissimi, cioè in un unico tempo vi sono molte cattive fortune, forse che la fortuna, se fosse la stessa, sarebbe simultaneamente buona e cattiva, una cosa per questi e un'altra per quelli?
Oppure lei che è dea è sempre buona?
Dunque essa stessa è anche Felicità.
E allora perché si usano nomi diversi?
Ma questo può passare, perché si può indicare una medesima cosa con due nomi.
Ma perché diversi i tempietti, diverse le are, diversi i misteri?
La ragione è, rispondono,34 che la felicità è riservata ai buoni perché meritata in precedenza; la fortuna invece, quella che è considerata buona, sopraggiunge fortuitamente agli individui buoni e cattivi senza alcun riguardo al merito.
Per questo appunto si chiama fortuna.
In qual senso dunque è buona se senza alcun criterio sopraggiunge ai buoni e ai cattivi?
E perché è adorata se è così cieca che, imbattendosi nell'uno o nell'altro indiscriminatamente, oltrepassa i propri adoratori e si attacca ai propri denigratori?
Ché se i suoi adoratori riescono a farsi notare e amare da lei, già si attiene al merito e non sopraggiunge fortuitamente.
Ed in che cosa si ha la definizione della fortuna?
Perché è stata denominata dagli eventi fortuiti?
Non giova quindi nulla adorarla se è fortuna.
Se poi sa discernere i propri adoratori, nel giovar loro non è fortuna.
Ma forse Giove la manda dove vuole.
Allora sia adorato lui solo.
Fortuna infatti non può disobbedire al comando e all'ingiunzione di andare dove egli vuole.
Oppure l'adorano soltanto i malvagi che non vogliono avere meriti con cui è possibile invocare la presenza di Felicità.
Hanno in tanta considerazione la falsa divinità che chiamano Fortuna, da tramandare che la sua statua, dedicata dalle matrone e chiamata Fortuna femminile, ha parlato e ha ricordato non una ma più volte che le matrone l'avevano dedicata secondo i riti.35
Se il fatto è avvenuto non c'è da meravigliarsene.
Per i demoni non è difficile ingannare anche con questi sistemi.
Però i pagani avrebbero dovuto accorgersi dei loro scaltri artifici, perché avrebbe parlato proprio quella dea che sopraggiunge fortuitamente e non viene per meriti.
Fu quindi Fortuna ciarliera e Felicità muta affinché gli uomini, in pieno accordo con Fortuna che li rendeva fortunati senza alcun merito, non si preoccupassero di vivere onestamente.
E in definitiva se Fortuna parla, dovrebbe essere quella maschile e non quella femminile a parlare affinché non si sospettasse che proprio le matrone, che avevano dedicato la statua, avevano per muliebre loquacità inventato il fatto meraviglioso.
Hanno considerato dea anche la virtù.
Se fosse una dea, sarebbe da preporre a molte.
Ma poiché non è una dea ma un dono di Dio, si chieda a colui che solo la può dare e scomparirà ogni schiera di falsi dèi.
Ma perché anche la fede fu creduta una dea ed ebbe anche essa un tempio e un altare?
In verità se un individuo ne ha la vera nozione si rende sua dimora.
Ma da che cosa i pagani possono avere il concetto della fede, se una prima e fondamentale funzione è che si creda nel vero Dio?
E perché non era stata sufficiente la virtù?
Fra le virtù non vi è anche la fede?
Infatti essi hanno diviso le virtù in quattro specie: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza36 e poiché ognuna di esse ha le sue parti, la fede è fra le parti della giustizia e ha grandissima importanza per noi, perché conosciamo il significato di quel detto: Il giusto vive di fede. ( Ab 2,4; Rm 1,17; Gal 3,11; Eb 10,38 )
Ma, se la fede è una dea, mi meraviglio che individui desiderosi di una folla di dèi fecero torto a molte dee trascurando quelle alle quali avrebbero potuto egualmente dedicare tempietti e are.
Perché la temperanza non meritò di essere una dea se nel suo nome alcuni capi romani raggiunsero una grande gloria?
Perché inoltre la fortezza non è una dea se assisté Muzio quando stese la mano sulle fiamme, assisté Curzio che per la patria si gettò a capofitto in una voragine, assisté Decio padre e Decio figlio che si sacrificarono per l'esercito?
Sia detto nel caso che la loro fu vera fortezza.37
Non è questo il momento di trattarne.
Perché la prudenza e la sapienza non ebbero un posto fra le divinità?
Forse perché col termine generale di virtù si onorano tutte?
Per lo stesso titolo si poteva adorare un solo Dio, perché gli altri dèi sono considerati sue parti.
Ma nell'unica virtù vi sono anche fede e pudicizia che tuttavia hanno ottenuto di avere per sé altari in particolari tempietti.
La menzogna e non la verità le rende dee.
Sono doni del vero Dio e non dee in sé.
Comunque se si hanno virtù e felicità, che altro si cerca?
Che cosa basta a chi non bastano virtù e felicità?
Infatti la virtù abbraccia tutto il bene che si deve compiere, la felicità tutto il bene che si deve conseguire.
Giove era adorato perché le concedesse; e nel caso che siano un bene l'estensione e la durata del dominio, esse sono di competenza della felicità.
Perché dunque non si è capito che sono un dono di Dio e non dee?
Se comunque sono state considerate dee, per lo meno non si doveva cercare l'altra grande folla degli dèi.
Tenuto conto delle mansioni di tutti gli dèi e dee, che i pagani hanno foggiato ad arbitrio secondo un loro pregiudizio, trovino se è possibile qualcosa che possa essere concesso da un dio a un individuo che ha la virtù, ha la felicità.
Quale parte della cultura si poteva chiedere a Mercurio o a Minerva se la virtù le contiene tutte.
La virtù fu definita dagli antichi anche arte del vivere moralmente.38
Hanno pensato pertanto che i Latini abbiano derivato il nome di arte dal termine greco άρετή che significa virtù.39
Ma se la virtù potesse essere concessa soltanto alla persona intelligente, che bisogno c'era del dio Cazio padre, che rendesse cauti, cioè avveduti, se questo lo poteva concedere anche Felicità?
Nascere intelligenti è infatti della felicità; quindi, anche se la dea Felicità non poteva essere onorata da chi non era ancora nato affinché resa propizia gli concedesse questo favore, lo poteva accordare ai genitori che la onoravano perché nascessero loro figli intelligenti.
Che bisogno c'era per le partorienti invocare Lucina, perché se le avesse assistite Felicità, non solo avrebbero partorito bene ma anche buoni figli?
Che bisogno c'era di affidarli alla dea Opi mentre nascevano, al dio Vaticano quando vagivano, alla dea Cunina quando giacevano, alla dea Rumina quando poppavano, al dio Statilino quando stavano in piedi, alla dea Adeona quando entravano in casa, alla dea Abeona quando ne uscivano, alla dea Mente perché avessero una buona mente, al dio Volunno e alla dea Volunna perché volessero il bene, agli dèi nuziali perché si sposassero felicemente, agli dèi campestri e soprattutto alla ninfa Fruttisea perché avessero frutti abbondanti, a Marte e Bellona perché fossero buoni guerrieri, alla dea Vittoria perché vincessero, al dio Onore perché avessero onori, alla dea Pecunia perché fossero danarosi, al dio Bronzino e a suo figlio Argentino perché avessero monete di bronzo e di argento?
Pensarono che Bronzino fosse padre di Argentino, perché la moneta di bronzo fu messa in circolazione prima di quella d'argento.
Mi meraviglio che Argentino non desse alla luce Aurino perché in seguito venne anche la moneta aurea.
Avrebbero preferito Aurino ad Argentino padre e a Bronzino nonno, come Giove a Saturno.
Che bisogno c'era di onorare e invocare per i beni spirituali, fisiologici e materiali una così folta schiera di dèi?
E neanche li ho ricordati tutti.
I pagani stessi non hanno potuto provvedere tanti piccoli e particolari dèi per tutti i beni umani anche se passati in rassegna ad uno ad uno in particolare.
In una grande e facile concentrazione poteva la sola dea Felicità accordarli tutti e non si sarebbe cercato un altro dio non solo per ottenere i beni ma anche per evitare i mali.
Perché si doveva invocare la ninfa Fessonia per gli stanchi, la ninfa Pellonia per scacciare i nemici, come medico per gli ammalati, Apollo o Esculapio o tutti e due insieme se il pericolo era grande?
Non si doveva invocare il dio Spiniese perché estirpasse le spine dai campi, né la dea Ruggine perché non assalisse il grano.
Con la presenza e la protezione della sola dea Felicità o non sarebbero arrivati i malanni o sarebbero stati allontanati con estrema facilità.
Infine poiché stiamo trattando di queste due dee, Virtù e Felicità, se la felicità è premio della virtù, non è dea ma un dono di Dio.
Se invece è una dea, perché non dire che fa conseguire anche la virtù, dal momento che conseguire la virtù è grande felicità?
Per qual ragione dunque Varrone si vanta di rendere un grande servizio ai suoi concittadini perché non solo ricorda gli dèi che si devono adorare dai Romani, ma espone anche la mansione di ciascuno?
Non giova nulla, egli dice, conoscere il nome e la figura di un medico e ignorare che è medico; così, soggiunge, non giova nulla sapere che Esculapio è un dio, se non sai che protegge la salute e perciò non sai il motivo per cui lo devi invocare.
Lo conferma anche con un'altra similitudine.
Dice che non solo non si può vivere agiatamente ma che non si può vivere affatto se non si conoscono il falegname, il mugnaio e il muratore, cui poter chiedere un servizio, ovvero se non si sa chi assumere come collaboratore, guida e insegnante.
Allo stesso modo, egli afferma, non v'è dubbio che è utile la conoscenza degli dèi, se si sa anche quale virtù, facoltà e potere ha ciascun dio sulle varie cose.
Da questo potremo conoscere, egli dice, quale dio, secondo la competenza di ciascuno, dobbiamo chiamare in aiuto e invocare per non comportarci come i mimi e non chiedere l'acqua a Bacco e il vino alle Linfe.40
È davvero una grande utilità.
Ma chi non ringrazierebbe Varrone se affermasse il vero e insegnasse agli uomini ad adorare l'unico vero Dio da cui deriva ogni bene?
Ma torniamo all'argomento.
Se i loro libri e le tradizioni religiose sono vere e Felicità è una dea, perché non è stato stabilito che ella sola fosse adorata, dal momento che poteva accordare tutti i beni e rendere felici per la via più corta?
Non si desidera una cosa per un'altra ma soltanto per esser felici.
E perché Lucullo dopo tanti capi romani innalzò così tardi un tempietto a una dea tanto importante?
E perché lo stesso Romolo, desiderando fondare una città felice, non innalzò di preferenza un tempio a lei?
Non per altro scopo invocò altri dèi.
Nulla sarebbe mancato se ella non fosse mancata.
Egli stesso non sarebbe divenuto prima re e poi, a sentir loro, dio, se non avesse avuto favorevole questa dea.
Perché ha stabilito come dèi per i Romani Giano, Giove, Marte, Pico, Fauno, Tiberino, Ercole ed altri ancora?
E perché Tito Tazio ha aggiunto Saturno, Opi, Sole, Luna, Vulcano, Luce e gli altri che ha aggiunto, fra cui anche Cloacina, trascurando Felicità?
Perché Numa ha introdotto tanti dèi e dee e non lei?
Forse in tanta ressa non riuscì a vederla?
Anche re Ostilio non avrebbe introdotto come dèi nuovi per renderli propizi Pavore e Pallore, se avesse conosciuto e adorato questa dea.
Con la presenza di Felicità ogni pavore e pallore non si sarebbe allontanato perché reso propizio ma sarebbe fuggito perché scacciato.
E poi com'è che il dominio di Roma cresceva grandemente e ancora non si adorava Felicità?
Forse perché fu un dominio più grande che felice?
Ma come poteva esserci in esso una vera felicità, dato che non c'era la vera religione?
La religione è infatti il culto veritiero di un Dio vero, non il culto di tanti falsi dèi quanti sono i demoni.
Ma anche dopo che Felicità fu inserita nel numero degli dèi, seguì la grande infelicità delle guerre civili.
O forse Felicità si è giustamente arrabbiata perché è stata invitata tanto tardi e non per trattamento di onore ma di oltraggio, dato che con essa erano onorati Priapo, Cloacina, Pavore, Pallore e Febbre e gli altri che non erano divinità da adorarsi ma malanni degli adoratori?
Al limite se sembrò conveniente adorare una dea tanto grande in mezzo a una folla indegna, perché non era adorata più distintamente degli altri?
È insopportabile che Felicità non sia stata posta fra gli dèi Consenti che, a sentir loro, sono impiegati nel consiglio di Giove,41 né fra gli dèi che hanno chiamati Eletti.42
Le si doveva fare un tempio che si distinguesse per la posizione elevata e per la bellezza dell'edificio.
E perché non qualcosa di meglio che allo stesso Giove?
Perché il regno a Giove chi glielo ha dato se non Felicità?
Posto che mentre regnava fosse felice.
E la felicità è preferibile a un regno.
Non v'è dubbio che è possibile trovare un individuo che tema di essere fatto re ma non se ne trova alcuno che non voglia esser felice.
Poniamo che gli dèi stessi fossero consultati o mediante l'arte divinatoria o con qualsiasi altro mezzo possano, secondo i pagani, esser consultati sul seguente tema, se fossero disposti a cedere il posto a Felicità, nel caso che dai tempietti e altari degli altri fosse già occupato il posto in cui costruire a Felicità un tempietto più grande e in un luogo più alto.
Giove stesso si sarebbe ritirato perché Felicità avesse il punto più alto del colle Capitolino.
Nessuno avrebbe fatto resistenza a Felicità, se non chi, ma questo è impossibile, preferisce essere infelice.
Se Giove fosse stato consultato non avrebbe certamente fatto il torto che gli fecero i tre dèi Marte, Termine e Giovinezza che non vollero assolutamente ritirarsi dal posto davanti al loro capo e re.
È scritto nei loro libri.
Re Tarquinio voleva costruire il Campidoglio ma vedendo occupato in precedenza da altri dèi il posto che gli sembrava più degno e adatto, non osando fare qualche cosa contro una loro decisione e credendo, dato che ve n'erano molti dove fu edificato il Campidoglio, che avrebbero ceduto liberamente a un dio così grande e loro capo, chiese per via divinatoria se volevano cedere il posto a Giove.
Tutti accettarono di ritirarsi fuorché i tre suddetti, Marte, Termine e Giovinezza.43
Perciò il Campidoglio fu costruito in maniera che vi fossero i tre contestatori ma con raffigurazioni così oscure che non lo sapevano neanche i più dotti.
Giove dunque non avrebbe certamente disistimato Felicità come lo fu lui da Termine, Marte e Giovinezza.
Ma anche essi che non avevano ceduto a Giove, avrebbero sicuramente ceduto a Felicità che aveva costituito Giove loro re.
E se non avessero ceduto non l'avrebbero fatto per disistima verso di lei, ma perché preferivano rimanere oscuri in casa di Felicità che senza di lei essere in onore a casa propria.
Una volta collocata la dea Felicità in un tempio magnifico e posto in alto, i cittadini avrebbero saputo a chi chiedere aiuto per ogni buon auspicio.
Così sarebbe stata abbandonata per spontaneo convincimento l'inutile moltitudine degli altri dèi e sarebbe stata adorata e supplicata la sola Felicità, di lei sola sarebbe stato frequentato il tempio da parte dei cittadini che volessero esser felici e poiché non vi è alcuno che non lo voglia, lei che era supplicata da tutti si sarebbe supplicata da se stessa.
Infatti ogni uomo non vuol ricevere altro da un dio che la felicità o ciò che è proprio della felicità.
Quindi se la felicità ha il potere di essere in un individuo, e lo ha se è una dea, è una grande sciocchezza chiederla a un altro dio, giacché la si può ottenere da lei stessa.
Dovevano quindi onorare, anche con la magnificenza del tempio, questa dea sopra tutti gli altri.
Infatti, come si legge nei loro libri,44 gli antichi adorarono un certo Sommano, al quale affidavano i fulmini notturni, più di Giove, al quale erano assegnati i fulmini diurni.
Ma dopo che fu costruito su un'altura il magnifico tempio a Giove, a causa della bellezza dell'edificio vi confluì la moltitudine sicché si può difficilmente trovare chi ricorda di aver letto il nome di Sommano.
In quanto a udirlo nominare non se ne parla più.
Se poi la felicità non è una dea perché è vero che è un dono di Dio, si cerchi il vero Dio che la può dare e si lasci da parte la malefica folla di dèi falsi che è onorata dalla folla bugiarda degli uomini sciocchi.
Infatti essa considera suoi dèi i doni di Dio e insulta con l'ostinazione di una volontà superba colui del quale sono doni.
Così non può liberarsi dalla infelicità perché adora come dio la felicità e abbandona Dio datore della felicità, come non si può liberare dalla fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede alla persona che ha quello vero.
È opportuno esaminare le loro spiegazioni.
Ma si deve proprio credere, domandano i pagani, che i nostri vecchi fossero stupidi al punto da non sapere che questi erano doni divini e non dèi?45
Sapevano che tali favori sono accordati soltanto dalla munificenza di un dio.
Ma quando non avevano fra mano il nome degli dèi, denominavano gli dèi dal nome delle cose che, a loro giudizio, erano accordate dagli dèi stessi.
Pertanto aggiungevano dei suffissi alle parole, come da bellum ( guerra ) Bellona e non Bello, dalle cune Cunina e non Cuna, da segetes ( messi ) Segezia e non Segete, dai pomi Pomona e non Pomo, dai bovi Bovona e non Bove.
In certi casi sono stati denominati come le cose senza la flessione della parola, come Pecunia ( ricchezza ) è stata chiamata dea perché dà la ricchezza e non perché essa stessa sia stata considerata dea.
E così Virtù perché dà la virtù, Onore perché dà l'onore, Concordia perché dà la concordia, Vittoria perché dà la vittoria.
Allo stesso modo, dicono i pagani, nel concetto della dea Felicità non si volge l'attenzione a lei che viene data ma all'essere divino da cui è data la felicità.
Datami questa spiegazione, forse potrò convincere più facilmente del mio assunto quei pagani che non hanno il cuore troppo indurito.
L'umana debolezza ha compreso fin d'allora che la felicità può essere data soltanto da un dio e lo hanno compreso anche gli uomini che adoravano molti dèi, fra cui il loro stesso re Giove.
Ma poiché ignoravano il nome di colui che desse la felicità, lo vollero indicare col nome della cosa stessa che, come capivano, era data da lui.
Dunque hanno indicato abbastanza chiaramente che la felicità non poteva esser data neanche da Giove che già adoravano ma certamente da colui che ritenevano di dover adorare col nome della stessa felicità.
Dunque essi hanno creduto, e lo ribadisco, che la felicità è data da un Dio che non conoscevano.
Lui si cerchi dunque, lui si adori e basta.
Si rifiuti il chiasso di tanti demoni.
Non basti questo Dio per colui al quale non basta il suo dono.
Non basti, ripeto, all'adorazione il Dio datore della felicità, per colui al quale, quanto al conseguimento, non basta la felicità stessa.
Ma colui a cui basta, dato che l'uomo non ha altro da desiderare, si ponga al servizio del Dio datore della felicità.
Non è quello che chiamano Giove.
Se lo riconoscessero come datore della felicità, non ne cercherebbero, in vista della felicità, un altro o un'altra da cui fosse data la felicità e si guarderebbero dall'adorare un Giove con tante magagne.
Si dice di lui che fosse adultero con le mogli degli altri e inverecondo amatore e rapitore di un bel giovane.
Ma Omero, dice Cicerone, inventava questi fatti e attribuiva azioni umane agli dèi.
Preferirei che avesse attribuito le divine a noi.46
Giustamente dispiacque a una persona dabbene un poeta inventore di delitti divini.
Perché dunque gli spettacoli teatrali, in cui questi delitti si recitano, si cantano, si rappresentano e si esibiscono in onore degli dèi, sono assegnati dai più colti alla religione?
A questo punto Cicerone protesti non contro le invenzioni dei poeti ma contro le istituzioni degli antenati.
Ma anche essi protesterebbero: "Che abbiamo fatto?
Gli dèi stessi hanno insistito che si rappresentassero gli spettacoli in loro onore, hanno dato comandi atroci, hanno preannunciato sventura se non si eseguivano, hanno severamente punito perché era stata trascurata qualche cosa e hanno mostrato di placarsi perché fu eseguito ciò che era stato trascurato".
Fra i loro interventi e fatti meravigliosi si ricorda l'episodio che sto per narrare.
Tito Latinio, campagnolo romano e padre di famiglia, era stato avvertito in sogno di riferire al senato che ricominciassero gli spettacoli romani.
Era insomma dispiaciuto agli dèi, che volevano esilararsi con le rappresentazioni, il ferale comando contro un delinquente che proprio il primo giorno degli spettacoli era stato condotto al supplizio alla presenza del popolo.
E poiché il tizio che era stato avvertito in sogno non ebbe il coraggio il giorno seguente di eseguire il comando, la notte appresso l'ordine si ripeté con maggiore severità.
Non obbedì e perdette un figlio.
La terza notte fu detto al meschino che gli sovrastava una pena maggiore se non obbediva.
E poiché anche dopo questi fatti non ne ebbe il coraggio, fu colpito da un male atroce e orribile.
Allora dietro consiglio degli amici fu portato al senato in lettiga, dopo aver riferito l'affare ai magistrati.
Esposto il sogno, riacquistò immediatamente la salute e guarito tornò a casa con i propri piedi.
Trasecolato da un prodigio così grande il senato, con sovvenzionamento quattro volte maggiore, stabilì di far ricominciare gli spettacoli.47
Chi è sano di mente può intendere che gli uomini soggetti a maligni demoni, dal cui dominio ci libera soltanto la grazia di Dio mediante il nostro Signore Gesù Cristo,( Rm 7,25 ) sono costretti con la violenza ad offrire a simili dèi spettacoli che con un sano intendimento potevano essere giudicati immorali.
In quegli spettacoli organizzati dal senato dietro istigazione degli dèi si rappresentavano i delitti delle divinità inventati dalla poesia.
In quegli spettacoli attori dissoluti presentavano col canto e con l'azione Giove come corruttore del pudore ed erano acclamati.
Se era un'invenzione, Giove si sarebbe dovuto sdegnare; se invece prendeva gusto dei propri delitti anche se inventati, perché adorarlo quando si serviva al diavolo?
E proprio con questi mezzi egli, più abietto di qualsiasi romano che disapprovava quei drammi, avrebbe fondato, accresciuto, difeso il dominio di Roma?
Doveva dare la felicità proprio egli che era adorato con tanta infelicità e se non era adorato in quel modo, si incolleriva per maggiore infelicità?
Il dottissimo pontefice Scevola, come è riferito nella storia letteraria, ha dimostrato che sono state consegnate alla tradizione tre figure di dèi, una dai poeti, un'altra dai filosofi e una terza dagli uomini politici.
Il primo tipo, a suo avviso, è dovuto a frivolezza perché si immaginano molti fatti indegni degli dèi; il secondo non è conveniente per gli Stati, perché contiene alcuni concetti superflui ed altri la cui conoscenza nuocerebbe ai cittadini.
Per quanto riguarda il superfluo non si ha un grosso problema; anche dai giurisperiti si suole affermare: Il superfluo non nuoce.48
Ma quali sono i temi che nuocciono se resi noti alla massa?
Sono questi, egli risponde, che Ercole, Esculapio, Castore, Polluce non sono dèi, perché si dimostra dai dotti che sono stati uomini e che sono morti secondo l'umana condizione.
E c'è altro? Che le città non abbiano idoli veristi degli dèi perché un vero dio non ha sesso, età e una determinata figura fisica.49
Il pontefice non vuole che i cittadini siano illuminati su questi temi perché non ritiene che siano falsi.
È opportuno dunque, a suo avviso, che i cittadini in fatto di religione siano ingannati.
Varrone nell'opera Sulla religione non esita a pensarla alla medesima stregua.50
Bella religione questa, a cui il debole si rivolgerebbe per esser liberato e mentre cercherebbe la verità che lo liberi, dovesse credere che gli conviene essere ingannato.
Negli scritti di Scevola è detto anche perché egli rifiuti la figura degli dèi data dai poeti.
Essi tratteggiano gli dèi in maniera che non possono neanche essere paragonati a persone oneste, poiché presentano l'uno che ruba, l'altro che va a donne, cioè che fanno o dicono qualcosa di assolutamente indecente.
Inventano che tre dee hanno gareggiato per il premio di bellezza e che le due sconfitte da Venere hanno fatto distruggere Troia, che Giove si muta in toro o in cigno per andare a letto con una donna, che una dea si accoppia con un uomo, che Saturno divora i figli, che infine nulla si può inventare di incredibilmente vizioso che non si trovi nelle loro poesie ed è assolutamente sconveniente alla natura degli dèi.
O Scevola, pontefice massimo, abolisci gli spettacoli se ci riesci, ordina ai cittadini che non presentino agli dèi immortali onori, durante i quali si prende gusto ad ammirare i delitti degli dèi e, dove è possibile, ad imitarli.
Se il popolo ti risponderà: "O pontefici, siete stati voi a importare per noi questi spettacoli"; prega gli dèi, dietro cui istigazione li avete ordinati, che la smettano di comandare che siano loro offerti.
Se quelle azioni sono malvagie e quindi da non attribuirsi assolutamente alla maestà degli dèi, la colpa maggiore è degli dèi stessi perché impunemente possono essere inventate nei loro riguardi.
Ma non ti ascoltano, sono demoni, insegnano la depravazione, si dilettano dell'immoralità, non solo non considerano un torto se si inventano questi episodi nei loro confronti, anzi non possono sopportare il torto che non siano rappresentati durante le loro feste.
Se poi ti appelli a Giove contro di loro, soprattutto perché vengono rappresentati parecchi suoi delitti negli spettacoli teatrali, anche se considerate Giove il dio da cui è retto e ordinato al fine questo mondo, da voi gli si rivolge il più grande insulto appunto perché ritenete di adorarlo assieme a loro e affermate che è il loro re.
È assurdo dunque che abbiano potuto accrescere e difendere l'impero romano dèi simili che sono placati o piuttosto chiamati in giudizio da simili onori, perché è più grave il reato che si dilettino dei loro falsi delitti che se li avessero commessi davvero.
Se avessero tale potere, assegnerebbero un dono così grande piuttosto ai Greci che, per quanto attiene a questi aspetti della religione, cioè agli spettacoli teatrali, hanno onorato gli dèi in una forma più rispettosa e conveniente.
Infatti essi non si sottrassero alla critica dei poeti da cui, come osservavano, anche gli dèi erano colpiti e diedero loro il permesso di maltrattare gli uomini a loro volontà e non giudicarono infami gli attori ma li considerarono degni di cariche elevate.51
Come infatti i Romani hanno potuto avere la moneta aurea, sebbene non adorassero il dio Aurino, così avrebbero potuto avere quelle di argento e di bronzo se non avessero adorato Argentino e il di lui padre Bronzino.
E così per le altre cose che mi dà fastidio passare in rassegna.
Allo stesso modo dunque non potrebbero avere il dominio contro il volere del vero Dio; e se avessero ignorato o anche disprezzato questi dèi falsi e molti e avessero conosciuto il Dio uno e l'avessero onorato con fede e moralità autentiche, avrebbero in questo mondo un dominio più perfetto, qualunque estensione avesse, e dopo la vicenda terrena ne riceverebbero uno eterno sia che in questo mondo lo avessero o non lo avessero.
E cosa significa che hanno considerato un bellissimo auspicio il fatto ricordato dianzi, che Marte, Termine e Giovinezza non vollero ritirarsi dal loro posto neanche per riguardo a Giove re degli dèi?
Ha avuto questo significato, rispondono i pagani, che la gente di Marte cioè di Roma non avrebbe ceduto a nessuno il territorio che avesse occupato, che per la virtù del dio Termine nessuno avrebbe sconvolto i confini di Roma ed anche che per la virtù della dea Giovinezza la gioventù romana non si sarebbe ritirata davanti a nessuno.
Riflettano dunque in quale considerazione tengano codesto re dei propri dèi e datore del proprio dominio, dal momento che questi auspici lo considerano come un avversario davanti al quale è nobile non ritirarsi.
Comunque se i fatti sono veri, non hanno proprio di che temere.
Non ammetteranno infatti che gli dèi si sono ritirati davanti a Cristo, perché neanche con Giove l'hanno fatto.
A parte i confini dell'impero, è stato possibile comunque che si siano ritirati davanti al Cristo per quanto riguarda le sedi dei templi e soprattutto il cuore dei credenti.
Ma prima che Cristo venisse nel mondo, prima ancora che fossero scritti gli eventi che cito dalla loro letteratura e tuttavia dopo che si ebbe quell'auspicio sotto il re Tarquinio, alcune volte l'esercito romano fu sbaragliato, cioè volto in fuga.
Dimostrò così che era falso l'auspicio secondo il quale la dea Giovinezza non avrebbe ceduto a Giove.
La gente di Marte in seguito all'invasione vittoriosa dei Galli fu sconfitta nella stessa Roma e i confini dell'impero furono ridotti di molto a causa della defezione di molte città ad Annibale.
Così è scomparsa la bellezza dell'auspicio ed è rimasta la ribellione non degli dèi ma dei demoni contro Giove.
Un conto è infatti non essersi ritirati e un altro essere ritornati là da dove ci si era ritirati.
Comunque anche in seguito nelle regioni di Oriente per decisione di Adriano furono cambiati i confini dell'impero romano.
Egli cedette all'impero persiano tre province illustri, l'Armenia, la Mesopotamia e l'Assiria.52
Sembra quindi che il dio Termine che, a sentir loro, proteggeva i confini di Roma, e che secondo quel favorevole auspicio non aveva ceduto a Giove, temeva di più Adriano re degli uomini che Giove re degli dèi.
E Termine, in tempi che quasi ricordiamo noi, si ritirò indietro dalle suddette province recuperate in un secondo tempo, quando Giuliano, che si dedicava ai responsi degli dèi, con eccessiva audacia comandò di incendiare le navi da cui erano trasportate le vettovaglie.
L'esercito rimastone privo, essendo anche morto l'imperatore per una ferita in battaglia, fu ridotto all'estrema scarsezza di mezzi.
Nessuno sarebbe sfuggito, dato che i nemici assalivano da ogni parte i soldati turbati dalla morte dell'imperatore, se con un trattato di pace i confini non fossero stabiliti dove si hanno ancor oggi e fossero fissati non con la grande perdita che Adriano aveva accettato ma con un compromesso.
Con un auspicio privo di significato dunque il dio Termine non aveva ceduto a Giove se ha ceduto alla decisione di Adriano, ha ceduto anche alla temerità di Giuliano e alla situazione ineluttabile di Gioviano.53
Queste cose le hanno capite anche i più intelligenti e autorevoli Romani, ma contavano poco contro l'usanza di una città che era legata a riti demoniaci.
Anche essi, sebbene capissero che quelle credenze non avevano senso, ritenevano di dover rendere alla natura, posta sotto il dominio assoluto dell'unico vero Dio, quel culto religioso che si deve a Dio, perché erano soggetti, come dice l'Apostolo, alla creatura anziché al Creatore che è benedetto nei secoli. ( Rm 1,25 )
Era necessario l'aiuto di Dio che inviasse uomini santi e autenticamente religiosi, i quali subissero la morte per la vera religione affinché le false scomparissero dal mondo.
Cicerone, pur essendo àugure, schernisce le divinazioni e schernisce gli uomini che regolano le decisioni della vita dalla voce del corvo e della cornacchia.54
Ma questo filosofo accademico, che sostiene il dubbio universale, è immeritevole di avere autorità in materia.
Quinto Lucilio Balbo è uno dei dialoganti nel secondo libro della sua opera La natura degli dèi.
Questi, sebbene giustifichi ricorrendo alla natura alcune superstizioni di carattere naturalistico e filosofico, tuttavia si scaglia contro l'introduzione delle statue e le leggende.
Dice: Lo vedete come dalla scoperta, destinata al benessere e al vantaggio, delle leggi naturali il pensiero sia condotto a rappresentarsi dèi immaginari e falsi?
Il fatto ha dato origine a false opinioni, a errori turbolenti e a superstizioni da vecchiette.
Ci sono stati resi noti così la fisionomia e l'età e il modo di vestire degli dèi e inoltre il genere, i matrimoni e la parentela e tutte le altre condizioni trasferite sul piano dell'umana debolezza.
Infatti sono presentati con le varie emozioni psicologiche.
Abbiamo sentito parlare di passioni, inquietudini e collere degli dèi.
Gli dèi, come dicono i miti, non andarono esenti da guerre e battaglie.
E non solo, come si ha in Omero, gli dèi difesero, chi da una parte e chi dall'altra i due eserciti avversari, ma hanno fatto perfino delle guerre personali, come con i Titani e i Giganti.
È proprio da imbecilli credere a certe fole; sono piene di vuotezza e di sovrana stupidità.55
Frattanto ecco le concessioni di coloro che difendono gli dèi.
Afferma dunque che queste credenze appartengono alla superstizione e per quanto attiene alla religione espone i concetti che, come sembra, egli deriva dalla dottrina degli stoici.
Soggiunge: Non soltanto i filosofi ma anche i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione; quelli che pregavano e immolavano per intere giornate, affinché i figli fossero a loro superstiti, furono chiamati superstiziosi.56
Si può ben capire che Cicerone tenta, poiché teme l'usanza della città, di difendere la religione degli antenati e che vuole distinguerla dalla superstizione ma che non trova un motivo plausibile.
Dagli antenati sono stati chiamati superstiziosi quelli che pregavano e immolavano per intere giornate.
E quelli che hanno introdotto ( cosa che Cicerone disapprova ) gli idoli degli dèi di differenti età e con diversa foggia di vestire e inoltre il loro genere, matrimonio e parentela, come li chiamavano?
Queste forme sono incolpate come superstiziose.
Ma è una colpa che coinvolge gli antenati che hanno introdotto e adorato gli idoli, coinvolge lui che, sebbene con una dimostrazione erudita tenti di conseguire la libertà, riteneva necessario rispettare simili credenze.
Infatti le idee che proclama con eloquenza in questo dialogo non avrebbe osato neanche borbottarle fra i denti in un'assemblea popolare.
Noi cristiani dunque ringraziamo il Signore Dio nostro e non il cielo e la terra, come dice costui, ma lui che ha creato il cielo e la terra.
Egli, mediante la sublime umiltà del Cristo, mediante la predicazione degli Apostoli, mediante la fede dei martiri che morirono per la verità e vissero nella verità, attraverso la libera sottomissione dei suoi, ha rovesciato non solo dai cuori credenti ma anche dai templi superstiziosi queste superstizioni che questo Balbo quasi balbettando appena denuncia.
Che dire dello stesso Varrone il quale, sebbene non in base a una sua opinione, ha posto, e questo mi rincresce, gli spettacoli teatrali fra i riti religiosi?
Egli come uomo religioso esorta in molti passi ad onorare gli dèi ma confessa che non condivide con la propria opinione le istituzioni dello Stato romano da lui elencate.
Non esita ad ammettere che se avesse dovuto riformare lo Stato avrebbe determinato gli dèi e i loro nomi in base a una formula naturalistica.
Ma poiché si trovava in un popolo antico, afferma che è costretto, per quanto riguarda nomi e appellativi, a ritenere la tradizione degli avi, come è stata trasmessa e che ha pubblicato le proprie ricerche con lo scopo che la massa onori gli dèi anziché disprezzarli.
Con queste parole egli, uomo veramente intelligente, indica abbastanza chiaramente che non svela tutte le credenze che, se non fossero taciute, potevano essere oggetto di disprezzo non solo per lui ma potevano essere disprezzate anche dalla massa.
Avrei dovuto supporre che questo è il suo pensiero se in un altro passo, parlando delle credenze religiose, non dicesse apertamente che vi sono molti fatti veri che è utile per il popolo non conoscere, ma se fossero falsi, è conveniente che il popolo li giudichi diversamente e che per questo i Greci avevano occultato col silenzio e con le mura le iniziazioni misteriche.
E con questo ha svelato l'intera trama dei sedicenti sapienti dai quali Stati e popoli sarebbero governati.
I demoni malvagi, che tengono sottomessi egualmente ingannatori e ingannati, si dilettano straordinariamente di questo imbroglio.
Dal loro dominio ci libera soltanto la grazia di Dio mediante il nostro Signore Gesù Cristo.
Dice anche il medesimo scrittore, uomo di grande ingegno e cultura, che, a parer suo, hanno afferrato l'idea di Dio soltanto coloro i quali ritennero che egli è un'anima che con movimento razionale ordina il mondo al fine.
Egli non ne aveva ancora il vero concetto.
Il vero Dio infatti non è anima ma è causa efficiente e principio anche dell'anima.
Se tuttavia gli fosse stato possibile essere libero dai pregiudizi della tradizione, avrebbe ammesso egli stesso e convinto gli altri che si deve adorare un solo Dio, il quale, mediante movimento razionale, ordina il mondo al fine.
Con lui dunque rimarrebbe da esaminare soltanto il problema che lo considera anima e non piuttosto l'autore dell'anima.
Afferma anche che gli antichi Romani per più di centosettanta anni onorarono gli dèi senza gli idoli.
E soggiunge: Se questa usanza fosse rimasta, gli dèi sarebbero considerati in senso più spirituale.57
A conferma del suo pensiero adduce, fra altre motivazioni, anche il popolo ebreo e non dubita di chiudere il passo in parola col dire che i primi i quali introdussero le statue degli dèi abolirono il timore nella loro città e accrebbero l'errore.
Saggiamente pensa che data l'assurdità degli idoli gli dèi si possano facilmente disprezzare.
Col dire poi che accrebbero e non che diedero inizio all'errore vuol far capire che l'errore già esisteva anche senza gli idoli.
Egli dunque dice che soltanto quelli i quali ritengono che Dio è un'anima che governa il mondo hanno afferrato l'idea di Dio e formula il giudizio che senza idoli si pratica una religione più spirituale.
È evidente pertanto che si avvicinò molto alla verità.
Se avesse potuto qualche cosa contro la lunga durata di un errore così grande, avrebbe creduto che il Dio, da cui è governato il mondo, è uno e avrebbe sostenuto che si deve adorare senza l'idolo.
Venutosi a trovare così vicino, si sarebbe accorto del divenire dell'anima, in modo da avvertire che il vero Dio è un essere fuori del divenire e che ha anche creato l'anima stessa.
Stando così le cose, gli uomini sapienti non hanno tentato di difendere ma sono stati costretti dall'occulto volere divino ad accettare le varie ridicole credenze del politeismo che hanno passato in rassegna nelle loro opere.
Se dunque da me sono stati citati alcuni passi di quelle opere, sono stati citati per rimproverare i pagani i quali non vogliono accorgersi che il sacrificio offerto una sola volta di un sangue altamente santo e il dono della partecipazione dello Spirito ci liberano dal grande e grandemente malvagio potere dei demoni.
Varrone afferma anche che per quanto riguarda le teogonie i cittadini si rivolsero più ai poeti che ai naturalisti e che quindi i suoi antenati, cioè gli antichi Romani, hanno creduto al sesso, alla generazione degli dèi e ne hanno determinato gli accoppiamenti.
Il fatto, come sembra, ha quest'unica spiegazione, che fu preoccupazione degli uomini della politica e della cultura ingannare il popolo in materia di religione e indurlo pertanto non solo ad adorare ma anche ad imitare i demoni.
E costoro hanno una gran voglia di farlo.
E come i demoni possono rendere sottomessi soltanto coloro che abbiano ingannato con la menzogna, così i capi, certo non giusti ma simili ai demoni, col pretesto della religione, convincevano i cittadini sulla verità delle credenze che essi ritenevano una impostura.
In questo modo li tenevano sottomessi vincolandoli al vivere associato in forma apparentemente più conveniente.
E quale individuo debole e ignorante poteva liberarsi dai capi dello Stato e dai demoni che insieme li ingannavano?.
Il Dio dunque, che è autore e datore della felicità, poiché egli solo è il vero Dio, dà il dominio terreno ai buoni e ai cattivi, e non per sprovvedutezza e quasi sbadataggine, perché è Dio, e non obbedendo al destino ma mediante un ordinamento, a noi occulto e a lui noto, dei fatti nel tempo.
Ed egli non obbedisce come suddito all'ordinamento dei tempi ma lo regge come signore e lo regola come sovrano e dà la felicità soltanto ai buoni.
E la felicità, la possono avere e non avere i sudditi, la possono avere e non avere i reggitori ma essa sarà piena soltanto in quella vita in cui non vi saranno più sudditi.
E per questo il dominio terreno è dato da lui ai buoni e ai cattivi, affinché i suoi adoratori, ancor fanciulli nel profitto spirituale, non desiderino questi onori come qualche cosa di grande.
Ed è nel simbolismo della vecchia alleanza, nella quale era nascosta la nuova, che furono promessi anche doni terreni.
Soltanto gli spirituali anche allora comprendevano, sebbene non lo svelassero apertamente, l'eternità che era significata dai beni temporali e i doni di Dio nei quali era la vera felicità.
Quindi affinché si comprendesse che anche i beni terreni, i soli desiderati da coloro che non sono capaci di pensare ai più perfetti, sono posti nel potere dell'unico vero Dio e non dei molti falsi dèi che i Romani di prima hanno ritenuto di dover adorare, Dio da pochi individui fece crescere in numero il suo popolo in Egitto e in seguito lo liberò con mirabili prodigi.
Le donne ebree non invocarono Lucina quando dalle mani degli Egiziani che li perseguitavano e volevano uccidere tutti i loro bimbi Dio salvò i loro figli perché aumentassero straordinariamente e il popolo crescesse in maniera incredibile.
Essi poppavano senza la dea Rumina, furono posti nelle culle senza Cunina, mangiarono e bevvero senza Educa e Potina; furono allevati senza tanti dèi protettori dell'infanzia, si sposarono senza gli dèi delle nozze, si accoppiarono senza adorare Priapo, senza che invocassero Nettuno il mare si aprì al loro passaggio e sommerse con le acque che rifluirono i loro nemici che li inseguivano.
Non invocarono una qualche dea Mannia quando ricevettero la manna dal cielo e quando la rupe percossa zampillò acqua per la loro sete non adorarono le ninfe delle acque.
Fecero delle guerre senza i pazzeschi riti di Marte e di Bellona e non vinsero, è vero, senza la vittoria, però non la considerarono una dea ma un favore del loro Dio.
Ricevettero inoltre con molto maggiore felicità dal loro Dio le messi senza Segezia, i buoi senza Bovona, il miele senza Mellona, i frutti senza Pomona e in definitiva tutti i beni per i quali i Romani ritennero di dover propiziare la folta schiera dei falsi dèi.
E se non avessero peccato contro di lui cadendo per empia curiosità, come stregati da arti magiche, nel politeismo e nell'idolatria e infine uccidendo il Cristo, sarebbero rimasti nel loro regno, anche se non molto esteso ma certamente più felice.
Che ora siano dispersi per quasi tutti i popoli della terra è provvidenza dell'unico vero Dio.
Così si può appunto provare dalle loro scritture che la distruzione, in ogni parte, degli idoli, altari, boschetti e templi e la proibizione dei sacrifici in onore dei falsi dèi furono preannunziate molto tempo avanti.
Altrimenti se fosse scritto nei nostri libri, si potrebbe pensare a una nostra mistificazione.
Il seguito si esaminerà nel volume seguente.
A questo punto si deve porre un limite alla lunghezza di questo libro.
Indice |
31 | L. Pomponio, Fab. Atell., fr. 145 (solo in Agostino); Arnobio, Adv. nat. 4, 9 |
32 | Livio, Ab Urbe cond. 4, 41, 8 |
33 | Platone, Fedro 246d. 247a. 253ac; Epicuro, in Cicerone, De nat. deor. 2, 17, 45-46; Plotino, Enn. 3, 2, 4 |
34 | Seneca, Ep. 91, 4-7; Plutarco, Quaest. rom. 74 |
35 | Livio, Ab Urbe cond. 2, 40, 12; Arnobio, Adv. nat. 2, 67 |
36 | Platone, Politeia 427e-434c; Aristotele, Et. Nic. 2, 7; 3, 9 |
37 | Lucio Ampelio, Lib. mem. 20; Valerio Massimo, Facta et dicta mem. 3, 3 (1); 5, 6 (2. 5. 6) |
38 | Gli stoici, in Stobeo, Ecl. 2, 66, 19; Cicerone, Tuscul. 2, 18, 43 |
39 | Isidoro, Etym. 1, 1, 2; Terenzio, Andr. 32 |
40 | Varrone, Antiq., fr. 120 (solo in Agostino) |
41 | Varrone, De re rust. 1, 1, 4; Arnobio, Adv. nat. 3, 40; Seneca, Nat. quaest. 2, 41 |
42 | Varrone, Antiq. 16, passim (in Agostino, 6, 3; 7, 2) |
43 | Livio, Ab Urbe cond. 1, 55, 3-4; Floro, Epit. 1, 1, 7, 7-9 |
44 | Varrone, De ling. lat. 5, 74; Ovidio, Fasti 6, 731-732; Plinio il Vecchio, Nat. hist. 2, 52 |
45 | Cicerone, De nat. deor. 3, 16, 40. 20, 51; Seneca, Ep. 65, 7. 12 |
46 | Cicerone, Tuscul. 1, 26, 65; Agostino, Conf. 1,16,25 |
47 | Cicerone, De divin. 1, 26, 55; Livio, Ab Urbe cond. 2, 36, 2-37, 1; Valerio Massimo, Facta et dicta mem. 1, 7, 4; Macrobio, Saturn. 1, 11, 13; Lattanzio, Div. inst. 2, 7, 20 |
48 | Cod. Iustin. 6, 23, 1, 17 |
49 | Q. Muzio Scevola, Iur. civ., fr. 71 (solo in Agostino) |
50 | Varrone, Antiq., fr. 117 (in Arnobio, Adv. nat. 7, 1) |
51 | Cicerone, De rep. 4, 10, 10-13; cf. 2, 9, 11 |
52 | Eutropio, Brev. 8, 6, 2 |
53 | Eutropio, Brev. 10, 16, 2. 17, 1; Ammiano Marcellino, Rer. gest. 24, 7, 4-7; 27, 12, 1; Orosio, Hist. 7, 30-31 |
54 | Cicerone, De divin. 2, 33-37 |
55 | Cicerone, De nat. deor. 2, 28, 70; Omero, Il. 20, 67ss |
56 | Cicerone, De nat. deor. 2, 28, 71-72 |
57 | Varrone, Antiq., fr. 114 (solo in Agostino) |